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2 parte – 8 saggi

1. ‘’Modernizzazione, sviluppo economico e mutamento sociale’’, A. Mutti +


2. ‘’La crescita dei sistemi di protezione sociale’’, Triglia +
3. ‘’Il welfare fordista e la sua crisi’’, Paci
4. ‘’Fordismo’’ e dal ‘’fordismo all’accumulazione flessibile’’, Harvey, volume ‘’Crisi della
Modernità’’ +
5. Estratti di A. Bagnasco, tratto da società fuori strada, ‘’distretti industriali’’
6. ‘’Le trasformazioni dell’impresa e i contesti socio- istituzionali’’, di B. Cattero
7. ‘’Verso una teoria della transazione’’, di Harvey, tratto dal volume ‘’ la crisi della
modernità’’+
8. ‘’La globalizzazione economica’’, di M. B Steger, tratto dal volume ‘’la globalizzazione’’ +

1. ’Modernizzazione, sviluppo economico e mutamento sociale’’, A. Mutti


MODERNIZZAZIONE, SVILUPPO ECONOMICO E MUTAMENTO SOCIALE
la modernizzazione è un processo che implica sviluppo economico, mutamento socio culturale, e
trasformazioni politiche.

1.LA DICOTOMIA TRADIZIONE-MODERNITÀ


La visione del rapporto esistente tra tradizione e modernità costituisce il nucleo di fondo e il vettore
comune degli approcci allo sviluppo dominanti negli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni
Sessanta. Gli assetti tradizionali sono concepiti come freno allo sviluppo, e cioè come un insieme di
limiti e carenze che costituiscono fattori causanti il sottosviluppo o il ritardo nello sviluppo. Questa
visione totalmente negativa delle diverse realtà tradizionale, che impedisce di analizzare la loro
variabilità storica, le loro differenziate articolazioni interne e la presenza in esse di risorse
valorizzabili ai fini dello sviluppo, si associa a un’idea di modernità fortemente etnocentrica, che
equipara cioè “moderno” a “occidentale”.
I vari approcci alla modernizzazione dominanti in questo periodo si differenziano riguardo
all’origine, alla natura e alla numerosità dei fattori considerati strategici per lo sviluppo. Vari
approcci:
1.1 teoria degli stadi di sviluppo
L’idea di progresso è la matrice fondamentale delle cosiddette “teorie degli stadi di sviluppo”.
Queste teorie isolano una serie di stadi nello sviluppo dei sistemi economici e spiegano tale
sviluppo in termini di successivi passaggi da uno stadio all’altro. L’opera di Rostow, “gli stadi dello
sviluppo economico” rappresenta senza dubbio la versione più famosa delle teorie degli stadi. In
essa, inoltre, sono maggiormente evidenti le tracce dell’influenza esercitata dalle teorie
evoluzionistiche della società di derivazione darwiniana. Tale influenza si traduce nei seguenti
postulati, espliciti o impliciti: • L’affermazione dell’esistenza di leggi naturali immanenti che
regolano lo sviluppo sociale, da cui deriva un atteggiamento di giustificazione integrale del
processo storico. • Il carattere di universalità attribuito a queste leggi e cioè l’idea secondo cui ogni
società passa attraverso le stesse fasi fisse di sviluppo. • La considerazione del passaggio da una
fase all’altra del processo evolutivo come un processo cumulativo e irreversibile indotto
prevalentemente da forze endogene al sistema considerato.
Rostow individua cinque fasi fondamentali nel processo di sviluppo economico: 1. La “società
tradizionale”, caratterizzata da una struttura produttiva di tipo agricolo, a basso livello di reddito pro
capite, e da un’organizzazione sociale rigidamente gerarchica. 2. Le “condizioni preliminari per il
decollo”, consistenti soprattutto nello sviluppo della scienza e dell’istruzione, nello sviluppo di
capacità imprenditoriali e nel trasferimento del capitale a usi produttivi. 3. Il “decollo”, in cui ogni
resistenza allo sviluppo viene definitivamente spezzata e si assiste a un sensibile aumento del tasso
degli investimenti produttivi, allo sviluppo di uno o più settori industriali e all’emergere di una
nuova struttura istituzionale connessa alla costruzione dello Stato e della nazione. 4. Il “passaggio
alla maturità”, in cui un’economia giunge a sfruttare razionalmente le risorse a disposizione e a
ottenere una produzione sufficientemente diversificata. 5. Il “periodo del grande consumo di
massa”, nel quale l’obiettivo sociale primario diventa la diffusione dei servizi sociali e dei beni di
consumo durevoli. Questo modello privilegia, nell’analisi dei processi di sviluppo, le variabili
economiche di natura endogena alle aree in via di modernizzazione. CRITICA: lo schema di
Rostow, con il suo ottimismo fiducioso nell’inevitabilità del progresso, porta a considerare
semplicisticamente il sottosviluppo come un accidentale ritardo storico destinato a essere
inevitabilmente colmato. Ciò implica una sottovalutazione dei fattori che operano da freno allo
sviluppo e dei casi di stagnazione o di regressione nel processo di modernizzazione.
. 1.2. L’APPROCCIO DIFFUSIONISTICO
è più centrato su variabili esogene e di natura culturale. L’approccio diffusionistico nasce come
reazione alle concezioni “immanenti” dello sviluppo, alle quali esso rimprovera di considerare la
modernizzazione un processo indotto unicamente da forze endogene alla società e di trascurare,
così, il ruolo dei fattori esogeni. La prospettiva diffusionistica ha posto l’accento sul trasferimento
di elementi culturali dai paesi più sviluppati a quelli meno sviluppati e sulla dinamica dei processi
di acculturazione che ne scaturiscono. Essa è perciò focalizzata sul ruolo delle variabili esogene di
tipo culturale nei processi di modernizzazione. Lerner ha studiato il processo di modernizzazione in
alcuni paesi del Medio Oriente, considera esplicitamente lo schema di sviluppo dei paesi occidentali
un modello universalmente valido, e da ciò egli inferisce che tale schema deve essere esportato in
blocco nei paesi sottosviluppati per stimolare in essi un reale processo di modernizzazione. Gli
elementi che compongono il modello di sviluppo di Lerner sono i seguenti: l’urbanizzazione,
l’alfabetismo, la partecipazione ai mezzi di comunicazione di massa, la partecipazione economica e
politica. A essi si aggiunge una componente della personalità che governa il comportamento degli
attori sociali e che Lerner definisce “stile di vita partecipante” o “empatia”. Il compito “stile di vita
partecipante” o “empatia” è quello di favorire l’identificazione e la comunicazione con gli altri,
permettendo di agire con efficacia nei processi di mobilità che connotano la modernizzazione.
Questa “propensione alla mobilità” è stimolata dall’istruzione e dai mezzi di comunicazione di
massa. Essa assicura l’armonizzazione tra i mutamenti delle istituzioni economiche, politiche,
culturali e i comportamenti individuali.
1.3 L’ANALISI STRUTTURALE-FUNZIONALE
Tenta di isolare una pluralità di elementi di tipo strutturale, endogeni e esogeni, alla base delle
dinamiche di modernizzazione: la prospettiva strutturale funzionale cerca di prendere in
considerazione una più ampia gamma di variabili endogene e esogene alla base delle dinamiche di
modernizzazione. Il progetto ambizioso dell’analisi strutturale-funzionale è quello di proporre un
approccio realmente interdisciplinare allo studio del processo di modernizzazione, capace di
collocarlo nel quadro di una teoria generale del mutamento sociale. I concetti di “struttura” e di
“funzione” rimandano a analogie tra la società e gli organismi viventi. Questa metafora biologica ha
esercitato una profonda influenza soprattutto sul pensiero sociologico americano. Essa ha portato,
attraverso la fondamentale mediazione di Parsons, allo sviluppo della scuola strutturale funzionale
che, nell’analisi del sistema sociale, prende a modello lo schema delle spiegazioni funzionali offerto
dalla fisiologia. L’obiettivo dello struttural-funzionalismo è principalmente quello di determinare le
condizioni di funzionamento e i meccanismi di integrazione del sistema sociale. La scuola
strutturale-funzionale ha comunque cercato di svincolarsi dai limiti di un’impostazione volta ad
analizzare quasi esclusivamente i fattori di conservazione del sistema sociale. Ed è significativo
rilevare che il passaggio dallo studio dei meccanismi che garantiscono l’ordine sociale all’analisi
sociale all’analisi dei fattori di mutamento sociale che garantiscono l’ordine sociale all’analisi dei
fattori di mutamento sociale, cioè da un’impostazione statica a una dinamica, ha comportato una
chiara convergenza della visione strutturale-funzionale con il modello evolutivo organicistico.
Sostanzialmente, l’approccio strutturale-funzionale alla modernizzazione si è articolato in due
filoni: L’analisi della dinamica delle relazioni sociale attraverso lo schema delle “variabili
strutturali” (pattern variables): è stato approfondito da Hoselitz che ha utilizzato lo schema delle
“variabili strutturali” elaborate da Parsons. Hoselitz considera tre delle cinque “variabili strutturali”
di Parsons, precisamente quelle che possono differenziare le strutture relazionali delle società con
diverso grado di modernizzazione. Esse individuano le alternative di scelta relazionale che si
presentano all’attore prima di dare inizio all’azione.  La prima alternativa è tra “ascrizione” e
“realizzazione”. La scelta è tra l’orientarsi verso gli altri attori sulla base delle loro qualità scritte
(sesso, età, parentela, razza) o sulla base delle loro prestazioni. Si tratta della scelta di ciò che uno
“è” piuttosto di ciò che uno “fa”.  La seconda alternativa è tra “particolarismo” e “universalismo”.
La scelta è tra relazioni basate su situazioni particolari, contestuali (ad esempio relazioni focalizzate
su determinati attori o attributi di gruppo) e relazioni basate su norme generali.  La terza alternativa
è tra “diffusione” e “specificità”. In questo caso la scelta concerne la gamma di richieste relazionali,
cioè i contenuti della relazione. Se il numero e il genere di richieste sono ampi abbiamo una
relazione di tipo funzionalmente diffuso (come nell’amicizia). Se la gamma di richieste è molto
limitata la relazione che ne risulta è di tipo funzionalmente specifico (come nelle prestazioni
professionali). Secondo Hoselitz, le relazioni di tipo ascrittivo, particolaristico e funzionalmente
diffuso caratterizzano le società arretrate o “tradizionali”, mentre le relazioni basate sul principio di
prestazione, e quelle di tipo universalistico e funzionalmente specifico connotano le società
moderne. Il passaggio alla modernità, comporta, dunque, la sostituzione del primo insieme di
relazioni con il secondo. L’analisi del mutamento sociale in base allo schema “differenziazione-
integrazione strutturale” è il secondo filone di studi sulla modernizzazione di impostazione
strutturale funzionale. E' più complesso e, grazie a Smelser, ha portato a una rielaborazione dello
schema “differenziazione-integrazione strutturale” già presente in Parsons e Smelser. L’attenzione
passa dalle relazioni tra gli attori alle trasformazioni dei più ampi assetti strutturali della società. Per
differenziazione strutturale si intende quel processo, indotto dalla modernizzazione, per cui una
struttura di ruoli multi-funzionali e di organizzazioni scarsamente specializzate si trasforma in una
struttura di ruoli differenziati e di organizzazioni specializzate e più autonome. Smelser individua
quattro tipi fondamentali di differenziazioni strutturali: • La differenziazione delle attività
economiche dalla struttura comunitaria • La differenziazione delle attività familiari dalle attività
economiche • La differenziazione del sistema di valori secolari dai sistemi religiosi • La
differenziazione dei sistemi di stratificazione dai sistemi tradizionali ascriti e scarsamente mobili.
La specializzazione delle unità sociali e, più in generale, le differenziazioni strutturali della società
causate dal processo di modernizzazione, accrescono l’interdipendenza delle unità sociali e del
sistema sociale come un tutto. La modernizzazione deve essere vista perciò come il risultato di
un’azione reciproca tra il momento della differenziazione e quello dell’integrazione, e le
perturbazioni sociali che l’accompagnano vanno interpretate come conseguenze della discontinuità
e degli squilibri tra i due momenti. Levy ha arricchito questo schema con variabili esogene,
fondendo la prospettiva strutturalefunzionale con quella diffusionistica. Per Levy il processo di
sviluppo va visto come un fenomeno di acculturazione e di diffusione di strutture sociali dai paesi
più sviluppati a quelli sottosviluppati, attuato su vasta scala. È il contratto tra le strutture delle
società relativamente non modernizzate che mette in moto, in queste ultime, il processo di
modernizzazione. L’accresciuta interdipendenza tra i popoli rende ormai questi contatti inevitabili:
la modernizzazione può essere perciò definita come un processo generale indotto dalle società
sviluppate, le cui strutture costituiscono una sorta di generale solvente sociale che fa mutare le
strutture dei paesi sottosviluppati in direzione delle strutture dei paesi sottosviluppati.
1.4 APPROCCIO PSICOLOGICO
Considera di fondamentale importanza lo studio del tipo di personalità che contraddistingue
gli attori sociali. Quanto più i processi di socializzazione favoriscono la formazione di
personalità con elevata apprensione al mutamento, tanto più la modernizzazione sarà
agevolata. Mccalland parla del bisogno di realizzazione ossia motivazione al successo.
2. I limiti della dicotomia tradizione-modernità
Nella seconda metà degli anni Sessanta, la dicotomia tradizione-modernità viene criticata da una
serie di studiosi fautori del cosiddetto approccio storico-comparativo che si ispira direttamente
all’insegnamento di Weber. La critica sottolinea la necessità di analizzare adeguatamente la
variabilità storica dei contesti tradizionali, la diversità dei processi di transizione e la pluralità
degli esiti ai quali la modernizzazione e modernità, riguarda sia il versante economico, sia il
versante politico e socioculturale.
2.1 La variabilità dei contesti tradizionali I contesti tradizionali non sono riconducibili alle
stilizzazioni fornite dalla teoria degli stadi di sviluppo (struttura produttiva di tipo agricolo, basso
livello di reddito pro capite, organizzazione sociale rigidamente gerarchica), dall’approccio
diffusionistico (scarsa urbanizzazione, basso alfabetismo, bassa partecipazione ai mezzi di
comunicazione di massa, scarsa partecipazione economica e politica) e dall’analisi strutturale
funzionale (relazioni sociali di tipo ascrittivo, particolaristico e funzionalmente diffuso; debole
differenziazione strutturale). Bendix spiega che i contesti tradizionali sono da considerare realtà ben
più complesse. Bisogna riuscire a individuare nelle società tradizionali gli elementi che si
oppongono allo sviluppo, quelli che sono in grado di trasformarsi in senso modernizzante, pur
mantenendo radici forti con il passato, e i fattori di innovazione, presenti ma marginalizzati nella
società tradizionale, particolarmente strategici per lo sviluppo. Gli elementi tradizionali compatibili
con la modernizzazione e quelli fortemente innovativi meritano, dunque, una particolare attenzione
ai fini di una valorizzazione per lo sviluppo. Per Hirshman è opportuno assumere un atteggiamento
ottimistico nei confronti delle variegate realtà tradizionali e della creatività sociale che le connota.
Questo “pregiudizio” positivo può aiutarci nella difficile ricerca delle specifiche risorse latenti in
tali società, attivabili ai fini dello sviluppo. Moore dedica particolare attenzione alla variabilità delle
strutture sociali preesistenti allo sviluppo industriale per mostrare come il diverso esito a cui
pervengono i conflitti tra le classi sociali, indotti dalle domande di crescita economica, possa
produrre una pluralità di soluzioni politiche compatibili con la modernizzazione: • Nella “via
democratica” al mondo moderno, tipica dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti, il
capitalismo si è fuso con la democrazia parlamentare attraverso una serie di “rivoluzioni borghesi”:
la rivoluzione puritana in Inghilterra, la rivoluzione francese e la guerra civile americana. In
Inghilterra l’aristocrazia terriera si trasformò in classe capitalistica commercializzando l’agricoltura,
eliminando la classe contadina e solidarizzando con la borghesia cittadine. In Francia e negli Stati
Uniti l’aristocrazia, non avendo avuto questa capacità di autotrasformazione, venne spazzata via
dalla rivoluzione del 1789, nel primo caso (dalla borghesia con l’appoggio dei contadini), e dalla
guerra civile nel secondo (dalla borghesia del Nord). • La seconda via politica alla modernizzazione
è di tipo “capitalistico-reazionaria” e comporta una “rivoluzione dall’alto” ben esemplificata
dall’esperienza della Germania e del Giappone. In Giappone e in Germania l’aristocrazia terriera
riuscì a commercializzare l’agricoltura, ma senza spezzare il vecchio ordine feudale, anzi
accentuando il legame feudale dei contadini con la terra, al fine di realizzare un maggior “surplus”
economico da destinare al settore industriale, tramite uno sfruttamento più intensivo dei contadini
stessi. La rivoluzione dall’alto sorge da una fusione dell’aristocrazia terriera con il potere statale.
Aristocrazia terriera e potere statale, mantenendo il consenso della classe contadina, riescono a
stabilire un’alleanza con una borghesia mercantile e industriale debole e ad avviare il processo di
modernizzazione. • La terza via alla modernizzazione è quella comunista, realizzata in Russia e in
Cina. In questi casi l’aristocrazia terriera, essendo incapace di trasformarsi e di legare a sé i
contadini, viene spazzata via da un’elite rivoluzionaria che, in presenza di una debolissima
borghesia industriale, si lega a un debole proletariato in formazione (Russia) o alla classe contadina
(Cina) all’insegna di una società comunista e pianificata in direzione di uno sviluppo a tappe
forzate. Moore non esclude che negli attuali paesi sottosviluppati possano sorgere risposte politiche
alla modernizzazione nuove e originali. 2.3 La pluralità degli esiti della modernizzazione La meta
della modernizzazione non può essere costretta dentro le stilizzazioni del grande consumo di massa
(teoria degli stadi di sviluppo), dell’esistenza di attori con elevata motivazione al successo
(approccio psicologico), della presenza di urbanizzazione, di alfabetismo, di partecipazione ai mezzi
di comunicazione di massa, di partecipazione economica e politica (approccio diffusionistico), della
dominanza di relazioni di tipo realizzativo, universalistico, funzionalmente specifico e di elevata
differenziazione strutturale (analisi strutturale funzinale).
3. Il sottosviluppo nell’ “economia-mondo”
Gli anni Settanta sono caratterizzati dall’egemonia della teoria della dipendenza. La teoria della
dipendenza rappresenta una secca reazione all’ottimismo presente nelle varie prospettive sulla
modernizzazione dominanti negli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni Sessanta. Questa
reazione è sollecitata dall’evidente insuccesso delle politiche di sviluppo attuate nei paesi del Terzo
Mondo dopo la conquista dell’indipendenza politica, della consapevolezza diffusa dell’accresciuto
divario tra paesi poveri e paesi ricchi del globo, e dal peso del pensiero marxista nella contestazione
e nei movimenti collettivi che agitano l’Occidente di fine anni Settanta. Le possibilità di sviluppo
dei paesi arretrati vengono fatte coincidere con il superamento dei condizionamenti economici alla
base del sottosviluppo. Si tratta di una prospettiva che pone al centro dell’analisi i fattori causanti il
sottosviluppo, imputandoli ai processi di sfruttamento territoriale posti in essere dai paesi avanzati a
danno di quelli sottosviluppati. 3.1 Dallo “sviluppo del sottosviluppo” allo sviluppo dipendente
Myrdal aveva fatto notare come il commercio internazionale tra paesi sviluppati e paesi
sottosviluppati fosse ampiamente responsabile del progressivo e cumulativo squilibrio territoriale
esistente tra queste aree. Infatti, lo scarso potere di contrattazione a livello internazionale dei paesi
più poveri ha storicamente comportato la formazione di termini di scambio tra i prodotti dei paesi
sottosviluppati (materie prime e prodotti agricoli) e i prodotti dei paesi sviluppati (manufatti
industriali) chiaramente svantaggiosi per i primi. Il requisito politico per il superamento del
sottosviluppo si pone conseguentemente, secondo Myrdal, a livello internazionale: è necessario,
cioè, che la cooperazione economica tra i paesi sottosviluppati cresca al fine di aumentarne il potere
di contrattazione e arrivare così a una reale cooperazione e solidarietà internazionale. Si ha
drenaggio di risorse (“surplus” economico) dai paesi sottosviluppati verso le metropoli
imperialistiche (in particolare, la Gran Bretagna del XIX secolo e gli Stati Uniti dopo la seconda
guerra mondiale). Questo trasferimento di risorse è avvenuto attraverso due processi fondamentali: •
Il primo processo è costituito dallo “scambio ineguale” tra materie prime e prodotti alimentari, a
basso prezzo, esportati dai paesi sottosviluppati e prodotti industriali, a prezzi elevati, importati
dalle metropoli, che ha determinato un più che secolare deterioramento dei termini di scambio a
danno dei paesi sottosviluppati. • Il secondo processo è legato agli investimenti diretti di capitali
stranieri (specie delle imprese multinazionali) nei paesi sottosviluppati, che realizzano profitti nel
settore primario e industriale non reinvestendoli in loco ma riesportandoli nei paesi d’origine dei
capitali. Frank ha portato alle estreme conseguenze queste valutazioni, sottolineando che il
sottosviluppo è essenzialmente il prodotto delle relazioni di dominio-subordinazione che si
estendono dai centri del capitale monopolistico e imperialistico (“motropoli”) fino alle zone più
remote della periferia sottosviluppata (“satellite”). Queste relazioni metropoli-satellite creano tre
“contraddizioni” fondamentali: • La prima contraddizione mostra come i rapporti di dominio-
subordinazione tra metropoli e satellite si siano risolti in un continuo drenaggio di surplus
economico da parte del sistema capitalistico a spese dei paesi sottosviluppati. • Il risultato – seconda
contraddizione – è la polarizzazione tra una metropoli in continuo sviluppo (grazie a questo
drenaggio di surplus) e una periferia sottosviluppata il cui sottosviluppo sempre più si aggrava a
causa dello sfruttamento che subisce (“sviluppo del sottosviluppo”). • Terza contraddizione: la
continua presenza a ogni fase dell’espansione territoriale del sistema capitalistico degli elementi
strutturali fondamentali che generano la contraddizione svilupposottosviluppo. 3.2 L’”economia-
mondo” e la fuoriuscita del sistema capitalistico Wallerstein riprende le tematiche dei teorici della
dipendenza, inquadrandole in una prospettiva globale di “economia-mondo” (o sistema-mondo).
Secondo Wallerstein, l’economia-mondo emerge tra la fine del mercato capitalistico europeo e si
espande successivamente nel resto del globo. Tale economia si basa su una divisione del lavoro che
gerarchizza i vari paesi in un centro, una semiperiferia e una periferia. Tra centro e periferia sono in
atto i processi di sfruttamento territoriale descritti dai teorici della dipendenza. I paesi collocati nella
semiperiferia occupano invece una posizione intermedia tra centro e periferia e sono espressione di
ciò che è stato precedentemente definito sviluppo dipendente. La semiperiferia segnala la presenza
di processi di mobilità tra i paesi facenti parte del sistemamondo che, nel suo insieme, resta però
stabilmente strutturato in un centro, una semiperiferia e una periferia. Come per Baran e Frank,
anche per Wallerstein solo un socialismo internazionale in grado di governare l’economia-mondo
potrà portare all’eliminazione dei fattori di dipendenza e di sfruttamento territoriale. Per
l’economia-mondo capitalistica, per alcuni paesi della periferia c’è solo la possibilità di uno
sviluppo dipendente, ovvero di diventare semiperiferia, ma non certo di accedere al centro.
4. La riscoperta del ruolo dello Stato e delle elite politiche nazionali nel quadro
internazionale
Nel corso degli anni Ottanta si assiste al vivace sviluppo economico, “export-oriented” e
autosostenuto, di un certo numero di paesi dell’Asia orientale e sud-orientale. La tesi, cara alla
teoria della dipendenza, dell’impossibilità di un reale sviluppo economico autonomo, per le aree
sottosviluppate inserite nel meccanismo della divisione del lavoro, risulta perciò confutata.
Conseguentemente, finisce con l’essere drasticamente ridimensionata anche la validità di ricette di
politica economica come quelle basate sulla sostituzione delle importazioni, sulla “self-reliance” o
sullo sganciamento dal mercato capitalistico mondiale, quali prerequisiti indispensabili per lo
sviluppo economico autosostenuto e indipendente. 4.1. Lo Stato ed elite politiche nello sviluppo La
nuova “political economy” comparata rileva che non è possibile definire a priori gli interessi del
capitale internazionale come esclusivamente opposti agli interessi economici del Terzo Mondo. Le
relazioni economiche tra centro e periferia e i legami con l’economia internazionale possono pure
produrre un gioco a somma positiva per gli attori coinvolti, anche in presenza di un forte
indebitamento internazionale dei paesi periferici. Per i paesi del Terzo Mondo, questo possibile
esito positivo appare contingentemente connesso alla capacità che essi hanno di negoziare la natura
dei loro legami con i paesi sviluppati, pur in un quadro di disuguaglianza di potere tra gli Stati. Ciò
vale sia che essi si orientino prevalentemente verso la produzione di massa, sia che adottino la
“specializzazione flessibile” o un mix tra i due modelli produttivi. Le recenti esperienze di sviluppo
dei paesi dell’Asia orientale e sud-orientale evidenziano con chiarezza l’importanza strategica dello
Stato e delle elite politiche non solo nel processo di negoziazione internazionale, ma anche
nell’adozione di attive politiche industriali interne che devono implicare non tanto un’onnipotenza
statale, quanto piuttosto una sua presenza coerente, selettiva ed efficace. L’autonomia strategica e la
capacità burocratica dello Stato risultano essere il frutto di una combinazione variabile di: • Lo stato
di rapporti di forza tra le classi sociali • I tipi di relazioni politiche intessute dallo Stato con i gruppi
di interesse e i movimenti sociali • Il grado di autonomia e di potere specifici all’organizzazione
interna dell’apparato istituzionale statale, non rinviabili a classi e gruppi sociali esterni. • La
posizione dello Stato nazionale nell’ambito delle congiunture economiche e politiche
transnazionali. Autonomia strategica ed efficacia burocratica dello Stato convivono spesso, nei
paesi di cui stiamo discutendo, con centralizzazione del potere politico, scarsa democrazia,
familismo, clientelismo e corruzione politica. Sachs: pur essendo, ovviamente, preferibile uno
sviluppo economico senza clientelismo e corruzione politica non si può negare, perciò, la possibilità
di convivenza e compatibilità tra sviluppo economico, clientelismo e corruzione.
5. Capitale sociale e sviluppo nella globalizzazione
Durante gli anni Novanta un insieme di elementi, tra loro variamente intrecciati, sposta decisamente
l’attenzione sulle dimensioni socioculturali della modernizzazione. Tra questi elementi vanno
annoverati: • Lo sviluppo del capitalismo asiatico, con la connessa rivalutazione dell’etica
economica confuciana. • La difficile transizione economica in atto nei paesi dell’Europa orientale
dopo il crollo dei regimi comunisti, associata alla riscoperta della società civile. • La critica
generalizzata ai limiti dell’intervento regolatore dello Stato, coniugata con un crescente processo di
liberalizzazione dell’economia mondiale. Si tratta di processi che favoriscono la focalizzazione
dell’attenzione sulle variabili socioculturali alla base dei processi di modernizzazione. Queste
variabili vengono sintetizzate nel concetto di capitale sociale, concetto che rimanda alle potenzialità
cooperative insite in una data società. Come nel caso della riscoperta del ruolo dello Stato e delle
elite politiche, avventa negli anni Ottanta, anche la focalizzazione sul capitale sociale comporta
un’accentuazione di interesse nei confronti delle variabili endogene ai processi di modernizzazione.
Similmente a quanto operato dalla nuova “political conomy” comparata, inoltre, le variabili
endogene vengono collegate alle dimensioni esogene, espressione dell’internazionalizzazione
crescente dell’economia. Negli anni Novanta, in particolare, questa internazionalizzazione appare
sussunta sotto la categoria più ampia della globalizzazione. Ciò implica un tendenziale superamento
della dicotomia endogeno/esogeno, come risulta anche dal frequente uso del termine “glocale”,
parola che segnala l’inevitabilità dell’intreccio tra dimensioni locali e globali nel processo di
globalizzazione.
5.1 Capitale sociale e analisi di rete
Putnam con il capitale sociale intende un reticolo di relazione cooperative retto da fiducia e norme
di reciprocità, e caratterizzato da una certa stabilità nel tempo. Le relazioni cooperative stabilizzate
nel tempo possono essere concepite come forme di capitale perché, come per altri tipi di capitale
(ad esempio, il capitale fisico e il capitale umano), sono produttive di valori materiali e simbolici
per i partecipanti. Il capitale sociale include perciò un riferimento sia alla forma delle relazioni
sociali (inclusive ed esclusive, formali e informali, di reciprocità fiduciaria più o meno estesa), sia
all’origine di tali relazioni (ascritte o acquisite), sia, infine, ai contenuti delle stesse (contenuti
positivi, o benefici materiali e simbolici per i partecipanti, derivanti dalla cooperazione). Il richiamo
a reticoli e alle interazioni cooperative trova un alleato nell’analisi di rete (network analysis), e
soprattutto nella “nuova sociologia economica”. L’analisi di rete finisce con l’esprimere, al
contempo, uno strumento teorico (analisi relazionale), un metodo di ricerca e un’efficace metafora
della società complessa (decentramento del potere, flessibilità, visione processuale e antidicotomica
della modernizzazione ecc). Gli appartenenti al reticolo cooperativo che fonda il capitale sociale
derivano da esso effetti positivi, nel grado in cui cooperazione, fiducia e reciprocità producono
benefici materiali e simbolici a loro vantaggio. Il capitale sociale attivo in dato reticolo, a seconda
che sia orientato verso l’innovazione o il conservatorismo, può produrre ricadute positive o negative
sulle forme e sui contenuti del capitale sociale presente in altri reticoli. Ciò dipende dal tipo di
intrecci, o “ponti”, esistenti tra queste reti, dal loro carattere più o meno inclusivo, dal tipo di
mediatori che fungono da diffusori dell’innovazione o della conservazione. Particolarmente
rilevante risulta la presenza di imprenditori, individuali e istituzionali, operanti sul fronte
dell’innovazione economica, politica e sociale. Questi imprenditori agiscono anche da “diffusori
della fiducia” nello sviluppo. È evidente, inoltre, che quanto più la fiducia di cui i diffusori godono
è elevata ed estesa (perché ad esempio sono al centro di reti sociali dense e ampie o in posizione
“ponte” tra reti sociali diversificate), tanto più efficace ed esteso sarà l’effetto propagatore, in
termini di fiducia e innovazione, da essi introdotto. L’idea di “ponti” tra reticoli favorisce una
continuità di rinvii a “reti di reti”, in grado di includere le dimensioni locali, nazionali e globali
della modernizzazione.
5.2 Lo sviluppo locale nella globalizzazione
I rapporti territorialmente squilibrati esistenti all’interno di una stessa realtà statale sono stati spesso
studiati in analogia con le riflessioni sulla modernizzazione qui presentate, che guardano agli
squilibri territoriali tra gli Stati. La questione meridionale italiana è emblematica di questa analogia.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, le analisi economiche parlano di dualismo Nord-Sud generato
essenzialmente da carenze di risorse materiali e umane nel Mezzogiorno. Il Sud viene visto
essenzialmente come fornitore di manodopera per lo sviluppo del Nord (a seguito dei forti processi
migratori del Sud verso il resto dell’Italia) e come mercato di sbocco dell’industria settentrionale
(mercato sostenuto adeguatamente dal flusso della spesa pubblica). Già nella seconda metà degli
anni Sessanta si ha l’idea di un Sud funzionalizzato e, soprattutto, sfruttato a favore dello sviluppo
del resto del paese. Viene coniato allora, per il Mezzogiorno, il suggestivo termine di “economia
assistita”. Negli anni Ottanta, infine, alcuni significativi episodi di successo di piccola
imprenditorialità locale, registrati “a macchia di leopardo” in varie regioni del Sud, pongono il
problema dell’estendibilità al Meridione del modello di sviluppo per piccola o media impresa tipico
del Centro-Nord-Est del paese. Una simile problematica solleva immediatamente la questione
dell’esistenza o meno, nel Sud, delle risorse sociali e politiche in grado di attivare uno sviluppo
economico autosostenuto di piccola e media impresa. Si riprende, perciò, la “variabile strutturale”
parsonsiana particolarismouniversalismo, in una prospettiva chiaramente dicotomica che ritiene
possibile la modernizzazione del Sud solo attraverso una rottura drastica con la sua tradizione
particolaristica. Il dibattito sullo sviluppo locale cerca di combinare analisi del capitale sociale
locale, ruolo del sistema politico e delle elite locali (come suggerito dalla nuova “political
economy” comparata) e processi di globalizzazione. L’incrocio di queste tematiche produce un
modello di regolazione dell’economia che potremmo definire “governance glocale”. Essa implica
un’attiva collaborazione tra istituzioni politiche locali, mondo imprenditoriale (locale e esterno) e
forze sociali che porta alla valorizzazione al potenziamento, tra tutti questi attori, del capitale di
fiducia reciproca, in funzione dell’innovazione e dello sviluppo. Il modello locale di sviluppo
propone un localismo non autarchico, nel quale, anzi, localismo e globalizzazione, invece di porsi in
conflitto tra loro entrano a far parte di un processo di scambio e arricchimento reciproci.

2. ‘’La crescita dei sistemi di protezione sociale’’, Triglia


La crescita dei sistemi di protezione sociale
Ciò che caratterizza particolarmente lo stato sociale keynesiano è la forte crescita delle politiche di
welfare. I primi interventi nel campo della protezione sociale risalgono alla fine dell’800 ma è nel
secondo dopoguerra che in fenomeno cresce. La letteratura si è impegnata a spiegare tale tendenza
alla crescita dei programmi di protezione ed alcune analisi, dei primi anni ’60, sottolineano come la
domanda proveniente dalle classi sociali subalterne avesse portato al graduale riconoscimento dei
diritti civili, di quelli politici e infine di quelli sociali. La protezione di rischi per malattie, infortuni,
vecchiaia, disoccupazione, e la richiesta di un accesso equo alle istituzioni educative, viene sempre
più rivendicata come un aspetto fondante dei “diritti di cittadinanza”. Bendix, attraverso l’analisi
comparata, mostra l’importanza del grado di apertura del sistema politico come fattore che influisce
sugli esiti delle nuove domande (es. il caso inglese ci fa vedere come un sistema politico aperto ha
incanalato le nuove richieste gradualmente senza mettere in discussione le istituzioni democratiche).
Un altro tipo di spiegazioni si muovono all’interno della teoria neomarxista dello stato (O’Connor,
Habermas 1973) che pongono l’accento sulle esigenze funzionali di riproduzione del capitalismo (lo
stato incrementa i programmi di protezione sociale per sostenere l’accumulazione ed il
mantenimento del consenso). Il difetto di questi due tipi di spiegazioni è di muoversi ad un livello
molto generale e quindi di non valutare le differenze rilevanti che vi sono tra i diversi paesi nella
spesa per le politiche sociali e negli specifici modelli istituzionali (alcuni studi comparativi ci hanno
dato un quadro più preciso dell’evoluzione delle politiche sociali). In Europa, nel periodo tra le due
guerre, saranno soprattutto i paesi dove i partiti dei lavoratori sono più forti e partecipano al
governo a far crescere le politiche sociali (soprattutto nella forma di assicurazioni obbligatorie
nazionali). Nel secondo dopoguerra anche i partiti di centro di ispirazione cattolica. La letteratura ha
in genere condiviso l’idea di tre idealtipi principali di welfare formulata da Richard Titmuss (1974)
e successivamente da Esping-Andersen (1990):
1) modello istituzionale-redistributivo riconosce i diritti sociali come componenti essenziali della
cittadinanza. Si tratta di programmi pubblici che forniscono benefici uniformi per tutti i cittadini,
quindi su base universalistica (es. Svezia, Norvegia e Danimarca dove vi è un forte il movimento
operaio e la presenza prolungata di partiti di sinistra al governo);
2) modello residuale in cui la protezione sociale pubblica è volta a coprire una fascia limitata di
popolazione che si trova in condizioni di particolare indigenza e bisogno, per rischi che non sono
coperti dal mercato, dalla famiglia o da forme di azione volontaria (es. Stati Uniti dove il welfare si
espande negli anni ’30 con il new Deal e poi soprattutto negli anni ’60, in un contesto che resta però
fortemente influenzato dall’ideologia liberale, dalla minore forza del movimento operaio e
dall’assenza di partiti di orientamento socialista; il Canada, l'Australia e più di recente la Gran
Bretagna che negli anni ’50 era più simile al modello socialdemocratico);
3) modello remunerativo di Titmuss in cui l’assicurazione contro i principali rischi non si basa su
un diritto di cittadinanza ma sull’appartenenza a una categoria socioprofessionale; il 32
Distribuzione proibita 1finanziamento si basa sui contributi più che sulla tassazione per cui sono più
deboli le finalità redistributive; prevalgono nettamente i trasferimenti monetari rispetto ai servizi
offerti dallo stato (es. Germania, Austria, Belgio, Italia, Spagna, Portogallo e in parte l’Olanda).
Una caratteristica del “modello continentale” è la particolare influenza esercitata sul piano politico
dalla cultura cattolica. Nell’ambito di questo modello il caso italiano assume peraltro una
connotazione più marcatamente particolaristica e clientelare che ne segna i caratteri e le modalità di
funzionamento. Va quindi sottolineato che in tutti i paesi più sviluppati si determinò nei due
decenni postbellici un notevole incremento dell’impegno statale nel campo della protezione sociale.
Sia che l’intervento fosse in forma di keynesismo più debole, sia più forte, la spesa sociale
rappresentò comunque un importante volano della grande crescita.

3. ‘’Il welfare fordista e la sua crisi’’, Paci


In molti paesi europei, compresa l’Italia, il welfare state ha compiuto cento anni. Si può fissare
infatti la sua data di nascita al momento dell’introduzione da parte dei governi europei delle
assicurazioni sociali obbligatorie contro la vecchiaia, l’invalidità la malattia e la disoccupazione,
cioè contro quelli che costituivano alla fine dell’800 e 900 i maggiori rischi della vita dei lavoratori.
Parliamo dunque di una istituzione sociale che ha una lunga storia alle spalle e che si trova oggi
all’inizio di un nuovo secolo, ad affrontare una situazione di difficoltà se non di crisi. Quello della
sollecitazione al cambiamento dei sistemi di welfare proviene dal processo di individualizzazione
che caratterizza la modernizzazione delle città europee a partire dall’illuminismo e dalla caduta del
vecchio regime.

4. ‘’Fordismo’’ e dal ‘’fordismo all’accumulazione flessibile’’, Harvey, volume


‘’Crisi della Modernità’’

IL FORDISMO
Il fordismo nasce nel 1914 quando Henry Ford introdusse la giornata di lavoro di 8 ore a 5 dollari
per gli operai della catena di montaggio automatizzata. Ford razionalizzò le vecchie tecnologie e la
preesistente divisione del lavoro, ma ottenne grandissimi incrementi della produttività facendo
scorrere il processo produttivo davanti agli operai fermi. Già Taylor (1911) aveva spiegato come si
potesse aumentare la produttività suddividendo ciascun processo di lavorazione in movimenti
semplici e organizzando compiti frammentati. La separazione tra gestione, concezione, controllo ed
esecuzione era già avviata in altre industrie. Di speciale in Ford c’è la sua visione, il suo
riconoscimento del fatto che la produzione in serie significasse consumo di massa, e quindi un
nuovo tipo di società democratica, razionalizzata, modernista e populista. Ford credeva che il nuovo
tipo di società potesse essere costruito con un’adeguata applicazione del potere delle grandi aziende.
Gli scopi della giornata di lavoro di 8 ore erano:
1) fare in modo che il lavoratore rispettasse la disciplina necessaria per far funzionare la catena di
montaggio ad alta produttività;
2) fornire al lavoratore abbastanza denaro e tempo libero per consumare i prodotti fabbricati in serie
che venivano sfornati in quantità sempre maggiori.
Così nel 1916, Ford mandò degli assistenti sociali nelle case dei suoi lavoratori privilegiati ad
accertarsi che l’uomo nuovo della produzione in serie avesse il giusto tipo di probità morale e vita
familiare e la capacità di consumare in modo prudente e razionale così da essere all’altezza dei
bisogni e delle aspettative aziendali. Ford credeva nel potere aziendale quale forma di regolazione
dell’intera economia.
Negli anni ’30 egli aveva cercato di risolvere la grande depressione, spingendo i suoi lavoratori a
produrre la maggior parte di ciò di cui avevano bisogno per vivere, insistendo che il fare da sé era
“l’unico mezzo per combattere la depressione economica”. Il sistema fordista si instaurò a seguito
di un processo lungo e complicato durato quasi mezzo secolo, e dipese da una miriade di decisioni
individuali.
Vi erano due grandi ostacoli alla diffusione del fordismo negli anni tra le due guerre:
1) i rapporti di classe nel mondo capitalistico che non potevano accettare un sistema produttivo in
cui il lavoratore era assegnato a ore di mera routine, senza bisogno che avesse capacità artigianali.
Ford aveva risolto il problema assumendo lavoratori immigrati, che però imparavano in fretta e gli
americani erano loro ostili. Il ricambio nella forza-lavoro di Ford fu elevatissimo. Invece nel resto
del mondo l’organizzazione dei lavoratori e le tradizioni artigiane erano troppo forti e
l’immigrazione troppo debole per instaurare il fordismo. Infatti la produzione in serie con la catena
di montaggio in Europa fu limitata fino alla metà degli anni ’30; solo verso gli anni ’50 il fordismo
iniziò a diffondersi oltreoceano.
2) modalità e meccanismi degli interventi statali – bisognava ideare un nuovo modo di regolazione
per soddisfare le esigenze della produzione fordista. La stasi democratica degli anni ’20 doveva
essere superata con un po’ di autoritarismo e di interventismo statale. Ma il problema di
un’adeguata configurazione e uso dei poteri statali fu risolto solo dopo il 1945. Ciò portò il
fordismo alla maturità quale regime di accumulazione ben definito, e come tale, esso rappresentò la
base di un lungo boom postbellico, che rimase immutato sino al 1973. In tale periodo il capitalismo
nei paesi industrialmente avanzati raggiunse tassi di crescita economica notevoli e relativamente
stabili, il livello di vita migliorò e la tendenza alla crisi fu contenuta. La crescita fenomenale
dipendeva da una serie di compromessi: lo stato doveva assumere nuovi ruoli (keynesiani) e creare
nuovi poteri istituzionali; il capitale aziendale doveva mantenere una sicura redditività; i lavoratori
organizzati dovevano assumere nuovi ruoli e funzioni in relazione al rendimento sul mercato del
lavoro e nei processi produttivi. Nel dopoguerra, negli USA, i sindacati furono esposti a violenti
attacchi perché accusati di infiltrazione comunista e furono sottomessi ad una rigida disciplina
legale. L’eterno problema dell’assuefazione del lavoratore a sistemi di lavoro così routinari,
dequalificati, degradanti, non può mai essere completamente superato. Le organizzazioni sindacali
burocratizzate venivano sempre più confinate in un angolo. Le decisioni delle grandi aziende
divennero prevalenti del definire le vie della crescita del consumo di massa. E alla fine accettarono,
con riluttanza, il potere sindacale, quando i sindacati si impegnarono a controllare i loro membri e a
collaborare con la dirigenza in programmi per aumentare la produttività in cambio di aumenti
salariali che stimolassero la domanda effettiva. Lo stato assunse una grande varietà di obblighi:
doveva dare una solida base al benessere sociale, con spese che coprissero la previdenza sociale,
l’assistenza sanitaria, l’istruzione, la casa… inoltre il potere statale veniva usato per influenzare gli
accordi salariali e i diritti dei lavoratori nel processo produttivo. Il fordismo dipendeva proprio
dall’assunzione da parte dello stato di un ruolo speciale nel sistema di regolamentazione sociale. Il
fordismo postbellico dev’essere visto come uno stile di vita: la produzione in serie voleva dire
standardizzazione del prodotto e consumo di massa. Inoltre era anche un fenomeno internazionale:
si instaurò solidamente in Europa e Giappone dopo il 1940, si consolidò e si espanse nel periodo
postbellico per mezzo delle politiche imposte durante l’occupazione o grazie al Piano Marshall e
agli investimenti statunitensi. Questo sviluppo degli investimenti e del commercio esteri fece sì che
la capacità produttiva eccedente degli USA fosse assorbita altrove, mentre il progresso
internazionale del fordismo significava la formazione di mercati di massa mondiali  che a sua volta
significava la globalizzazione dell’offerta di materie prime spesso meno costose. Il nuovo
internazionalismo portò con sé altre attività (banche, servizi, alberghi…) e una nuova cultura
internazionale. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 fecero del dollaro la valuta di riferimento
mondiale, legando così lo sviluppo economico mondiale alla politica monetaria e fiscale degli USA.
La diffusione del fordismo si ebbe così in un particolare contesto di regolamentazione politico-
economica internazionale e in una configurazione geopolitica in cui gli USA avevano una posizione
predominante. Non tutti traevano benefici dal fordismo: le trattative salariali si limitavano a certi
settori dell’economia, altri settori di produzione ad alto rischio dipendevano ancora da salari bassi e
precarietà; i mercati del lavoro tendevano a dividersi in un settore di monopolio ed uno competitivo.
La disuguaglianza che ne derivava produceva gravi tensioni sociali e forti movimenti organizzati
dagli esclusi. Una grande parte della forza-lavoro si vedeva pure negare l’accesso alle tanto
decantate gioie del consumo di massa, e ciò causava un enorme scontento, alimentando la crescita
dei contromovimenti insoddisfatti dei presunti vantaggi del fordismo. La legittimazione del potere
statale dipendeva dalla capacità di estendere a tutti i benefici del fordismo e di trovare i modi per
assicurare a tutti assistenza sanitaria adeguata, casa e istruzione. Dal punto di vista dei consumatori,
la qualità della fornitura dei servizi attraverso un sistema non discriminatorio di amministrazione
statale fu a sua volta oggetto di severe critiche. A ciò si deve aggiungere lo scontento del Terzo
mondo per un processo di modernizzazione che prometteva sviluppo, emancipazione dal bisogno e
piena integrazione nel fordismo, ma produceva distruzione delle culture locali, oppressione e
dominio capitalistico. Malgrado le tensioni, i capisaldi del regime fordista ressero sino al 1973:
crebbe il livello di vita materiale per la massa della popolazione ed emerse un ambiente
relativamente stabile e favorevole ai profitti delle grandi aziende. 9.
DAL FORDISMO ALL’ACCUMULAZIONE FLESSIBILE
Si possono vedere i segni dell’esistenza di gravi problemi all’interno del fordismo già negli anni
’60: la formazione del mercato dell’eurodollaro e la crisi creditizia del 1966-67 erano segnali
premonitori della minore capacità degli USA di regolare il sistema finanziario internazionale. La
concorrenza internazionale si intensificò, e l’Europa occidentale e il Giappone sfidarono l’egemonia
americana, tanto che vennero mano gli accordi di Bretton Woods e il dollaro fu svalutato. Nel
periodo 1965-73 fu sempre più evidente l’incapacità del sistema fordista e keynesiano di tenere
sotto controllo le intrinseche contraddizioni del capitalismo, dette anche “rigidità”. L’unico
strumento di risposta flessibile stava nella politica monetaria, nella capacità di stampare moneta a
qualsiasi velocità sembrasse necessaria per garantire la stabilità dell’economia. Ebbe così inizio
l’ondata inflazionistica (fondi in eccedenza e pochi sbocchi produttivi). Il tentativo di frenare
l’inflazione crescente portò a un crollo mondiale nei mercati immobiliari e a gravi difficoltà per le
istituzioni finanziarie. A ciò si aggiunge l’aumento dei prezzi del petrolio e la decisione dei paesi
arabi di bloccare le esportazioni verso l’occidente. La forte deflazione del periodo 1973-75 indicava
che le finanze statali erano sproporzionate rispetto alle risorse: ne derivò una profonda crisi fiscale e
di legittimazione. Ciò avviò una serie di processi che minarono il compromesso fordista. Negli anni
’70-’80 ci fu anche un periodo di ristrutturazione economica e di riaggiustamento sociale e politico,
e da tutta questa incertezza prese forma una serie di nuovi esperimenti nel campo
dell’organizzazione industriale e della vita politica e sociale, che rappresentano i primi segni del
passaggio ad un regime di accumulazione assolutamente nuovo. L’accumulazione flessibile è
caratterizzata da un confronto diretto con le rigidità del fordismo. Poggia su una certa flessibilità nei
confronti dei processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di consumo. È
caratterizzata dall’emergere di settori di produzione completamente nuovi. Ha determinato una
grande crescita dell’occupazione nel settore dei servizi e la nascita di complessi industriali
assolutamente nuovi in regioni fino ad allora sottosviluppate. Ha anche determinato una nuova fase
di “compressione spazio-temporale” nel mondo capitalistico, diffondendo immediatamente le
decisioni in uno spazio sempre più grande e variegato. L’accumulazione flessibile implica una
rapida distruzione e ricostruzione delle capacità dei lavoratori, modesti o inesistenti aumenti
salariali e il ridimensionamento del potere sindacale. Il mercato del lavoro ha conosciuto una
radicale ristrutturazione, i datori di lavoro hanno sfruttato il diminuito potere sindacale e i lavoratori
eccedenti per promuovere regimi lavorativi e contratti di lavoro molto più flessibili. Ma ancora più
importante è stato l’apparente abbandono dell’occupazione regolare a favore di lavori a tempo
parziale, o temporanei, o in subappalto. Cambia così la struttura del mercato del lavoro tipo: 1) c’è
un nucleo costituito da lavoratori dipendenti permanenti e a tempo pieno, fondamentale per il futuro
a lungo termine dell’azienda, che hanno maggiore sicurezza del posto di lavoro, buone prospettive
di carriera, diritto a livelli soddisfacenti di pensione, previdenza; 2) la periferia comprende due
sottogruppi: a) formato da dipendenti a tempo pieno dotati di capacità ampiamente disponibili sul
mercato del lavoro, come impiegati, segretarie… caratterizzato da un’alta rotazione; b) assicura una
flessibilità numerica ancora maggiore e comprende i lavoratori part-time, occasionali e temporanei,
a contratto, con una sicurezza del poto di lavoro bassissima. In questa categoria di dipendenti, negli
ultimi anni, c’è stata una notevole crescita. La flessibilità a volte può essere di reciproco vantaggio,
ma gli effetti complessivi non sembrano positivi per la popolazione. L’attuale tendenza consiste nel
ridurre il numero dei lavoratori appartenenti al nucleo e basarsi sempre più sulla forza-lavoro che
può essere rapidamente reclutata e liquidata senza costi. La trasformazione nella struttura del
mercato del lavoro ha portato cambiamenti importanti nell’organizzazione industriale: il subappalto
organizzato offre l’opportunità di creare piccole aziende, sono così rinate forme di produzione
“sfruttatrici”  economie in nero, informali o sommerse. I sistemi di tipo paternalistico
costituiscono un territorio pericoloso per l’organizzazione dei lavoratori perché è più facile che il
potere sindacale (se presente) si corrompa invece di riuscire a liberare i dipendenti dal dominio del
“padrino”. La coscienza di classe si sposta su un terreno molto più confuso di conflitti interfamiliari
e di lotte per il potere in un sistema di famiglie o clan. Il passaggio all’accumulazione flessibile è
stato contrassegnato da una rivoluzione nel ruolo delle donne nei mercati del lavoro. È più facile
sfruttare le capacità lavorative delle donne sulla base del tempo parziale, e quindi sostituire gli
uomini (meglio pagati e più difficili da licenziare) con le donne (pagate meno). Le economie di
scopo hanno soppiantato le economie di scala. Questi sistemi flessibili di produzione hanno
permesso un’accelerazione nel ritmo dell’innovazione dei prodotti e l’esplorazione di piccole e
specializzate nicchie di mercato. Il tempo di rotazione del capitale doveva essere drasticamente
ridotto con l’uso di nuove tecnologie e nuove forme di organizzazione. E anche il tempo di
rotazione nei consumi doveva diminuire: la semivita di un tipico prodotto fordista era di 5-7 anni,
ma l’accumulazione flessibile in certi settori ha ridotto quel tempo a meno della metà e in altri
settori (videogiochi e software per computer) a 18 mesi. L’accumulazione flessibile quindi è stata
accompagnata da una maggiore attenzione alle mode mutevoli e alla mobilitazione degli artifici
della creazione di bisogni e della trasformazione culturale. L’estetica relativamente stabile del
fordismo ha lasciato il posto al fermento, all’instabilità, alle qualità fuggevoli di un’estetica
postmodernista che “celebra la differenza, la caducità, lo spettacolo, la moda e la mercificazione
delle forme culturali”. C’è stata anche una crescita nell’occupazione del settore dei servizi a partire
dai primi anni ’70. L’espansione può essere in parte attribuita alla crescita del subappalto e delle
attività di consulenza (un tempo interne alle aziende). Inoltre il bisogno di accelerare il tempo di
rotazione nei consumi ha determinato una sorta di passaggio dalla produzione di beni alla
produzione di eventi come gli spettacoli. Tutto ciò ha accresciuto l’importanza di
un’imprenditorialità “intelligente” e innovativa. Deregulation = maggiore monopolizzazione in
settori come il trasporto aereo, l’energia e i servizi finanziari. L’accumulazione flessibile ha portato
a massicce fusioni e diversificazioni aziendali. Sono fiorite anche le piccole imprese, le strutture
organizzative patriarcali e artigianali. Anche il lavoro autonomo ha conosciuto una forte rinascita.
8.L’organizzazione più rigorosa e l’implosione del centralismo sono state ottenute con due sviluppi
paralleli: 1) l’accesso alle informazioni e il loro controllo assieme ad una forte capacità di analisi
istantanea dei dati sono diventati fattori essenziali. Si conseguono grandi profitti proprio grazie ad
un accesso privilegiato alle informazioni. L’accesso al knowhow scientifico e tecnico è sempre stato
importante nella lotta competitiva, ma in un mondo di gusti e bisogni che cambiano rapidamente,
l’accesso all’ultima novità tecnica, al prodotto più recente, fa conseguire un’importante vantaggio
competitivo. La conoscenza stessa diventa un bene fondamentale, da produrre e vendere al miglior
offerente. Inoltre diventa importante non solo il prodotto, ma anche l’immagine dell’azienda, non
solo per il marketing, ma anche per la raccolta di capitali; 2) completa riorganizzazione del sistema
finanziario mondiale e dall’emergere di poteri molto maggiori di coordinamento finanziario – c’è
stato un duplice movimento verso la formazione di conglomerati finanziari di grande potere
mondiale, e una rapida diffusione e un decentramento delle attività e dei flussi finanziari. La
deregulation e l’innovazione finanziaria sono condizioni di sopravvivenza per ogni centro
finanziario. La computerizzazione e le comunicazioni elettroniche hanno sottolineato l’importanza
del coordinamento internazionale istantaneo dei flussi finanziari. Economia di carta = conquistare
profitti senza darsi la pena di produrre qualcosa di reale. Fuori dal controllo dei governi nazionali,
questo mercato di denaro “senza stato” è cresciuto enormemente. Il debito dei paesi del Terzo
mondo è a sua volta sfuggito ad ogni controllo. L’accumulazione flessibile guarda, più del
fordismo, al capitale finanziario quale propria forza di coordinamento. Le possibilità di crisi
monetaria e finanziarie indipendenti e autonome sono maggiori che nel passato. Il crollo del sistema
fordista-keynesiano significava chiaramente uno spostamento di poteri a vantaggio del capitale
finanziario rispetto allo stato. C’è stata una rapida riduzione dei costi dei trasporti e delle
comunicazioni grazie all’uso dei container, dei jet e delle comunicazioni via satellite. La
dipendenza degli USA dal commercio estero è raddoppiata in meno di 10 anni, portando
rapidamente l’America da condizione di creditore netto a quella di massimo paese debitore del
mondo. Da tutti questi mutamenti è conseguita una sostanziale ridistribuzione del reddito, di cui
però hanno beneficiato in gran parte le classi già privilegiate. L’imprenditorialità caratterizza ora
non solo l’attività economica, ma campi diversi come la gestione urbana, l’organizzazione del
mercato del lavoro, la ricerca e lo sviluppo, persino la vita accademica, letteraria e artistica. Il più
flessibile movimento del capitale sottolinea il nuovo, il fuggevole, l’effimero, il transitorio ed il
contingente nella vita moderna, anziché i più solidi valori espressi dal fordismo. Ma è in tempi di
frammentazione e incertezza economica che il desiderio di valori stabili porta ad un’enfatizzazione
dell’autorità delle istituzioni di base (famiglia, religione, stato). E fin dal 1970, in tutto il mondo
occidentale, ci sono chiari segni di una rinnovata adesione a queste istituzioni ed ai valori che esse
rappresentano.

7. ‘’Verso una teoria della transazione’’, di Harvey, tratto dal volume ‘’ la crisi della modernità’’
VERSO UNA TEORIA DELLA TRANSIZIONE
Stiamo quindi assistendo ad una transizione storica. Vi è stato un cambiamento significativo nel
funzionamento del capitalismo a partire dal 1970. Dobbiamo quindi circoscrivere la natura dei
cambiamenti che stiamo considerando.
L’accumulazione flessibile è ancora una forma di capitalismo, quindi parecchie considerazioni di
base di Marx rimangono valide: 1) il capitalismo è orientato alla crescita, perché solo così
possono essere garantiti i profitti e può essere mantenuta l’accumulazione di capitale. La crisi è
quindi un’assenza di crescita. 2) la crescita dipende dallo sfruttamento della forza-lavoro
durante il processo produttivo, quindi dipende dal divario fra quanto i lavoratori guadagnano e
quanto creano. Il capitalismo si basa quindi su un rapporto di classe tra capitale e lavoro, e la
dinamica della lotta di classe per il controllo dei lavoratori e dei salari è fondamentale. 3) il
capitalismo è dinamico dal punto di vista tecnologico ed organizzativo, in quanto le leggi della
concorrenza spingono i capitalisti alla ricerca del profitto ad innovare continuamente.
Marx dimostrò che queste tre condizioni necessarie del capitalismo erano incoerenti e
contraddittorie, e che quindi esso era necessariamente esposto al pericolo di crisi. L’argomentazione
marxista è che la tendenza alla sovraccumulazione non può mai essere eliminata nel capitalismo.
L’unica questione riguarda il modo in cui questa tendenza può essere gestita: 1) la svalutazione
delle merci, della capacità produttiva, del denaro, rappresenta un modo per affrontare le
eccedenze di capitale: riduzione o annullamento del valore dei beni, cessione a prezzi stracciati di
scorte eccedentarie di beni. La forza lavoro viene analogamente svalutata o distrutta 2) controllo
macroeconomico, con l’istituzionalizzazione di un sistema di regolazione – capacità di creare un
equilibrio di forze attraverso il quale i meccanismi responsabili del problema della
sovraccumulazione potevano essere tenuti sufficientemente sotto controllo 3) assorbimento della
sovraccumulazione attraverso spostamenti spaziali e temporali – è l’opportunità più vantaggiosa e
duratura, ma anche più problematica:  lo spostamento temporale implica un diverso uso delle
risorse o un’accelerazione nel tempo di rotazione, tale che un’accelerazione quest’anno possa
assorbire l’eccesso dell’anno scorso. La capacità di fare ciò dipende dalla capacità di formazione di
capitale fittizio. Non sempre però questo metodo assorbe l’eccedenza totalmente, e comunque è di
solito un palliativo  lo spostamento spaziale implica l’assorbimento del capitale e della forza-
lavoro eccedenti mediante un’espansione geografica. La “soluzione spaziale” implica quindi la
creazione di nuovi spazi che rendano possibile la produzione capitalistica. Anche questo metodo
può essere solo una soluzione a breve termine  lo spostamento spazio-temporale ha un doppio
effetto, è sempre necessaria la formazione del capitale fittizio, ma è la combinazione delle strategie
temporali e spaziali ad avere la massima importanza Ma come risolveva il fordismo il problema
della sovraccumulazione? Esso era generalmente costretto a ricorrere a forme selvagge di
svalutazione. Fu soprattutto grazie allo spostamento spaziale e temporale che il fordismo risolse il
problema durante il boom postbellico. L’accumulazione flessibile sembra quindi essere una
semplice combinazione delle due strategie fondamentali di acquisizione del profitto (plusvalore)
descritte da Marx. La prima, relativa al plusvalore assoluto, è basata sull’estensione della giornata
di lavoro in relazione al salario necessario per garantire la riproduzione della classe operaia ad un
certo livello di vita. La seconda, plusvalore relativo, avvia dei cambiamenti organizzativi e
tecnologici che permettono il conseguimento di profitti temporanei. L’adozione di questa strategia
porta in primo piano l’importanza di una forza-lavoro estremamente specializzata, uno strato molto
privilegiato e potente, in grado di comprendere e gestire le nuove modalità di innovazione
tecnologica e di orientamento al mercato.
8.‘’La globalizzazione economica’’, di M. B Steger, tratto dal volume ‘’la globalizzazione’’
LA GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA
La globalizzazione economica contemporanea può essere fatta risalire all’affermazione di un
nuovo ordine economico internazionale, iniziato con la conferenza economica a Bretton Woods ->
Stati Uniti e Gran Bretagna (più altre potenze economiche) che abbandonano le politiche
protezionistiche, stabilendo regole vincolanti ed un sistema più stabile di scambi. Vengono così a
crearsi tre nuove organizzazioni economiche internazionali:
• FMI, fondo monetario internazionale o Banca Mondiale Prestiti funzionali e finanziamento
progetti industriali nei paesi in via di sviluppo
• WTO, organizzazione mondiale per il commercio
• GATT, promozione e applicazione patti commerciali multilaterali
Il sistema Bretton Woods diede vita all’età dell’oro del capitalismo regolamentato, caratterizzato da
incremento dei salari, potenziamento dei servizi sociali: tuttavia agli inizi degli anni Settanta, il
sistema venne affossato. Nixon abbandonò il sistema del dollar standard, causando instabilità
economica globale, inflazione, bassa crescita, disoccupazione, decifit... Thatchr e Reegan
associarono la parola “globalizzazione” ad un programma politico che promuoveva la liberazione
delle economie regolamentate di tutto il mondo. Si parla di neoliberalismo, che affonda le sue radici
nel liberalismo di Smith e Ricardo: essi vedevano nel mercato un meccanismo autoregolamentato
per il raggiungimento di equilibrio tra domanda e offerta, invocando l’abolizione di dazi e barriere
che ostacolavano il commercio e il flusso di capitale.
I tre sviluppi più significativi sono l’internazionalizzazione del commercio e della finanza, la
crescita di potere delle multinazionali e le grandi banche d’investimento, il ruolo più attivo di
FMI, Banca mondiale e WTO.
Internazionalizzazione del commercio e della finanza: La propaganda del libero commercio si
basava sulla convinzione che l’eliminazione o la riduzione delle barriere al commercio
internazionale avrebbero accresciuto la ricchezza globale e ampliato la scelta dei consumatori. Vi
sono dimostrazioni di economie nazionali che hanno beneficiato di aumenti nella produzione grazie
al libero scambio, ma non è chiaro se i benefici generati siano stati distribuiti equamente tra le
società, e al loro interno. Vari studi dimostrano che il divario tra paesi ricchi e poveri si sta
allargando ad un rapido ritmo. La globalizzazione delle attività finanziarie consente maggiore
mobilità fra diversi segmenti del settore finanziario, con meno restrizioni e più possibilità
d’investimento. Nuove tecnologie basate su internet hanno accelerato la liberalizzazione delle
transazioni finanziarie; investitori individuali usavano reti globali d’investimento elettronico per
inviare i propri ordini e per ricevere informazioni sui principali sviluppi economici e politici. Il
denaro coinvolto non aveva a che vedere con la fornitura di capitali per l’investimento produttivo,
bensì su merci su cui si negoziavano profitti di produzioni future.
La crisi finanziaria globale del 2008 inizia con la crisi asiatica, che abbandonò gradualmente il
controllo sui movimenti interni di capitale per attrarre capitali esteri. Tale afflusso si è tradotto con
un aumento vertiginoso delle quote azionarie e degli immobili, di cui gli investitori si resero conto:
la reazione fu ritirare il denaro investito, portando ad un crollo economico, disoccupazione e
diminuzione dei salari. Negli anni Ottanta e Novanta, tre amministrazioni degli Stati Uniti vollero la
deregolamentazione dei servizi finanziari, realizzando tale proposito con l’abolizione del Glass-
Steagall Act che impediva alle banche commerciali di fare investimenti a Wall Street. Ne conseguì
una speculazione finanziaria delle banche, ovvero cercarono di ottenere il massimo guadagno
puntando sul rialzo e sul ribasso dei prezzi di mercato. Ciò portò al fallimento di molte banche, che
persero i risparmi dei clienti. Nel 2008, le radici negli anni Ottanta e Novanta, portarono ad una
nuova crisi: investitori individuali e istituzionali acquistavano obbligazioni supportate da mutui
immobiliari, di cui le banche d’investimenti celavano i reali rischi. A metà del 2007 i prezzi
sopravvalutati degli immobili americani sono scesi: gli investitori hanno realizzato il rischio del
mercato immobiliare e hanno perso fiducia, facendo crollare il valore dei fondi.
• Le obbligazioni sono forme d’investimento rese disponibili da società o enti pubblici che hanno
bisogno di liquidità; queste vengono acquistate da un investitore, secondo la cifra richiesta
dall’emettitore, il quale ha in cambio (nel corso del tempo) un ammontare del capitale investito ed
un interesse USA, Gran Bretagna e altri paesi industrializzati hanno spinto il governo ad acquistare
obbligazioni immobiliari sotto sequestro, in cambio di quote di capitale delle imprese. In tal modo,
un’impresa di salvataggio si è trasformata nella possibilità di queste di continuare ad avere denaro e
non dover dichiarare fallimento. Quando la crisi finanziaria globale si è trasformata in crisi
economica globale, i leader del G20 si sono riuniti per definire una strategia comune al fine di
uscire dalla grande recessione; tra il 2011 e il 2013 in molte parti del mondo la crescita è rimasta
bloccata, i numeri della disoccupazione sono scesi lentamente (specie nell’Unione Europea). Le
corporation transnazionali controllano gran parte del capitale d’investimento, tecnologia, accesso ai
mercati finanziari del mondo: per mantenere la propria predominanza sul mercato globale, si
fondono con altre grandi imprese. Le CTN consolidano le proprie attività su un mercato del lavoro
globale, sempre più deregolamentato -> mobilità e profittabilità delle imprese sono rese possibili
dalla disponibilità di manodopera e risorse a basso costo, nonché condizioni favorevoli
all’insediamento nel Sud globale. Anche la produzione globale è cambiata -> suddivisione processi
produttivi in fasi separate, distribuite in unità operative sparse nel mondo. Se si parla di
globalizzazione economica, le istituzioni più importanti sono l’FMI, la Banca mondiale e il WTO.
L’FMI e la Banca mondiale sono nate durante la guerra fredda, con l’intento di erogare prestiti ai
paesi in via di sviluppo: oggi, sono in armonia con gli obiettivi neoliberisti di integrare e
deregolamentare i mercati di tutto il mondo. Il Consenso di Washington, ideato e codificato da John
Williamson, ha l’obiettivo di riformare i meccanismi economici interni dei paesi debitori in via di
sviluppo, e metterli in grado di ripagare i debiti contratti; tuttavia, i termini del programma proposto
non facevano altro che creare una nuova forma di colonialismo.

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