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La cultura orizzontale
Editori Laterza
© 2020, Gius. Laterza & Figli
Premessa
1. In che mondo siamo?
2. La cultura cambia funzione
3. Un ecosistema globale e territorializzato
4. I fili, il tessuto
5 . Il paradigma della cultura orizzontale
6. La generazione delle reti
7. Una nuova civiltà?
8. La parola scritta, i libri, la lettura
9. La mutazione digitale
10. La cultura del fare
11. I giovani e l’informazione
12. Porte diverse: come cambia l’accesso
13. Intrattenimento e partecipazione culturale
14. La musica
15. Le televisioni
16. La radio
17. Il cinema
18. I videogiochi
19. I festival
Considerazioni conclusive
Gli autori
Premessa
1
I dati di seguito riportati e quelli citati più avanti sono tratti da Global Digital 2019, indagine
condotta da We Are Social, https://wearesocial.com/it/blog/2019/01/digital-in-2019. Si veda
anche https://www.alexa.com.
2
Fondamentale, a questo scopo, il concetto di ‘città intelligente’ o smart city, in cui si realizza
una interazione di tipo nuovo fra gli esseri umani e l’ambiente costruito e, in pratica, il modo
di intendere e di vivere le città: saranno disponibili svariati servizi riguardanti la gestione
intelligente della mobilità e dell’illuminazione, dell’approvvigionamento energetico, del
controllo dell’inquinamento, fino alla domotica e ad altre forme di controllo degli edifici.
Pionieristiche, in questo campo, le intuizioni di Carlo Ratti, architetto italiano docente al
MIT di Boston, dove dirige il Senseable City Lab. Una sintesi della sua visione del modo di
prevedere e progettare il futuro delle metropoli è in Carlo Ratti [con Matthew Claudel], La
città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano, Einaudi, Torino 2017.
3
«The next medium, whatever it is – it may be the extension of consciousness – will include
television as its content, not as its environment, and will transform television into an art form.
A computer as a research and communication instrument could enhance retrieval, obsolesce
mass library organization, retrieve the individual’s encyclopedic function and flip it into a
private line to speedily tailored data of a saleable kind». Marshall McLuhan, Technology and
Environment, in «Arts Canada», 205, febbraio 1967, pp. 5-6.
4
Fonte: Censis, 15° Rapporto sulla comunicazione. I media digitali e la fine dello star system,
FrancoAngeli, Milano 2018.
2.
La cultura cambia funzione
Ma cos’è questo nuovo che sta prendendo il posto del vecchio? E che effetti
sta producendo sulla trasmissione, sulla produzione e sul concetto stesso
di cultura? Di certo la tripartizione proposta trent’anni fa da Guido
Martinotti1 non funziona più. Non esistono più nell’organizzazione
sociale del sapere tre diversi ‘mondi’ nettamente separati: quello del sapere
‘organizzato’ o ‘colto’, collegato alle strutture scientifiche ufficiali,
sistematico, prodotto negli ambienti accademici da soggetti (studiosi,
esperti, praticanti) che hanno il compito istituzionale di produrlo,
conservarlo, tramandarlo; quello del sapere ‘organizzativo’ o
‘burocratico’, che comprende le conoscenze accumulate nel corso della
propria attività dalle grandi organizzazioni formali, come le
amministrazioni pubbliche e le imprese, le cui finalità non accademiche
ma eminentemente pratiche lo facevano identificare con i saperi e le
pratiche professionali; infine il mondo del sapere ‘diffuso’, legato alla vita
delle comunità e dei gruppi sociali, destinato a variare rapidamente e a
essere altamente deperibile.
Non esistono più, almeno in questa forma, poiché sembra non esserci
più tra le diverse ‘forme’ di cultura una distinzione chiara a seconda dei
circuiti, di chi le produce e delle finalità che le ispirano. È sempre più
diffusa la sensazione di partecipare attivamente a un processo corale, in
cui tutti possiamo essere al tempo stesso produttori e utilizzatori di
cultura. Non è un caso se alcuni anni fa è stato coniato il termine prosumer
per indicare una nuova figura, al tempo stesso un po’ producer e un po’
consumer. Sembra diventato realtà quel mondo culturale senza gerarchie in
cui si sarebbero potute esprimere le potenzialità creative di ciascuno,
ipotizzato agli inizi degli anni Novanta da Pierre Lévy, che aveva parlato
di «un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata,
coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle
competenze»2. Nell’era del fai-da-te si è indebolita, talvolta fino quasi a
sparire, qualsiasi forma di mediazione culturale – quella esercitata dagli
insegnanti, dagli editori, dai giornalisti, dagli opinion makers. Ciò ha
avviato un processo di secolarizzazione della cultura che affranca da ogni
tutela e imposizione autoritativa.
Una costruzione e trasmissione orizzontale della cultura, dunque. Ma in
che modo, con quali effetti e con quali funzioni questa modalità
orizzontale opera rispetto alla precedente modalità verticale? Cercare di
capirlo impone prima di tutto lo sforzo di non cadere nella trappola che ci
spingerebbe a schierarci necessariamente con gli ‘apocalittici’ o con gli
‘integrati’3, con i tecnoentusiasti o i tardo-umanisti.
Non si scambi perciò per compiacimento, o nostalgia per il buon tempo
andato, il rilevare che – dal punto di vista della funzione – in passato la
cultura era intesa, in primo luogo, come agente di cambiamento e la
crescita culturale consisteva in una progressiva conquista degli strumenti
critici attraverso cui impadronirsi di contenuti articolati e complessi. Lo
ha descritto molto chiaramente Zygmunt Bauman qualche anno fa in una
sorta di breve storia sociale della cultura e degli usi che ne sono stati fatti4:
Il nome ‘cultura’ venne assegnato a una missione di proselitismo progettata e intrapresa nella
forma di tentativi di educare le masse e di raffinarne i costumi, facendo così progredire la società e
facendo avanzare ‘il popolo’ (ossia, coloro che stavano negli ‘strati bassi della società’) verso chi
stava in cima.
[...]
La ‘cultura’ comportava un accordo programmato e atteso tra coloro che possedevano la
conoscenza (o quanto meno presumevano di possederla) e gli ignorantoni (o quelli così descritti da
quanti erano convinti di avere i titoli per educarli); un accordo, sia detto per inciso, che recava una
sola firma, stabilito unilateralmente, e realizzato sotto la direzione esclusiva dell’appena formata
‘classe colta’, che accampava il diritto di plasmare il ‘nuovo e più avanzato’ ordine che stava
nascendo dalle ceneri dell’antico regime5.
1
Guido Martinotti, Informazione e sapere, Anabasi, Milano 1992, pp. 129-166, in particolare
pp. 145-147; il saggio era già apparso in La memoria del sapere, a cura di Pietro Rossi, Laterza,
Roma-Bari 1988, pp. 359-389.
2
Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 20022,
p. 34. L’edizione originale del volume risale al 1994.
3
Umberto Eco, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa,
Bompiani, Milano 1964.
4
Il riferimento è al primo capitolo, intitolato La cultura. Storia del concetto, del volume Per tutti i
gusti. La cultura nell’età dei consumi, Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 3-23. L’opera originale è del
2011 e apparve col titolo Culture in a Liquid Modern World per i tipi della Polity Press Ltd di
Cambridge.
5
Ivi, pp. 12-13.
6
Ivi, p. 23.
7
Ivi, p. 16. È qui che risuonano in modo evidente i toni della Scuola di Francoforte.
8
Ivi, pp. 13-14.
9
Così Armand Mattelart in La comunicazione globale (1996), Editori Riuniti, Roma 20032, p.
68: «per decollare, un Paese deve disporre di almeno dieci copie di giornali, cinque apparecchi
radio, due televisori, due posti al cinema ogni cento abitanti. Vettori di ‘comportamento
moderno’, i media sono visti come fattore di innovazione. [...] Questo credo assoluto in un
progresso esponenziale e nella virtù modernizzatrice dei media non fa altro che aggiornare le
vecchie concezioni etnocentriche delle teorie diffusioniste del XIX secolo. Il ‘primitivo’ è
diventato il ‘sottosviluppato’, e non gli rimane che imitare i modelli dei suoi fratelli maggiori».
3.
Un ecosistema globale
e territorializzato
1
Frédéric Martel, Smart. Inchiesta sulle reti (2014), Feltrinelli, Milano 2015, p. 372.
2
Cfr. Manuel Castells, Galassia Internet (2001), Feltrinelli, Milano 2002, pp. 126-130, dove si
parla di Internet come «supporto materiale all’individualismo in rete». Per una efficace
descrizione della network society, vedi Andrea Miconi, Teorie e pratiche del web, il Mulino,
Bologna 2018.
3
Espressione usata per la prima volta da Marshall McLuhan nel 1964 nel saggio Understanding
Media: The Extensions of Man: cfr. l’edizione italiana Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore,
Milano 1967.
4
Frédéric Martel, Smart cit., p. 358.
4.
I fili, il tessuto
1
Lamberto Maffei, Elogio della ribellione, il Mulino, Bologna 2016, pp. 27-28.
2
Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello (2010),
Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 31.
3
Cfr. Maryanne Wolf, Mirit Barzillai, The Importance of Deep Reading. What Will It Take for the
Next Generation To Read Thoughtfully – Both in Print and Online?, in «Educational Leadership»,
66, 6, 2009, pp. 32-37. Della Wolf si veda anche il notissimo volume Proust e il calamaro. Storia
e scienza del cervello che legge (2000), Vita e Pensiero, Milano 2009 e il più recente Lettore, vieni a
casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (2018), Vita e Pensiero, Milano 2018. Da non
trascurare che alle stesse conclusioni – ovvero che l’attività di lettura, che unisce una
componente storico-culturale a una componente propriamente neurofisiologica e fisica, non
avviene nello stesso modo su tutti i supporti; in particolare la lettura su schermo nelle modalità
tipiche del cosiddetto e-learning attuale ha pesanti ripercussioni sulla possibilità di lettura
approfondita e cioè sulla piena comprensione dei concetti, sulla loro articolazione e
complessità, sulla loro memorizzazione – è giunta una ricerca di 200 studiosi europei del
network E-read. Ne riferisce Lorenzo Tomasin, Testo digitale, tu ci inganni, in «Il Sole 24 Ore»,
24 febbraio 2019.
4
Si veda a questo proposito il volume di Alberto Oliverio, Il cervello che impara. Neuropedagogia
dall’infanzia alla vecchiaia, Giunti, Firenze 2017.
5
Gino Roncaglia, L’età della frammentazione. Cultura del libro e scuola digitale, Laterza, Bari-Roma
2018, p. 31. Il volume analizza a fondo il rapporto tra mondo digitale e formazione scolastica.
6
Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia
(2017), LUISS University Press, Roma 2018, p. 19. Corsivo dell’autore.
7
Cfr. Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), il Mulino, Bologna 1983.
8
https://video.repubblica.it/dossier/sanremo-2019/sanremo-2019-lo-sfogo-di-ultimo-con-i-
cronisti--vi-sentite-importanti-e-rompete-il-c/326741/327344.
9
Cfr. Federico Rampini, Rete padrona. Amazon, Apple, Google & co. Il volto oscuro della rivoluzione
digitale, Feltrinelli, Milano 2014.
10
La bibliografia sull’argomento acquista corposità crescente col passare degli anni; il capofila
della dottrina critica è Evgenij Morozov, del quale bisognerebbe leggere almeno Silicon Valley: i
signori del silicio (2016), Codice, Torino 2016, e L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di
internet (2011), Codice, Torino 2011. Vedi anche Jonathan Taplin, Move Fast and Break Things:
How Facebook, Google and Amazon Have Cornered Culture and What It Means for All of Us,
Macmillan, London 2017; Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando
il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2017; Katy Steinmetz, The bigger issue is your brain, in
«Time», 20 agosto 2018; Douglas Rushkoff, Piovono pietre sui bus di Google. Come la crescita è
diventata nemica della prosperità (2016), Stampa alternativa, Viterbo 2019.
5.
Il paradigma
della cultura orizzontale
Non c’è nulla che possiamo fare per ricomporre la frattura tra cultura
ufficiale e cultura di rete?
Alessandro Baricco, in un recente libro, ci invita ad abbandonare l’idea
di poter opporre resistenza al web e a costruire un nuovo umanesimo
digitale1.
Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o
fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande
chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare
diseguaglianze economiche ancora più grandi. [...] Lasciare che i più veloci vadano avanti, a creare
il futuro, riportandoli però tutte le sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del presente.
1
Alessandro Baricco, The Game, Einaudi, Torino 2018 (da qui sono tratte le citazioni che
seguono). Molte delle posizioni che ritroviamo in questo volume erano già presenti in un
lavoro di Frank Rose, Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di internet, Codice, Torino
2013 (The Art of Immersion: How the Digital Generation Is Remaking Hollywood, Madison Avenue,
and the Way We Tell Stories, W.W. Norton & Co., New York-London 2012).
2
Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da Tullio De Mauro, 6 voll., Utet, Torino
1999, sub voce.
3
Si vedano in particolare due suoi lavori: Conversation, Cognition and Learning: A Cybernetic
Theory and Methodology, Elsevier, Amsterdam 1975, e Conversation Theory: Applications in
Education and Epistemology, Elsevier, Amsterdam 1976.
4
Viene comunemente attribuita a Joseph Goebbels, ministro della propaganda di Hitler e
forse il più abile mago dell’era moderna nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa, la frase
secondo cui «Una bugia detta una volta è una bugia, ma ripetuta cento, mille, un milione di
volte diventerà una verità». La paradossale conferma di questa affermazione è che non è
possibile verificare la fondatezza di questa citazione e che nessuna fonte, né bibliografica né
online, può darcene la certezza. Non sappiamo quindi se il gerarca nazista l’abbia mai davvero
pronunciata. Tuttavia, la si trova riportata spessissimo di seconda mano, come facciamo anche
noi in questo caso.
5
Edelman Trust Barometer Global Report 2019, https://www.edelman.com/trust-barometer.
6
Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo (2018), Bompiani, Milano 2018, pp. 112-114.
7
Le otto competenze chiave indicate nella Raccomandazione del 18.12.2006 (Parlamento
europeo, Consiglio dell’Unione europea, Competenze chiave per l’apprendimento permanente,
2006/96/CE): comunicazione nella madre lingua, comunicazione nelle lingue straniere,
competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia, imparare ad imparare,
competenze sociali e civiche, spirito d’iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed
espressione culturale, competenza digitale. Nel 2015 la Commissione europea, assieme agli
Istituti nazionali di statistica, ha definito un nuovo quadro concettuale per la misurazione delle
competenze digitali. Le competenze sono articolate in 21 abilità, organizzate in 4 domini:
Informazione (accedere all’informazione online, effettuare ricerche online, articolare la
necessità di informazione online, localizzare l’informazione rilevante, selezionare in modo
efficace le risorse, navigare tra diverse fonti online, creare strategie personali di informazione);
Comunicazione (interagire attraverso l’impiego di una gamma variegata di dispositivi digitali e
applicazioni, comprendere come si articola, si realizza e gestisce la comunicazione digitale,
selezionare opportune modalità di comunicazione con l’impiego di strumenti digitali, essere
in grado di adoperare differenti formati comunicativi, adattare le modalità e la strategia di
comunicazione a specifici destinatari); Creazione di contenuti (creare contenuti in diversi
formati inclusi i multimedia, editare e perfezionare contenuti prodotti in prima persona o da
altri, esprimersi in modo creativo attraverso i media digitali e le tecnologie); Risoluzione di
problemi (identificare possibili problemi e risolverli con l’aiuto di strumenti digitali).
8
Cfr. Internet@Italia 2018. Domanda e offerta di servizi online e scenari di digitalizzazione, a cura
della Fondazione «Ugo Bordoni» e dell’Istat, pp. 30-31.
9
Henry Jenkins et al., Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo
(2010), Guerini e Associati, Milano 2010, p. 60.
10
Cfr. Annalisa Cicerchia, La partecipazione culturale degli adulti e l’appartenenza a reti, in Impresa
cultura. Comunità, territori, sviluppo. 14° Rapporto Annuale Federculture 2018, Gangemi, Roma
2018, p. 203.
11
I dati qui riportati, ove non venga indicata una fonte diversa, sono ricavati dal già citato
rapporto Internet@Italia 2018 e dalla sezione dell’indagine We Are Social relativa all’Italia,
https://wearesocial.com/it/blog/2019/01/digital-in-2019.
6.
La generazione delle reti
È fuor di dubbio che siamo parte di un’epoca che Peter Burke ha definito
di «esplosione della conoscenza», di rapida espansione e frammentazione
dei saperi, non solo per il diluvio di dati che la rete mette a disposizione
ma anche per l’aumento del numero di scienziati e studiosi, di libri
stampati, di e-book. Internet ha eroso e continuerà a erodere la
tradizionale distinzione tra le periferie, ‘le province’ e i centri del sapere
delle grandi metropoli1.
Al centro di questa vicenda ci sono i giovani: sono loro i portatori di
cambiamenti, sono loro a vivere in modo particolarmente accentuato tutti
i fenomeni ai quali si è fatto cenno. È indicativo che l’Istat per descrivere i
nati dal 1996 al 2015 abbia usato l’espressione ‘generazione delle reti’2,
giovani nati e cresciuti nell’era digitale, generazione sempre connessa, per
la quale «la rete è una commodity, data per scontata, e risulta quasi
impossibile vivere senza di essa»3. Questo vuol dire che è tramite la rete
che i giovani fanno tutto, e discutono anche di libri, film, serie tv, musica,
leggono recensioni, chat, consigli. Sono i dati a parlare: una ricerca
dell’AIE, l’associazione degli editori, effettuata nel 2018 ha confermato
che per la scelta di un libro un giovane lettore su due si fa consigliare da
social e community. Perciò, se parliamo di accesso al sapere, sembra oggi
difficile sopravvalutare il ruolo della rete, che è scena e attore, vettore di
cultura e formazione e fonte di produzione. È ormai dispiegata una forte
crossmedialità e una costruzione individuale della propria dieta mediale e
culturale. La rete è pratica attiva e nuovo spazio di espressione: recupero e
nuova composizione dei materiali, mash-up o remix4, o una forma di
bricolage nell’uso di app e tecnologie per una produzione sociale della
cultura. Le dinamiche di diffusione dell’informazione sono molto
articolate e per comprenderle bisogna frequentare i nodi e i luoghi dove si
discute e produce cultura in tutte le sue forme5. Senza magari l’eccessivo
ottimismo di qualche anno fa sulla capacità della rete di stimolare la
creatività o di ricomporre i legami sociali6. Anche e soprattutto
considerando l’incidenza dei mercanti dell’attenzione7. Stiamo parlando
delle piattaforme digitali che non per caso vengono definite matchmakers:
luoghi, strumenti che permettono alle persone di incontrarsi e che
traggono profitto dal valore economico generato da questo incontro, «sia
esso associato a uno scambio di un servizio o alla valorizzazione
dell’attenzione»8. La competizione per la cattura del nostro tempo libero
si è fatta feroce: l’attenzione è la valuta della nostra epoca9. La rete può
darci l’illusione di essere attori anche quando continuiamo a essere
spettatori abbattendo le gerarchie, come abbiamo visto. Ma chiediamoci
ancora una volta: quanto è uno spazio libero di partecipazione? Come
arriviamo a scegliere un prodotto invece di un altro, un libro o un
concerto? Nel mondo di ieri era chiaro: ci appoggiavamo ai giornali, alle
riviste, alla radio e alla televisione, ai critici, al passaparola. Oggi ci si
divide tra gli algoritmi che disegnano i nostri percorsi sulla base dei nostri
gusti e i consigli di amici, influencer, esperti.
Altro che età della disintermediazione! Siamo di fronte a un mediatore
diverso da quello che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento:
antigerarchico e con un potenziale di azione vastissimo. Anche se in un
contesto in cui domina la frammentazione, la rete ha moltiplicato gli
spazi, i luoghi in cui si parla di libri e film, di spettacoli teatrali e concerti:
nei blog e nei vari siti la recensione è la forma discorsiva più usata per
discutere. Ci si informa e si dà un giudizio, in un arco che va dalle stelline
e voti e metascores sino a giudizi lunghi ed elaborati. È vero che un
numero alto di blog può esaurirsi in una sorta di dilettantesco speaker’s
corner, ma è altrettanto vero che fioriscono versioni online di quelle che un
tempo erano le riviste specializzate. Amatorialità e professionalità, quindi,
blogger e mainstream reviewers. Con gli atout che la rete permette. Forse
non saranno gli scambi cui eravamo abituati con le riviste letterarie del
passato poiché scontano il limite della dispersione e della minore
influenza rispetto al mondo chiuso della società letteraria, ma hanno dalla
loro la multimedialità, l’ingresso in un flusso, una partecipazione più
aperta, meno cooptativa. Quanto alla qualità, la rete è una piazza, la rete è
un mercato. C’è davvero di tutto. E in questa piazza dovrà trovare un
ruolo il mediatore del futuro, che non dovrà più, probabilmente, solo
trasferire, filtrare, dare significato, ordine all’offerta culturale, ma essere
una figura capace di connettere, fornire collegamenti, link, far capire
l’architettura dell’informazione culturale, spiegare i percorsi cognitivi, la
cultura del web, la cultura digitale. Il mediatore del futuro si muoverà per
vie orizzontali e non verticali. Ma qualcosa della verticalità rimarrà. Ci
sarà bisogno – e torniamo all’alfabetizzazione, al media literacy – di
qualcuno che sia in grado di tenere testa a un sistema che può produrre
bolle, che può erodere la democrazia delle nostre istituzioni10. Stiamo
parlando, ad esempio, degli oligopoli costruiti dai grandi players, dei
poteri che dettano l’agenda, del fatto che in rete c’è senz’altro libertà di
azione individuale ma è un ambiente non predisposto, di per sé, alla parità
delle condizioni di partenza.
Certo non è e non sarà facile per i più giovani individuare mediatori di
qualità, intermediari seri e affidabili, abituati come sono a sistemi di
certificazione articolati, vischiosi, a-gerarchici, poco dominabili. Per i
millennials, come si scriveva poco fa citando i dati AIE, la voce dei critici
riconosciuti o di pagine culturali dallo status affermato equivale a quella
di tante altre fonti. Pochissimi basano le loro scelte di fruizione culturale
su recensioni tradizionali.
L’acquisizione di informazione, specie in un campo che vive di
accelerazioni come l’industria culturale nell’era digitale, con un’offerta
oceanica, con un ‘surplus cognitivo’11, è un’attività complessa, faticosa, e
il mediatore, magari nelle forme nuove che abbiamo appena descritto,
resta una figura a nostro avviso decisiva per un’appropriazione controllata
delle forme culturali altrui. Specie laddove, come oggi, il fruitore è un
consumatore culturale onnivoro, che orienta i suoi comportamenti verso
più direzioni12. Una funzione importante in questo senso potrebbero
rivestirla le biblioteche, anch’esse in parte vittime della buriana della
disintermediazione, ma che potrebbero tornare a essere il luogo
dell’information literacy, dell’educazione e dell’orientamento, della
bibliodiversità e del pluralismo culturale. Anche per questo è
incomprensibile il basso investimento sulle biblioteche di base e su quelle
scolastiche.
In un contesto come quello appena descritto, un’ultima parola ancora
sulla formazione. La scuola e le persone in formazione hanno bisogno di
conoscenza correlata e organizzata e l’esempio dei manuali scolastici è
molto utile poiché i modelli formativi influenzano la mentalità delle
future generazioni e i modelli di lettura e scrittura influenzano i modelli
formativi13. Non è un caso che Gino Roncaglia14, a proposito del dibattito
degli anni Ottanta sulla scrittura in rapporto al digitale, abbia ricordato i
tre paradigmi emersi – l’idea che le risorse digitali siano tali e tante da
rendere obsoleti i manuali tradizionali; l’autoproduzione di contenuti,
come ad esempio quella di manuali scolastici realizzati collaborativamente
da docenti e studenti che lavorano insieme; un ripensamento del libro di
testo scolastico, che ne salvi però i requisiti di autorialità e autorevolezza –
e abbia suggerito di seguire il terzo, perché consente di personalizzare i
percorsi e aumentare le voci in campo, ma senza perdere la bussola delle
competenze editoriali. Tornando sul tema del rapporto fra l’attività di
studio e la rete, Roncaglia ha recentemente negato, come già abbiamo
ricordato, che brevità e frammentazione – elementi che oggi prevalgono
tra i testi disponibili in rete – siano una caratteristica essenziale e
ineludibile del web, al cui interno si può invece perseguire quella ‘cultura
della complessità’, propria del libro e indispensabile per attivare un reale
processo formativo. «Contenuti e strumenti digitali – sostiene Roncaglia
– entrano, e devono entrare, nella scuola, come già fanno nella vita di
ciascuno. Una scuola che ignorasse il digitale sarebbe fuori della realtà.
Questo non implica affatto però che qualunque strumento o contenuto
digitale sia automaticamente buono perché digitale. Quella con cui
abbiamo a che fare è una galassia estesa e variegata, include ottime cose
ma anche molta spazzatura»15. Roncaglia rifiuta l’azione di
spacchettamento dei manuali effettuata da molti insegnanti e
l’autoproduzione di dispense artigianali: «Il digitale a scuola è stato spesso
presentato anche come uno strumento di decostruzione della didattica
tradizionale. Ma senza buone strategie di ricostruzione è improduttivo e
velleitario: un digitale debole, orientato solo alla granularizzazione dei
contenuti, produce una scuola debole e persa nella frammentazione.
L’esatto contrario di quello di cui abbiamo bisogno».
In conclusione: se la rete deve essere, come già è diventata, il terreno su
cui ci si forma, ci si accosta alla cultura e si sviluppa la partecipazione
culturale, spetta solo a noi il compito di utilizzarla al meglio, dando
complessità anche al digitale. Come sempre, i mezzi non sono né buoni
né cattivi, e gli effetti che essi producono sono soltanto il risultato del
modo in cui li usiamo.
1
Peter Burke, Dall’Encyclopédie a Wikipedia (2012), il Mulino, Bologna 2013.
2
Giorgio Alleva, Giovanni A. Barbieri, Generazioni. Le italiane e gli italiani di oggi attraverso le
statistiche, Donzelli, Roma 2016, pp. X sgg.
3
Ivi, p. 191.
4
Andrea Miconi, Teorie e pratiche del web cit., pp. 112 sgg.
5
Vedi Henry Jenkins, Sam Ford, Joshua Green, Spreadable media, New York University Press,
New York 2013.
6
Si veda Andrea Miconi, Teorie e pratiche del web cit.
7
Tim Wu, The Attention Merchants: From the Daily Newspaper to Social Media, How Our Time and
Attention Is Harvested and Sold, Atlantis Books, London 2017.
8
Marco Delmastro, Antonio Nicita, Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo, il Mulino,
Bologna 2019, p. 58.
9
Beniamino Pagliaro, Attenzione! Capire l’economia digitale ti può cambiare la vita, Hoepli, Milano
2018, p. 9.
10
La letteratura sull’argomento è sempre più corposa; per tutti vedi Jamie Bartlett, The People
vs. Tech: How the Internet Is Killing Democracy (and How We Save It), Ebury Press, London 2018.
11
Clay Shirky, Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale (2010), Codice, Torino
2010.
12
Marc Verboord, The Legitimacy of Book Critics in the Age of the Internet and Omnivorousness:
Expert Critics, Internet Critics and Peer Critics in Flanders and The Netherlands, in «European
Sociological Review», 26, 6, 2010, pp. 623-637.
13
Giacomo Stella, Tutta un’altra scuola! Quella di oggi ha i giorni contati, Giunti, Firenze 2016.
14
Gino Roncaglia, [Intervento al Seminario] Il futuro dei libri. Il libro digitale, 22 gennaio 2016,
Senato della Repubblica, Roma 2017, pp. 36-45.
15
Gino Roncaglia, L’età della frammentazione cit., p. 9.
7.
Una nuova civiltà?
1
Alessandro Baricco, The Game cit. Si veda anche il romanzo di Giacomo Mazzariol, Gli
squali, Einaudi, Torino 2018, che ha per protagonista la generazione dei ‘ragazzi di inizio
millennio’.
2
Anche se Baricco – ma in realtà a leggere la letteratura specializzata lo si fa da anni – parla di
‘uomo fatto diversamente’. Un affresco riassuntivo delle mutate condizioni dell’adolescenza è
in Massimo Ammaniti, Adolescenti senza tempo, Raffaello Cortina, Milano 2018. Utili anche
pubblicazioni più recenti come Vittorio Lingiardi, Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri,
Utet, Torino 2019, e Maurizio Fea, Spegni quel cellulare. Le tecnologie tra cattive abitudini e
dipendenze, Carocci, Roma 2019.
8.
La parola scritta,
i libri, la lettura
1
Cfr. Gian Arturo Ferrari, Libro, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
2
Tra i contributi più recenti, si veda l’articolo di Sarah Nicolas, These Are the Book and Reading
Statistics that Show Who Readers Are (https://bookriot.com/2019/02/14/book-and-reading-
statistics/), che raccoglie e commenta diverse statistiche, soprattutto statunitensi, su libri e
lettura.
3
Resta fondamentale lo studio di Jakob Nielsen, F-Shaped Pattern For Reading Web Content,
condotto nel 2006, per il quale si rimanda all’url https://www.nngroup.com/articles/f-shaped-
pattern-reading-web-content-discovered/. Tra le tante ricerche più recenti si segnala
https://www.go-gulf.ae/blog/how-people-read-content-online/.
4
Si legga in proposito Le reti della lettura. Tracce, modelli, pratiche del social reading, a cura di Chiara
Faggiolani e Maurizio Vivarelli, Editrice Bibliografica, Milano 2016. Per una panoramica
pressoché completa di esperienze e strumenti cfr. Viola Marchese, Leggere social. Una mappatura
delle pratiche di lettura condivisa in rete, in «DigitCult, Scientific Journal on Digital Cultures», 3, 2,
2018, pp. 37-54.
5
Adolfo Morrone, Miria Savioli, La lettura in Italia, Editrice Bibliografica, Milano 2008, p. 49.
6
Associazione Italiana Editori, 46. Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia, AIE, Milano 2019.
7
Cfr. https://ebookfriendly.com/reading-habits-of-millennials-generation-infographic/ e
https://geediting.com/world-reading-habits-2018/.
8
Ci permettiamo di rinviare a Giorgio Zanchini, Leggere, cosa e come. Il giornalismo e
l’informazione culturale nell’era della rete, Donzelli, Roma 2016.
9.
La mutazione digitale
L’evoluzione digitale della specie1 non riguarda solo gli oggetti della
lettura ma il concetto stesso di lettura e, più in generale, di accesso alla
conoscenza. Va ricordato che nel corso dell’ultimo decennio sono
radicalmente cambiate le condizioni in cui questo accesso avviene. La vera
rivoluzione – la ‘quinta rivoluzione’, potremmo dire, parafrasando Gino
Roncaglia e partendo da dove si ferma un suo interessante libro del 20102
– è dovuta alla connessione mobile, come già notavamo in precedenza. Il
fatto di poter essere ‘sempre connessi’ incide sui comportamenti delle
persone molto di più di quanto sia accaduto con la diffusione di Internet
tramite la rete fissa: fino a quando bisognava sedersi alla scrivania,
accendere un computer e collegarsi alla rete, l’attività di navigazione si è
svolta all’interno di limiti spazio-temporali ben determinati ed era il
risultato di una scelta consapevole. Se ci pensiamo bene, comportava una
decisione simile a quella di sedersi in poltrona per leggere un libro: era
‘una delle cose’ che potevamo fare per impiegare il nostro tempo. Ora la
rete è la dimensione permanente della nostra esistenza, la veicola, e ciò si
sovrappone a tutte le altre attività che svolgiamo, mentre lavoriamo,
mentre ci spostiamo, mentre mangiamo, e così via: forse è inutile
sottolineare che questo vale per i giovani molto di più che per gli adulti3.
Alcuni oggetti entrati nell’uso quotidiano e che ci sembra di maneggiare
da sempre, hanno in realtà circa dieci anni o poco più: l’iPhone è del
2007, il Kindle del 2009, l’iPad del 2010. Forse nessun altro apparato
tecnologico è riuscito in così poco tempo ad avere effetti tanto invasivi. Si
è già accennato alla frequenza con cui rivolgiamo lo sguardo allo schermo
dello smartphone: un’indagine compiuta alla fine del 2017
dall’Associazione Di.Te. (Associazione nazionale dipendenze
tecnologiche, gap e cyberbullismo) ha rivelato che il 51% dei ragazzi tra i
15 e i 20 anni ha difficoltà a prendersi una pausa dai dispositivi elettronici,
tanto da arrivare a controllare lo smartphone in media 75 volte al giorno,
mentre il 7% lo fa addirittura 110 volte al giorno.
Una vera e propria ‘mutazione ambientale’. La totale immersione nella
rete, la rapidità con cui si può accedere a ogni genere di contenuti in
forma interattiva, e la multifunzionalità degli smartphone e dei tablet
hanno di colpo reso obsoleto e vecchio tutto il resto. Per chi cresce e si
forma in questa era il libro non avrà più la funzione di principale
strumento attraverso il quale produrre conoscenza e accedere ad essa. Va
da sé che il libro ha alcune caratteristiche ben precise, che potremmo
sintetizzare col termine ‘complessità’. La lettura di un libro richiede oggi
lo stesso tempo che richiedeva secoli fa e comporta una concentrazione e
un’attenzione esclusiva: ciò sembra incompatibile, forse perfino
insopportabile, per gli stili di vita contemporanei. Vale per i giovani, ma
vale e varrà sempre di più anche per gli adulti perché stanno venendo
meno le condizioni oggettive per cui i libri possano continuare ad essere il
principale veicolo della comunicazione culturale.
Eppure non si è mai avuto un rapporto con la parola scritta così
continuo e intenso. La comunicazione scritta, soprattutto attraverso l’uso
di short messaging, è divenuta la modalità di comunicazione
preponderante: ormai 6 persone su 10 comunicano regolarmente nel
tempo libero tramite SMS, e-mail, Skype, instant messaging e social
network. Una quota pari al 4,5% della popolazione italiana dichiara di
usare regolarmente tutte le cinque modalità di comunicazione appena
citate. Tra i giovani in età compresa tra i 18 e i 24 anni la quota di
‘pluriutilizzatori’ raggiunge il 13,8%, ma prevale soprattutto l’utilizzo
regolare (giornaliero e settimanale) dei social network e degli instant
messaging (80%). Non si può dire, dunque, che non si legga e non si
scriva, né che guardare continuamente lo schermo sia necessariamente un
processo sottrattivo. La generazione nata nella prima metà del Novecento
tende a sottovalutare le potenzialità di tale rivoluzione perché applica le
proprie categorie a un mondo del quale ignora codici, regole, e
soprattutto modo di relazionarsi4.
Ma l’aspetto che qui interessa approfondire riguarda la qualità della
lettura, come forma di fruizione culturale. La lettura di libri è una pratica
formativa, che richiede applicazione nella ricerca di relazioni con altre
conoscenze o esperienze, che ci obbliga a ‘stare sulle parole’ per un tempo
non breve. Ciò può accadere, ovviamente, anche in ambiente digitale, ma
il fatto che in rete vi sia una grande quantità di contenuti facilmente
accessibili e prontamente disponibili può farci credere che non ci sia
bisogno di altro, che non valga la pena di ‘perdere tempo’ con strumenti
lenti come i libri, e indurci ad accontentarci del molto che ci viene dato
dalla rete. Ricchezza e facilità ci rendono passivi? Torniamo così al
concetto di ‘pazienza cognitiva’, già enunciato in precedenza: la
complessità che è propria del libro non riguarda solo la sua architettura,
ma anche il fatto che esso ci predispone ad appropriarci progressivamente
di contenuti articolati e complessi, attraverso uno sforzo di esercizio delle
nostre capacità critiche.
Sarebbe però una semplificazione eccessiva ritenere che la complessità
sta al libro come la superficialità sta al testo digitale. È una questione di
tempo: si appronteranno nuovi e più ricchi prodotti editoriali, ma
soprattutto cambieranno le competenze e gli strumenti del fruitore della
rete. Una lettura multitasking contaminata con altre attività e frutto
dell’integrazione di canali e linguaggi comunicativi diversi stanno
producendo cambiamenti di ordine cognitivo che possono consentire di
sviluppare attitudini e abilità nuove che prenderanno il posto di altre che
si stanno perdendo. Bisogna esserne consapevoli e capire, ad esempio, che
la lettura in rete tollera (o, addirittura, richiede) che venga lasciata la porta
aperta a ‘distrazioni’ che la lettura su carta non consente. Ciò può
sviluppare una capacità di governo dell’accesso alla conoscenza di
carattere più intuitivo, un’attitudine a un tipo di attenzione selettiva e
alternata. L’alternativa dettata dalla rete non è perciò fra complessità e
superficialità ma, semmai, fra attività e passività. Scorrere velocemente i
testi con lo sguardo non è la stessa cosa che leggerli.
Parlando delle forme di sapere che stiamo perdendo, il linguista Raffaele
Simone ha scritto in modo netto che «guardare è più facile che leggere»5 e
che quindi dobbiamo abituarci all’idea che si affermino nuovi ‘stili
conoscitivi’, fondati sulla simultaneità e sulla iconicità, dove la visione
delle immagini diventa la fonte primaria per acquisire conoscenze. Non
deve sorprendere, quindi, se i file video coprono ormai il 58% del traffico
di Internet. Dal canto suo, in un recente saggio sugli adolescenti, lo
psicoanalista Massimo Ammaniti ha invitato alla prudenza sul tema delle
eventuali modificazioni delle strutture cerebrali, in quanto non tutti gli
adolescenti reagiscono allo stesso modo al multitasking: se per alcuni
interferisce chiaramente sulla capacità di apprendimento, per altri può
innescare un processo positivo. Sembrerebbe che il multitasking negli
adolescenti crei difficoltà di performance solo quando,
contemporaneamente, sia in atto un impegno cognitivo più complesso6.
Da non trascurare è infine la preoccupazione di diversi neuroscienziati: il
cervello può ricevere in media solo sette informazioni indipendenti
contemporaneamente, e ogni impulso in più è un ostacolo per la
memorizzazione.
Naturale conseguenza di questa trasformazione degli stili di
apprendimento è un nuovo modo di studiare, attività che spesso viene
praticata in ambienti di rete. A volte si tratta solo di un affiancamento a
forme di didattica tradizionale (blended learning), dove si realizza un mix di
ambienti d’apprendimento diversi, combinando il metodo frontale in aula
con attività mediata dal computer. In molti casi, l’effetto pervasivo
dell’ambiente digitale sovverte le gerarchie nella metodologia
dell’apprendimento: le generazioni precedenti erano abituate a una
sequenza che dava la precedenza alla spiegazione da parte dell’insegnante
e/o allo studio della manualistica da parte dello studente, che solo in un
secondo momento provava a mettere in pratica ciò che aveva appreso,
attraverso le esercitazioni. Ora non è più così: nel mondo digitale si
procede per tentativi e si impara sperimentando (learning by doing).
1
Cfr. l’11° Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, L’evoluzione digitale della specie,
presentato nell’ottobre del 2013.
2
Il riferimento è a Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Laterza,
Roma-Bari 2010. Pur a distanza di tempo, questo lavoro rimane la più lucida analisi dei
cambiamenti che l’avvento degli e-book comporta, sviluppata in confronto con le tre
precedenti rivoluzioni vissute dal mondo dei testi e della lettura: il passaggio dall’oralità alla
scrittura, quella dal rotolo al libro paginato, quella dal manoscritto al libro a stampa
tipografica.
3
Un adolescente su quattro dichiara di essere perennemente collegato. Cfr. Paola Bignardi,
Elena Marta, Sara Alfieri, Generazione Z. Guardare il mondo con fiducia e speranza, Vita e
Pensiero, Milano 2018, p. 85.
4
Tra i tanti contributi sul tema, si veda Massimo Mantellini, Bassa risoluzione, Einaudi, Torino
2018, pp. 49 sgg.; dei preziosi lavori di danah boyd qui in Italia è reperibile It’s complicated. La
vita sociale degli adolescenti sul web (2014), Castelvecchi, Roma 2014, e ancora Giovanni Boccia
Artieri, Facebook per genitori, 40K, Milano 2011, e Fenomenologia dei social network. Presenza,
relazioni e consumi mediali degli italiani online, Guerini e Associati, Milano 2017. Sul duplice tema
dell’attenzione e delle modifiche nell’apprendimento cfr. il recente Marco Gui, Il digitale a
scuola. Rivoluzione o abbaglio?, il Mulino, Bologna 2019.
5
«La ‘fatica di leggere’ non può competere con la ‘facilità di guardare’»: Raffaele Simone, La
terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 84. Forse il libro
‘capofila’ di questo approccio è Homo videns di Giovanni Sartori, Laterza, Roma-Bari 1997,
che ha generato una gran mole di lavori sul tema.
6
M. Ammaniti, Adolescenti senza tempo cit., pp. 169 sgg.
10.
La cultura del fare
1
In una recente indagine sui modi di vivere la cultura e l’arte si legge come sia più la
cosiddetta Generazione Z (quella che include i giovani di età inferiore ai vent’anni) della
Generazione Y (fino ai 30 o poco oltre) a svolgere attività creative in rete. Cfr. Alfredo Valeri,
Millennials & Gen z, modi di vivere Arte e Cultura. L’indagine di Civita, in Millennials e Cultura
nell’era digitale, Marsilio, Venezia 2018, pp. 15-51.
2
http://fab.cba.mit.edu/about/charter/.
3
http://www.makerfairerome.eu/it/. La settima edizione si è tenuta dal 18 al 20 ottobre 2019
alla Fiera di Roma.
11.
I giovani e l’informazione
Fig. 1. Aumento o diminuzione dell’utenza complessiva dei media, 2007-2018 (valori percentuali)
Fonte: indagini Censis 2007-2018.
1
«I giornali – per dirla gramscianamente – sono intellettuali collettivi. La storia della cultura
italiana tra Otto e Novecento sarebbe fortemente incompleta, se prescindesse dal giornalismo,
che è innanzitutto un formidabile fatto organizzativo, ma in taluni momenti ha saputo
esprimersi con gli accenti generosi della passione e del convincimento etico». Alberto Asor
Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Laterza, Roma-Bari
2009, p. 123.
2
La bibliografia è già molto ampia; si vedano, oltre agli articoli sul tema pubblicati sul n.
4/2019 della rivista «il Mulino», Sara Bentivegna, Giovanni Boccia Artieri, Le teorie delle
comunicazioni di massa e la sfida digitale, Laterza, Bari-Roma 2019; Lella Mazzoli, Il patchwork
mediale. Comunicazione e informazione fra media tradizionali e media digitali, FrancoAngeli, Milano
2012; Id., Cross-news. L’informazione dai talk show ai social media, Codice, Torino 2013; Michele
Mezza, Giornalismi nella rete. Per non essere sudditi di Facebook e Google, Donzelli, Roma 2015; Id.,
Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto, Donzelli, Roma 2018; il n. 1/2014
di «Problemi dell’informazione», in particolare il saggio di Carlo Sorrentino, Arianna
Ciccone, Contro i giornali. Per amore del giornalismo,
https://www.festivaldelgiornalismo.com/contro-i-giornali-per-amore-del-giornalismo/;
indispensabile è la ricerca statunitense: per un quadro generale è opportuno frequentare i siti
del Nieman Lab e della «Columbia Journalism Review»; ci permettiamo infine di rimandare a
Giorgio Zanchini, Leggere, cosa e come cit.
3
https://news-italia.it ; vedi anche gli inquadramenti teorici dei dati contenuti in Raccontare la
cultura. Come si informano gli italiani, come si comunicano i musei, a cura di Lella Mazzoli,
FrancoAngeli, Milano 2018.
4
53° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, FrancoAngeli, Milano 2019.
5
Cfr. ivi, p. 449.
6
Vedi Report sull’editoria dell’ufficio studi di Mediobanca,
www.mbres.it/sites/default/files/resources/rs_Focus-EDITORIA-2015.pdf.
7
https://www.mbres.it/sites/default/files/resources/Presentazione_GDO%202019.pdf.
8
Ci si riferisce in particolare ai dati del Pew Research Center, del Nieman Lab, del Reuters
Institute for the Study of Journalism, della «Columbia Journalism Review».
9
https://www.journalism.org/2018/06/06/archived-state-of-the-news-media-reports/.
10
https://www.pewresearch.org/topics/state-of-the-news-media/.
11
Cfr. «The Economist», 21 dicembre 2019.
12
Cfr. Eugenio Cau, Google ha fatto 4,7 miliardi di entrate grazie alle notizie? Un report (via New
York Times) riattizza la guerra tra news e piattaforme digitali, in «Il Foglio», 11 giugno 2019.
13
Dati pubblicati e commentati in Poll: How Does the Public Think Journalism Happens?, in
«Columbia Journalism Review», 1, 2019, pp. 68-75.
12.
Porte diverse:
come cambia l’accesso
1
Vedi Ivo Burum, Democratizing Journalism Through Mobile Media: The Mojo Revolution,
Routledge, London-New York 2016, pp. 180 sgg.
2
Carlo Sorrentino, Di che si parla? Forme e luoghi del discorso pubblico, in «il Mulino», 4, 2019, p.
549.
3
Cfr. Matt Carlson, Journalistic Authority: Legitimating News in the Digital Era, Columbia
University Press, New York 2017.
4
Cfr. Steve Hill, Paul Bradshaw, Mobile-First Journalism: Producing News for Social and Interactive
Media, Routledge, London-New York 2018, e Sue Greenwood, Future Journalism: Where We
Are and Where We’re Going, Routledge, London-New York 2017. Tra i più recenti testi italiani
suggeriamo Davide Mazzocco, Giornalismo online. Crossmedialità, blogging e social network: i nuovi
strumenti dell’informazione digitale, Centro di documentazione giornalistica, Roma 2018, e
Comunicare digitale. Manuale di teorie, tecniche e pratiche della comunicazione, a cura di Daniele
Chieffi, Centro di documentazione giornalistica, Roma 2018.
5
Si veda, chiaro e aggiornatissimo, Carlo Sorrentino, Le smarginature del giornalismo, in «il
Mulino», 1, 2019, pp. 121-126; vedi anche Maurizio Boldrini, Dalla carta alla rete andata e
ritorno. Giornalismo e nuovi media, La casa Usher, Firenze-Lucca 2017.
6
Vedi How Youth Navigate the News Landscape, Knight Foundation Report, 1° marzo 2017. La
ricerca si basa su un campione di persone tra i 14 e i 24 anni.
7
Per una rassegna vedi Seth C. Lewis, Logan Molyneux, A Decade of Research on Social Media
and Journalism: Assumptions, Blind Spots, and a Way Forward, in «Media and Communication», 6,
4, 2018, pp. 11-23.
8
Journalism in an Era of Big Data: Cases, Concepts, and Critiques, a cura di Seth C. Lewis,
Routledge, London-New York 2017, e Alfred Hermida, Mary Lynn Young, Data Journalism
and the Regeneration of News, Routledge, London-New York 2019.
9
Cfr. How Millennials Get the News, American Press Institute,
https://www.americanpressinstitute.org/publications/reports/survey-research/millennials-
news/.
10
Cfr. Pankaj Mishra, L’età della rabbia (2017), Mondadori, Milano 2018.
11
Massimo Ammaniti, Adolescenti senza tempo cit., p. 157.
12
In Italia è molto bassa la percentuale di coloro che pagano (4,9%) o pagherebbero per
accedere all’informazione. Un po’ più alta per la fascia giovanile (6,9%), ma ancora troppo
bassa per non suscitare dubbi sul sistema.
13
Si rimanda agli interventi sullo Stanford History Education Group,
https://sheg.stanford.edu/publications/magazine-articles, e anche a Censis, 15° Rapporto sulla
comunicazione cit., pp. 12 sgg.
14
Vedi il rapporto di Reuters Institute e Università di Oxford, Measuring the Reach of “Fake
News” and Online Disinformation in Europe, febbraio 2018,
https://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/our-research/measuring-reach-fake-news-and-
online-disinformation-europe.
15
Andrea Ceron, Vincenzo Memoli, Flames and Debates: Do Social Media Affect Satisfaction with
Democracy?, in «Social Indicators Research», 1, 2016, pp. 225-240. Tra i testi più generali:
Andrea Miconi, Teoria e pratiche del web cit.; Cass R. Sunstein, #Republic. La democrazia nell’epoca
dei social media (2017), il Mulino, Bologna 2017; Walter Quattrociocchi, Antonella Vicini,
Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, FrancoAngeli, Milano 2016;
Alfonso Fuggetta, Cittadini ai tempi di Internet. Per una cittadinanza consapevole nell’era del digitale,
FrancoAngeli, Milano 2018; e i rapporti del 2018 dell’Agcom. Vedi anche Roberto Basso,
Dino Pesole, L’economia percepita. Dati, comunicazione e consenso nell’era digitale, Donzelli, Roma
2019, pp. 108 sgg. Un testo generale molto ricco e stimolante è Timothy Garton Ash, Libertà
di parola. Dieci principi per un mondo connesso (2016), Garzanti, Milano 2017. Altri spunti in
Massimo Gaggi, Homo premium. Come la tecnologia ci divide, Laterza, Bari-Roma 2018, e
Francesco Nicodemo, Disinformazia. La comunicazione al tempo dei social media, Marsilio,
Venezia 2017.
16
A tal proposito è molto interessante la ricerca effettuata da Nicola Righetti, Fabio Giglietto,
Giada Marino, L’Europa fra casa e gabbia. Tono, frame ed engagement delle notizie sulle istituzioni
europee nei mesi precedenti le elezioni 2018, in «Problemi dell’informazione», 1, 2019, pp. 87-116.
Vedi anche Mario Morcellini, Odio ergo voto, in «Il Foglio», 29 marzo 2018.
17
Spiega bene come funziona il giornalismo oggi Alexander Spangher, What the Paris Attacks
Tell Us about How Foreign News Gets Made, in «Columbia Journalism Review», 4 aprile 2016,
https://www.cjr.org/analysis/map_graphic.php.
18
Carlo Sorrentino, Le smarginature del giornalismo cit., p. 123.
19
Pierre Nora, Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato, La Scuola, Brescia
2016, p. 4.
20
Di grande interesse Emily J. Bell, Taylor Owen, Peter D. Brown, Codi Hauka, Nushin
Rashidian, The Platform Press: How Silicon Valley Reengineered Journalism,
https://academiccommons.columbia.edu/doi/10.7916/D8R216ZZ, 29 marzo 2017, e
francamente preoccupante Jonathan Taplin, Move Fast and Break Things cit. Per un’analisi più
ottimistica si vedano i saggi e gli articoli di Bill Dutton.
21
Anche in questo caso la bibliografia comincia ad essere molto ampia; tra le letture utili
Beniamino Pagliaro, Attenzione! cit., e Giovanni Pitruzzella, La libertà d’informazione nell’era di
Internet, in «Media Laws. Rivista di diritto dei media», 1, 2018, in particolare il par. 6.
22
Alexander Coppock, Emily Ekins, David Kirby, The Long-lasting Effects of Newspaper Op-Eds
on Public Opinion, in «Quarterly Journal of Political Science», 13, 1, 2018, pp. 59-87,
http://dx.doi.org/10.1561/100.00016112.
23
Censis-UCSI, 14° Rapporto sulla comunicazione. I media e il nuovo immaginario collettivo,
FrancoAngeli, Milano 2017.
24
Carlo Sorrentino, Introduzione, in Id. (a cura di), Le parole della comunicazione, Pacini, Pisa
2018, p. 12.
25
Ivi, p. 36 e, dello stesso autore, La società densa. Riflessioni intorno alle nuove forme di sfera
pubblica, Le Lettere, Firenze 2008.
13.
Intrattenimento
e partecipazione culturale
1
Per una sintesi dei vari modi di classificare le attività culturali, e anche per un quadro delle
difficoltà classificatorie, è utile leggere L’arte di produrre Arte. Imprese culturali a lavoro, a cura di
Pietro Antonio Valentino, Marsilio, Venezia 2012, e Gian Paolo Manzella, L’economia
arancione. Storie e politiche della creatività, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017.
2
I dati provengono dalle indagini Digital Trends e Sala e salotto, curate da Ergo Research,
https://www.ergoresearch.it/. I risultati sono stati pubblicati sul quotidiano «la Repubblica» il
1° aprile 2018. Utili anche i dati contenuti in Millennials e Cultura nell’era digitale cit.
14.
La musica
C’è una frase del celebrato critico del «New Yorker» Alex Ross che,
seppur pensata per un altro contesto e un altro momento, può far capire la
difficoltà che incontra chi volesse mappare l’universo dei consumi
musicali: «Nel XX secolo la vita musicale si è disintegrata in una massa
brulicante di culture e sottoculture, ciascuna con le sue regole e il suo
gergo. Alcuni generi hanno ottenuto maggior popolarità di altri; nessuno
è riuscito a esercitare un vero richiamo di massa. Ciò che delizia un
gruppo di persone fa venire il mal di testa a un altro. I pezzi hip hop
entusiasmano gli adolescenti e atterriscono i loro genitori. I classici che
spezzano il cuore a una generazione risultano insulsamente kitsch alle
orecchie dei nipoti»1.
Oggi la vastità, la varietà, l’articolazione del campo musicale è
impressionante, gli interessi economici enormi, la pratica e le persone che
la ascoltano quasi incalcolabili. Per l’osservatore non specialista, e forse
persino per lo specialista, orientarsi è difficilissimo. Generi e sottogeneri
si moltiplicano, cambiano di continuo, cosicché le parole di Ross sono
quasi una minimizzazione rispetto alla situazione attuale. La ricognizione
non può essere che incompleta, parziale, soggettiva.
La musica e i consumi musicali sono stati per la sociologia della cultura il
proprio campo di allenamento, di esercizio, di pratica, il più studiato, il
più monitorato, il più funzionale2. Probabilmente perché la musica –
l’espressione suonerà abusata ma ha un suo fondamento – è un linguaggio
universale, è ascoltata più o meno a tutte le età, in tutti i contesti, da tutti
i ceti3, si presta dunque ad essere il più completo dispositivo di analisi dei
consumi e dei cambiamenti. Sino a qualche decennio fa c’erano
correlazioni abbastanza leggibili tra classi sociali, istruzione e consumi
musicali, e quindi questi ultimi sono stati uno strumento molto utile per
leggere la società. Poi, con l’indebolirsi di gerarchie culturali e recinti, con
l’esplosione delle forme musicali più diverse, con le accelerazioni di
produzione e fruizione portate da Internet, il paesaggio si è fatto a dir
poco articolato, e le descrizioni, le cartografie, più imprecise. È un
mondo in cui la musica è sempre più accessibile e ubiqua, e il mercato
sempre più eclettico e complesso, tanto che la segmentazione del
pubblico, così utile ai fini del marketing, si è fatta attività molto meno
incisiva di qualche anno fa4.
In altri capitoli il nostro modo di procedere ha spesso preso le mosse dai
dati ed è approdato poi al tentativo di ordinarli, comprenderli, analizzarli.
In questo caso, al contrario, partiremo dalla pratica di ascolto ma anche
del fare musica. Il che significa sentire direttamente la voce dei giovani
che parlano di musica. Ci siamo confrontati con molti di loro, di
ambienti diversificati, gusti differenti, età diverse, con giovani che
suonano e cantano, con giovani che ascoltano, con quelli che frequentano
la musica dal vivo e quelli che la seguono solo sulla rete. Le loro voci,
dunque, e poi il tentativo di ordinarle attraverso statistiche sui consumi,
dati, numeri.
Alle domande tradizionali – Che musica ascoltate? Come la ascoltate?
Dove la ascoltate? Che ruolo ha nella vostra vita? La comprate? – sono
state date le risposte più varie, perché ovviamente contano ancora le
esperienze biografiche, i gusti, la formazione, l’istruzione, gli ambienti
che si frequentano, il ceto e il censo5.
Però un elemento, certo non sorprendente, accomuna tutti: la musica
oggi si ascolta, si trasmette, si commenta, si comunica soprattutto sulla
rete. È il supporto ad essere cambiato, è la tecnologia ad essere stata il
fattore di mutamento decisivo, è questo il cambiamento più evidente.
Anche qui – e il fatto che si parli di oltre 15 anni fa è molto indicativo –
prenderemo a prestito una descrizione di Ross: «Nel 2003 ho comprato
un iPod e ho cominciato a riempirlo di musica tratta dalla mia collezione
di cd. L’apparecchio, all’epoca piuttosto nuovo, aveva una funzione
chiamata shuffle, che saltava in modo casuale da un brano all’altro. C’era
qualcosa di affascinante nell’abdicare al controllo, lasciando decidere
all’iPod cosa riprodurre. Quell’aggeggio sfondava le barriere stilistiche,
cambiando il mio modo di ascoltare [...]. Sull’iPod la musica si trova
liberata da tutte le fatue autodefinizioni e le manie di grandezza [...].
Molti giovani ascoltatori sembrano pensarla come l’iPod. Non si
consacrano più a un unico genere, che promette di plasmare il loro essere
o di salvare il mondo»6.
In questi 15 anni le modificazioni sono state profonde, rete e dispositivi
hanno cambiato lo scenario, e le frasi di Ross sembrano paradossalmente
preistoriche. Contengono però lezioni ancora utili: sulla tecnologia, che è
il principale veicolo di mutamento e orientamento; sulla caduta di
barriere e confini di genere e stile, provocata da cause diverse e anche
dalle innovazioni tecnologiche; sui consumi giovanili, quasi naturaliter
onnivori.
C’è una riflessione che è opportuno aggiungere. La funzione shuffle,
quasi un’epitome del nostro modo di ascoltare, leggere, guardare, è
probabilmente più irreggimentata oggi di ieri, più soggetta a vincoli, a
percorsi prefissati. Perché nei nostri iPod di 15 anni fa c’era il materiale
che noi avevamo scelto di metterci, mentre oggi quasi sempre ci affidiamo
ai percorsi suggeritici dalle piattaforme, da YouTube a Spotify, certo in
parte basati sulle nostre scelte iniziali ma poi fortemente orientati dagli
algoritmi7.
Oggi i giovanissimi, tra i 12 e i 15 anni di età, si muovono davvero con
una logica, consapevole o meno, di rete. Ascoltano un brano nei luoghi o
sulle fonti più disparate, da Instagram alla radio tradizionale, da YouTube
a Spotify a Deezer ad Apple Music a Pandora; lo cercano, spesso con l’app
Shazam, altre volte attraverso le parole del testo su Google, o ancora
chiedendo agli amici; lo ascoltano su YouTube se online, o attraverso app
– ad esempio iMusic o iTube o Play Music –, spesso illegali, che
permettono di ascoltare la musica scaricata da YouTube anche offline.
Non è una logica così diversa da quella che si usava prima della rete; ad
essere cambiati sono il campo di ricerca e offerta, molto più largo, e il
supporto, ieri materiale e oggi digitale.
Sino all’avvento della rete gli strumenti principali di scoperta musicale
erano il passaparola, la radio, le riviste, i giornali, i viaggi. I supporti
attraverso i quali la musica si ascoltava erano tutti fisici: nastri, dischi, cd.
Il supporto materiale veniva prestato, scambiato, valorizzato, custodito
come un tesoro. Oggi ci si scambiano file. Il supporto fisico è un aspetto
fortemente minoritario, quasi trascurabile. Ieri era la vendita di dischi a
contare, oggi il numero delle visualizzazioni su YouTube.
Come negli altri settori dei consumi culturali, anche in questo caso
Facebook ha una funzione decisiva. Tra il pubblico generalista serve da
passaparola, da veicolo di informazioni musicali, video, audio, ed essendo
una comunità di due miliardi di persone, molte delle quali giovani, non
può che essere indispensabile. Nelle comunità musicali, tra gli
appassionati, ha anche una funzione pratico-informativa. Serve
soprattutto, in un mondo di attività febbrile, di frenetica offerta, per
sapere che cosa è uscito, che cosa è successo, dove ci sono stati concerti,
dove ci saranno. La bacheca Facebook come e più della vecchia locandina.
Ha poi – qualcuno direbbe soprattutto – una funzione di marketing e
pubblicità.
Per le scene mainstream, per la musica commerciale ma persino per le
scene più radicali, è fondamentale avere un’attività social con riscontro,
eco, che significa followers, fans, seguito. Le etichette discografiche
guardano con attenzione l’attività social di chi suona, fa musica, e gli
investimenti dell’industria musicale dipendono ormai largamente da
questo aspetto.
Il che significa – molti giovani musicisti lo confermano – che i filtri che
portano al ‘successo’, alla notorietà, sono diversi da quelli novecenteschi,
giacché se riesci ad avere una voce, se sei capace di farti conoscere e
apprezzare sulla rete, ci sono buone possibilità che i produttori decidano
di investire su di te. Tanto che si potrebbe dire che autopromozione e
autoproduzione vanno considerate un’unica cosa.
Ovviamente ci sono delle ombre. C’è il rischio che l’industria investa
soltanto sulle realtà musicali che vanno bene anche da sole, e c’è un
discreto pericolo di appiattimento. Ciò che si vede, la forma
dell’espressione musicale, il significante, è spesso ripetitivo e
standardizzato, e la parola d’ordine rischia di essere ‘fatto bene’: un video
fatto bene, un pezzo fatto bene. E un’altra domanda che si impone, tipica
della contemporaneità, è: come fai a gerarchizzare, a selezionare?
Non a caso i critici di questo nuovo modello musicale insistono su un
punto: le grandi piattaforme dello streaming rischiano di ridurre ogni
produzione al minimo comun denominatore della commerciabilità, con
un livellamento verso il basso della qualità e della sperimentazione che
dovrebbe essere sottesa ad ogni nuova uscita.
Né bisogna scordare che il moltiplicarsi delle possibilità di scelta non si
traduce automaticamente in una scelta migliore o più informata. Vanno
in altre parole tenuti presenti i tanti lavori sulla difficoltà di scegliere in
presenza di troppe opzioni, il ‘paradosso della scelta’ di Barry Schwarz,
che ci porta a considerare come un costo lo stress inflitto al nostro
cervello da un ventaglio amplissimo di possibilità, essendo abituati a secoli
di evoluzione in cui le scelte e ancor di più le informazioni erano limitate
e parziali.
Se questo è l’assetto generale, sarebbe tuttavia ingenuo ed erroneo
parlare di una dematerializzazione dispiegata, della rete come unico
campo d’ascolto. Perché in questi anni si è persino rafforzata l’esperienza
della musica dal vivo. Da un lato proprio come reazione alla
dematerializzazione, come fisiologica, quasi naturale controspinta rispetto
a una sorta di sublimazione digitale dell’esperienza musicale. Dall’altro
perché la musica dal vivo è una pratica quasi primaria, sia la pratica sia
l’ascolto, quasi incisa nelle nostre strutture cerebrali. Lo stare assieme,
l’aggregarsi, il partecipare ad eventi comuni, il condividere, l’occupare gli
spazi più diversi. È un elemento molto bello e vivo, anche qui quasi
strutturale, dell’universo giovanile.
Ma c’è anche, come sempre, un fattore economico, commerciale,
tutt’altro che irrilevante. Con l’affermarsi della rete, con la crisi dei
supporti vendibili, l’industria musicale ha dovuto reinventarsi, pena il
rischio della scomparsa. E i concerti, i tour, i live contest, gli showcase,
sono diventati la prima vera fonte di introiti per chi faccia musica, per chi
voglia farsi conoscere. Il mercato ha ovviamente interesse a sfruttare
questa aggregazione8.
Ma non bisogna peccare troppo di realismo, o essere solo realisti. Non
scordiamo che accanto alla musica come merce c’è poi, come c’è sempre
stata, l’esperienza musicale come passione disinteressata, vocazione,
volontariato, aggregazione, e la percentuale di consumo che rientra in
questa cornice è tutt’altro che irrilevante.
Cosa dicono i numeri, le tendenze? Il materiale su cui lavorare, le
ricerche, gli studi, le indagini, è oceanico. Scremando un po’ si capisce
che l’ascolto via streaming è sempre più diffuso in tutto il mondo, con
varianti geografiche che vanno assottigliandosi.
I giovani continuano ad ascoltare moltissima musica. A dispetto di miopi
previsioni, di una concorrenza mediatica fortissima, di una vera gara per
l’attenzione giovanile, la musica occupa ancora gran parte del tempo
libero giovanile.
Da una ricerca comparativa tra diversi paesi9 si scopre che sono quattro i
principali modi di ascolto: la radio (87%, di cui il 68% via broadcast e il
35% via Internet radio; oltre il 90% dei millennials, inoltre, ascolta
musica via radio Fm10), lo streaming video (75%), lo streaming audio
(45%), l’acquisto di copie fisiche o il download (32% cd, 28% download,
17% vinile).
Tra chi ascolta la musica online, è maggioritaria la percentuale di chi lo
fa tramite video streaming (55%), e all’interno di questa percentuale a
dominare è YouTube, che copre quasi il 90%. Gli italiani sono tra i più
forti utenti di YouTube per la musica, lo fa quasi il 90% degli utenti del
sito. Ed è fortissimo l’uso di YouTube tra i giovani, anche se in alcuni
paesi, ad esempio in Gran Bretagna, è in notevole crescita Spotify11.
Il resto dell’ascolto è diviso più o meno a metà tra audio streaming
gratuito e a pagamento. L’85% dei ragazzi tra i 13 e i 15 anni ascolta
musica in streaming.
Tra il 10% di coloro che ascoltano più musica è interessante la
percentuale di chi l’ascolta via smartphone, il che in media avviene in tre
quarti dei casi. In tutti i paesi la percentuale cresce in modo sensibile da
un anno all’altro. E la fascia d’età con il consumo via smartphone più alta
è quella compresa fra i 16 e i 24 anni, dove si arriva all’84%. E sono tutti
dati in crescita.
I giovani sono in generale particolarmente attivi: nella fascia 16-24 anni
l’89% ascolta musica via streaming, audio e/o video. Chi ascolta via audio
lo fa in maggioranza senza pagare (62%), il 37% paga in modi differenti12.
Più o meno la metà degli utenti nel corso dell’anno ha pagato per
acquistare o ascoltare musica. L’altra metà l’ascolta senza pagare, e la
percentuale più alta di ascolto pirata è nella fascia giovanile. Secondo
molte ricerche nordamericane, la percentuale di millennials che ha un
abbonamento, a pagamento, ad un servizio di musica via streaming è
comunque a due cifre. Più bassa in Italia, dove l’abitudine al pagamento
di servizi online – pensiamo anche ai quotidiani – è molto residuale. La
gratuità fa premio sulla qualità d’ascolto, e non a caso c’è chi ha parlato di
un mondo a bassa risoluzione, in cui prevale la dimensione
dell’immediatezza, del consumo hic et nunc su quella della qualità13.
L’affermarsi di piattaforme per l’ascolto e l’uso di algoritmi ha
comportato l’emergere della playlist rispetto all’album tradizionale, in
particolare per gli utenti più giovani. Circa la metà degli ascolti totali su
Spotify deriva dalle playlist, assemblate secondo i gusti personali, le scelte
del curatore o ideate per un momento specifico14.
Il vecchio negoziante di dischi, un’altra delle figure di intermediari che
va scomparendo, viene soppiantato da una nostra scelta diretta, non
limitata alla selezione fisicamente presente nel negozio ma vasta quanto
l’intera discografia. Una scelta non scevra tuttavia da percorsi prefissati,
più o meno imposti da un algoritmo, nuovo invisibile orologiaio del XXI
secolo.
Digitalizzazione e dematerializzazione sono stati una sfida spietata per
l’industria musicale, che ha faticato non poco ad aggiornare il proprio
modello di business, trovandosi infine costretta a riconoscere dignità
d’ascolto anche allo streaming, che da pochi anni a questa parte viene
monitorato parallelamente alle vendite di dischi.
1
Cfr. Alex Ross, Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo (2007), Bompiani, Milano 2009, pp. 9-
10.
2
A cominciare dal già citato saggio La distinzione di Pierre Bourdieu, si veda anche Giorgio
Zanchini, Gli onnivori in Italia. L’evoluzione dei consumi culturali attraverso la lente dei supplementi
culturali dei quotidiani, in «Sociologia della Comunicazione», 44, 2012, pp. 117-146.
3
A quel gioco vinciamo noi, Intervista a Shamus Rahman Khan, in «Nuovi Argomenti», 69,
gennaio-marzo 2015.
4
Peter Nuttal, Alicia Hill, Understanding music consumption through a tribal lens, in «Journal of
Retailing and Consumer Services», 18, 2011, pp. 152-159.
5
La rivista che ci sembra aver continuato a riflettere in maniera attenta e acuta sui consumi
musicali e sulla categoria degli onnivori è l’olandese «Poetics»; sul tipo di musica ascoltata dai
ragazzi italiani è interessante la riflessione di Ludovica Scoppola, Quale musica per quali giovani?,
in «Taer Journal», 56, 2013, http://www.taerjournal.it/2013/02/04/quale-musica-per-quali-
giovani.pdf.
6
Alex Ross, Senti questo (2010), Bompiani, Milano 2011, pp. 40-41.
7
Racconta questo processo il già citato romanzo di Giacomo Mazzariol, Gli squali, pp. 108
sgg.
8
Alberto Dentice, Altro che Sanremo: ecco dove nasce il nuovo pop, in «L’Espresso», 4 febbraio
2018.
9
Cfr. tra le molte ricerche Ifpi, Music Consumer Insight Report 2018, che passa in rassegna il
consumo in 13 paesi con i mercati musicali più sviluppati, tra i quali l’Italia:
https://www.ifpi.org/news/IFPI-releases-2018-music-consumer-insight-report.
10
Si vedano le più recenti ricerche Nielsen, in particolare Millennials on millennials,
https://www.nielsen.com/us/en/insights/article/2018/millennials-on-millennials-in-the-
know-on-the-go.
11
Cfr. i dati di Musiceducationuk.com. Per l’Italia, oltre ai dati dei tradizionali istituti di
ricerca sociale più volte citati, si può dare un’occhiata a Themusicblog.eu.
12
Vedi anche i dati presentati dalla Consumer Technology Association a Las Vegas nel gennaio
2019.
13
Cfr. Massimo Mantellini, Bassa risoluzione cit., pp. 10 sgg.
14
https://www.wired.com/2017/05/secret-hit-making-power-spo tify-playlist/.
15.
Le televisioni
1
Enrico Menduni, Televisione e radio nel XXI secolo, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 83.
2
Massimiliano Valerii, Settimio Marcelli, Introduzione, in Censis-Ucsi, 14° Rapporto sulla
comunicazione cit., p. 10.
3
Cfr. Amanda D. Lotz, Post-Network. La rivoluzione della tv (2007), minimum fax, Roma 2018.
4
La bipartizione si deve ad Umberto Eco, la tripartizione a John Ellis, ed è stata fatta propria
di recente anche da Aldo Grasso nella sua recente e ponderosa Storia critica della televisione
italiana, il Saggiatore, Milano 2019.
5
Ivi, p. 8.
6
Ibid.
7
La bibliografia su questo tema è corposissima. Tra i tanti titoli segnaliamo La televisione.
Modelli teorici e percorsi d’analisi, a cura di Massimo Scaglioni e Anna Sfardini, Carocci, Roma
2017; Crossmedia cultures. Giovani e pratiche di consumo digitali, a cura di Francesca Pasquali,
Barbara Scifo e Nicoletta Vittadini, Vita e Pensiero, Milano 2010. E ovviamente saggi e
articoli di Aldo Grasso, in specie Storia critica cit.
8
Aldo Grasso, Storia critica cit., p. 9.
9
Per ‘utenza complessiva’ si intendono gli utenti che hanno indicato una frequenza d’uso del
mezzo di almeno una volta alla settimana (ovvero hanno letto almeno un libro nell’ultimo
anno), per ‘utenza abituale’ si intendono gli utenti che hanno indicato una frequenza d’uso del
mezzo di almeno tre volte alla settimana (ovvero hanno letto almeno tre libri nell’ultimo
anno).
10
Vedi Eurodata Tv Worldwide, 2018. Analizzando i consumi televisivi dei giovani tra i 15 e i 35
anni di 10 paesi si scopre che tra il 2016 e il 2017 la media quotidiana di visione è di circa 2 ore
e mezza, un’ora e mezzo in meno rispetto alla media generale, e il 5% in meno rispetto al
2015. https://www.eurodatatv.com/fr/worldwide-content-and-audience-insights.
11
Cfr. Paola Castellucci, Carte del mondo nuovo. Banche dati e Open Access, il Mulino, Bologna
2017, p. 65.
12
http://www.ninjamarketing.it/2016/11/15/clickbait-ed-echo-chambers-fenomeni-social-
influenzano-lopinione-pubblica/.
13
http://www.harbus.org/2004/social-theory-at-hbs-2749/.
14
http://patrickmcginnis.com/how-to-dump-fomo-2018/.
15
https://deadline.com/2019/01/netflix-in-talks-to-join-mpaa-120 2539433/.
16
L’acronimo OTT, Over The Top, definisce le grandi media company, principalmente
statunitensi, come Google, Facebook e Netflix.
17
Il binge watching non è peraltro l’ultima frontiera. Stanno nascendo app che permettono una
fruizione accelerata delle serie, ma già il video speed controller permette di guardare a velocità
aumentata. Vedi Stefania Parmeggiani, A tutto speed: così si divorano libri e serie tv, in «la
Repubblica», 5 novembre 2018.
18
http://marquee.blogs.cnn.com/2010/01/08/president-won% E2%80%99t-interrupt-lost-
premiere/.
19
www.abi.it/Pagine/Societa/Festival-della-cultura-creativa.aspx.
20
Twitch è la piattaforma leader nello streaming di videogiochi: basata sul modello dello
streaming live, in contrapposizione alle clip di YouTube, ha raccolto grande successo presso gli
appassionati.
21
Rapporto La nuova centralità televisiva. Schermi, contenuti, pratiche delle audience connesse, a cura
dell’Osservatorio Social Tv dell’Università La Sapienza di Roma e SWG, 2016.
22
Sono dati di una ricerca commissionata da «Variety» nel 2017.
23
I media e il nuovo cit., pp. 31 sgg.
24
Rispettivamente 44 e 31%, dati Eurodata Tv Worldwide, 2017.
16.
La radio
Quanto alla radio va detto anzitutto che, come e forse più ancora della
televisione, è uscita trasformata in modo profondo dall’incontro con
l’ecosistema mediatico Internet. Essa è pienamente parte del cambio di
paradigma, e come altre volte nel XX secolo si è saputa adattare,
reinventare – tramite soprattutto la tecnologia –, connettersi coi linguaggi
del proprio tempo.
Grazie alle innovazioni tecnologiche si è rotta la simultaneità tra
emissione e fruizione, si sono decuplicati i modi in cui è possibile
trasmettere e ascoltare, e l’incontro tra radio e social media ha prodotto il
trionfo di una antica promessa della radiofonia: la partecipazione, la
rottura dell’unilateralità. Webradio, streaming, radio digitali, podcast,
social radio, sono tutti termini familiari a chi ascolta la radio oggi e per
chi è giovane. Come per la televisione, la fruizione radiofonica è oggi lo
specchio della parcellizzazione che caratterizza le nostre vite. L’ascolto in
simultaneità cala, e grazie alla rete e a una crossmedialità sempre più
intensa, miriadi di pezzi di radio vengono rimessi in circolo. La
partecipazione è esaltata da quella panoplia di media sociali – in
particolare SMS, WhatsApp, WhatsApp audio, mail, tweet, post su
Facebook ecc. – che permettono a chi ascolta di intervenire, interagire,
anche orientare le trasmissioni, e dare una vita ulteriore e diversa a
qualsiasi contenuto, sia esso un intero programma o più probabilmente
un frammento, un meme, magari trasformato, ‘rimediato’, con
immagini, video, effetti.
È un ascolto in fondo coerente con le forme della contemporaneità, che
esalta appunto la facilità d’uso, l’ubiquità, la scomparsa di confini
temporali e geografici, e fa però correre il rischio di un ascolto più breve e
distratto che in passato, con format che assecondano queste tendenze e
una radio che diviene più uno strumento di accompagnamento della
frammentazione, colonna sonora del mondo-flusso, interstizio nell’era
delle notifiche, che mezzo per informarsi, approfondire i temi, ascoltare
conversazioni raziocinanti e pacate. Come con le immagini televisive, lo
smartphone è lo strumento centrale di questa rivoluzione.
Lo stato di salute della radio è più che buono. E lo è in tutto il mondo.
Se in Occidente la radio è pienamente parte della metamorfosi dettata dal
digitale – con una tenuta dell’ascolto soprattutto nel maturo mercato
anglosassone: nel Regno Unito l’89,3% della popolazione ascolta la radio
ogni settimana (era oltre il 90% nel 2013-14 ma meno all’inizio degli
anni 2000), il cittadino medio l’ascolta per 21,2 ore a settimana; negli
Stati Uniti gli ascoltatori dei radio show continuano a crescere – in altre
aree del mondo i modi di produzione e fruizione restano gli stessi del
Novecento, e ci sono paesi in cui la radio ha una centralità che in
Occidente si è perduta. In alcune aree economicamente poco sviluppate è
tutt’oggi il medium più diffuso. È così nell’Africa subsahariana, nelle
zone interne del Brasile, nei paesi dell’Indocina. Anche in Italia negli
ultimi anni è riuscita a ritrovare una sua solida tenuta, e a partire dalla
metà degli anni Ottanta, dopo che la crescente forza della televisione
aveva marginalizzato, anche simbolicamente, il suo ruolo, a recuperare
ascolti. Nel 2018 gli ascoltatori totali nel giorno medio sono stati poco
meno di 35 milioni, in leggero calo rispetto all’anno precedente, di cui
circa 15 sull’emittenza locale. Nel 2015 erano stati poco sopra ai 35
milioni, nel 2012 erano scesi a 34,2 milioni, nel 2001 circa 35 milioni.
Nel 1955 si era poco sotto i venti milioni di ascoltatori quotidiani e sino
alla metà degli anni Ottanta si era restati sotto ai 25 milioni, poi
soprattutto a partire dagli anni Novanta gli ascoltatori sono cominciati a
crescere – quasi 30 milioni nel ’94 – e dagli anni 2000 ad oggi hanno
ruotato attorno ai 35 milioni, con un picco di quasi 40 nel 2010, figlio
però di un sistema di rilevamento contestato e soppresso.
Nel 2007 – sono dati Censis1 – l’utenza complessiva corrispondeva al
77,7% della popolazione, nel 2018 al 79,3%. Se si scorpora il dato
generale si scopre che il 56,2% ascolta da radio tradizionale, il 67,7% da
autoradio – sono percentuali in calo –, il 17% da pc e il 20% da
smartphone, e sono percentuali in crescita. Seppure più lentamente che in
altri paesi, il modo di ascoltare la radio segue i mutamenti generali del
sistema mediatico. Nel decennio 2007-2017 la crescita complessiva
dell’utenza radio da smartphone è stata del 13,7%, quella da Internet via
pc del 6,9%.
I giornali radio sono la terza fonte utilizzata dagli italiani per informarsi,
dopo telegiornali e Facebook, e molte ricerche convergono sulla
credibilità dell’informazione che si ascolta alla radio.
Forse sono ancora più significativi i dati sugli investimenti pubblicitari.
In un mercato che solo negli ultimissimi anni ha ricominciato a crescere e
che vede un inarrestabile calo degli investimenti su quotidiani e riviste, la
radio è assieme al web il settore che è cresciuto di più. Seppur ancora
molto distante dalla tv – meno di un decimo degli introiti – la radio è in
segno positivo da molti mesi, e lo è stata anche nel 2019. Non è un caso
che negli ultimi anni sia stato uno dei settori più mobili del mercato, con
diverse acquisizioni importanti, specie da parte di Mediaset.
Tra le novità più rilevanti per gli usi della radio c’è senz’altro il podcast –
che è una parola figlia della fusione tra i termini iPod e broadcasting, e
che indica il sistema che permette di scaricare su qualsiasi dispositivo i
contenuti audio delle trasmissioni, e di ascoltarli quando si desidera. I
numeri del podcast sono crescenti soprattutto nel mondo anglosassone,
ma solidi anche in Italia2. Il podcast è uno strumento versatile,
particolarmente consono ai contenuti di qualità e lunga durata – quelli
che non invecchiano dopo poche ore, come le news – e ai contenuti
narrativi. Dopo anni di crisi, grazie al podcast sta tornando la produzione
di audio-documentari, reportage, narrazioni vere e proprie. E come in
televisione è crescente il successo delle serie audio, ma sono in aumento
anche i daily news show e gli approfondimenti giornalistici audio di giornali
e riviste – anche qui in Italia – e soprattutto l’uso dei podcast da parte di
celebrities e influencer – attori, rapper, scrittori, giornalisti – molto ascoltati
dal pubblico giovanile.
Altri fenomeni di grande interesse sono la proliferazione di radio
settoriali, specializzate nei generi e nei periodi musicali più diversi, e la
crescita del numero delle radio di parola identitarie. È il volto radiofonico
del fenomeno delle nicchie.
È ovviamente il web ad aver permesso la moltiplicazione delle radio.
Fare una webradio è semplice, e se non si bada tanto al bacino di
ascoltatori, talvolta ridottissimo, ci si può sbizzarrire con le passioni più
diverse, specie musicali, le nicchie più nicchie, dalla musica country
dell’east coast dei primi anni Sessanta agli audio-documentari più
sofisticati. Si parla di più di 50mila webradio nel mondo.
La radio in altre parole è cambiata moltissimo, e grazie alla rete ha anche
per il futuro straordinarie opportunità. Ma la rete pone anche sfide
difficili, specie per l’universo che stiamo descrivendo in questo lavoro.
Perché l’ascolto da parte dei giovani, soprattutto per le radio pubbliche,
diminuisce un po’ ovunque3, e non basta a frenare l’incremento del
numero di radio e la grande varietà nell’offerta. A incidere su questo dato
è in modo particolare la diffusione musicale, perché la radio non è più il
canale prevalente attraverso il quale i giovani scoprono e si scambiano la
musica4. Le generazioni giovanili usano YouTube, iTube, Deezer,
Pandora, Spotify o, in Cina, QQ. Non solo. Dobbiamo pensare che i
giovani sono abituati a muoversi su piattaforme multimediali che hanno le
immagini, che sono obiettivamente seducenti, e sulle quali la
competizione è difficile. Ci sono inoltre servizi audio che non sono radio:
pensiamo al crescente mercato degli audiolibri, e in particolare ad app
come la svedese Storytel, che offrono un servizio in streaming con
migliaia di titoli – un po’ come Netflix per il video – e che sono già
inseriti, accanto a Spotify o Pandora, tra i servizi offerti negli schermi di
alcune automobili. E conta anche la funzione identitaria, la ‘propria’
radio, la conversazione identitaria, la radio come luogo di una possibile
sincronia emozionale. La generazione dei baby boomers, ovvero di coloro
che sono stati giovani negli anni Settanta e Ottanta, ha trovato nella radio,
in alcune stazioni radio, dei luoghi dove riconoscersi, scambiarsi idee e
abitudini, sentire che si parla la stessa lingua. Oggi quei luoghi sono
sempre di più i social network.
Insomma, se in Occidente la radio tiene in termini di ascoltatori
complessivi, fatica però a intercettare il pubblico più giovane, la fascia 18-
24, che tende a non mutare le abitudini mediali una volta cresciuta e
quindi ad ascoltare poco la radio. Negli Stati Uniti l’ascolto al mattino
della fascia 12-24 è in sensibile diminuzione, e in Europa c’è un calo
generale dell’ascolto giovanile delle radio pubbliche, in particolare in
Svezia, il paese dove è nato Spotify. Una ricerca americana sull’ascolto
delle radio pubbliche da parte dei millennials indica come quest’ultimi
considerino quasi sorpassata l’idea del palinsesto che accompagna le
giornate degli ascoltatori, e privilegino l’on demand e l’informazione
locale5.
Ma per la radio e la sua capacità di farsi ascoltare dai giovani non ci sono
solo ombre. Anzitutto ci sono aree del mondo in cui è ancora molto
ascoltata anche dai giovanissimi6, e poi la radio è un medium antico – ha
un secolo di vita – ed è parte delle abitudini di vita delle persone, e i
giovanissimi l’hanno vista e ascoltata grazie ai loro genitori, nonni,
parenti. C’è dunque un elemento mimetico. Anche tra i millennials la
percentuale di chi risponde che l’ascolta perché è una delle abitudini di
vita è vicina al 50%7, quindi la speranza è che prima o poi divenga parte
almeno di un frammento della loro quotidianità. In realtà quello che sta
probabilmente accadendo è che la radio viene ascoltata dai giovani per
meno tempo di quanto non si facesse qualche anno fa, perché anche
l’ascolto radiofonico è parte di quella dieta frammentata, varia, composita
di cui abbiamo parlato a più riprese. Non è più un ascolto fedele e
costante, insomma, ma c’è.
1
Censis, Rapporto 2018 cit.
2
Dove il fenomeno sta assumendo grandezze, varietà e ruolo ragguardevoli; cfr. Luigi Lupo,
Podcasting. La radio di contenuto ritorna sul web, Meltemi, Milano 2019. Le ricerche di Ipsos,
Voxnest e Spreaker parlano di 7 milioni di ascoltatori di podcast in Italia nel 2019, con una
media di 160mila ascoltatori al giorno.
3
La radio in Italia. Storia, mercati, formati, pubblici, tecnologie, a cura di Tiziano Bonini, Carocci,
Roma 2013, p. 18.
4
Enrico Menduni, Il mondo della radio. Dal transistor a Internet, il Mulino, Bologna 2012, p. 241.
Si vedano anche i dati di The Infinite Dial 2018, dai quali si desume che la radio resta uno
strumento importante per scoprire e ascoltare la musica, ma più per le generazioni over 30 che
per i giovanissimi.
5
Tyler Falk, New study dives into public radio habits of millennials, in «Current», 15 agosto 2017,
https://current.org/2017/08/new-study-dives-into-public-radio-habits-of-millennials/?
wallit_nosession=1.
6
Cfr. dati e notazioni di uno dei maggiori conoscitori dell’universo radiofonico, James
Cridland, https://james.cridland.net/.
7
Fred Jacobs, Radio: A Century Head Start, http://jacobsmedia.com/radio-century-head-start/.
17.
Il cinema
1
I dati citati sono tratti dall’indagine Giovani e cinema commissionata dall’Ente dello Spettacolo
all’Istituto Toniolo e presentata al Festival del cinema di Venezia nel 2017. Un’analisi molto
attenta di ciò che è accaduto negli ultimi anni, con una messe utilissima di dati, è in Fabio
Introini, Cristina Pasqualini, Grandi e piccoli schermi: la fruizione di film e cinema dei giovani in
Italia, in La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2016, a cura dell’Istituto Giuseppe
Toniolo, il Mulino, Bologna 2016, pp. 183-213. Molto utili anche i dati delle ricerche sui
consumi culturali dell’Osservatorio News-Italia dell’Università di Urbino.
2
Dati disponibili sul sito della Fondazione Ente dello Spettacolo,
https://www.entespettacolo.org/.
3
I dati riportati sono del Centre National du Cinéma, https://www.cnc.fr/a-propos-du-cnc.
4
Sul ruolo della critica cinematografica e più in generale su ciò che spinge a scegliere il film da
vedere è molto utile Chiara Checcaglini, L’informazione culturale e il settore audiovisivo: il caso
dell’informazione cinematografica, in Info Cult. Nuovi scenari di produzione e uso dell’informazione
culturale, a cura di Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini, FrancoAngeli, Milano 2015.
5
Chiara Checcaglini, L’informazione culturale cit., p. 115.
6
Sulle ‘famiglie multimediali’ si veda Fabio Introini, Cristina Pasqualini, Grandi e piccoli schermi
cit., p. 185.
18.
I videogiochi
1
http://www.aesvi.it/cms/view.php?dir_pk=902&cms_pk=3002.
2
http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2017-05-11/i-videogiochi-italia-valgono-
miliardo-82percento--100120.shtml?uuid= AEkDiKKB&refresh_ce=1.
3
https://www.techspot.com/news/69031-brick-mortar-video-ga me-retailers-may-obsolete-
2020.html.
4
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-02-22/angry-birds-picchiata-rovio-
crolla-helsinky-profit-warning-134118.sht ml?uuid=AEpq4i4D.
5
https://www.statista.com/statistics/433871/daily-social-media-u sage-worldwide/.
6
Si tratta della nuova console ibrida della storica casa giapponese Nintendo: essa rappresenta
un riuscito tentativo di combinare console portatile e casalinga in un unico prodotto.
7
Twitch.tv, portale di proprietà di Amazon, è il luogo di ritrovo di moltissimi videogiocatori:
la sua interfaccia ci permette di vedere chi nel mondo sta trasmettendo le sue partite ai nostri
titoli preferiti. Le grandi competizioni videoludiche, nei palazzetti o nei centri convegni, sono
generalmente sempre affiancate dalla diretta web sul portale Twitch, per raggiungere un
vastissimo pubblico.
8
https://www.polygon.com/2016/5/29/11807840/no-mans-sky-delayed-death-threats-
creator.
9
http://www.aesvi.it/cms/view.php?dir_pk=209&cms_pk=2834.
10
https://newzoo.com/insights/articles/esports-revenues-will-rea ch-696-million-in-2017/.
11
https://www.theguardian.com/sport/2017/aug/09/esports-2024 -olympics-medal-event-
paris-bid-committee.
12
https://www.theguardian.com/sport/2017/apr/18/esports-to-be-medal-sport-at-2022-asian-
games.
19.
I festival
1
Una minima parte di questi eventi è censita sul sito https://trovafestival.com/. L’impatto,
economico ma non solo, di queste manifestazioni, è stato ripetutamente analizzato da Guido
Guerzoni, le cui ricerche sono disponibili all’url
https://www.festivaldellamente.it/it/effettofestival/.
2
http://www.festivaletteratura.it/it.
3
https://www.internazionale.it/festival/.
4
http://www.salonelibro.it/.
5
http://www.pordenonelegge.it/.
Considerazioni conclusive
1
Ma non è andata in modo molto diverso in altri paesi europei, in primis in Francia.
2
Asa Briggs, Peter Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet (2000), il Mulino,
Bologna 2002, p. 12.
3
Paolo Di Paolo, Carlo Albarello, C’erano anche ieri i giovani d’oggi. Generazioni, memoria, scuola
fra Novecento e Duemila, Città Nuova Editrice, Roma 2018. La prima parte del volume
raccoglie alcuni articoli scritti da Di Paolo e particolarmente interessanti ai fini delle riflessioni
che qui stiamo proponendo.
4
Cfr. Frédéric Martel, Smart cit.
5
Cfr. Giorgio Alleva, Giovanni A. Barbieri, Generazioni cit.
6
Marc Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, in «On the Horizon», 9, 5, 2001. Si veda
anche il volume di Howard Gardner, Katie Davis, Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo
mondo digitale (2013), Feltrinelli, Milano 2014.
7
Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-
Bari 2013, in particolare pp. 58-65.
8
Paola Bignardi, Elena Marta, Sara Alfieri, Generazione Z cit.
9
Cfr. Robert Pogue Harrison, L’era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo (2014),
Donzelli, Roma 2016, p. 137.
10
Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa, a cura di Matteo
Lancini, Raffaello Cortina, Milano 2019. Sul fenomeno degli Hikikomori, gli adolescenti che
non escono di casa e che si autorecludono volontariamente, esiste un’ampia bibliografia.
11
‘Fallo-da-solo’, slogan che si riferisce ad una partecipazione diretta alle attività sociali e
culturali verso cui si prova interesse: dalla cucina al cucito, dall’intrattenimento alla definizione
della propria identità e alla programmazione di piccoli computer.
12
Chris Anderson, Gratis. Come funzionerà l’economia del futuro (2009), BUR, Milano 2010.
Non ci addentriamo qui in altri aspetti specificamente legati alle trasformazioni economiche,
come l’economia collaborativa fondata sulla condivisione teorizzata da Karl Paul Polanyi, cui
si deve la nascita della sharing economy, oggi molto diffusa in ambiti come i servizi di trasporto e
di ospitalità.
13
Andrew Lewis ripete come un mantra: «se non state pagando qualcosa, non siete un cliente,
siete il prodotto che stanno vendendo». Paghiamo con l’affiliazione ciò che abbiamo l’illusione
ci venga regalato dalla rete.
14
Walter Siti, Pagare o non pagare. L’evaporazione del denaro, Nottetempo, Milano 2018, pp. 109-
111.
15
Ivi, p. 101. Corsivo dell’autore.
16
Cfr. Maurizio Ferraris, Germano Paini, Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale,
Rosenberg & Sellier, Torino 2018.
17
Shadow Libraries: Access to Educational Materials in Global Higher Education, a cura di Joe
Karaganis, MIT Press, Cambridge (MA) 2018.
18
Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 26 marzo 2019 sulla proposta di direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto d’autore nel mercato unico digitale,
https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2019-0231_IT.html.
Gli autori
Giovanni Solimine insegna presso l’Università di Roma La Sapienza, dove dirige il Dipartimento
di Lettere e Culture Moderne. Si occupa di politiche della ricerca, di progettazione e gestione di
servizi bibliotecari, di biblioteche digitali e consumi culturali in rete, di cultura editoriale e
promozione della lettura, di information literacy. Ha presieduto l’Associazione Italiana Biblioteche
(AIB) ed è attualmente presidente della Fondazione Bellonci – Premio Strega e presidente
onorario del Forum del libro. Autore di numerosi volumi, per Laterza ha pubblicato La biblioteca.
Scenari, culture, pratiche di servizio (2004), L’Italia che legge (2010) e Senza sapere. Il costo dell’ignoranza
in Italia (2014).
Giorgio Zanchini, giornalista e conduttore radiotelevisivo, lavora alla Rai dalla fine degli anni
Novanta. Conduce Quante storie su Rai3 e Radio anch’io su Rai Radio1. Tra le sue pubblicazioni: Il
giornalismo culturale (Carocci 2013); Infocult. Nuovi scenari di produzione e uso dell’informazione culturale
(a cura di, con L. Mazzoli, FrancoAngeli 2015); Leggere, cosa e come. Il giornalismo e l’informazione
culturale nell’era della rete (Donzelli 2016); La radio nella rete. La conversazione e l’arte dell’ascolto nel tempo
della disattenzione (Donzelli 2017); Cielo e soldi. Il giornalismo culturale tra pratica e teoria (Aras 2019).
Per Laterza ha curato Un millimetro in là. Intervista sulla cultura di Marino Sinibaldi (2014).