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Saggi Tascabili Laterza

Giovanni Solimine - Giorgio Zanchini

La cultura orizzontale

Editori Laterza
© 2020, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: febbraio 2020


www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
 

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)


per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858141458
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice

Premessa
1. In che mondo siamo?
2. La cultura cambia funzione
3. Un ecosistema globale e territorializzato
4. I fili, il tessuto
5 . Il paradigma della cultura orizzontale
6. La generazione delle reti
7. Una nuova civiltà?
8. La parola scritta, i libri, la lettura
9. La mutazione digitale
10. La cultura del fare
11. I giovani e l’informazione
12. Porte diverse: come cambia l’accesso
13. Intrattenimento e partecipazione culturale
14. La musica
15. Le televisioni
16. La radio
17. Il cinema
18. I videogiochi
19. I festival
Considerazioni conclusive
Gli autori
Premessa

Da poco sono stati celebrati i cinquant’anni di Internet e, nelle occasioni


di discussione che hanno accompagnato l’anniversario, si è spesso
affermato che questa invenzione ha cambiato profondamente la nostra
esistenza.
L’espressione secondo la quale ormai è ‘tutto un altro mondo’ vale anche
per la cultura. Scopo di questo nostro lavoro è descrivere le forme di
produzione e di partecipazione culturale nell’era della rete e, analizzando
le attività svolte dal pubblico giovanile, cercare di comprendere se
atteggiamenti e pratiche collettive possano essere utilizzati per individuare
connotati utili per leggere meglio l’identità plurale di un’intera
generazione.
A noi è sembrato di poter individuare nella dimensione orizzontale
l’elemento caratterizzante delle pratiche culturali in rete nei primi due
decenni del XXI secolo ed è di questo che cerchiamo di dar conto nelle
pagine che seguono.
I contenuti del volume sono stati discussi e condivisi dai due autori, che
sono anche intervenuti congiuntamente e con successive riscritture nei
diversi capitoli. Tuttavia, le prime stesure possono essere così attribuite:
Giovanni Solimine è autore della parte iniziale del volume,
corrispondente grosso modo ai primi dieci capitoli, mentre Giorgio
Zanchini è autore dei restanti capitoli; le considerazioni conclusive sono
frutto delle convinzioni che entrambi hanno maturato a mano a mano
che il volume prendeva forma.
Questo lavoro non sarebbe stato realizzato senza il contributo di Paolo
Pugliese, che ha collaborato alle ricerche e alla messa a fuoco di molte
questioni, ed è inoltre l’autore del capitolo 18. A lui va il nostro sentito
ringraziamento.
Gli autori hanno anche contratto debiti di gratitudine nei confronti di
tanti amici e colleghi che non hanno fatto mancare consigli e
segnalazioni: un ringraziamento particolare va ad Anna Gialluca e a Gino
Roncaglia.
G.S. G. Z.
1.
In che mondo siamo?

Più di quattro miliardi! Stiamo parlando degli utenti di Internet1,


quantificati nel 2019 in 4,39 miliardi e con un ritmo di crescita di oltre
un milione di nuovi utenti ogni giorno. In termini percentuali vogliono
dire il 57% degli abitanti del pianeta, di cui l’86% dei cittadini europei
(con una punta massima del 95% nei paesi nordici e una punta minima
dell’80% nei paesi dell’Est), il 78% nelle Americhe (ma il 95% nel Nord
America), il 71% in Medio Oriente, il 52% in Asia e nell’area del
Pacifico, il 36% nel continente africano (ma qui l’80% della popolazione
dispone di una connessione alla rete mobile e in molti paesi il numero di
utenti si raddoppia o triplica di anno in anno). Si prevede che entro il
2025 gli utenti diventeranno sette miliardi, quasi la totalità della
popolazione. Mediamente gli esseri umani trascorrono su Internet 6 ore e
42 minuti al giorno, di cui circa la metà tramite connessione mobile.
I social media sono usati dal 45% dell’umanità (il numero degli
utilizzatori è raddoppiato nell’ultimo quinquennio) e assorbono
mediamente due ore al giorno del nostro tempo; la punta massima di
utenti si registra in Nord America ed Estremo Oriente, col 70%. La
connessione mobile fa registrare percentuali elevatissime: raggiunge
ormai i due terzi della popolazione (oltre 5 miliardi di persone, ma gli
account sono circa 9 miliardi) e veicola più della metà del traffico a livello
mondiale (dieci anni fa non raggiungeva l’1%).
Più di un miliardo il numero di siti presenti sul web; i più visitati sono,
nell’ordine, Google, YouTube e Facebook; Facebook e WhatsApp sono i
sistemi di messaggeria più diffusi (quest’ultimo figura al primo posto in
133 paesi e conta un miliardo e mezzo di utenti). Esteso su oltre il 90%
della superficie del pianeta, Facebook ha superato i due miliardi di utenti
mensili, nel 96% dei casi viene usato da mobile ed è maggiormente
diffuso nella fascia d’età 25-34; Instagram è a un miliardo di utenti (in
gran parte di età compresa fra i 18 e i 34 anni) e fa registrare il più elevato
ritmo di incremento; seguono due social cinesi: Qzone e Weibo, un
ibrido fra Facebook e Twitter, che si aggirano entrambi intorno ai 500
milioni di utenti. Infine, fra i 200 e i 350 milioni di utenti si collocano
Twitter (usato per due terzi dai maschi), Google+, Snapchat e Pinterest. Il
più diffuso social network professionale, LinkedIn, ha triplicato in un
anno i suoi utenti, che superano ora i 300 milioni.
Il 75% degli utenti di Internet e il 37% della popolazione di età
superiore ai 15 anni effettua acquisti in rete (per un valore di circa 1,8
trilioni di dollari e con un ritmo di incremento annuo del 14%), e in
Indonesia, Cina e Thailandia più del 70% di queste transazioni avviene
via smartphone; più della metà delle ricerche di un prodotto da acquistare
parte dal sito di Amazon, il cui fatturato supera i 230 miliardi di dollari.
Anche gli ‘oggetti’ e le attività culturali più tradizionali e non
commerciali sono migrate rapidamente e in misura consistente verso la
rete. Senza considerare il materiale digitale nativo e limitandoci solo a ciò
che dall’universo analogico si sta trasferendo verso quello digitale, l’offerta
è in progressiva crescita. A partire dal 2005 Google Books ha
approssimativamente digitalizzato e reso disponibili online 30 milioni di
volumi full-text, in 400 lingue diverse e provenienti da oltre 100 paesi
(non si dispone di dati più precisi e aggiornati, perché dal 2015 non
vengono più fornite informazioni sullo stato d’avanzamento del progetto);
Internet Archive dichiara la disponibilità di 15 milioni di ‘books and
texts’, con in più 550.000 libri che non sono nel pubblico dominio, ma
che possono essere presi gratuitamente in prestito digitale; Europeana
offre 51 milioni di item, di cui il 43% etichettati come non meglio
specificati ‘testi’; la Digital Public Library of America ha accumulato un
patrimonio di 30 milioni di item; il progetto Gutenberg ha digitalizzato
in formato testo 57.000 libri; la nuova start-up Perlego, destinata agli
studenti universitari, ha stipulato accordi con 1.400 case editrici e ha
offerto al momento del lancio oltre 200.000 pubblicazioni manualistiche
da leggere in streaming. La didattica universitaria ha incrementato
notevolmente la sua presenza in rete e milioni di studenti di tutti i paesi
del mondo seguono i MOOC (Massive Open Online Courses), tra cui i
2.700 corsi prodotti da oltre 250 università partner della piattaforma
Coursera.
Ovviamente l’elenco potrebbe continuare se considerassimo la grande
quantità di progetti di conversione al digitale avviati in tutto il mondo.
Oltre ai libri, attraverso Internet Archive, ma non solo, la rete mette a
disposizione 4 milioni e mezzo di documenti video, 4,7 milioni di
documenti sonori, 3 milioni di immagini. Sul versante musicale, la sola
Spotify offre decine di milioni di brani a oltre 70 milioni di abbonati.
Dunque? In che mondo siamo? I dati che abbiamo appena riferito ci
dicono che le pratiche di rete hanno strutturato un nuovo ecosistema che
pervade tutti gli ambiti delle nostre attività. Detto in altri termini, la rete
è diventata l’infrastruttura su cui poggia tutto ciò che facciamo2. Da
tempo ha smesso di essere semplicemente uno strumento a nostra
disposizione che possiamo decidere di utilizzare o di ignorare. Da quando
la rete è entrata nelle nostre tasche attraverso gli smartphone e accede a
noi anche se non siamo noi ad accedere deliberatamente a essa, da quando
cioè abbiamo la connessione in mobilità, si è rivoluzionato il rapporto tra
noi e il tempo, tra noi e lo spazio. Il wireless è nell’aria che respiriamo e
attraverso i social network anche gli aspetti più intimi della nostra
quotidianità si sono trasferiti sulla rete. Internet non è solo un mezzo di
comunicazione che è andato ad aggiungersi o a sostituire ciò che c’era
prima: è un ‘sistema’ nuovo che ha modificato radicalmente le coordinate
del contesto in cui operiamo.
È avvenuto ciò che McLuhan aveva previsto oltre mezzo secolo fa, nel
19673: interpretando gli effetti che le applicazioni tecnologiche nel campo
della comunicazione avrebbero prodotto sulla società e sugli individui, il
sociologo canadese aveva intuito che the next medium avrebbe compreso la
televisione come contenuto, ma non come ambiente (stava parlando di
YouTube?), avrebbe reso obsolete le organizzazioni bibliotecarie (si
riferiva ai tag e agli algoritmi di Google?), avrebbe beneficiato del talento
enciclopedico di tutti noi (aveva previsto la nascita di Wikipedia e di tutto
il volontariato collaborativo che la rete riesce a mobilitare?), avrebbe
generato una nuova economia. In definitiva, aveva preconizzato che il
nuovo medium sarebbe stato un mezzo globale di comunicazione e di
ricerca, quello che poi è diventato Internet. E proprio in questi ultimi
anni stiamo toccando con mano l’effetto di ‘sconfinamento’ prodotto
dalla transmedialità. Eravamo abituati alla multimedialità: un contesto
all’interno del quale operavano diversi mezzi di comunicazione, integrati
tra loro, nel quale erano i media a occupare il centro della scena rispetto ai
contenuti veicolati da ciascuno di essi. Ogni mezzo conservava, infatti, la
propria specificità. Ora al centro della scena ci sono i contenuti, le diverse
piattaforme sono retrocesse a veicoli di diffusione.
Per capire di cosa stiamo parlando, basti pensare a quello che è accaduto
al cinema, assorbito all’interno dei servizi video digitali, di piattaforme
come Netflix, Infinity, Now Tv, TIMvision, per fare solo qualche
esempio. Per non dire dell’impatto che avranno Prime Video di Amazon
e soprattutto Facebook Watch, la piattaforma su cui guardare in
streaming video e programmi direttamente attraverso il social network
più diffuso al mondo. Ovviamente le ricadute sono quantitative, in
termini di utenza, ma anche qualitative, per il minore scarto
generazionale: nel 2017, nella fascia d’età 14-29 anni, gli utenti dei servizi
video digitali erano il 20,6% e quelli della fascia 30-44 anni arrivavano al
15%; l’anno successivo, seppure la fascia 14-29 fosse sempre in testa
(29,1%), gli adulti le erano a ridosso con il 26,6%4.

1
I dati di seguito riportati e quelli citati più avanti sono tratti da Global Digital 2019, indagine
condotta da We Are Social, https://wearesocial.com/it/blog/2019/01/digital-in-2019. Si veda
anche https://www.alexa.com.
2
Fondamentale, a questo scopo, il concetto di ‘città intelligente’ o smart city, in cui si realizza
una interazione di tipo nuovo fra gli esseri umani e l’ambiente costruito e, in pratica, il modo
di intendere e di vivere le città: saranno disponibili svariati servizi riguardanti la gestione
intelligente della mobilità e dell’illuminazione, dell’approvvigionamento energetico, del
controllo dell’inquinamento, fino alla domotica e ad altre forme di controllo degli edifici.
Pionieristiche, in questo campo, le intuizioni di Carlo Ratti, architetto italiano docente al
MIT di Boston, dove dirige il Senseable City Lab. Una sintesi della sua visione del modo di
prevedere e progettare il futuro delle metropoli è in Carlo Ratti [con Matthew Claudel], La
città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano, Einaudi, Torino 2017.
3
«The next medium, whatever it is – it may be the extension of consciousness – will include
television as its content, not as its environment, and will transform television into an art form. 
A computer as a research and communication instrument could enhance retrieval, obsolesce
mass library organization, retrieve the individual’s encyclopedic function and flip it into a
private line to speedily tailored data of a saleable kind». Marshall McLuhan, Technology and
Environment, in «Arts Canada», 205, febbraio 1967, pp. 5-6.
4
Fonte: Censis, 15° Rapporto sulla comunicazione. I media digitali e la fine dello star system,
FrancoAngeli, Milano 2018.
2.
La cultura cambia funzione

Ma cos’è questo nuovo che sta prendendo il posto del vecchio? E che effetti
sta producendo sulla trasmissione, sulla produzione e sul concetto stesso
di cultura? Di certo la tripartizione proposta trent’anni fa da Guido
Martinotti1 non funziona più. Non esistono più nell’organizzazione
sociale del sapere tre diversi ‘mondi’ nettamente separati: quello del sapere
‘organizzato’ o ‘colto’, collegato alle strutture scientifiche ufficiali,
sistematico, prodotto negli ambienti accademici da soggetti (studiosi,
esperti, praticanti) che hanno il compito istituzionale di produrlo,
conservarlo, tramandarlo; quello del sapere ‘organizzativo’ o
‘burocratico’, che comprende le conoscenze accumulate nel corso della
propria attività dalle grandi organizzazioni formali, come le
amministrazioni pubbliche e le imprese, le cui finalità non accademiche
ma eminentemente pratiche lo facevano identificare con i saperi e le
pratiche professionali; infine il mondo del sapere ‘diffuso’, legato alla vita
delle comunità e dei gruppi sociali, destinato a variare rapidamente e a
essere altamente deperibile.
Non esistono più, almeno in questa forma, poiché sembra non esserci
più tra le diverse ‘forme’ di cultura una distinzione chiara a seconda dei
circuiti, di chi le produce e delle finalità che le ispirano. È sempre più
diffusa la sensazione di partecipare attivamente a un processo corale, in
cui tutti possiamo essere al tempo stesso produttori e utilizzatori di
cultura. Non è un caso se alcuni anni fa è stato coniato il termine prosumer
per indicare una nuova figura, al tempo stesso un po’ producer e un po’
consumer. Sembra diventato realtà quel mondo culturale senza gerarchie in
cui si sarebbero potute esprimere le potenzialità creative di ciascuno,
ipotizzato agli inizi degli anni Novanta da Pierre Lévy, che aveva parlato
di «un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata,
coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle
competenze»2. Nell’era del fai-da-te si è indebolita, talvolta fino quasi a
sparire, qualsiasi forma di mediazione culturale – quella esercitata dagli
insegnanti, dagli editori, dai giornalisti, dagli opinion makers. Ciò ha
avviato un processo di secolarizzazione della cultura che affranca da ogni
tutela e imposizione autoritativa.
Una costruzione e trasmissione orizzontale della cultura, dunque. Ma in
che modo, con quali effetti e con quali funzioni questa modalità
orizzontale opera rispetto alla precedente modalità verticale? Cercare di
capirlo impone prima di tutto lo sforzo di non cadere nella trappola che ci
spingerebbe a schierarci necessariamente con gli ‘apocalittici’ o con gli
‘integrati’3, con i tecnoentusiasti o i tardo-umanisti.
Non si scambi perciò per compiacimento, o nostalgia per il buon tempo
andato, il rilevare che – dal punto di vista della funzione – in passato la
cultura era intesa, in primo luogo, come agente di cambiamento e la
crescita culturale consisteva in una progressiva conquista degli strumenti
critici attraverso cui impadronirsi di contenuti articolati e complessi. Lo
ha descritto molto chiaramente Zygmunt Bauman qualche anno fa in una
sorta di breve storia sociale della cultura e degli usi che ne sono stati fatti4:
Il nome ‘cultura’ venne assegnato a una missione di proselitismo progettata e intrapresa nella
forma di tentativi di educare le masse e di raffinarne i costumi, facendo così progredire la società e
facendo avanzare ‘il popolo’ (ossia, coloro che stavano negli ‘strati bassi della società’) verso chi
stava in cima.
[...]
La ‘cultura’ comportava un accordo programmato e atteso tra coloro che possedevano la
conoscenza (o quanto meno presumevano di possederla) e gli ignorantoni (o quelli così descritti da
quanti erano convinti di avere i titoli per educarli); un accordo, sia detto per inciso, che recava una
sola firma, stabilito unilateralmente, e realizzato sotto la direzione esclusiva dell’appena formata
‘classe colta’, che accampava il diritto di plasmare il ‘nuovo e più avanzato’ ordine che stava
nascendo dalle ceneri dell’antico regime5.

Ma nel mondo liquido moderno la cultura ha cambiato funzione, è


iniziata tutta un’altra storia:
Nella modernità liquida la cultura non ha un ‘volgo’ da illuminare ed elevare; ha, invece, clienti
da sedurre. [...] La funzione della cultura non è soddisfare bisogni esistenti, ma di crearne di
nuovi, pur mantenendo allo stesso tempo bisogni già radicati o permanentemente insoddisfatti. La
sua principale preoccupazione è di impedire che prenda piede un senso di soddisfazione tra quelli
che erano i suoi soggetti e operatori, trasformati ora in clienti, e soprattutto di contrastare una loro
gratificazione perfetta, completa e definitiva, che non lascerebbe spazio ad ulteriori bisogni e
capricci, nuovi e ancora non soddisfatti6.

Ecco svelato il capovolgimento: «la ‘cultura’ è stata trasformata da


stimolante in tranquillante»7. Ha smesso con ciò anche di essere un agente
di cambiamento politico. Una funzione che nel passato esercitava
combinando insieme la conoscenza e l’esercizio del potere di governo.
Bauman ha dato per tramontato il progetto illuministico, che
dava alla cultura (intesa come attività paragonabile alla coltivazione della terra) lo status di
strumento basilare per la costruzione della nazione, dello Stato e dello Stato-nazione, e insieme
affidava questo strumento nelle mani della classe colta8.

Oggi sono le tecnologie della comunicazione il veicolo della


mondializzazione e interconnessione della (e delle) società. La disponibilità
delle tecnologie e la capacità di usarle sono infatti l’elemento fondante dei
nuovi diritti di cittadinanza nella società globale dell’informazione, e
attraverso la rete passa la linea di demarcazione dello sviluppo, la frattura
digitale, o digital divide. Non a caso, le organizzazioni internazionali
calcolano gli ‘indici di modernizzazione’ ponendo in relazione i dati sui
tassi di alfabetizzazione, di industrializzazione, di urbanizzazione e di
esposizione ai media. E c’è chi ha visto in questo atteggiamento una
versione aggiornata della ‘occidentalizzazione’ del mondo9.
L’accelerazione dei processi di disintermediazione figura tra gli effetti
più evidenti e importanti di questa rivoluzione. La rete ha indebolito la
funzione dei corpi intermedi in qualsiasi ambito: da quello politico –
pensiamo ad esempio al ruolo sbiadito dei partiti o dei sindacati – a quello
culturale – pensiamo all’indebolimento del ruolo di insegnanti, critici,
giornalisti, editori, bibliotecari, librai. La possibilità di un accesso
immediato e diretto ha messo in discussione il metodo con il quale si è
trasmessa la conoscenza per secoli, e cioè in modo organizzato e mediato
dall’autorevolezza ovvero dalla competenza. Questo significa che la rete
ha scardinato il sistema di accesso alla conoscenza a cui eravamo abituati?
Come vedremo la risposta è complessa, parziale, necessariamente
prudente.

1
Guido Martinotti, Informazione e sapere, Anabasi, Milano 1992, pp. 129-166, in particolare
pp. 145-147; il saggio era già apparso in La memoria del sapere, a cura di Pietro Rossi, Laterza,
Roma-Bari 1988, pp. 359-389.
2
Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 20022,
p. 34. L’edizione originale del volume risale al 1994.
3
Umberto Eco, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa,
Bompiani, Milano 1964.
4
Il riferimento è al primo capitolo, intitolato La cultura. Storia del concetto, del volume Per tutti i
gusti. La cultura nell’età dei consumi, Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 3-23. L’opera originale è del
2011 e apparve col titolo Culture in a Liquid Modern World per i tipi della Polity Press Ltd di
Cambridge.
5
Ivi, pp. 12-13.
6
Ivi, p. 23.
7
Ivi, p. 16. È qui che risuonano in modo evidente i toni della Scuola di Francoforte.
8
Ivi, pp. 13-14.
9
Così Armand Mattelart in La comunicazione globale (1996), Editori Riuniti, Roma 20032, p.
68: «per decollare, un Paese deve disporre di almeno dieci copie di giornali, cinque apparecchi
radio, due televisori, due posti al cinema ogni cento abitanti. Vettori di ‘comportamento
moderno’, i media sono visti come fattore di innovazione. [...] Questo credo assoluto in un
progresso esponenziale e nella virtù modernizzatrice dei media non fa altro che aggiornare le
vecchie concezioni etnocentriche delle teorie diffusioniste del XIX secolo. Il ‘primitivo’ è
diventato il ‘sottosviluppato’, e non gli rimane che imitare i modelli dei suoi fratelli maggiori».
3.
Un ecosistema globale
e territorializzato

Per iniziare a rispondere cominciamo dal territorio della rete, che


presenta tante contraddizioni, forse proprio perché include tutto. Non è
così globale come a prima vista potrebbe sembrare. E ciò ha delle
conseguenze assai rilevanti. Il sociologo francese Frédéric Martel mette in
chiaro i termini del problema: «Internet non uniforma le differenze: le
consacra. Infatti, non è globale, non annienta le identità: le valorizza. Le
nostre conversazioni sono e rimarranno territorializzate. Il contesto è
fondamentale. La geografia conta»1.
L’ipotesi di Martel è che il tempo di un’Internet globalizzata sia già alle
nostre spalle, si è ‘territorializzata’, è finita l’egemonia di un World Wide
Web dove tutto è equidistante e in cui le specificità culturali e linguistiche
devono combattere e resistere al mainstream che dilaga oltre ogni confine.
Oggi l’uso della rete è tutt’altro che globale e sta diventando sempre più
locale: inviamo messaggi ai nostri amici e parenti, consultiamo Google
Maps alla ricerca di indicazioni sulla strada che ci apprestiamo a
percorrere, utilizziamo l’app di un’azienda di trasporti per conoscere gli
orari dell’autobus che stiamo aspettando e che dovrebbe portarci al lavoro,
vogliamo conoscere le previsioni meteorologiche riguardanti la città in
cui viviamo, prenotiamo l’albergo o il ristorante di cui ci serviremo nel
fine settimana, ci rivolgiamo al commercio elettronico per acquistare libri
scritti nella nostra lingua madre. Internet sarà legato sempre più a questo
genere di usi quotidiani, piuttosto che essere utilizzato per discutere con
chi vive dalla parte opposta del pianeta: il suo impiego, anche quando è
funzionale alla collaborazione di una équipe internazionale di scienziati
che operano in università di continenti diversi, è legato alla ‘nostra’ sfera e
non a una sfera globale.
Internet è una galassia di comunità tenute insieme da interessi specifici.
Ed è questo un altro modo per evidenziare la sua dimensione orizzontale.
Riecheggiano qui le riflessioni della Scuola di Birmingham dei cultural
studies, e i nomi di Stuart Hall, Richard Hoggart, Raymond Williams, e
le loro illuminanti pagine sulla capacità di riappropriazione,
rielaborazione, ricodificazione, trasformazione e quindi diremmo anche
territorializzazione dei contenuti da parte di chi li fruisce, chiunque e
ovunque egli sia. Qualcosa di simile aveva affermato molti anni prima
uno dei più lucidi studiosi della società dell’informazione, Manuel
Castells, parlando di virtual community scientifiche, professionali, civiche, e
di nuovi assetti d’interazione organizzativa online, che preferiva chiamare
network, che divengono «forme di ‘comunità specializzata’, vale a dire
forme di socialità costruite intorno a interessi specifici»2.
Martel non nega che si stia avverando la profezia del ‘villaggio globale’3,
ma intende sottolineare la dimensione comunitaria e aggregativa del web:
«se l’infrastruttura di Internet è globale e territorializzata, i contenuti e le
conversazioni sono per lo più scollegate, territorializzate e frammentate.
Detto in altri termini: Internet è territorializzata attraverso interazioni
globali»4. La nostra ‘partecipazione’ alla rete si concretizza, nella
maggioranza dei casi, nel far parte di comunità più o meno circoscritte e
che raramente hanno elementi di interconnessione reciproca: ciascuno di
noi intesse parallelamente relazioni, per esempio, con i colleghi di lavoro,
con gli ex alunni dello stesso liceo, con i membri di un’associazione, con i
fan di un personaggio dello spettacolo o dello sport, con chi coltiva lo
stesso hobby o con chi soffre della nostra stessa patologia, e così via.
Queste distinte affiliazioni sono altrettante componenti della nostra
identità che contribuiscono a determinare orientamenti e comportamenti
individuali e collettivi.

1
Frédéric Martel, Smart. Inchiesta sulle reti (2014), Feltrinelli, Milano 2015, p. 372.
2
Cfr. Manuel Castells, Galassia Internet (2001), Feltrinelli, Milano 2002, pp. 126-130, dove si
parla di Internet come «supporto materiale all’individualismo in rete». Per una efficace
descrizione della network society, vedi Andrea Miconi, Teorie e pratiche del web, il Mulino,
Bologna 2018.
3
Espressione usata per la prima volta da Marshall McLuhan nel 1964 nel saggio Understanding
Media: The Extensions of Man: cfr. l’edizione italiana Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore,
Milano 1967.
4
Frédéric Martel, Smart cit., p. 358.
4.
I fili, il tessuto

La rete ha reso il campo informativo-culturale policentrico, mutevole,


disordinato, vitale. La crossmedialità, la convergenza tra media diversi è
fortissima, e l’online dialoga di continuo con l’offline, cosicché disegnare
una mappa del campo stesso è molto difficile. Una cartografia non
infedele potrebbe essere quella di una grande ragnatela, un grande
accampamento dove si parla e ci si parla da piattaforme diverse, con le
voci più diverse. E la metafora del ragno, decisamente minaccioso, è
proprio quella usata da un neurobiologo come Lamberto Maffei a
proposito della rete delle comunicazioni:
La rete del ragno delle Comunicazioni ha qualità speciali: la rapidità, la facilità dell’uso del
mezzo, la semplificazione del linguaggio nella continua ricerca della sintesi necessaria per
migliorare il fattore velocità, diventato traguardo essenziale del messaggio. [...] Il ragno della
Comunicazione ha cominciato ad interessare più l’occhio che l’orecchio e dal punto di vista del
sistema nervoso, quindi più il cervello visivo che quello del linguaggio. Il ragno della
Comunicazione possiede, forse inconsciamente, raffinate conoscenze neurologiche e si rivolge alla
parte del cervello più pronta a intrappolare gli insetti del mondo, dato che le immagini hanno una
via preferenziale nel cervello umano e prediligono l’emisfero destro; inoltre l’immagine è di per sé
già realtà, concetto indiscutibile tale da vincere persino l’incredulità di San Tommaso e quindi ha
una Potenza straordinaria di convinzione del ricevente. [...] Questa tendenza del ragno a
privilegiare operazioni mentali rapide contrasta con ciò che le neuroscienze ci dicono della
macchina cervello, sostanzialmente lenta, soprattutto se paragonata ai sistemi digitali di analisi
dell’informazione, i cui tempi sono dell’ordine dei nanosecondi1.

La rete viene spesso accusata di produrre una mutazione dei processi di


apprendimento della mente umana poiché il suo uso richiede e produce
processi di elaborazione differenti da quelli cui eravamo abituati. È
diventata quasi proverbiale la discutibile affermazione di Nicholas Carr
secondo cui Internet ci renderebbe stupidi. L’autore, parlando della
propria esperienza di navigazione (peraltro riferita a un’epoca in cui non
utilizzavamo smartphone e tablet e, quindi, gli effetti pervasivi della rete
erano assai meno potenti di quanto non accada ora), scriveva:
Mi accorsi che la rete esercitava su di me un’influenza molto maggiore rispetto a quanto non
facesse il mio vecchio computer privo di connessioni. Non era soltanto perché trascorrevo così
tanto tempo a fissare lo schermo di un computer. Non era nemmeno solo perché ormai le mie
abitudini e i miei ritmi di lavoro stavano cambiando, a mano a mano che mi abituavo a usare il
Web ed ero sempre più dipendente dai siti e dai servizi della rete. Sembrava cambiato il modo
stesso in cui il mio cervello funzionava. È stato allora che ho cominciato a preoccuparmi della mia
incapacità di prestare attenzione a un’unica cosa per più di due minuti. All’inizio pensavo si
trattasse del tipico rimbambimento di mezza età. Ma mi accorsi che il mio cervello non stava
semplicemente andando alla deriva. Era affamato. Chiedeva di essere alimentato nel modo in cui la
rete lo alimentava, e più veniva alimentato più aveva fame. Anche quando ero lontano dal
computer, bramavo di controllare le e-mail, di cliccare sui link, di usare Google. Volevo essere
connesso2.

I neuroscienziati studiano da tempo gli effetti collaterali che le pratiche


di rete stanno producendo sui meccanismi di funzionamento del nostro
cervello e sottolineano che se da una parte stiamo acquisendo nuove
abilità, dall’altra rischiamo di perderne delle altre. Ad esempio, abbiamo
imparato la lettura frammentata, quella che prevede l’esposizione a un
massiccio flusso di informazioni e immagini, ma stiamo perdendo la
‘lettura profonda’, cioè quella che ha bisogno di ‘pazienza cognitiva’, per
rubare un’espressione a Maryanne Wolf, una lettura che implica una
gamma di processi sofisticati che includono il ragionamento inferenziale e
deduttivo, le abilità analogiche, l’analisi critica, la riflessione e il
discernimento3. Con questo non stiamo dicendo che il primo tipo di
lettura sia meno ricco. Al contrario: il flusso può essere così denso da
produrre un sovraccarico cognitivo. È però una lettura esposta al rischio
di desensibilizzazione nei confronti del messaggio trasmesso, che induce a
una ricezione passiva4.
Affronteremo di nuovo più avanti la questione delle competenze.
Intanto sottolineiamo che le circostanze ambientali in cui oggi si svolgono
le pratiche culturali non paiono assecondare la ricerca della complessità.
Pur senza essere tecnofobi e senza disconoscere la valenza positiva di
questa orizzontalizzazione della conoscenza, dell’accorciamento delle
distanze tra chi produce cultura e chi la fruisce, in una parola di questa
metamorfosi democratica della cultura, qualche motivo di allarme è
legittimo. Ciò non è dovuto alle caratteristiche intrinseche della rete e dei
documenti in essa residenti, ma al modo in cui la usiamo. Rischiamo, per
esempio, di perdere di vista la distinzione tra gli atomi informativi
decontestualizzati e il sapere elaborato criticamente, tra principi e teorie e
la loro applicazione specifica, tra i singoli fili e il risultato di un processo
finalizzato alla costruzione di un tessuto, costituito dalle relazioni tra
questi elementi, orientati alla comprensione profonda di una questione o
alla ricerca della soluzione di un particolare problema.
La grande quantità di contenuti culturali disponibili e la facilità con cui
possiamo accedervi con uno sguardo a volo d’uccello e qualche
download, induce inevitabilmente un senso di sazietà che in realtà occulta
una deprivazione: l’abbondanza di risorse e contenuti non può coprire le
lacune dovute alla debolezza derivante da una alfabetizzazione
incompiuta. Incombe su di noi la minaccia di una nuova forma di
nozionismo: provando ad esprimerci attraverso uno slogan, possiamo dire
che il rischio è di ‘sapere tutto, senza capire niente’. Ci illudiamo che gli
ingredienti equivalgano a una pietanza, senza dover fare la fatica per
amalgamarli e cuocerli. Il fatto è che l’uso di qualsiasi strumento ha
bisogno di tempo per evolversi e maturare, come osserva Gino Roncaglia
nel suo libro dal titolo significativo L’età della frammentazione:
Può certo lasciare perplessi considerare ancora pre-industriale un mondo come quello della rete,
attorno al quale ruotano interessi miliardari e alcune fra le aziende più ricche e tecnologicamente
sviluppate al mondo. Ma che la rete sia ancora ben lontana dall’aver sviluppato tutte le sue
potenzialità è dimostrato proprio dalla necessità di superare granularità e frammentazione, non
solo attraverso l’uso di aggregatori ma attraverso l’uso di strumenti capaci di favorire la produzione
di informazione digitale realmente e nativamente strutturata e complessa5.

Certo, se l’età della rete si riducesse a essere l’età della frammentazione e


se la dimensione orizzontale della circolazione culturale divenisse
antitetica a qualsiasi forma di approfondimento di tipo verticale, avremmo
fatto un bel passo indietro. Con ragionato ottimismo possiamo però
sperare in un processo di crescita delle nostre capacità di elaborare e
utilizzare le enormi potenzialità di Internet. Ma c’è ancora tanto lavoro da
fare, specie da parte delle istituzioni formative.
A questo proposito, qualcosa va detto del rapporto che gli intellettuali
hanno avuto con la rete. Pur concedendo il beneficio della frattura
generazionale – che significa che chi appartiene ad un’era in cui la cultura
si produceva e diffondeva tramite i luoghi e i canali tradizionali (i libri e i
giornali, i teatri, i musei, le sale cinematografiche e da concerto, i dischi
ecc.) è portato quasi per istinto a ritenere che quelle forme di cultura
siano qualitativamente superiori rispetto a quelle ‘partecipate’ che oggi
vanno per la maggiore – una qualche responsabilità va individuata anche
nel mondo accademico e negli esperti qualificati che hanno spesso
abdicato al loro dovere di farsi ‘classe dirigente’. Spesso arroccati sulle
certezze del sapere, non hanno contribuito alla formazione dell’opinione
pubblica, non hanno svolto la cosiddetta ‘terza missione’ dell’università,
ovvero l’estensione e la diffusione delle conoscenze attraverso un accorto
lavoro di divulgazione, il solo che consente ai cittadini di maturare
un’opinione informata e di partecipare responsabilmente alle scelte
‘eticamente sensibili’ e al dibattito su tutte le questioni da cui dipende il
loro effettivo benessere. Gli intellettuali ‘ufficiali’ sono spesso restati
prigionieri del loro gergo e dei ristretti circoli di quello che Martinotti
chiamava ‘sapere organizzato’, condannandosi con ciò stesso
all’irrilevanza e alla frustrazione e aumentando la frattura fra cultura ‘di
regime’ e cultura ‘dal basso’.
Di certo in rete si percepisce un atteggiamento ostile, se non di
disprezzo, nei confronti del mondo della cultura. «Temo che stiamo
assistendo alla fine dell’idea stessa di competenza, un crollo – alimentato da
Google, basato su Wikipedia e impregnato di blog – di qualsiasi divisione
tra professionisti e profani, studenti e insegnanti, conoscitori informati e
fantasiosi speculatori»6. È quanto sostiene lo studioso americano Tom
Nichols che, pur consapevole della diffidenza, se non addirittura
dell’avversione, che gli americani con il loro pragmatismo hanno sempre
avuto nei confronti di intellettuali e ‘cervelloni’, sottolinea un sempre più
diffuso e radicale sentimento di delegittimazione e rabbioso rifiuto verso
le opinioni degli ‘esperti’ e verso il sapere specialistico. A partire da poche
e banali notizie recuperate sul web, gli americani si ritengono esperti di
qualsiasi cosa. Si convincono, ad esempio, di saperne quanto basta per
pretendere che i medici prescrivano loro un farmaco piuttosto che un
altro, di avere fondate opinioni sulla politica estera, sull’inquinamento
ambientale o sul riscaldamento globale, su ciò che la scuola dovrebbe
insegnare ai loro figli, sulla bontà del cibo senza glutine senza sapere cos’è
il glutine.
Mai ci sono state tante persone scolarizzate sul nostro pianeta, eppure
mai come in questo momento l’ignoranza esercita un fascino irresistibile.
E se i sentimenti di cui parla Nichols fossero una reazione a un abuso
delle ‘competenze’, a una dittatura degli ‘esperti’ che hanno nascosto
interessi di parte dietro argomentazioni astruse e incomprensibili ai più?
Pierre Bourdieu, decenni fa, ha spiegato in modo più che persuasivo
come la cultura sia stata spesso usata consapevolmente per creare, marcare
e salvaguardare le gerarchie sociali e le divisioni di classe7. Vero, ma da qui
a ritenere che la verità possa essere decisa a maggioranza attraverso i
plebisciti cui la rete ci sta abituando, ce ne corre.
Anche in Italia abbiamo assistito in più occasioni a clamorosi episodi di
contrapposizione popolarità/competenze. A volte il terreno di scontro è
stato la salute e il rifiuto delle posizioni della medicina ufficiale. Il ‘caso
Stamina’ – vale a dire la polemica innescata dalla sperimentazione,
rifiutata dalla comunità scientifica e bloccata poi dal ministero della
Salute, di un metodo di medicina rigenerativa basato sul trapianto di
cellule staminali mesenchimali che, a detta del suo promotore Davide
Vannoni, sarebbe stato capace di curare svariate malattie – e più
recentemente l’opposizione alle norme sulla obbligatorietà delle
vaccinazioni – in cui al timore sui rischi dei vaccini si sono mescolate
componenti ideologiche, alimentate anche da alcune forze politiche e
dietrologie sugli interessi economici delle case farmaceutiche – sono stati
probabilmente i più clamorosi.
Ma sono tanti i campi in cui ‘dal basso’ si sono rifiutate le opinioni degli
‘esperti’. Non è stata risparmiata neppure l’edizione 2019 del Festival di
Sanremo, dove il giudizio dei critici musicali accreditati in sala stampa
(pari al 30% dei voti complessivi) e quello di una ‘giuria d’onore’ formata
da personaggi del mondo dello spettacolo (20%) hanno ribaltato l’esito
che si stava determinando in base al televoto da casa (50%), producendo
un risultato che ha tenuto conto non solo della popolarità dei cantanti in
gara, ma anche della qualità dei testi e della musica. All’insegna di
affermazioni come «la musica la sceglie il popolo», l’interprete sconfitto si
è scagliato con animosità e rancore verso i giornalisti «che si sentono
importanti», lamentando l’ingiustizia subita8. Al di là della vicenda
specifica, un dato interessante dal punto di vista comunicativo è che la
replica dell’artista che si è sentito danneggiato è stata affidata a Instagram,
ovvero a una piattaforma che favorisce la monodirezionalità del flusso
informativo e non certo un confronto mediato. Con un messaggio
veicolato dai social puoi sostenere i tuoi argomenti con una scarsa
possibilità di contraddittorio, andando a generare quella ‘camera dell’eco’
di cui tanto si parla. Ambienti digitali dove si ritrovano contatti omogenei
per orientamento o per opinioni, nei quali circolano quasi soltanto
informazioni coerenti con le proprie convinzioni e preferenze, dove non
fa che accentuarsi il cosiddetto pregiudizio della conferma.
L’atteggiamento anti-establishment a volte va a saldarsi con un altro
orientamento, altrettanto diffuso in rete, e che trae origine però da
motivazioni del tutto diverse e di segno tendenzialmente positivo (anche
se a volte è poi degenerato in non condivisibili forme di illegalità). Ci
riferiamo a quella cultura stravagante, libertaria e ‘irregolare’ impersonata
dagli hacker che si propone di sfidare tutte le barriere costituite dalle
tecnologie e, per traslato, dall’economia e dalle leggi. Mettendo assieme
tutto questo, l’approdo sembrerebbe essere, più che una ‘rivoluzione
digitale’, una ‘insurrezione digitale’.
Del resto, la rete è stata fin dalla sua origine il terreno privilegiato per
chi voleva opporsi al ‘potere costituito’ e immaginare un ‘ambiente’ senza
regole. Tuttavia, anche le biografie di figure portatrici di una forte carica
di utopia e innovazione, come Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg e
tanti altri, che per anni ci hanno parlato di un mondo nuovo in cui il
sapere sarebbe stato liberamente alla portata di tutti, hanno avuto una
parabola controversa. Una volta divenuti i padroni della rete, il mondo
senza regole che avevano contribuito a costruire ha consentito loro di
svolgere in modo indisturbato le loro attività di monopolisti miliardari9.
Non a caso l’assetto creatosi anche grazie a loro, pur solido, è sottoposto a
critiche crescenti10 e ad azioni che mirano a modificarlo o indebolirlo:
dalle direttive europee sulla protezione della privacy alle pronunce o alle
indagini dell’antitrust.

1
Lamberto Maffei, Elogio della ribellione, il Mulino, Bologna 2016, pp. 27-28.
2
Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello (2010),
Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 31.
3
Cfr. Maryanne Wolf, Mirit Barzillai, The Importance of Deep Reading. What Will It Take for the
Next Generation To Read Thoughtfully – Both in Print and Online?, in «Educational Leadership»,
66, 6, 2009, pp. 32-37. Della Wolf si veda anche il notissimo volume Proust e il calamaro. Storia
e scienza del cervello che legge (2000), Vita e Pensiero, Milano 2009 e il più recente Lettore, vieni a
casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (2018), Vita e Pensiero, Milano 2018. Da non
trascurare che alle stesse conclusioni – ovvero che l’attività di lettura, che unisce una
componente storico-culturale a una componente propriamente neurofisiologica e fisica, non
avviene nello stesso modo su tutti i supporti; in particolare la lettura su schermo nelle modalità
tipiche del cosiddetto e-learning attuale ha pesanti ripercussioni sulla possibilità di lettura
approfondita e cioè sulla piena comprensione dei concetti, sulla loro articolazione e
complessità, sulla loro memorizzazione – è giunta una ricerca di 200 studiosi europei del
network E-read. Ne riferisce Lorenzo Tomasin, Testo digitale, tu ci inganni, in «Il Sole 24 Ore»,
24 febbraio 2019.
4
Si veda a questo proposito il volume di Alberto Oliverio, Il cervello che impara. Neuropedagogia
dall’infanzia alla vecchiaia, Giunti, Firenze 2017.
5
Gino Roncaglia, L’età della frammentazione. Cultura del libro e scuola digitale, Laterza, Bari-Roma
2018, p. 31. Il volume analizza a fondo il rapporto tra mondo digitale e formazione scolastica.
6
Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia
(2017), LUISS University Press, Roma 2018, p. 19. Corsivo dell’autore.
7
Cfr. Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), il Mulino, Bologna 1983.
8
https://video.repubblica.it/dossier/sanremo-2019/sanremo-2019-lo-sfogo-di-ultimo-con-i-
cronisti--vi-sentite-importanti-e-rompete-il-c/326741/327344.
9
Cfr. Federico Rampini, Rete padrona. Amazon, Apple, Google & co. Il volto oscuro della rivoluzione
digitale, Feltrinelli, Milano 2014.
10
La bibliografia sull’argomento acquista corposità crescente col passare degli anni; il capofila
della dottrina critica è Evgenij Morozov, del quale bisognerebbe leggere almeno Silicon Valley: i
signori del silicio (2016), Codice, Torino 2016, e L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di
internet (2011), Codice, Torino 2011. Vedi anche Jonathan Taplin, Move Fast and Break Things:
How Facebook, Google and Amazon Have Cornered Culture and What It Means for All of Us,
Macmillan, London 2017; Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando
il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2017; Katy Steinmetz, The bigger issue is your brain, in
«Time», 20 agosto 2018; Douglas Rushkoff, Piovono pietre sui bus di Google. Come la crescita è
diventata nemica della prosperità (2016), Stampa alternativa, Viterbo 2019.
5.
Il paradigma
della cultura orizzontale

Non c’è nulla che possiamo fare per ricomporre la frattura tra cultura
ufficiale e cultura di rete?
Alessandro Baricco, in un recente libro, ci invita ad abbandonare l’idea
di poter opporre resistenza al web e a costruire un nuovo umanesimo
digitale1.
Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o
fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande
chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare
diseguaglianze economiche ancora più grandi. [...] Lasciare che i più veloci vadano avanti, a creare
il futuro, riportandoli però tutte le sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del presente.

Le argomentazioni proposte possono aiutarci – non fosse altro per i toni


autocritici che l’analisi contiene e da cui muove – a comprendere l’origine
di quella rabbia contro le élite culturali – quelli che ‘hanno più di 500
libri in casa’ – di cui parla Nichols. Persone educate, ragionevoli, che
credono nella meritocrazia e nelle competenze, che lavorano per un
mondo migliore. Questa minoranza illuminata – prosegue lo scrittore
torinese – ha gradualmente perso ogni contatto con la maggioranza dei
cittadini, che frattanto venivano duramente colpiti dalla crisi economica
che ha cominciato a manifestarsi a partire dal 2007-2009. Più o meno
contemporaneamente, questa maggioranza ‘impoverita e ignorante’
partecipava però a una redistribuzione del potere, il cui simbolo era lo
smartphone che trasformava i consumers in prosumers: si abbattevano le
barriere psicologiche secolari su cui si reggeva il patto implicito fra le élite
e ‘la gente’. La rivoluzione digitale ha evidenziato e amplificato questa
spaccatura, anche perché i processi di redistribuzione, più percepiti che
reali, toccavano al massimo la sfera delle potenzialità e del sapere, ma non
quella della ricchezza o della giustizia sociale, e la gente si è incattivita, ha
cominciato a voler fare di testa sua, a rifiutare ragionamenti complessi:
preso atto della propria sostanziale impotenza, ha cominciato a fare il
contrario di ciò che le élite, sapienti ma lontane, suggerivano: nei
comportamenti elettorali, tanto per cominciare, proprio per liberarsi delle
élite. Scrive Baricco:
C’è qualcosa che possiamo fare, per cambiare l’inerzia di questa disfatta? Che io sappia,
ammettere che la gente ha ragione. Riprendere contatto con la realtà e accorgersi del casino che
abbiamo combinato. Mettersi immediatamente al lavoro per ridistribuire la ricchezza. Tornare a
occuparci di giustizia sociale. Staccare la spina alle vecchie élites novecentesche e affidarsi alle
intelligenze figlie del Game: farlo con la dovuta eleganza ma con ferocia. Dare un significato
nuovo a parole come progresso e sviluppo, quello che hanno è ormai avvelenato. Liberare le
intelligenze capaci di portarci fuori dal pensiero unico del There Is No Alternative. Smetterla di dare
alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di
coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui
misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo PIL) e coniare nuovi metri e misure che siano
all’altezza delle nostre vite. Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire
sull’educazione, sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l’immagine di una
nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che ci fa vomitare.

Il tempo ci dirà se questa ricomposizione è possibile. Non è la prima


volta che il sapere consolidato è sotto attacco, ma oggi l’attacco viene
portato all’interno di un quadro che è profondamente mutato: nella
società dell’informazione forse sono meno sopportabili che in passato
l’idea della disuguaglianza culturale e il privilegio di cui godono pochi
depositari del sapere.
Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di
cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i
sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche
perché vince chi ne sa di più.

Per comprendere la portata della rivoluzione che ci sta attraversando, la


domanda da porsi è: le pratiche culturali online sono da considerarsi
complementari a quelle cui partecipiamo nell’universo analogico, oppure
diventeranno un modo alternativo di fare cultura? Molto dipenderà anche
dal modo in cui le istituzioni culturali saranno capaci di orientare e
governare i processi. Prendiamo come esempio l’attività formativa a
distanza, che a volte diventa auto-formazione in modalità self-service:
bisogna capire se l’utilizzo individuale dei materiali didattici disponibili in
rete potrà mai generare un percorso formativo capace di sostituirsi a un
sistematico e organico corso di studi o se non servirà, comunque, una
integrazione di tipo ‘analogico’, come un servizio di coaching pedagogico.
Senza disconoscere la necessità di un radicale rinnovamento delle
istituzioni formative, non pensiamo sia opportuno assecondare la deriva
che tende a delegittimarle, contribuendo a scavare un solco sempre più
profondo tra i luoghi e le modalità dell’apprendimento canonico e le
pratiche auto-formative delle giovani generazioni.
Più in generale, dobbiamo chiederci se riusciamo autonomamente a
dotarci degli strumenti critici per valutare, organizzare, gerarchizzare ciò
che la rete ci mette a disposizione, dal momento che costruiamo da soli
l’offerta che risponde alle nostre domande: la collezione libraria di
riferimento per i nostri studi è quella che costruiamo sul desktop del
nostro computer, non più quella corrispondente al materiale posseduto da
una o più biblioteche, e non diversamente accade per l’intrattenimento.
Un obiettivo potenzialmente alla portata di tutti, purché si abbia una
‘competenza mediale’ (media literacy). E tuttavia le abilità tecniche da sole
non bastano. Gli effetti della disintermediazione e il venir meno del
principio di autorità vanno valutati con grande attenzione, soffermandosi
sugli aspetti di contesto che influenzano la produzione, la circolazione e il
trasferimento delle conoscenze.
Dunque, il paradigma della cultura orizzontale presenta varie facce e
non tutte di segno positivo. Se si desidera massimizzarne le ricadute
positive, è necessario comprendere anzitutto il fenomeno nella sua
interezza per poi disaggregarlo nelle sue diverse componenti. La questione
non è di natura ideologica, né si tratta di accettare o rifiutare quella che è
incontestabilmente una situazione di fatto: la ‘cultura’ non è più un
patrimonio precostituito da tramandare o del quale impadronirsi
attraverso una ricezione individuale e passiva, ma è un insieme di
«pratiche e conoscenze collettive»2 rese possibili quando una comunità è
dinamicamente e unitariamente coinvolta nei processi che le
determinano.
Sposando la tesi enunciata quasi mezzo secolo fa dal cibernetico e
psicologo inglese Gordon Pask, possiamo dire che la capacità di
comprendere e interpretare la realtà e di creare nuova conoscenza è
affidata alla capacità di interagire e di ‘conversare’3. Detta così sembra
essere un avanzamento di segno assolutamente positivo. A guardar bene,
però, questo processo improntato all’amichevolezza rischia di relegarci di
nuovo e più di prima al ruolo di meri spettatori: la conversazione non si
instaura ad armi pari, la potenza del mezzo con cui si gestiscono le
relazioni in rete e la straripante quantità di offerta potrebbero schiacciarci:
non a caso si parla di information overload.
È innegabile che agli ambienti di rete sia più congeniale il modo di ‘fare
cultura’ che prevede una convergenza interattiva tanto per la produzione,
quanto per l’acquisizione di conoscenza. In questa chiave è più corretto
parlare di ‘partecipazione culturale’, perché la cultura diventa una delle
componenti dell’appartenenza a una comunità e una delle condizioni per
il completo sviluppo della nostra identità di ‘individui sociali’, partecipi di
quella ‘intelligenza collettiva’ di cui ha parlato Lévy.
Come è facile immaginare, stiamo parlando di un fenomeno
assolutamente nuovo: la partecipazione è solo la forma attraverso cui si
realizza il nostro rapporto con la cultura e con gli ‘oggetti’ culturali oggi.
Per secoli, prima della smaterializzazione, le pratiche culturali degli
individui erano fisicamente palpabili, erano anche il frutto di un processo
di accumulazione e potevamo vederle negli ambienti in cui le persone
vivevano: entrando in una casa, il modo più efficace per farci un’idea della
persona che avevamo di fronte era scorrere con lo sguardo il dorso dei
libri presenti sugli scaffali o i quadri attaccati alle pareti, cui si sono poi
aggiunti i dischi in vinile e i CD musicali, le videocassette e i DVD dei
film. Poi la grande rivoluzione: dal possesso siamo passati all’accesso, dal
download alla fruizione in streaming, in cui la cultura si consuma in
modalità flat.
Questo ha modificato anche i modelli di business su cui si regge
l’economia della cultura. Oggi la cultura non ‘si possiede’ e non ‘si
acquista’, si usa. La percepiamo non come ‘un bene patrimoniale’, ma
come ‘un servizio’. A volte nell’illusione che ‘è tutto gratis’. Torneremo
su questi aspetti, ma conviene sottolineare ancora una volta quanto sia
importante avere capacità d’uso rispetto a questa offerta sterminata.
Parafrasando un detto latino, possiamo davvero dire che faber est suae
quisque culturae? È proprio vero che in rete si realizza il massimo
dell’autodeterminazione e che ‘uno vale uno’? Quando navighiamo siamo
davvero protagonisti di ciò che avviene o è solo cambiato il modo di
fruizione? Il dibattito sulle fake news e sulla post-verità, i timori per le
interferenze nelle scelte che compiamo quotidianamente negli ambiti più
diversi (dai consumi alla salute, dalla finanza all’alimentazione, fino ai
comportamenti elettorali), fanno spesso confusione tra il problema in sé e
la bontà degli strumenti che vengono utilizzati. A volte siamo esposti a
deliberati tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica, altre volte si
tratta di psicosi collettive, menzogne o convinzioni infondate che si
diffondono inspiegabilmente: non sono forme di condizionamento
nuove4 e non sono connaturate alla rete.
Noi stessi possiamo renderci complici dei processi di disinformazione.
La moltiplicazione e la capillare diffusione degli strumenti di
comunicazione online ha fatto crescere esponenzialmente la possibilità di
far ‘rimbalzare’ le notizie. Secondo il report dell’Edelman Trust Barometer5
l’incremento di consumers e amplifiers di news e informazioni a livello
globale nell’ultimo anno è stato del 22%, ma a crescere di più sono stati
proprio gli amplifiers, passati dal 26% del 2018 al 40% del 2019.
È evidente che oggi le manipolazioni possono essere più subdole perché
condotte con mezzi talmente potenti da rendere quasi impossibile
un’efficace azione di contenimento o di contrasto. Un esempio su tutti: la
disponibilità dei nostri dati personali. Yuval Noah Harari, uno dei più
influenti intellettuali del nostro tempo, ha tracciato un quadro che guarda
anche al futuro e che non è affatto rassicurante:
Già oggi banche, aziende e istituzioni usano algoritmi per analizzare i dati e prendere decisioni
che ci riguardano. Quando si chiede un prestito a una banca, è verosimile che la domanda venga
analizzata da un algoritmo piuttosto che da una persona in carne e ossa. [...] Ai livelli superiori
dell’autorità, manterremo probabilmente figure umane, che ci daranno l’illusione che gli algoritmi
siano solo dei servizi di consulenza e che l’autorità ultima sia ancora in mano agli individui. Non
verrà nominata l’IA [Intelligenza Artificiale, N.d.A.] come cancelliere della Germania o AD di
Google. Però le decisioni prese dal cancelliere e dall’AD saranno plasmate dall’IA. Il cancelliere
potrà ancora scegliere tra diverse opzioni differenti, ma tutte queste opzioni deriveranno
dall’analisi di Big Data e rifletteranno il modo in cui l’IA vede il mondo, più che il modo in cui lo
vedono gli uomini e le donne6.

È ovvio che, quando saranno disponibili una maggiore quantità di dati e


un più raffinato metodo per analizzarli, il loro peso tenderà a crescere,
riducendo il margine di discrezionalità in ogni decisione, dalla
concessione di un mutuo, alla selezione del personale in un’azienda, alla
decisione se vaccinarsi o se passare a una dieta vegetariana, alla scelta della
scuola che i propri figli dovranno frequentare o del partito per cui votare.
Alle vecchie gerarchie potrebbero sostituirsene altre, non meno
autoritarie, anche perché più subdole. Al momento, l’unico rimedio
efficace va ricercato in un uso responsabile degli strumenti che
utilizziamo e nello sviluppo, tra i cittadini e in particolare tra i giovani e
tra le persone con un basso livello di istruzione, di sempre maggiori
capacità di discernimento. Altrimenti risulta davvero difficile immaginare
una vita culturale, e in definitiva una società davvero aperta e partecipata,
in cui siano tutelati i diritti umani fondamentali di libertà e uguaglianza.
Non a caso l’Unione europea ha inserito fin dal 2006 la competenza
digitale – saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie
dell’informazione per il lavoro, il tempo libero, la comunicazione – fra le
competenze di base per l’apprendimento, indispensabile per il pieno
esercizio della cittadinanza attiva da parte degli abitanti dei paesi europei7.
La cosa preoccupante è che a distanza di dieci anni, in una rilevazione
fatta nel 2016, soltanto il 28,3% degli utenti italiani mostra di possedere
competenze digitali elevate; la maggioranza ha competenze di base
(35,1%) o basse (33,3%), mentre un gruppo ristretto di internauti non ha
alcuna competenza digitale (3,3%). Evidentemente, le difficoltà di tipo
attitudinale sono fortemente legate a fattori culturali, si ravvisano infatti
in chi ha titoli di studio medio-bassi, e il 49% di chi non utilizza Internet
dichiara di non farlo perché «usare la rete è troppo complicato»8.
Purtroppo, sebbene il tema delle ‘competenze’ sia di fondamentale
importanza, è ancora piuttosto sottovalutato.
Henry Jenkins, uno dei maggiori esperti di culture partecipative nell’era
digitale, sostiene la necessità di un impegno rivolto ad assicurare ai
giovani la possibilità di sviluppare competenze culturali e abilità nelle
relazioni sociali adeguate alla realtà del XXI secolo: a suo avviso, occorre
«spostare il focus dei discorsi relativi al digital divide dai problemi di accesso
tecnologico a quelli relativi alle opportunità per la partecipazione e lo
sviluppo di competenze culturali e abilità sociali necessarie per un pieno
coinvolgimento»9.
È un punto importante perché gli studi mostrano quanto forte sia il
legame tra la partecipazione culturale e le reti sociali, il far parte di
associazioni, l’essere iscritti a biblioteche:
in un paese la cui popolazione adulta è scarsamente dinamica sotto il profilo della pratica, della
partecipazione e del consumo culturale, e dove variabili come il genere, l’età, il livello di istruzione
e l’appartenenza territoriale definiscono profonde e permanenti diseguaglianze nel godimento del
patrimonio, delle arti e della cultura, l’inserimento in reti di tipo associativo si accompagna con
regolarità all’innalzamento dei livelli di attività culturale. Le reti, infatti, sembrano estendere alle
componenti sociali più svantaggiate, soggette a una diffusa e progressiva esclusione culturale, che si
intensifica con l’avanzare dell’età, un sostegno alla partecipazione culturale paragonabile al
vantaggio derivante dal possesso dei livelli più elevati di istruzione e della residenza nelle aree più
benestanti della Penisola10.

Certo gli esperti hanno la responsabilità di educare, ma è necessario che


i cittadini abbiano voglia di imparare: solo in questo modo si potranno
creare le condizioni per una effettiva par condicio di fronte alla rete, per
andare davvero nella direzione di cui parlava Pierre Lévy: realizzare
compiutamente un processo partecipativo che consenta lo sviluppo di una
‘intelligenza collettiva’. La principale, se non la sola, concreta applicazione
di massa in cui possiamo riconoscere una realizzazione di quello spunto è
nella filosofia wiki, che esalta il concetto di circolarità nella costruzione di
una conoscenza a portata di tutti e perfezionabile da tutti.
Ma come si declinano queste riflessioni sulle pratiche di rete nel nostro
paese?11 È importante comprenderlo perché, come vedremo più avanti, i
‘fattori culturali’ sembrano influenzare molto l’uso che gli italiani fanno
di Internet. Il numero degli utilizzatori della rete è pressoché raddoppiato
nell’ultimo decennio e tocca ormai il 92% dei nostri connazionali
(nell’ultimo anno si è registrato un incremento del 27%, con 11 milioni
di nuovi utenti): l’85% degli italiani si connette in mobilità, il 76%
utilizza uno smartphone, mentre il computer fisso si ferma al 62%; il
59% usa i social media e YouTube è la piattaforma maggiormente visitata,
seguita da WhatsApp e da Facebook. Le attività più frequenti sono:
messaggiare su mobile (praticata dall’87% degli utenti), accesso a file
video (81%), navigazione su mappe (76%), acquistare prodotti (75%:
oltre 14 miliardi vengono spesi per viaggi e sistemazioni alberghiere, 5 per
articoli di abbigliamento o di bellezza, oltre 3 miliardi e mezzo per
tecnologie, altrettanti per giocattoli e hobbistica, oltre 2 miliardi per
mobili ed elettrodomestici, in forte crescita gli acquisti di generi
alimentari), uso di giochi (49%), effettuazione di operazioni bancarie
(41%).
La fascia d’età che raggiunge il livello più elevato di uso di Internet è
quella compresa fra i 16 e i 20 anni, ma è molto forte anche il numero di
utenti regolari nella fascia 11-15. Le generazioni, oltre a presentare divari
nell’accesso alla rete, si caratterizzano anche per le differenti modalità
d’utilizzo: attività di comunicazione (invio di e-mail, telefonate via
Internet e invio di messaggi in chat, forum, blog o messaggi istantanei),
attività culturali o ludiche (ascoltare la radio sul web e guardare la tv in
streaming, leggere giornali, informazioni, riviste online, o leggere o
scaricare libri online o e-book oppure giocare o scaricare giochi,
immagini, libri, musica) e attività legate al commercio elettronico e ai
servizi bancari online (acquisto o vendita di beni e servizi, compresa la
partecipazione alle aste online, e attività di e-banking). Le attività di
comunicazione sono le più diffuse (questo utilizzo riguarda quasi il 96%
dei nati tra il 1991 e il 1995), ma anche gli usi ‘culturali’ non sono
trascurabili, essendo praticati dall’81,4% degli utenti regolari di Internet.
Più ancora della giovane età, il livello di istruzione può essere
considerato il fattore fondamentale per la diffusione delle diverse modalità
d’uso della rete e in alcuni casi annulla o quasi il divario tra le generazioni:
i laureati sono i soggetti maggiormente coinvolti in tutti gli ambiti di
attività online. Il titolo di studio porta con sé evidentemente competenze
diverse e incide moltissimo in relazione agli ambiti comunicativi (30
punti percentuali di scarto fra chi ha la laurea e chi ha solo la licenza
elementare) o commerciali (50 punti), ma in misura minore per quelli
ludici e culturali (dove la differenza si riduce a poco più di 11 punti).

1
Alessandro Baricco, The Game, Einaudi, Torino 2018 (da qui sono tratte le citazioni che
seguono). Molte delle posizioni che ritroviamo in questo volume erano già presenti in un
lavoro di Frank Rose, Immersi nelle storie. Il mestiere di raccontare nell’era di internet, Codice, Torino
2013 (The Art of Immersion: How the Digital Generation Is Remaking Hollywood, Madison Avenue,
and the Way We Tell Stories, W.W. Norton & Co., New York-London 2012).
2
Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da Tullio De Mauro, 6 voll., Utet, Torino
1999, sub voce.
3
Si vedano in particolare due suoi lavori: Conversation, Cognition and Learning: A Cybernetic
Theory and Methodology, Elsevier, Amsterdam 1975, e Conversation Theory: Applications in
Education and Epistemology, Elsevier, Amsterdam 1976.
4
Viene comunemente attribuita a Joseph Goebbels, ministro della propaganda di Hitler e
forse il più abile mago dell’era moderna nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa, la frase
secondo cui «Una bugia detta una volta è una bugia, ma ripetuta cento, mille, un milione di
volte diventerà una verità». La paradossale conferma di questa affermazione è che non è
possibile verificare la fondatezza di questa citazione e che nessuna fonte, né bibliografica né
online, può darcene la certezza. Non sappiamo quindi se il gerarca nazista l’abbia mai davvero
pronunciata. Tuttavia, la si trova riportata spessissimo di seconda mano, come facciamo anche
noi in questo caso.
5
Edelman Trust Barometer Global Report 2019, https://www.edelman.com/trust-barometer.
6
Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo (2018), Bompiani, Milano 2018, pp. 112-114.
7
Le otto competenze chiave indicate nella Raccomandazione del 18.12.2006 (Parlamento
europeo, Consiglio dell’Unione europea, Competenze chiave per l’apprendimento permanente,
2006/96/CE): comunicazione nella madre lingua, comunicazione nelle lingue straniere,
competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia, imparare ad imparare,
competenze sociali e civiche, spirito d’iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed
espressione culturale, competenza digitale. Nel 2015 la Commissione europea, assieme agli
Istituti nazionali di statistica, ha definito un nuovo quadro concettuale per la misurazione delle
competenze digitali. Le competenze sono articolate in 21 abilità, organizzate in 4 domini:
Informazione (accedere all’informazione online, effettuare ricerche online, articolare la
necessità di informazione online, localizzare l’informazione rilevante, selezionare in modo
efficace le risorse, navigare tra diverse fonti online, creare strategie personali di informazione);
Comunicazione (interagire attraverso l’impiego di una gamma variegata di dispositivi digitali e
applicazioni, comprendere come si articola, si realizza e gestisce la comunicazione digitale,
selezionare opportune modalità di comunicazione con l’impiego di strumenti digitali, essere
in grado di adoperare differenti formati comunicativi, adattare le modalità e la strategia di
comunicazione a specifici destinatari); Creazione di contenuti (creare contenuti in diversi
formati inclusi i multimedia, editare e perfezionare contenuti prodotti in prima persona o da
altri, esprimersi in modo creativo attraverso i media digitali e le tecnologie); Risoluzione di
problemi (identificare possibili problemi e risolverli con l’aiuto di strumenti digitali).
8
Cfr. Internet@Italia 2018. Domanda e offerta di servizi online e scenari di digitalizzazione, a cura
della Fondazione «Ugo Bordoni» e dell’Istat, pp. 30-31.
9
Henry Jenkins et al., Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo
(2010), Guerini e Associati, Milano 2010, p. 60.
10
Cfr. Annalisa Cicerchia, La partecipazione culturale degli adulti e l’appartenenza a reti, in Impresa
cultura. Comunità, territori, sviluppo. 14° Rapporto Annuale Federculture 2018, Gangemi, Roma
2018, p. 203.
11
I dati qui riportati, ove non venga indicata una fonte diversa, sono ricavati dal già citato
rapporto Internet@Italia 2018 e dalla sezione dell’indagine We Are Social relativa all’Italia,
https://wearesocial.com/it/blog/2019/01/digital-in-2019.
6.
La generazione delle reti

È fuor di dubbio che siamo parte di un’epoca che Peter Burke ha definito
di «esplosione della conoscenza», di rapida espansione e frammentazione
dei saperi, non solo per il diluvio di dati che la rete mette a disposizione
ma anche per l’aumento del numero di scienziati e studiosi, di libri
stampati, di e-book. Internet ha eroso e continuerà a erodere la
tradizionale distinzione tra le periferie, ‘le province’ e i centri del sapere
delle grandi metropoli1.
Al centro di questa vicenda ci sono i giovani: sono loro i portatori di
cambiamenti, sono loro a vivere in modo particolarmente accentuato tutti
i fenomeni ai quali si è fatto cenno. È indicativo che l’Istat per descrivere i
nati dal 1996 al 2015 abbia usato l’espressione ‘generazione delle reti’2,
giovani nati e cresciuti nell’era digitale, generazione sempre connessa, per
la quale «la rete è una commodity, data per scontata, e risulta quasi
impossibile vivere senza di essa»3. Questo vuol dire che è tramite la rete
che i giovani fanno tutto, e discutono anche di libri, film, serie tv, musica,
leggono recensioni, chat, consigli. Sono i dati a parlare: una ricerca
dell’AIE, l’associazione degli editori, effettuata nel 2018 ha confermato
che per la scelta di un libro un giovane lettore su due si fa consigliare da
social e community. Perciò, se parliamo di accesso al sapere, sembra oggi
difficile sopravvalutare il ruolo della rete, che è scena e attore, vettore di
cultura e formazione e fonte di produzione. È ormai dispiegata una forte
crossmedialità e una costruzione individuale della propria dieta mediale e
culturale. La rete è pratica attiva e nuovo spazio di espressione: recupero e
nuova composizione dei materiali, mash-up o remix4, o una forma di
bricolage nell’uso di app e tecnologie per una produzione sociale della
cultura. Le dinamiche di diffusione dell’informazione sono molto
articolate e per comprenderle bisogna frequentare i nodi e i luoghi dove si
discute e produce cultura in tutte le sue forme5. Senza magari l’eccessivo
ottimismo di qualche anno fa sulla capacità della rete di stimolare la
creatività o di ricomporre i legami sociali6. Anche e soprattutto
considerando l’incidenza dei mercanti dell’attenzione7. Stiamo parlando
delle piattaforme digitali che non per caso vengono definite matchmakers:
luoghi, strumenti che permettono alle persone di incontrarsi e che
traggono profitto dal valore economico generato da questo incontro, «sia
esso associato a uno scambio di un servizio o alla valorizzazione
dell’attenzione»8. La competizione per la cattura del nostro tempo libero
si è fatta feroce: l’attenzione è la valuta della nostra epoca9. La rete può
darci l’illusione di essere attori anche quando continuiamo a essere
spettatori abbattendo le gerarchie, come abbiamo visto. Ma chiediamoci
ancora una volta: quanto è uno spazio libero di partecipazione? Come
arriviamo a scegliere un prodotto invece di un altro, un libro o un
concerto? Nel mondo di ieri era chiaro: ci appoggiavamo ai giornali, alle
riviste, alla radio e alla televisione, ai critici, al passaparola. Oggi ci si
divide tra gli algoritmi che disegnano i nostri percorsi sulla base dei nostri
gusti e i consigli di amici, influencer, esperti.
Altro che età della disintermediazione! Siamo di fronte a un mediatore
diverso da quello che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento:
antigerarchico e con un potenziale di azione vastissimo. Anche se in un
contesto in cui domina la frammentazione, la rete ha moltiplicato gli
spazi, i luoghi in cui si parla di libri e film, di spettacoli teatrali e concerti:
nei blog e nei vari siti la recensione è la forma discorsiva più usata per
discutere. Ci si informa e si dà un giudizio, in un arco che va dalle stelline
e voti e metascores sino a giudizi lunghi ed elaborati. È vero che un
numero alto di blog può esaurirsi in una sorta di dilettantesco speaker’s
corner, ma è altrettanto vero che fioriscono versioni online di quelle che un
tempo erano le riviste specializzate. Amatorialità e professionalità, quindi,
blogger e mainstream reviewers. Con gli atout che la rete permette. Forse
non saranno gli scambi cui eravamo abituati con le riviste letterarie del
passato poiché scontano il limite della dispersione e della minore
influenza rispetto al mondo chiuso della società letteraria, ma hanno dalla
loro la multimedialità, l’ingresso in un flusso, una partecipazione più
aperta, meno cooptativa. Quanto alla qualità, la rete è una piazza, la rete è
un mercato. C’è davvero di tutto. E in questa piazza dovrà trovare un
ruolo il mediatore del futuro, che non dovrà più, probabilmente, solo
trasferire, filtrare, dare significato, ordine all’offerta culturale, ma essere
una figura capace di connettere, fornire collegamenti, link, far capire
l’architettura dell’informazione culturale, spiegare i percorsi cognitivi, la
cultura del web, la cultura digitale. Il mediatore del futuro si muoverà per
vie orizzontali e non verticali. Ma qualcosa della verticalità rimarrà. Ci
sarà bisogno – e torniamo all’alfabetizzazione, al media literacy – di
qualcuno che sia in grado di tenere testa a un sistema che può produrre
bolle, che può erodere la democrazia delle nostre istituzioni10. Stiamo
parlando, ad esempio, degli oligopoli costruiti dai grandi players, dei
poteri che dettano l’agenda, del fatto che in rete c’è senz’altro libertà di
azione individuale ma è un ambiente non predisposto, di per sé, alla parità
delle condizioni di partenza.
Certo non è e non sarà facile per i più giovani individuare mediatori di
qualità, intermediari seri e affidabili, abituati come sono a sistemi di
certificazione articolati, vischiosi, a-gerarchici, poco dominabili. Per i
millennials, come si scriveva poco fa citando i dati AIE, la voce dei critici
riconosciuti o di pagine culturali dallo status affermato equivale a quella
di tante altre fonti. Pochissimi basano le loro scelte di fruizione culturale
su recensioni tradizionali.
L’acquisizione di informazione, specie in un campo che vive di
accelerazioni come l’industria culturale nell’era digitale, con un’offerta
oceanica, con un ‘surplus cognitivo’11, è un’attività complessa, faticosa, e
il mediatore, magari nelle forme nuove che abbiamo appena descritto,
resta una figura a nostro avviso decisiva per un’appropriazione controllata
delle forme culturali altrui. Specie laddove, come oggi, il fruitore è un
consumatore culturale onnivoro, che orienta i suoi comportamenti verso
più direzioni12. Una funzione importante in questo senso potrebbero
rivestirla le biblioteche, anch’esse in parte vittime della buriana della
disintermediazione, ma che potrebbero tornare a essere il luogo
dell’information literacy, dell’educazione e dell’orientamento, della
bibliodiversità e del pluralismo culturale. Anche per questo è
incomprensibile il basso investimento sulle biblioteche di base e su quelle
scolastiche.
In un contesto come quello appena descritto, un’ultima parola ancora
sulla formazione. La scuola e le persone in formazione hanno bisogno di
conoscenza correlata e organizzata e l’esempio dei manuali scolastici è
molto utile poiché i modelli formativi influenzano la mentalità delle
future generazioni e i modelli di lettura e scrittura influenzano i modelli
formativi13. Non è un caso che Gino Roncaglia14, a proposito del dibattito
degli anni Ottanta sulla scrittura in rapporto al digitale, abbia ricordato i
tre paradigmi emersi – l’idea che le risorse digitali siano tali e tante da
rendere obsoleti i manuali tradizionali; l’autoproduzione di contenuti,
come ad esempio quella di manuali scolastici realizzati collaborativamente
da docenti e studenti che lavorano insieme; un ripensamento del libro di
testo scolastico, che ne salvi però i requisiti di autorialità e autorevolezza –
e abbia suggerito di seguire il terzo, perché consente di personalizzare i
percorsi e aumentare le voci in campo, ma senza perdere la bussola delle
competenze editoriali. Tornando sul tema del rapporto fra l’attività di
studio e la rete, Roncaglia ha recentemente negato, come già abbiamo
ricordato, che brevità e frammentazione – elementi che oggi prevalgono
tra i testi disponibili in rete – siano una caratteristica essenziale e
ineludibile del web, al cui interno si può invece perseguire quella ‘cultura
della complessità’, propria del libro e indispensabile per attivare un reale
processo formativo. «Contenuti e strumenti digitali – sostiene Roncaglia
– entrano, e devono entrare, nella scuola, come già fanno nella vita di
ciascuno. Una scuola che ignorasse il digitale sarebbe fuori della realtà.
Questo non implica affatto però che qualunque strumento o contenuto
digitale sia automaticamente buono perché digitale. Quella con cui
abbiamo a che fare è una galassia estesa e variegata, include ottime cose
ma anche molta spazzatura»15. Roncaglia rifiuta l’azione di
spacchettamento dei manuali effettuata da molti insegnanti e
l’autoproduzione di dispense artigianali: «Il digitale a scuola è stato spesso
presentato anche come uno strumento di decostruzione della didattica
tradizionale. Ma senza buone strategie di ricostruzione è improduttivo e
velleitario: un digitale debole, orientato solo alla granularizzazione dei
contenuti, produce una scuola debole e persa nella frammentazione.
L’esatto contrario di quello di cui abbiamo bisogno».
In conclusione: se la rete deve essere, come già è diventata, il terreno su
cui ci si forma, ci si accosta alla cultura e si sviluppa la partecipazione
culturale, spetta solo a noi il compito di utilizzarla al meglio, dando
complessità anche al digitale. Come sempre, i mezzi non sono né buoni
né cattivi, e gli effetti che essi producono sono soltanto il risultato del
modo in cui li usiamo.

1
Peter Burke, Dall’Encyclopédie a Wikipedia (2012), il Mulino, Bologna 2013.
2
Giorgio Alleva, Giovanni A. Barbieri, Generazioni. Le italiane e gli italiani di oggi attraverso le
statistiche, Donzelli, Roma 2016, pp. X sgg.
3
Ivi, p. 191.
4
Andrea Miconi, Teorie e pratiche del web cit., pp. 112 sgg.
5
Vedi Henry Jenkins, Sam Ford, Joshua Green, Spreadable media, New York University Press,
New York 2013.
6
Si veda Andrea Miconi, Teorie e pratiche del web cit.
7
Tim Wu, The Attention Merchants: From the Daily Newspaper to Social Media, How Our Time and
Attention Is Harvested and Sold, Atlantis Books, London 2017.
8
Marco Delmastro, Antonio Nicita, Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo, il Mulino,
Bologna 2019, p. 58.
9
Beniamino Pagliaro, Attenzione! Capire l’economia digitale ti può cambiare la vita, Hoepli, Milano
2018, p. 9.
10
La letteratura sull’argomento è sempre più corposa; per tutti vedi Jamie Bartlett, The People
vs. Tech: How the Internet Is Killing Democracy (and How We Save It), Ebury Press, London 2018.
11
Clay Shirky, Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale (2010), Codice, Torino
2010.  
12
Marc Verboord, The Legitimacy of Book Critics in the Age of the Internet and Omnivorousness:
Expert Critics, Internet Critics and Peer Critics in Flanders and The Netherlands, in «European
Sociological Review», 26, 6, 2010, pp. 623-637.
13
Giacomo Stella, Tutta un’altra scuola! Quella di oggi ha i giorni contati, Giunti, Firenze 2016.
14
Gino Roncaglia, [Intervento al Seminario] Il futuro dei libri. Il libro digitale, 22 gennaio 2016,
Senato della Repubblica, Roma 2017, pp. 36-45.
15
Gino Roncaglia, L’età della frammentazione cit., p. 9.
7.
Una nuova civiltà?

Saranno loro, gli abitanti dell’oltremondo, per usare il lessico di


Alessandro Baricco, coloro in cui si è compiuta la fusione tra mondo
‘reale’ e mondo digitale, a poter testimoniare gli esiti dei processi culturali
in ambiente digitale. Sono le giovani generazioni quelle in cui si scorge
una vera rivoluzione mentale, una nuova civiltà1. Sono soprattutto i
giovani a offrirci strumenti e chiavi interpretative per cercare di
comprendere la portata delle trasformazioni in atto e gli effetti che esse
potranno avere nel tempo sulle attività culturali praticate attraverso la rete.
Per questo ci concentreremo sui loro comportamenti culturali,
considerando non solo i dati quantitativi – ‘cosa’ e ‘quanto’ – ma
piuttosto ‘come’ e ‘dove’ apprendono e fanno cultura. Una tale analisi
dovrebbe aiutarci a prefigurare in parte quanto potrà accadere nei
prossimi decenni. Focalizzarsi sulla generazione più giovane non significa
assumere che siano soggetti ‘antropologicamente diversi’ o ‘geneticamente
modificati’ rispetto agli adulti o ai giovani delle generazioni precedenti2.
Significa piuttosto osservare quanto essi abbiano assorbito in modo
profondo il paradigma della rete: vale a dire la dimensione orizzontale
della trasmissione culturale, l’insofferenza verso qualunque mediazione o
processo di trasferimento delle conoscenze preconfezionate fondato sui
principi di autorità e gerarchia, il rifiuto di una propedeuticità dello
studio teorico rispetto alle pratiche applicative, o ancora la preferenza
all’apprendimento visivo più che testuale. Grazie all’agilità con cui le
nuove generazioni si spostano da un campo a un altro, da una forma di
cultura a un’altra, si superano i confini tra i diversi canali di
comunicazione culturale. Intanto perché la rete e i device mobili hanno
reso possibile la fruizione culturale sempre e ovunque senza dipendere da
un medium unico e specifico. E soprattutto perché non esistono più
categorie culturali percepite come più nobili e ‘alte’ rispetto ad altre: il
fumetto, le fiction, le serie televisive, i videogiochi, la letteratura di
genere, la musica leggera, tutto è cultura, indistintamente.
A fronte di questi significativi cambiamenti, chi studia tali fenomeni
sconta spesso un ritardo metodologico nel modo di elaborare e intendere
le statistiche riguardanti i comportamenti culturali reali, specie quando ci
si riferisce ai giovani. Bisogna anzitutto intendersi sul significato del
concetto stesso di ‘cultura’, che non possiamo limitare alle forme
tradizionali di espressione artistica o letteraria: visitare un museo o
dipingere un quadro, leggere un libro o esprimersi attraverso un blog,
andare a teatro o scattare una fotografia, ascoltare o eseguire un brano
musicale esauriscono, come in passato, le possibili pratiche culturali?
Inoltre, non è un dato trascurabile la moltiplicazione delle forme e dei
canali di comunicazione: è utile distinguere le pratiche culturali non solo
in base alle finalità (studio, tempo libero) o al contenuto (letteratura,
musica, spettacolo ecc.), ma anche in base alla modalità in cui il
contenuto culturale è veicolato. Prendiamo come esempio la lettura.
L’Istat, da un paio d’anni, ha introdotto alcune novità nel modo di
calcolare le statistiche sulla lettura. Se tradizionalmente tali statistiche
rilevavano soltanto i dati sulla lettura di libri nel tempo libero (e questo
dato ci consentiva di misurare il numero di quanti ‘sceglievano’ di
leggere, senza altre motivazioni), ora considera tutte le tipologie di lettori
di libri – chi legge nel tempo libero, chi lo fa per ragioni di studio o
professionali, chi per informarsi sui viaggi o sulle attività gastronomiche –
distinguendo chi legge per una sola di queste motivazioni o per più d’una.
Il dato che possiamo rilevare in questo caso è quanti sono coloro che
continuano a rivolgersi ai testi scritti e quanti utilizzano audiovisivi. Non
solo: se la fruizione è stand alone o in rete. Tutto ciò indipendentemente
dal fine per cui si legge: per informarsi, per studiare, per occupare il
tempo libero. Ma andiamo per ordine.

1
Alessandro Baricco, The Game cit. Si veda anche il romanzo di Giacomo Mazzariol, Gli
squali, Einaudi, Torino 2018, che ha per protagonista la generazione dei ‘ragazzi di inizio
millennio’.
2
Anche se Baricco – ma in realtà a leggere la letteratura specializzata lo si fa da anni – parla di
‘uomo fatto diversamente’. Un affresco riassuntivo delle mutate condizioni dell’adolescenza è
in Massimo Ammaniti, Adolescenti senza tempo, Raffaello Cortina, Milano 2018. Utili anche
pubblicazioni più recenti come Vittorio Lingiardi, Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri,
Utet, Torino 2019, e Maurizio Fea, Spegni quel cellulare. Le tecnologie tra cattive abitudini e
dipendenze, Carocci, Roma 2019.
8.
La parola scritta,
i libri, la lettura

Da circa 2.500 anni il libro è il principale strumento usato per la


diffusione e la circolazione della conoscenza1 e comincia da qui il nostro
viaggio per comprendere le trasformazioni che stanno investendo a livello
internazionale le pratiche di lettura e, di conseguenza, il mercato librario2.
Il rapporto delle giovani generazioni con i libri e con la lettura è
contraddittorio. Da una parte, infatti, ragazzi e adolescenti fanno
registrare percentuali più elevate di consumo culturale rispetto ad altre
fasce d’età, ma dall’altra non si può ignorare un progressivo
allontanamento dei giovani dalla lettura dei libri, che non sono più – a
differenza di quanto accaduto per le generazioni precedenti – il principale
riferimento per lo studio e le pratiche formative. Ciò che diremo in
questa sede è reso più incerto per il fatto che sappiamo molto poco di
altre forme di lettura (e di apprendimento) che non passano attraverso i
libri. Sappiamo che nel 2017 un terzo degli italiani ha usato Internet per
leggere giornali, news e riviste e che solo l’8,1% ha scaricato libri in
formato digitale. Sappiamo anche che in quell’anno più della metà
(61,7%) delle persone che adoperava il cellulare ha usato le funzionalità
che consentono l’invio/ricezione di testi scritti (SMS, e-mail, messaggeria
istantanea); tra i ragazzi di 15-19 anni la percentuale sale al 90%. Nel
corso del tempo si sono via via affermati nuovi oggetti di lettura: testi
brevi inviati e ricevuti via e-mail, oppure tramite Facebook e Twitter
oppure attraverso SMS o messaggeria istantanea.
Si afferma anche una nuova modalità di lettura più veloce e discontinua
che salta da un testo (breve) all’altro, diversa da quella tradizionale lineare
e progressiva. Anche quando ci troviamo di fronte a testi lunghi, cambia
intrinsecamente il modo in cui lo sguardo si rapporta alla parola scritta,
che viene scansionata più che letta3.
Tornando alla lettura di libri, va detto che il combinato disposto della
lettura in ambiente digitale e della frequentazione dei social network ha
portato anche all’affermarsi di nuove forme di condivisione
dell’esperienza di lettura: il social reading è un fenomeno molto
interessante, anche se diffuso prevalentemente solo tra i lettori abituali4.
Se analizziamo i dati Istat sulla lettura – stiamo parlando della lettura di
libri – degli italiani nel tempo libero nell’ultimo mezzo secolo, vediamo
che solo tra i giovani i lettori sono in maggioranza, superando il numero
dei non lettori: la fascia d’età in cui si legge di più è quella compresa fra
gli 11 e i 14 anni, dove la percentuale di coloro che leggono almeno un
libro all’anno è sempre stata maggiore del 50%, superando addirittura il
60% tra il 2002 e il 2012; nel 2018 il punto più alto è stato toccaro
proprio in questa fascia d’età col 58,2%.
I fattori che influenzano questi indici sono molteplici. Pesa sicuramente
l’azione della scuola che propone agli studenti la lettura come un valore
positivo e un’attività formativa complementare allo studio curricolare. Ad
essa si affiancano attività di promozione della lettura poste in essere sui
territori dalle biblioteche di base e da realtà dell’associazionismo e del
volontariato che operano a livello locale. In taluni casi, incide
positivamente il contesto familiare: vi è una forte correlazione con le
abitudini dei genitori (leggono il 75% circa dei ragazzi con genitori
lettori abituali, ma solo il 36% di quelli i cui genitori non leggono) e con
il numero di libri presenti in casa, al punto che i ragazzi che nascono figli
di lettori e che acquisiscono fin da piccoli una familiarità con i libri tra le
mura domestiche hanno una probabilità di divenire lettori da grandi di
ben 3,5 volte maggiore rispetto a chi cresce in una casa priva di libri5. A
questo proposito è da notare che il numero di famiglie che possiede libri,
cresciuto notevolmente nell’ultimo trentennio del Novecento, si è
sostanzialmente fermato nei primi vent’anni del nuovo secolo: cresce in
modo impercettibile solo la ristretta quota di famiglie che possiede più di
100 libri, mentre sfiora il 50% la percentuale di famiglie che possiede
meno di 50 volumi e oltre il 10% non ne possiede neppure uno.
A fronte di questi dati relativi ai ragazzi, il dato medio della lettura
sull’intera popolazione italiana si mantiene molto inferiore, se confrontato
con quello di paesi con tradizioni culturali e condizioni socio-
economiche paragonabili alla nostra: le statistiche registrano 10 punti
percentuali in più in Spagna, oltre 20 nel Regno Unito, quasi 30 in
Francia e USA, circa 40 in Germania, per non parlare delle popolazioni
scandinave; in Europa solo Portogallo, Grecia, Romania, Cipro, Malta e
Bulgaria fanno peggio di noi. Questi dati sono il risultato di ritardi
storici, in gran parte legati ai nostri livelli di istruzione molto bassi, ma
hanno visto anche un non trascurabile incremento. Siamo partiti da un
modestissimo 16,6% di cittadini che dichiaravano di leggere almeno un
libro all’anno nel tempo libero, come risulta dalla prima indagine Istat,
svolta nel 1965; l’indice si è attestato poi fra il 35 e il 40% nel decennio
1987-96, per effetto della crescita complessiva del paese e del processo di
scolarizzazione di massa; si è mantenuto stabilmente poco al di sopra del
40% dall’inizio degli anni Duemila e ha fatto registrare qualche lieve
progresso fino a toccare il punto più alto nel 2010 col 46,5%; comincia
poi a declinare per attestarsi al 40,6% nel 2018 in occasione dell’ultima
rilevazione. Il trend, pur restando negativo, sembra attenuarsi rispetto al
calo subito tra il 2011 e il 2014. Secondo l’Osservatorio AIE sulla lettura e
i consumi culturali, nel 2018 ha letto almeno un libro, un e-book o un
audiolibro nei dodici mesi precedenti il 62% della popolazione nella fascia
15-75 anni di età, pari a circa 28,2 milioni di persone. Questa percentuale
tiene conto di tutte le motivazioni (svago, studio, lavoro)6.
Una costante, anche sul lungo periodo, è rappresentata dal fatto che
bambini, ragazzi, adolescenti leggono più degli adulti, anche per effetto
della frequenza scolastica, e tuttavia va sottolineato che in questi ultimi
anni proprio fra di loro la lettura sta calando in misura maggiore: a partire
dal 2010 si sono persi oltre 13 punti percentuali nella fascia d’età
compresa fra gli 11 e i 14 anni, oltre 4 punti nella fascia 15-17 e altrettanti
nelle fasce 18-19 e 20-24 anni. Una contrazione così marcata nelle
generazioni in cui si legge di più deve giustamente destare allarme: se si
considera un inevitabile allontanamento dalla lettura dopo l’uscita dal
sistema scolastico, si può prevedere che quando l’ondata di questa
disaffezione raggiungerà le classi d’età in cui solitamente si è sempre letto
di meno, assisteremo a un forte ridimensionamento del mercato librario
e, più in generale, della funzione del libro come strumento di accesso al
sapere.
Storicamente i dati Istat riguardano esclusivamente la lettura praticata
nel tempo libero, quindi per scelta. Sommando anche le percentuali di chi
legge per motivi professionali o di studio – che solo in parte sono lettori
aggiuntivi, ma che in molti casi si sovrappongono a chi legge anche per
svago – si raggiunge il 60% circa della popolazione. Infatti, a un 5% che
legge esclusivamente per motivi professionali e scolastici, si deve
aggiungere un 11,5% di lettori ‘morbidi’, che troviamo prevalentemente
tra il pubblico adulto: l’Istat definisce in questo modo chi in prima istanza
dichiara di non essere lettore ma, dalle risposte date a successive richieste
dell’intervistatore, risulta aver letto alcuni tipi di libri. Tale categoria
accomuna gli utilizzatori di guide turistiche, ricettari di cucina (genere in
notevole incremento negli ultimi anni), bricolage e hobbistica – che
giustamente possiamo considerare lettori inconsapevoli, anche perché la
motivazione che li induce ad accostarsi ai libri non è la lettura vera e
propria – ma include, sia pure in misura minore, una parte dei lettori di
generi cosiddetti ‘minori’ (gialli, fantascienza, romanzi rosa e libri
supereconomici), che invece andrebbero considerati lettori a tutti gli
effetti, ma che evidentemente hanno una percezione di sé come individui
estranei alla ‘società letteraria’ e al ‘ceto colto’.
Scavando dentro queste statistiche, troviamo alcuni dati che ci possono
interessare. Molti giovani leggono solo per motivi scolastici (in genere il
16% degli studenti, il 18,1% nella fascia d’età 11-14, il 19% nella fascia
15-17, il 15,7% nella fascia 18-19) e questo dato la dice lunga sull’efficacia
delle attività di promozione della lettura praticate nelle scuole:
evidentemente, la lettura viene percepita unicamente come un’attività di
studio o parascolastica e in molti casi non transita nelle abitudini coltivate
autonomamente nel tempo libero.
Se analizziamo i dati sulle motivazioni che i giovani non lettori
intervistati dall’Istat hanno fornito, possiamo notare alcune risposte
interessanti. Innanzitutto, le risposte fornite dai giovani di età compresa
fra i 20 e i 24 anni si avvicinano di più a quelle degli adulti e quindi al
dato medio, mentre in alcuni casi lo scostamento è molto maggiore tra
ragazzi e adolescenti, da una parte, e dato medio, dall’altra: ciò
confermerebbe che è in atto una trasformazione nei comportamenti
destinata ad avere effetti ancora più rilevanti negli anni futuri.
Tabella 1. I perché della ‘non lettura’
Motivazione Età Età Età Età Media della
11-14 15-17 18-19 20-24 popolazione

I libri costano troppo 11,4 6,4 9,5 12,0 8,5


Non ci sono librerie
o edicole vicino casa 1,0 1,3 0,5 0,3 0,9
Non ci sono biblioteche 1,2 1,3 1,4 1,6 0,9
Problemi di vista 1,0 0,6 2,3 0,7 15,9
Non ho un posto tranquillo dove mettermi a
leggere 1,1 1,1 0,9 1,8 0,9
Ho poco tempo libero 18,9 17,6 22,3 35,7 30,0
I libri sono scritti in modo difficile 2,4 1,0 2,5 1,1 2,9
Sono troppo stanco dopo aver lavorato, studiato o
svolto le faccende di casa 12,7 10,3 5,4 9,8 9,1
Non so leggere, leggo male 1,1 1,2 5,0 0,9 7,9
Mi annoia, non mi appassiona 46,7 49,4 53,5 49,0 35,4
Preferisco altri svaghi 41,6 40,9 49,9 35,0 23,7
Al giorno d’oggi non serve più leggere 1,3 1,1 1,2 0,5 0,6
Preferisco altre forme di comunicazione 7,7 14,6 12,6 7,5 6,5
Ci vuole troppo tempo, ho bisogno di stimoli più
veloci 2,4 6,6 5,1 3,6 1,7
È sufficiente essere informati 1,3 1,5 2,2 2,2 3,2
Altro 1,0 0,6 0,8 0,6 0,7
Fonte: Istat.

La noia e la mancanza di interesse ricorrono nelle risposte dei giovani


molto di più che nella media della popolazione (questa risposta viene
fornita da quasi la metà dei giovani non lettori e da un terzo nella media
generale degli intervistati); anche la stanchezza a fine giornata sembra
togliere motivazioni ai giovani più che agli adulti; una discrepanza simile
riguarda pure la preferenza di altri svaghi (indicata anche in questo caso
da quasi la metà); benché in misura meno frequente, anche la risposta «Al
giorno d’oggi non serve più leggere» ricorre tra i giovani di 11-19 anni
circa il doppio delle volte che tra gli adulti; tra i 15 e i 19 anni la risposta
«Preferisco altre forme di comunicazione» oscilla tra il 12,6 e il 14,6% dei
casi; significativa anche la risposta «Ci vuole troppo tempo, ho bisogno di
stimoli più veloci», fornita con una certa frequenza dai ragazzi di 15-19
anni.
La mancanza di librerie, edicole e biblioteche non viene percepita come
una delle cause prevalenti della non lettura, né dai giovani né dagli adulti.
Utile fornire anche uno spaccato sulle preferenze dei lettori giovani, con
distinzione per genere di libri letti e per fasce d’età. Alcuni risultati sono
ampiamente prevedibili: al primo posto troviamo i libri di narrativa, sia
tra i giovani che tra il pubblico adulto, seguiti da fantascienza, fantasy,
horror e fumetti; mentre la saggistica comincia a farsi strada solo dopo i
18 anni. Anche in altri casi, ovviamente, le preferenze cambiano a
seconda delle fasce d’età e del contesto ambientale. Le abitudini di lettura
dei millennials sono state oggetto di molti studi, dai quali apprendiamo
che anche nelle realtà più avanzate, come il Nord America, spesso il
vecchio convive col nuovo7.
Per completare il quadro, possiamo aggiungere qualcosa sull’uso delle
quasi 14.000 biblioteche italiane, attività affine e contigua all’accesso alla
conoscenza attraverso i libri. I dati Istat, riferiti al 2019, parlano di un
15,3% in media della popolazione italiana che dichiara di aver utilizzato le
biblioteche. I dati più elevati sono quelli dell’Italia settentrionale,
superiori al 20%, mentre al Sud la percentuale è dell’8,6%; nelle periferie
delle aree metropolitane la quota è superiore al 17%. Relativamente alle
fasce d’età che ci interessano più da vicino, notiamo che le percentuali
sono del 38,5% per bambini e ragazzi di età compresa fra i 6 e i 14 anni,
del 35,3% nella fascia 15-19, del 36,1% nella fascia 20-24.
L’utilizzo più intenso riguarda gli studenti universitari (il 52,3% di loro
dichiara di essere stato in biblioteca almeno una volta al mese nel corso
dell’ultimo anno). Interessanti le motivazioni delle visite: quasi due terzi
degli intervistati si reca in biblioteca solo per studio, mentre le percentuali
di chi vi si reca nel tempo libero non raggiungono il 20%. Solo il 12-13%
di questa fascia d’età si collega al sito web della biblioteca per consultare
cataloghi o pubblicazioni full-text. Le attività svolte in prevalenza da chi
va in biblioteca sono quelle specifiche: leggere e studiare, prendere in
prestito libri (i volumi presi in prestito in biblioteca costituiscono il
14,1% dei libri letti nella fascia d’età 11-14 e il 10,6% nella fascia 15-17),
raccogliere informazioni bibliografiche; poco praticate la consultazione di
giornali e riviste (meno del 10% degli studenti universitari e percentuali
irrilevanti tra gli studenti medi) e il prestito di materiale audiovisivo, che
ormai viene prevalentemente scaricato dalla rete. Sono sempre inferiori
alle due cifre anche i dati statistici riguardanti la partecipazione alle
attività culturali organizzate dalle biblioteche, come corsi, dibattiti e
presentazione di libri, la visita a mostre, le presenze per assistere a
proiezioni, spettacoli o concerti. Questi istituti sono comunque un luogo
di aggregazione e un punto di riferimento sul territorio: infatti, a fronte
di un dato medio pari al 10% sul totale degli utenti di tutte le età, vi si
reca «per incontrare gli amici» il 18,1% dei frequentatori di età compresa
fra gli 11 e i 14 anni, il 22,2% nella fascia 15-17, il 16,7% nella fascia 18-
19, il 16,7% nella fascia 20-24. Le percentuali più elevate si registrano nei
piccoli comuni e nelle periferie, dove evidentemente le biblioteche
esercitano con maggiore attrattività la loro funzione di presidio culturale.
Una interpretazione sull’insieme di questi dati è abbastanza complessa e
va portata avanti ampliando lo sguardo. Tanto per cominciare, vanno
considerati distintamente – come si è cercato di fare – i dati che si
riferiscono alla lettura nel tempo libero e quelli relativi allo studio, mentre
altra cosa ancora è la lettura di giornali e riviste, così come la lettura di
libri cartacei rispetto a quella praticata attraverso computer fissi o
dispositivi mobili. Non disponiamo finora di rilevazioni complete e
affidabili specificamente mirate sulle forme di lettura in rete. Vi è
sicuramente una quota di giovani lettori che si è trasferita dal cartaceo al
digitale e che, specie nei prossimi anni, farà le prime esperienze di lettura
direttamente in ambiente digitale. Possiamo solo dire che, in base a dati
2018, la percentuale di coloro che hanno letto e-book nei tre mesi
precedenti all’intervista è tra i ragazzi circa il doppio rispetto alla media
nazionale (quasi il 16% tra i 15 e i 17 anni e poco meno del 15% tra i 18 e
i 24 anni, a fronte di una media dell’8,4% sull’intera popolazione). Ma
sarebbe inutilmente consolatorio limitarsi a prendere atto di un
trasferimento da una forma del libro a un’altra: infatti, meno del 13% dei
giovani dichiara di preferire gli e-book ai libri di carta.
Si tratta di dati che subiscono oscillazioni a volte notevoli da un anno
all’altro, forse anche a causa di metodi di rilevazione ancora non
sufficientemente affinati.
Se il cambiamento in atto consistesse solo nella sostituzione dei libri
tipografici con i libri elettronici – se si trattasse cioè solo di una
‘migrazione interna’, dovuta all’evoluzione della veste esteriore e degli
aspetti materici di questi oggetti – non ci sarebbe nulla di strano, anche
perché nella loro configurazione attuale gli e-book sono sostanzialmente
identici ai libri di carta: una loro imitazione, si potrebbe dire, cui manca
soltanto la carta. Il libro elettronico, in buona sostanza, non è riuscito ad
acquisire quella centralità simbolica che è determinante per il successo di
un prodotto, e non ci ha dato sinora quelle esperienze aggiuntive –
l’inserimento di suoni e video negli e-book è stata sinora deludente, e
debole è l’interattività – che ci aspettavamo8. Forse anche per queste
ragioni, i libri elettronici non hanno sfondato: nel 2018 sono stati
pubblicati 51.397 e-book nel nostro paese e per il secondo anno
consecutivo si è assistito a una riduzione del numero di titoli, dopo i circa
81mila del 2016 (nel 2018 il calo è stato del –17,2%, contro il –15,9% del
2017). Risulta rilevante il peso della produzione di e-book in self
publishing, visto che le prime venti piattaforme hanno proposto 11.698
titoli, pari al 22,8% della produzione complessiva.
Nel 2018 era ancora molto debole la diffusione degli audiolibri: circa
l’1% degli italiani ‘legge’ solo audiolibri e il 13% dei lettori ‘legge’ anche
audiolibri. Tra gli strumenti dedicati alla lettura digitale, lo smartphone è
quello largamente preferito per accedere ai contenuti editoriali, sia nel
caso di testi (in crescita dal 61% delle indicazioni del 2017 al 65% del
2018), sia per l’ascolto di audiolibri (dal 67% del 2017 al 75% del 2018).
In calo l’e-reader, che passa dal 54% nel 2017 al 47% nel 2018.

1
Cfr. Gian Arturo Ferrari, Libro, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
2
Tra i contributi più recenti, si veda l’articolo di Sarah Nicolas, These Are the Book and Reading
Statistics that Show Who Readers Are (https://bookriot.com/2019/02/14/book-and-reading-
statistics/), che raccoglie e commenta diverse statistiche, soprattutto statunitensi, su libri e
lettura.
3
Resta fondamentale lo studio di Jakob Nielsen, F-Shaped Pattern For Reading Web Content,
condotto nel 2006, per il quale si rimanda all’url https://www.nngroup.com/articles/f-shaped-
pattern-reading-web-content-discovered/. Tra le tante ricerche più recenti si segnala
https://www.go-gulf.ae/blog/how-people-read-content-online/.
4
Si legga in proposito Le reti della lettura. Tracce, modelli, pratiche del social reading, a cura di Chiara
Faggiolani e Maurizio Vivarelli, Editrice Bibliografica, Milano 2016. Per una panoramica
pressoché completa di esperienze e strumenti cfr. Viola Marchese, Leggere social. Una mappatura
delle pratiche di lettura condivisa in rete, in «DigitCult, Scientific Journal on Digital Cultures», 3, 2,
2018, pp. 37-54.
5
Adolfo Morrone, Miria Savioli, La lettura in Italia, Editrice Bibliografica, Milano 2008, p. 49.
6
Associazione Italiana Editori, 46. Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia, AIE, Milano 2019.
7
Cfr. https://ebookfriendly.com/reading-habits-of-millennials-generation-infographic/ e
https://geediting.com/world-reading-habits-2018/.
8
Ci permettiamo di rinviare a Giorgio Zanchini, Leggere, cosa e come. Il giornalismo e
l’informazione culturale nell’era della rete, Donzelli, Roma 2016.
9.
La mutazione digitale

L’evoluzione digitale della specie1 non riguarda solo gli oggetti della
lettura ma il concetto stesso di lettura e, più in generale, di accesso alla
conoscenza. Va ricordato che nel corso dell’ultimo decennio sono
radicalmente cambiate le condizioni in cui questo accesso avviene. La vera
rivoluzione – la ‘quinta rivoluzione’, potremmo dire, parafrasando Gino
Roncaglia e partendo da dove si ferma un suo interessante libro del 20102
– è dovuta alla connessione mobile, come già notavamo in precedenza. Il
fatto di poter essere ‘sempre connessi’ incide sui comportamenti delle
persone molto di più di quanto sia accaduto con la diffusione di Internet
tramite la rete fissa: fino a quando bisognava sedersi alla scrivania,
accendere un computer e collegarsi alla rete, l’attività di navigazione si è
svolta all’interno di limiti spazio-temporali ben determinati ed era il
risultato di una scelta consapevole. Se ci pensiamo bene, comportava una
decisione simile a quella di sedersi in poltrona per leggere un libro: era
‘una delle cose’ che potevamo fare per impiegare il nostro tempo. Ora la
rete è la dimensione permanente della nostra esistenza, la veicola, e ciò si
sovrappone a tutte le altre attività che svolgiamo, mentre lavoriamo,
mentre ci spostiamo, mentre mangiamo, e così via: forse è inutile
sottolineare che questo vale per i giovani molto di più che per gli adulti3.
Alcuni oggetti entrati nell’uso quotidiano e che ci sembra di maneggiare
da sempre, hanno in realtà circa dieci anni o poco più: l’iPhone è del
2007, il Kindle del 2009, l’iPad del 2010. Forse nessun altro apparato
tecnologico è riuscito in così poco tempo ad avere effetti tanto invasivi. Si
è già accennato alla frequenza con cui rivolgiamo lo sguardo allo schermo
dello smartphone: un’indagine compiuta alla fine del 2017
dall’Associazione Di.Te. (Associazione nazionale dipendenze
tecnologiche, gap e cyberbullismo) ha rivelato che il 51% dei ragazzi tra i
15 e i 20 anni ha difficoltà a prendersi una pausa dai dispositivi elettronici,
tanto da arrivare a controllare lo smartphone in media 75 volte al giorno,
mentre il 7% lo fa addirittura 110 volte al giorno.
Una vera e propria ‘mutazione ambientale’. La totale immersione nella
rete, la rapidità con cui si può accedere a ogni genere di contenuti in
forma interattiva, e la multifunzionalità degli smartphone e dei tablet
hanno di colpo reso obsoleto e vecchio tutto il resto. Per chi cresce e si
forma in questa era il libro non avrà più la funzione di principale
strumento attraverso il quale produrre conoscenza e accedere ad essa. Va
da sé che il libro ha alcune caratteristiche ben precise, che potremmo
sintetizzare col termine ‘complessità’. La lettura di un libro richiede oggi
lo stesso tempo che richiedeva secoli fa e comporta una concentrazione e
un’attenzione esclusiva: ciò sembra incompatibile, forse perfino
insopportabile, per gli stili di vita contemporanei. Vale per i giovani, ma
vale e varrà sempre di più anche per gli adulti perché stanno venendo
meno le condizioni oggettive per cui i libri possano continuare ad essere il
principale veicolo della comunicazione culturale.
Eppure non si è mai avuto un rapporto con la parola scritta così
continuo e intenso. La comunicazione scritta, soprattutto attraverso l’uso
di short messaging, è divenuta la modalità di comunicazione
preponderante: ormai 6 persone su 10 comunicano regolarmente nel
tempo libero tramite SMS, e-mail, Skype, instant messaging e social
network. Una quota pari al 4,5% della popolazione italiana dichiara di
usare regolarmente tutte le cinque modalità di comunicazione appena
citate. Tra i giovani in età compresa tra i 18 e i 24 anni la quota di
‘pluriutilizzatori’ raggiunge il 13,8%, ma prevale soprattutto l’utilizzo
regolare (giornaliero e settimanale) dei social network e degli instant
messaging (80%). Non si può dire, dunque, che non si legga e non si
scriva, né che guardare continuamente lo schermo sia necessariamente un
processo sottrattivo. La generazione nata nella prima metà del Novecento
tende a sottovalutare le potenzialità di tale rivoluzione perché applica le
proprie categorie a un mondo del quale ignora codici, regole, e
soprattutto modo di relazionarsi4.
Ma l’aspetto che qui interessa approfondire riguarda la qualità della
lettura, come forma di fruizione culturale. La lettura di libri è una pratica
formativa, che richiede applicazione nella ricerca di relazioni con altre
conoscenze o esperienze, che ci obbliga a ‘stare sulle parole’ per un tempo
non breve. Ciò può accadere, ovviamente, anche in ambiente digitale, ma
il fatto che in rete vi sia una grande quantità di contenuti facilmente
accessibili e prontamente disponibili può farci credere che non ci sia
bisogno di altro, che non valga la pena di ‘perdere tempo’ con strumenti
lenti come i libri, e indurci ad accontentarci del molto che ci viene dato
dalla rete. Ricchezza e facilità ci rendono passivi? Torniamo così al
concetto di ‘pazienza cognitiva’, già enunciato in precedenza: la
complessità che è propria del libro non riguarda solo la sua architettura,
ma anche il fatto che esso ci predispone ad appropriarci progressivamente
di contenuti articolati e complessi, attraverso uno sforzo di esercizio delle
nostre capacità critiche.
Sarebbe però una semplificazione eccessiva ritenere che la complessità
sta al libro come la superficialità sta al testo digitale. È una questione di
tempo: si appronteranno nuovi e più ricchi prodotti editoriali, ma
soprattutto cambieranno le competenze e gli strumenti del fruitore della
rete. Una lettura multitasking contaminata con altre attività e frutto
dell’integrazione di canali e linguaggi comunicativi diversi stanno
producendo cambiamenti di ordine cognitivo che possono consentire di
sviluppare attitudini e abilità nuove che prenderanno il posto di altre che
si stanno perdendo. Bisogna esserne consapevoli e capire, ad esempio, che
la lettura in rete tollera (o, addirittura, richiede) che venga lasciata la porta
aperta a ‘distrazioni’ che la lettura su carta non consente. Ciò può
sviluppare una capacità di governo dell’accesso alla conoscenza di
carattere più intuitivo, un’attitudine a un tipo di attenzione selettiva e
alternata. L’alternativa dettata dalla rete non è perciò fra complessità e
superficialità ma, semmai, fra attività e passività. Scorrere velocemente i
testi con lo sguardo non è la stessa cosa che leggerli.
Parlando delle forme di sapere che stiamo perdendo, il linguista Raffaele
Simone ha scritto in modo netto che «guardare è più facile che leggere»5 e
che quindi dobbiamo abituarci all’idea che si affermino nuovi ‘stili
conoscitivi’, fondati sulla simultaneità e sulla iconicità, dove la visione
delle immagini diventa la fonte primaria per acquisire conoscenze. Non
deve sorprendere, quindi, se i file video coprono ormai il 58% del traffico
di Internet. Dal canto suo, in un recente saggio sugli adolescenti, lo
psicoanalista Massimo Ammaniti ha invitato alla prudenza sul tema delle
eventuali modificazioni delle strutture cerebrali, in quanto non tutti gli
adolescenti reagiscono allo stesso modo al multitasking: se per alcuni
interferisce chiaramente sulla capacità di apprendimento, per altri può
innescare un processo positivo. Sembrerebbe che il multitasking negli
adolescenti crei difficoltà di performance solo quando,
contemporaneamente, sia in atto un impegno cognitivo più complesso6.
Da non trascurare è infine la preoccupazione di diversi neuroscienziati: il
cervello può ricevere in media solo sette informazioni indipendenti
contemporaneamente, e ogni impulso in più è un ostacolo per la
memorizzazione.
Naturale conseguenza di questa trasformazione degli stili di
apprendimento è un nuovo modo di studiare, attività che spesso viene
praticata in ambienti di rete. A volte si tratta solo di un affiancamento a
forme di didattica tradizionale (blended learning), dove si realizza un mix di
ambienti d’apprendimento diversi, combinando il metodo frontale in aula
con attività mediata dal computer. In molti casi, l’effetto pervasivo
dell’ambiente digitale sovverte le gerarchie nella metodologia
dell’apprendimento: le generazioni precedenti erano abituate a una
sequenza che dava la precedenza alla spiegazione da parte dell’insegnante
e/o allo studio della manualistica da parte dello studente, che solo in un
secondo momento provava a mettere in pratica ciò che aveva appreso,
attraverso le esercitazioni. Ora non è più così: nel mondo digitale si
procede per tentativi e si impara sperimentando (learning by doing).

1
Cfr. l’11° Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, L’evoluzione digitale della specie,
presentato nell’ottobre del 2013.
2
Il riferimento è a Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Laterza,
Roma-Bari 2010. Pur a distanza di tempo, questo lavoro rimane la più lucida analisi dei
cambiamenti che l’avvento degli e-book comporta, sviluppata in confronto con le tre
precedenti rivoluzioni vissute dal mondo dei testi e della lettura: il passaggio dall’oralità alla
scrittura, quella dal rotolo al libro paginato, quella dal manoscritto al libro a stampa
tipografica.
3
Un adolescente su quattro dichiara di essere perennemente collegato. Cfr. Paola Bignardi,
Elena Marta, Sara Alfieri, Generazione Z. Guardare il mondo con fiducia e speranza, Vita e
Pensiero, Milano 2018, p. 85.
4
Tra i tanti contributi sul tema, si veda Massimo Mantellini, Bassa risoluzione, Einaudi, Torino
2018, pp. 49 sgg.; dei preziosi lavori di danah boyd qui in Italia è reperibile It’s complicated. La
vita sociale degli adolescenti sul web (2014), Castelvecchi, Roma 2014, e ancora Giovanni Boccia
Artieri, Facebook per genitori, 40K, Milano 2011, e Fenomenologia dei social network. Presenza,
relazioni e consumi mediali degli italiani online, Guerini e Associati, Milano 2017. Sul duplice tema
dell’attenzione e delle modifiche nell’apprendimento cfr. il recente Marco Gui, Il digitale a
scuola. Rivoluzione o abbaglio?, il Mulino, Bologna 2019.
5
«La ‘fatica di leggere’ non può competere con la ‘facilità di guardare’»: Raffaele Simone, La
terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 84. Forse il libro
‘capofila’ di questo approccio è Homo videns di Giovanni Sartori, Laterza, Roma-Bari 1997,
che ha generato una gran mole di lavori sul tema.
6
M. Ammaniti, Adolescenti senza tempo cit., pp. 169 sgg.
10.
La cultura del fare

Nella zona di confine tra lo studio, la ricerca, la sperimentazione e il


divertimento, agli antipodi con la ‘cultura del libro’, e in continuità con
quanto è stato appena detto a proposito di learning by doing, c’è una nuova
forma di sapere pratico. Un tratto della cultura giovanile contemporanea è
legato sicuramente al ‘fai-da-te’ in ambiente digitale e cioè a quelle forme
di apprendimento e intrattenimento che si esplicano in attività nelle quali
teoria e pratica non costituiscono rispettivamente un prima e un dopo,
come accadeva in passato, ma sono momenti indistinti di un unico
processo, fatto di manualità, intraprendenza, creatività. C’è un termine
che descrive le persone, in prevalenza giovani, se non giovanissimi1, che
coltivano la passione per questo approccio: i makers – un po’ inventori, un
po’ artisti, un po’ artigiani, calati in questo mondo un po’ per hobby e un
po’ per professione – hanno dato vita ad una comunità assolutamente
informale, eppure diffusissima e fortemente interconnessa, in cui
l’innovazione tecnologica alimenta una sperimentazione continua e la
nascita di nuovi prodotti. A volte il confine con il mondo degli hacker –
almeno prima che assumesse una connotazione negativa e diventasse
sinonimo di pirateria e criminalità informatica – è molto sottile, perché
ciò che accomuna i makers agli hacker è l’ambizione di riuscire a superare
o aggirare tutte le barriere costituite dalle tecnologie. Il web è,
ovviamente, l’ambiente in cui avvengono queste cose, perché il desiderio
di condivisione contraddistingue questo regno del bricolage digitale e
consente lo scambio di know how: idee, esperienze, competenze.
Ma siccome la materialità e il massimo della smaterializzazione
convivono armonicamente in questo movimento, esistono anche luoghi
fisici in cui si realizza la fabbricazione digitale condivisa: i Fab Lab, nati
sul modello realizzato nel 2005 al MIT di Boston da Neil Gershenfeld e
descritto in pochi ma chiari principi2. Si tratta di una rete di vere e
proprie officine del XXI secolo, in cui si usano programmi soware open
source, stampanti 3D, frese a controllo numerico, tagliatrici laser e altri
utensili attraverso i quali esprimere la loro voglia di fare e di innovare.
Accanto a questi strumenti avanzati ne troviamo spesso altri, più
tradizionali, destinati alla lavorazione del metallo, del legno o di materiali
plastici. In altri casi si sperimentano tecnologie avanzate di realtà virtuale
o si impara a progettare il digital storytelling.
I makers sono esponenti di una ‘controcultura collaborativa’ che si
oppone allo stile convenzionale di produzione delle grandi imprese
industriali e coniuga la tradizione dell’artigianato con la fiducia nelle
tecnologie, ipotizzando processi produttivi ‘dal basso’. Dietro la filosofia
dei makers c’è quindi anche un modello di nuova economia, basata su
tecnologie a basso costo e liberamente accessibili a tutti. La loro bibbia è il
mensile «Make», da cui ha avuto origine nel 2006 la Maker Faire,
appuntamento annuale del movimento, in cui vengono esposte novità,
effettuate dimostrazioni, organizzate ‘maratone della creatività’; dal 2012
si tengono anche in Italia raduni del genere3.

1
In una recente indagine sui modi di vivere la cultura e l’arte si legge come sia più la
cosiddetta Generazione Z (quella che include i giovani di età inferiore ai vent’anni) della
Generazione Y (fino ai 30 o poco oltre) a svolgere attività creative in rete. Cfr. Alfredo Valeri,
Millennials & Gen z, modi di vivere Arte e Cultura. L’indagine di Civita, in Millennials e Cultura
nell’era digitale, Marsilio, Venezia 2018, pp. 15-51.
2
http://fab.cba.mit.edu/about/charter/.
3
http://www.makerfairerome.eu/it/. La settima edizione si è tenuta dal 18 al 20 ottobre 2019
alla Fiera di Roma.
11.
I giovani e l’informazione

Il campo che è stato più disarticolato dalla rivoluzione digitale è quello


informativo, e chi tenti una ricognizione del rapporto tra giovani e
informazione deve anzitutto sfidare un paradosso: pochi ambiti
conoscono un numero di ricerche così alto, una così continua diffusione
di dati, e tuttavia pochi ambiti sono così in movimento e quindi così
difficili da fotografare, da descrivere in maniera analitica. Qui davvero
l’orizzontalità impera. Con conseguenze interessanti. Alberto Asor Rosa
ha definito il giornalismo «un formidabile fatto organizzativo»1. Tutto ciò
che abbiamo detto a proposito del libro, della trasmissione della
conoscenza e del sapere correlato, vale in modo rafforzato per
l’informazione, per la comunicazione e trasmissione delle informazioni. Il
giornalismo, il modo in cui hanno circolato le informazioni anche dopo
l’avvento di radio e tv ma prima della rete, aveva delle forme controllabili,
misurabili, ordinate, gerarchiche, organizzate. Oggi no, oggi è tutto
diverso. Forme e organizzazioni ovviamente resistono, se non altro
perché qualsiasi comunicazione vuole una forma, ma assumono caratteri
inimmaginabili solo pochi anni fa. E l’impatto di questa rivoluzione sulle
nostre società è evidente. Non è certo un caso che le discussioni più
accese di questi ultimi anni abbiano riguardato gli effetti della rete e più in
particolare dei social media sull’opinione pubblica, sul modo in cui si
gerarchizzano le fonti di informazione, sui modi in cui si formano le
convinzioni politiche, e in ultima analisi sugli esiti politici di questi
processi. Tirare conclusioni sarebbe prematuro, sono processi epocali sui
quali la letteratura è ancora divisa e le evidenze empiriche lasciano aperti
più scenari.
Quel che è indiscutibile è che l’ecosistema comunicativo Internet ha
cambiato il modo in cui si produce, trasmette e riceve l’informazione: si
sono moltiplicati i modi, le fonti, i media2. È una metamorfosi che le
generazioni nate sino agli anni Ottanta hanno potuto osservare nel suo
svolgersi, ma che la generazione delle reti ha sostanzialmente trovato, è
una generazione cresciuta con la rete, e con strumenti che le permettono
di accedere all’informazione senza limiti di tempo, spazio, luogo.
I dati degli istituti di ricerca ci forniscono numeri e analisi piuttosto
convergenti. Abbiamo già visto i dati Istat nel capitolo dedicato alle
abitudini digitali degli italiani. L’Osservatorio News-Italia dell’Università
di Urbino elenca altri dati e analisi, che poco si discostano3: tra il 2010 e il
2018 la carta stampata ha perso in Italia quasi la metà dei suoi lettori
abituali, ormai sotto al 35% della popolazione. Nel 2018 i quotidiani
hanno perso 240mila copie al giorno rispetto all’anno precedente. Il calo
degli investimenti pubblicitari ha fatto il resto, mettendo in crisi un
modello di business che tra le altre cose garantiva una certa qualità
nell’offerta e nella selezione. La rete non fa che veder crescere il numero
dei suoi utenti, e specialmente tra il pubblico giovanile è il medium
dominante, al quale ci si abbevera soprattutto attraverso lo smartphone.
Facebook resta ancora il social medium più utilizzato per informarsi ma la
concorrenza delle altre piattaforme – specie WhatsApp, YouTube e
Instagram – è crescente, e il dato che ci interessa è la pervasività – tre
italiani su cinque – di queste piattaforme nei consumi mediali degli
italiani. Tra i legacy media la televisione resta lo strumento centrale, più o
meno stabile nei consumi, ma è soprattutto il pubblico più anziano ad
essere fedele, ed è crescente – di nuovo: con evidenti faglie generazionali
– l’ibridazione, la social tv, con transiti continui dallo schermo televisivo
ai social media, dalla tv ai siti più diversi. Un altro dato molto
significativo: sotto i 30 anni è Internet e non i notiziari televisivi nazionali
la piattaforma di informazione più diffusa. Gli italiani, insomma, si
informano sempre di più attraverso le piattaforme social e gli aggregatori
di notizie, in linea con una tendenza che è globale.
Questo non significa comunque che vengano abbandonate le fonti
online di organi di stampa più tradizionali, quali i siti web di quotidiani,
televisioni, radio, riviste specializzate. I primi due, i siti web di quotidiani
e tv, sono tra le fonti preferite, ma non – ed è significativo – nei paesi con
un’età media della popolazione più bassa e una permeabilità più alta alle
innovazioni tecnologiche. Il corposo capitolo dedicato a comunicazione e
media del Rapporto Censis 20194 evidenzia tendenze non dissimili:
giornali in profondo rosso, televisioni sempre in spolvero, soprattutto se si
tiene conto della pluralità di supporti e piattaforme digitali attraverso cui
vengono trasmessi i programmi, radio ancora largamente apprezzata e resa
liquida grazie ai podcast, e social network «campioni imbattuti della
comunicazione personale e della disintermediazione digitale»5. Se negli
ultimi anni nelle case degli italiani è leggermente calato il numero degli
apparecchi tradizionali, continua però la sensibile crescita di apparecchi
smart, che si possono collegare alla rete. A crescere in modo davvero
sensibile – e sarà un tema molto discusso più avanti – sono gli utenti dei
servizi video digitali: gli italiani che guardano i programmi di Netflix,
Infinity, Now Tv, TIMvision e delle altre piattaforme di tv on demand
sono aumentati dall’11,1% al 17,9%, con punte del 29,1% tra i giovani
under 30. La radio continua a rivelarsi all’avanguardia all’interno dei
processi di ibridazione del sistema dei media. I radioascoltatori sono il
79,3% degli italiani, e si intravedono tendenze che indicano la direzione
futura: la radio tradizionale perde 2,9 punti percentuali di utenza (oggi al
56,2%), così come l’autoradio (il 67,7% di utenza, –2,5% rispetto allo
scorso anno), ma la flessione è compensata dall’ascolto delle trasmissioni
radiofoniche via Internet con il pc (lo fa il 17% degli italiani) e soprattutto
attraverso lo smartphone (con una utenza al 20,7%, +1,6% rispetto allo
scorso anno). Il 2018 sarà ricordato come l’anno in cui gli smartphone
hanno superato i televisori, 43,6 milioni vs. 42,3.
Internet, gli smartphone e i social network continuano inesorabilmente
a crescere. Gli italiani che usano la rete passano in un anno dal 75,2% al
78,4%, quelli che utilizzano gli smartphone salgono dal 69,6% al 73,8%,
mentre gli utenti dei social network aumentano dal 67,3% al 72,5% della
popolazione. Continuano a crescere gli utenti di WhatsApp (il 67,5%
degli italiani, l’81,6% degli under 30), mentre più della metà della
popolazione fa ricorso ai due social network più popolari: Facebook
(56%) e YouTube (51,8%). Notevole è il passo in avanti compiuto da
Instagram, che arriva al 26,7% di utenza (e al 55,2% tra i giovani),
mentre Twitter scende al 12,3%.
Male la carta stampata, anche qui con numeri simili a quelli degli istituti
di ricerca già citati. Nel 2007 i quotidiani erano letti dal 67% degli
italiani, nel 2018 siamo al 37,4%, anche se rispetto all’anno precedente si
registra un +1,6% di utenza. Un crollo compensato solo in parte dai
giornali online, che nello stesso periodo sono passati dal 21,1% al 26,3%.
Meglio gli aggregatori di notizie online e i portali web di informazione,
che sono consultati dal 46,1% degli italiani. La Figura 1 mostra
sinotticamente quanto accaduto.

Fig. 1. Aumento o diminuzione dell’utenza complessiva dei media, 2007-2018 (valori percentuali)
Fonte: indagini Censis 2007-2018.

Il dato che forse ci interessa di più è però quello della cesura


generazionale, che conferma l’impostazione di fondo del nostro lavoro.
Nei consumi mediatici la cesura non tende a ridursi. I giovani si
muovono con agilità nel sistema della comunicazione digitale, sfruttando
più di chiunque altro l’insieme delle opportunità che esso offre. Tra gli
under 30 la quota di utenti di Internet supera il 90%, mentre è ferma al
42,5% tra gli over 65; più dell’86% dei primi usa lo smartphone, ma lo fa
solo il 35% dei secondi; più del 70% dei giovani è iscritto a Facebook e
usa YouTube, contro circa il 20% degli anziani; più della metà dei giovani
consulta i siti web di informazione, contro appena un quinto degli
anziani; il 46,6% dei primi guarda la web tv, contro appena il 9,5% dei
secondi; il 35,6% dei giovani ascolta la radio attraverso il telefono
cellulare, mentre lo fa solo il 4,3% dei longevi; su Twitter c’è un quarto
dei giovani e un marginale 2,6% degli over 65 anni.
Fig. 2. L’utenza complessiva dei media digitali: le distanze tra i giovani e gli anziani (valori percentuali)
Fonte: indagine Censis 2018.

Nell’analisi del Censis ci sono peraltro alcune letture dei fenomeni in


corso che meritano una segnalazione perché avallano alcune
interpretazioni su cui in queste pagine stiamo insistendo molto. Si parla di
transmedialità matura, concetto sul quale molto abbiamo battuto, e si
sottolinea come i literacy media, i media tradizionali, in primis la radio e
poi la tv e la carta stampata, non abbiano subito erosioni significative su
un valore importante: la credibilità, l’affidabilità, a conferma di un
sopravvivente bisogno di ancoraggio a un certo tipo di mediatori.
Complici la vicenda Cambridge Analytics, le polemiche sulle fake news
durante le elezioni e il talvolta ambiguo ruolo politico dei social network,
è invece cresciuta la diffidenza verso l’informazione online, e le
piattaforme che veicolano notizie soggette a possibili manipolazioni.
Anche qui con una faglia generazionale. Gli anziani sono molto più
sospettosi.
Altre tendenze invece continuano ad essere le stesse da anni: lo
smartphone come cuore del nuovo sistema della comunicazione, e il
quotidiano cartaceo come strumento davvero minoritario della fascia
d’età 14-29 anni: solo il 9% lo legge abitualmente, era il 9,8% nel 2016.
Per le generazioni del Novecento, per le quali il giornale cartaceo è stato
il principale veicolo di informazione, è un dato al quale si fatica a credere.
Sembrano insomma trovare conferma le fosche previsioni di chi da tempo
parlava di marcia verso l’irrilevanza dei quotidiani. D’altra parte la
progressiva, quasi inesorabile crisi della carta stampata è un fenomeno col
quale cerchiamo di fare i conti da anni. Una accurata ricerca economica
del 2015 parlava di «panorama complessivamente depresso causato da un
diffuso processo di disaffezione verso la carta stampata quotidiana iniziato
in maniera sostenuta a partire dal 2008»6, e l’ultima analisi – 2019 – della
stessa fonte aveva toni persino più pessimistici7.
Tabella 2. Mezzi d’informazione utilizzati negli ultimi sette giorni, per età (valori
percentuali)
Età

Totale 14-29 30-44 45-64 65-80


popolazione anni anni anni anni

Telegiornali 65,0 57,2 52,9 67,7 82,8


Facebook 25,9 33,0 36,3 25,4 7,2
Tv all news 22,6 16,9 23,9 25,8 20,9
Giornali radio 20,0 12,0 19,3 24,3 21,0
Quotidiani cartacei a pagamento 14,8 3,8 8,7 18,3 26,8
Motori di ricerca su Internet 14,0 16,5 18,1 14,6 5,4
Siti web d’informazione 13,3 17,0 19,4 12,3 4,2
Quotidiani online 8,9 7,3 11,9 10,1 4,9
Televideo 8,6 4,9 9,3 9,4 9,9
YouTube 7,3 17,6 6,9 5,0 1,7
Settimanali/mensili cartacei 6,0 3,4 5,9 5,3 10,1
App su smartphone 5,2 9,0 5,5 5,0 1,2
Blog, forum online 4,0 5,5 6,1 3,6 0,5
Free press 3,7 2,6 2,0 5,1 4,3
Servizio sms tramite telefono
cellulare 2,8 2,6 4,0 3,3 0,5
Twitter 1,8 3,9 1,1 1,8 0,6
Fonte: indagine Censis 2018.
I dati Censis sull’informazione in senso stretto ci dicono che nella
graduatoria dei media che gli italiani utilizzano per informarsi,
telegiornali e Facebook sono ancora in vetta, ma mentre i tg rafforzano la
loro funzione (la loro utenza passa dal 60,6% del 2017 al 65% del 2018),
nell’ultimo anno Facebook ha subito una battuta d’arresto (–9,1% di
utenza a scopi informativi). Si assiste a un calo che ha coinvolto non solo
gli altri social network, come YouTube (–5,3%) e Twitter (–3%), ma
anche la rete in generale (i motori di ricerca hanno perso il 7,8% di
utenza a fini informativi). Una lieve flessione ha interessato anche i
quotidiani online, passati da un’utenza del 10% all’8,9%. Sul fronte
dell’informazione digitale, risultano in ascesa solo i portali web
d’informazione, che registrano il 13,3% di utenza (+3%) (tab. 2). I
giovani non si discostano da questo trend generale: Facebook perde il
15,8% degli utenti a scopi informativi tra gli under 30 (dal 48,8% al
33%), i motori di ricerca passano dal 25,7% al 16,5% (-9,2%), YouTube
dal 20,7% al 17,6% (-3,1%), Twitter dal 10,6% al 3,9% (-6,7%), i
quotidiani online dal 10,3% al 7,3% (-3%). Tra gli under 30 crescono
solamente i siti web d’informazione (dall’11,2% al 17%, con una
differenza pari a +5,8%). Se numerosi sono gli utenti delle tv all news
(22,6%) e dei giornali radio (20%), appare meno rosea la situazione dei
mezzi a stampa: il 14,8% degli italiani ha letto i quotidiani cartacei negli
ultimi sette giorni per informarsi (ma solo il 3,8% dei giovani), il 6%
settimanali e mensili, il 3,7% la free press.
Sono numeri che, al di là dello stordimento che possono suscitare,
sembrerebbero confermare un assunto che circola da anni: la forma
giornalismo, i percorsi della notizia stanno conoscendo una sorta di
destrutturazione. Nel mondo digitale l’industria editoriale non ha più un
vero controllo dei suoi contenuti e quindi del suo futuro, perché dipende
sempre di più dagli aggregatori di notizie e dai social network.
Non è questa la sede per soffermarsi su ruolo e futuro della stampa.
Quello che va detto è che questo è un campo sul quale sarebbe temerario
fare previsioni. Tutto è troppo in movimento, e troppe previsioni sono
state presto smentite. Le tendenze di fondo sono figlie dei dati che
abbiamo appena riportato, ma sarebbe prematuro dare per morta la carta
stampata, che ad esempio in Germania nel 2018 è cresciuta sia per ricavi
sia per occupazione. E che soprattutto negli Stati Uniti ha avuto la
capacità di reinventarsi nell’ecosistema mediale Internet e conservare se
non centralità almeno importanza. I marchi dei quotidiani continuano ad
essere forti ed autorevoli, i loro siti sono ancora punti di riferimento per
l’informazione giornalistica sul web. La sfida resta tutt’oggi quella di
trasformare questa forza e autorevolezza in ricavi e utili, che ne possano
consentire la sopravvivenza. I grandi giornali americani – pensiamo in
particolare a «New York Times», «Washington Post», «Wall Street
Journal», ma è un discorso che vale in parte anche per gli inglesi
«Financial Times» e «The Economist» – sono riusciti a trasformarsi in
media company che usano analogico e digitale, cartaceo e web in modo
complementare, con buoni risultati in termini di abbonamenti, lettori,
utenti di siti e app.
Il solo «New York Times» ha raggiunto più di 4 milioni di abbonati
digitali. Ed è una strada che anche qui in Europa i grandi gruppi stanno
cercando di percorrere. Quello americano è un laboratorio
imprescindibile, per vastità e ricchezza del mercato, spinta innovativa,
investimenti tecnologici, fiducia nel ruolo della stampa. E diffusione della
lingua, ovviamente, che certo non è un fattore secondario. Bene, le
indicazioni che giungono – anche grazie a una mole di dati e ricerche
ammirevole8 – non possono essere scansate. La faglia generazionale è
evidentissima tra coloro che si sono formati e informati attraverso carta
stampata, radio e televisione e i giovani, che accanto a questi strumenti
usano un insieme di piattaforme che è parte della loro quotidianità: news
e magazine websites, blogs, social media, messaging apps, text alerts,
online video, graphic interchange formats, emoji e anche esperienze di
realtà virtuale. Solo dieci anni fa l’idea della fruizione di notizie sui
dispositivi mobili era considerata quasi avanguardistica, oggi è la
normalità, il modo più diffuso per informarsi. Attraverso il prezioso
lavoro del Pew Research Center e del suo annuale State of the News9 –
che nel 2018, scelta non casuale, è stato per così dire spacchettato nei vari
settori e piattaforme, laddove prima era un Rapporto che conteneva tutti
i media10 – abbiamo seguito l’evoluzione dei consumi informativi
statunitensi, col progressivo crescere della fruizione di notizie su uno
schermo e il progressivo inesorabile calo della carta stampata, la
sopravvivenza dello schermo televisivo per la fascia over 50 e la centralità
di smartphone e pc per quella 18-29 (di cui solo il 5% accede alle notizie
attraverso la carta stampata). Una fascia d’età, quest’ultima, per la quale i
social media hanno soppiantato la televisione come prima fonte di
informazione. Facebook è assurto a sovrano dell’universo social, anche se
negli ultimissimi anni, come sempre prima che in Europa, altri strumenti
ne stanno erodendo la centralità, in particolare Instagram, WhatsApp,
YouTube. I teenager con le loro abitudini stanno imponendo nuovi
terreni. Tra il 2009 e il 2018 la percentuale di lettori di giornali è passata
dal 60% al 20%, ma i giovanissimi continuano a cercare notizie. E le
incontrano soprattutto sulle app, ed è spesso un meme a farle decollare,
magari lanciato da attori famosi su Instagram (come accaduto nel 2019
per gli incendi in Amazzonia), con un impatto più pervasivo della grande
stampa, che talvolta arriva dopo e a ricasco. Non è certo un caso che
grandi giornali e riviste anglosassoni impieghino decine di redattori per la
distribuzione social dei loro contenuti11.
Analizzando i dati 2018, si legge che i network televisivi continuano a
perdere pubblico e investimenti pubblicitari: nel 2017 segnavano un –7%
di audience. La radio Fm resiste, raggiunge il 90% del pubblico
americano, ma è la radio online a galoppare: nel 2018 è stata ascoltata dal
64% dei cittadini (era il 24% nel 2008), ed è in corso un vero boom del
podcast, una pratica che nel 2018 ha coinvolto almeno una volta il 44%
degli americani (era il 7% nel 2013).
Inesorabile, come si diceva, prosegue il declino della carta stampata,
cominciato all’inizio del millennio. Nel 2017 la diffusione media dei
quotidiani è stata di 31 milioni di copie, –11% rispetto al 2016. Anche le
copie digitali, difficili da monitorare, sono calate, ma in compenso sono
cresciuti gli introiti da digitale, con crescite particolarmente significative
per quotidiani storici come il «New York Times» o il «Wall Street
Journal». L’86% di quotidiani e riviste ha scelto di far parte della
piattaforma Apple News. Se gli investimenti pubblicitari sul cartaceo
sono in sensibile calo, con percentuali persino peggiori di quelle del calo
della diffusione, c’è la nota positiva della pubblicità sul digitale, arrivata
ormai in media al 31% di tutti gli introiti. È anch’essa soggetta a
turbolenze, ma la strada sembra segnata. Statico ma alto il traffico web sui
siti dei quotidiani. Non può non colpire il tempo medio di visita dei siti:
due minuti e mezzo. Quanto all’universo delle digital news,
dell’informazione online, è il settore con il vento in poppa: il 93% degli
adulti si informa online, la pubblicità è in crescita, il tempo di lettura
anche qui piuttosto basso, pari a 2,4 minuti. Purtroppo negli ultimi mesi
alcuni giornali online hanno licenziato giornalisti, perché resta un
business model difficile, con due giganti, Google e Facebook, che
drenano il grosso degli investimenti. È uscito recentemente uno studio,
contestato, della News Media Alliance che ci ha consegnato un dato
impressionante: nel 2018 Google avrebbe guadagnato grazie al settore
delle news 4,7 miliardi di dollari, a fronte dei 5,1 miliardi di entrate
pubblicitarie di tutti i giornali americani. In sostanza Google grazie alle
news otterrebbe da sola le stesse entrate di chi quelle news produce12.
Chi fa o produce informazione adotta tutti gli strumenti che la
tecnologia offre, dalle app alle newsletter, ai podcast; l’obiettivo è appunto
il coinvolgimento, l’engagement, parola chiave di questo tempo. Tra i siti
d’informazione digitali l’83% usa newsletter, il 71% podcast, il 63%
permette l’intervento dei lettori tramite commenti. Sostanzialmente tutti
hanno un profilo Facebook, l’89% è su Instagram, il 94% su YouTube.
Va molto bene la pubblicità sugli smartphone, con un budget
complessivo di 61 miliardi di dollari. Facebook da sola se ne prende la
metà.
Potremmo aggiungere molti altri dati da una pluralità di fonti. Ci
limiteremo, per l’autorevolezza degli autori – il Reuters Institute for
Journalism e Ipsos – a citare altre percentuali su quella che per gli
americani è la principale fonte di informazione: 40% tv, 28% online,
12% social media, 6% carta stampata, 5% radio, 5% mobile news app13.

1
«I giornali – per dirla gramscianamente – sono intellettuali collettivi. La storia della cultura
italiana tra Otto e Novecento sarebbe fortemente incompleta, se prescindesse dal giornalismo,
che è innanzitutto un formidabile fatto organizzativo, ma in taluni momenti ha saputo
esprimersi con gli accenti generosi della passione e del convincimento etico». Alberto Asor
Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Laterza, Roma-Bari
2009, p. 123.
2
La bibliografia è già molto ampia; si vedano, oltre agli articoli sul tema pubblicati sul n.
4/2019 della rivista «il Mulino», Sara Bentivegna, Giovanni Boccia Artieri, Le teorie delle
comunicazioni di massa e la sfida digitale, Laterza, Bari-Roma 2019; Lella Mazzoli, Il patchwork
mediale. Comunicazione e informazione fra media tradizionali e media digitali, FrancoAngeli, Milano
2012; Id., Cross-news. L’informazione dai talk show ai social media, Codice, Torino 2013; Michele
Mezza, Giornalismi nella rete. Per non essere sudditi di Facebook e Google, Donzelli, Roma 2015; Id.,
Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto, Donzelli, Roma 2018; il n. 1/2014
di «Problemi dell’informazione», in particolare il saggio di Carlo Sorrentino, Arianna
Ciccone, Contro i giornali. Per amore del giornalismo,
https://www.festivaldelgiornalismo.com/contro-i-giornali-per-amore-del-giornalismo/;
indispensabile è la ricerca statunitense: per un quadro generale è opportuno frequentare i siti
del Nieman Lab e della «Columbia Journalism Review»; ci permettiamo infine di rimandare a
Giorgio Zanchini, Leggere, cosa e come cit.
3
https://news-italia.it ; vedi anche gli inquadramenti teorici dei dati contenuti in Raccontare la
cultura. Come si informano gli italiani, come si comunicano i musei, a cura di Lella Mazzoli,
FrancoAngeli, Milano 2018.
4
53° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, FrancoAngeli, Milano 2019.
5
Cfr. ivi, p. 449.
6
Vedi Report sull’editoria dell’ufficio studi di Mediobanca,
www.mbres.it/sites/default/files/resources/rs_Focus-EDITORIA-2015.pdf.
7
https://www.mbres.it/sites/default/files/resources/Presentazione_GDO%202019.pdf.
8
Ci si riferisce in particolare ai dati del Pew Research Center, del Nieman Lab, del Reuters
Institute for the Study of Journalism, della «Columbia Journalism Review».
9
https://www.journalism.org/2018/06/06/archived-state-of-the-news-media-reports/.
10
https://www.pewresearch.org/topics/state-of-the-news-media/.
11
Cfr. «The Economist», 21 dicembre 2019.
12
Cfr. Eugenio Cau, Google ha fatto 4,7 miliardi di entrate grazie alle notizie? Un report (via New
York Times) riattizza la guerra tra news e piattaforme digitali, in «Il Foglio», 11 giugno 2019.
13
Dati pubblicati e commentati in Poll: How Does the Public Think Journalism Happens?, in
«Columbia Journalism Review», 1, 2019, pp. 68-75.
12.
Porte diverse:
come cambia l’accesso

Più ancora dei dati che testimoniano la trasformazione, è il modo di


accedere alle notizie, però, che è per noi molto importante. Un numero
crescente di utenti si imbatte nelle notizie in modo per così dire non
intenzionale, fenomeno che si verifica in particolare grazie a Facebook,
YouTube e Instagram. E non con LinkedIn, Twitter e Reddit, perché lì la
divisione tra chi cerca notizie e chi non le cerca è più evidente.
Altrettanto importante, anzi decisivo, è il modo in cui si è trasformato il
cosiddetto newsmaking, il percorso della notizia, che ha ovviamente effetti
profondi sul modo in cui ci si informa. Quello che si può dire a proposito
del giornalismo negli Stati Uniti vale in realtà per il giornalismo in
generale, solo con più forza e più evidenza. Sono i tratti generali della
trasformazione, ai quali si è già più volte fatto riferimento. Su di essi la
letteratura non ha una posizione univoca (la ricerca su Google della frase
«futuro del giornalismo» produce 52 milioni di risultati) anche perché
viene ritenuto sempre più difficile definire l’attività giornalistica, giacché,
come si è detto ormai tante volte, nel momento in cui tutti possono
immettere contenuti, produrre comunicazione e anche informazione,
diventa sfuggente l’attribuzione di ruoli precisi. Non basta più l’autorità,
il ruolo appunto, la qualifica, la garanzia di un ordine professionale.
È un sistema ibrido, attivo 24 ore su 24, fatto da una convergenza tra la
prassi giornalistica, professionale o alternativa, flusso dei social network, e
produzione delle piattaforme1.
Una sfera pubblica digitale densissima, e densissima di informazioni, in
cui chi appunto cerca informazioni le trova ovunque, attingendo alle fonti
più diverse, professionali e non, autorevoli e non, spesso
nell’inconsapevolezza o persino nel rifiuto di una gerarchia. Le
informazioni sono sempre più viste come commodities che ci raggiungono
in ogni momento e in ogni luogo, senza che le scegliamo e per le quali
siamo sempre meno disposti a pagare. E i media sono sempre meno canali
che trasportano informazioni e sempre più «un ambiente dove tutti (o
quasi) cercano di entrare per piazzare i propri contenuti, per svolgere il
proprio storytelling»2.
In questa sfera, in questo campo dal perimetro che sfuma, il giornalista
non ha più la rendita di posizione di cui ha goduto per secoli, e sta
diventando, nei casi più riusciti e virtuosi, un curatore di informazioni,
un connettore di nodi, una figura che mette assieme il lavoro tradizionale
con la puntilliforme produzione dal basso, quella del citizen journalism e
dei social network, e che mette ordine nel flusso delle informazioni, delle
comunicazioni, delle notifiche. Anzi sarebbe proprio l’abilità nella
gestione di tanta ricchezza informativa a consegnare nuova
legittimazione, autorevolezza giornalistica3.
Non è certo un caso se il termine più usato in questa fase storica sia ri-
mediazione. Tra l’altro tutto ciò che abbiamo detto a proposito
dell’attenzione, di quella che è stata definita una battaglia per l’attenzione
di fruitori continuamente sollecitati, e che si rivolgono soprattutto allo
smartphone come vettore di informazioni4, vale anche qui. Anzi, vale
soprattutto qui, nell’informazione. Il giornalista tradizionale, il mediatore
che abbiamo conosciuto per tutto il Novecento, è adesso in competizione
con molti altri attori, dall’influencer che fa tutt’altro lavoro, alle aziende
col brand journalism, al blogger, all’utente comune, sino ai motori di ricerca
e ai grandi aggregatori. In un ambiente mediatico con una pluralità di
canali attraverso i quali moltissimi cercano visibilità pubblica.
Lo scrive con estrema chiarezza Carlo Sorrentino: l’avvento del digitale
ha provocato tre differenti crisi/cambiamenti. Che riguardano a) l’identità
professionale del giornalista, schiacciato tra le maggiori competenze
informative tanto delle fonti quanto dei cittadini, che possono partecipare
attivamente a tutte le fasi del processo informativo; b) il modello
economico: l’industria giornalistica non è più la sola deputata a
trasportare le notizie al pubblico, e a trarne un guadagno che la tenga in
piedi; oggi la segmentazione del pubblico e la digitalizzazione
determinano un progressivo azzeramento della catena di valore del bene
informazione, con il volume d’informazioni acquisibili gratuitamente che
aumenta senza sosta; c) il grado di fiducia espresso dall’opinione pubblica,
perché tutti i processi descritti minano la reputazione del giornalismo
come istituzione deputata a fornire ai cittadini le informazioni per essere
liberi e autonomi5.
D’altronde, che cosa accade nella realtà? Nelle situazioni di emergenza,
ad esempio, le breaking news situations, dove è forte lo user-generated
content e social, le notizie possono prendere forma prima ancora che i
giornalisti comincino a raccontare, e le storie che circolano di più sui
social media tendono ad essere messe al centro dell’agenda. Sono in
particolare i giovani a rivolgersi ai social media per verificare notizie che
hanno trovato altrove. In generale i giovani americani tendono a dare una
definizione di informazione più larga di quella alla quale siamo abituati, e
vi includono ciò che è prodotto dai social media e lo user-generated
content6. I giornalisti non possono dunque che aggiornare i loro linguaggi
e tenere conto del mutato paesaggio. Negli Stati Uniti ci sono ormai
decine e decine di studi su come i giornalisti usano i social, sui modi più
efficaci per coinvolgere il lettore, per creare appunto engagement7, così
come si moltiplicano gli studi sul fare giornalismo nell’era dei big data8.
Negli studi nordamericani si insiste molto sul modo spesso casuale di
accedere alle notizie, senza cioè un’azione intenzionale di ricerca. Si sta
utilizzando Facebook, Instagram o Snapchat, si riceve una notifica con
una notizia o un articolo e si legge quella notizia o quell’articolo, che
altrimenti non si sarebbe incontrato.
L’analisi quantitativa è però solo il primo passo, occorre capire anche i
possibili effetti della rivoluzione digitale sul modo in cui si informano le
nuove generazioni e quindi i cittadini di domani, i giovani. Qui
ricognizioni, diagnosi, valutazioni sono più articolati e meno pacifici,
perché più complessa è l’analisi, e tutt’altro che semplice l’interpretazione
dei dati.
Il punto di partenza di qualsiasi riflessione che metta al centro la
categoria di orizzontalità, quasi la sostanza del nostro lavoro, è che i
giovani sono i veri protagonisti dell’era della disintermediazione, sulla
quale ci siamo soffermati già tante volte. Molto più delle generazioni
precedenti, i ventenni sono cresciuti in un mondo in cui si accede ai
saperi, e in particolare all’informazione, senza i passaggi, le selezioni, i
filtri del passato, senza ricorrere al supporto dei garanti del sapere, ovvero
i maestri, gli autori, le biblioteche, i giornalisti. È un uso delle
informazioni che è stato definito, come tanti altri fenomeni della nostra
contemporaneità, liquido. È l’utente a scegliere quando e come seguire
un programma radiotelevisivo, è l’utente a muoversi all’interno
dell’offerta informativa sulla rete, a inserirsi nel percorso della notizia,
condividendola, commentandola, rilanciandola. Non a caso si è parlato
anche di mutualità informativa, di crowdsourcing dell’informazione.
Fortissima è la crossmedialità, la transmedialità; il percorso delle notizie si
snoda attraverso piattaforme e media diversi, viene ri-mediato, spesso in
modi imprevedibili, e i giovani si muovono con grande dimestichezza in
questo ambiente, in questo mondo-flusso, con modi di fruizione molto
diversi, che mischiano notizie con relazioni sociali, intrattenimento,
attivismo sociale9, e anche ‘autoproiezione ossessiva’10, «una società del
rispecchiamento in cui gli altri rappresentano un’estensione di sé, in un
circolo narcisistico in cui vale la regola ti apprezzo perché sei in grado di
apprezzarmi e confermarmi»11. Una specie di conversazione ininterrotta,
uno spazio psichico allargato, che ha nella ramificazione e nella
condivisione le sue cifre distintive, e che rende molto sfumati i perimetri.
Cosa definire giornalismo, atto giornalistico, informazione, in un’epoca
in cui chiunque può immettere contenuti informativi autoprodotti o
diffondere le informazioni di cui spesso ignora genesi e filiera?
Questa orizzontalità, questo modo spesso casuale e inintenzionale di
immettere, cercare e ricevere informazioni, è una sorta di corrispettivo
giornalistico di quella che è stata definita la cultura degli onnivori. Da
decenni si parla di secolarizzazione della cultura, di caduta di gerarchie e
confini tra le forme d’arte, e oggi si ha l’impressione che la rete e i
dispositivi mobili rendano questi processi ancora più fluidi, e i passaggi da
un campo a un altro, da una forma culturale a un’altra molto più naturali
e facili. Si diceva alcune pagine fa che sembrerebbe esserci un nesso tra la
decostruzione di ieri e la navigazione di oggi. Con la rete e i device si
sciolgono definitivamente i confini, si dissolvono le barriere. E tutto ciò
vale anche per l’informazione, specie per il modo in cui i giovani la usano.
Più si è giovani, più si è onnivori.
Poi, come sempre, vanno distinti gli usi. Perché l’universo giovanile è
composito: c’è chi è molto passivo, chi fatica ad orientarsi e denuncia
smarrimento, chi arriva alle notizie attraverso i canali social ma si fida
poco delle fonti e cerca conferme nei media tradizionali, chi invece si fida
di più dell’informazione dal basso, dei video o delle cronache di chi
partecipa ad un evento che di quelle dei reporter tradizionali, e anche chi
è molto attivo e cerca da un insieme di fonti diverse anche per mettere in
atto fact-checking. È l’idea stessa di seguire una notizia che ha assunto per i
più giovani un significato molto diverso rispetto a quello che aveva per le
generazioni precedenti. È un magma nel quale si indeboliscono
definizioni e ordini tradizionali, si fatica a riconoscere un’organizzazione
piramidale e non è casuale che percentuali minime di fruitori siano
disposte a pagare per accedere all’informazione12.
Il consumo critico di informazione rischia di essere un privilegio di
minoranze. Diverse ricerche ci dicono che soprattutto tra i giovani in età
scolare sono in molti a non essere capaci di distinguere tra fonti autorevoli
e credibili e propalatori di fake news, a orientarsi a fatica all’interno dei
risultati di una ricerca su Google, a non saper distinguere tra contenuti
puramente informativi e contenuti sponsorizzati13. È questo un tema sul
quale l’attenzione di giornalisti e studiosi è divenuta molto desta, e se
anche resta difficile misurare la reale portata delle fake news14 e provare
una correlazione tra l’uso dei nuovi media e una minore fiducia nella
politica, nelle istituzioni, in ultima analisi nella democrazia, la
preoccupazione non fa che crescere, così come non fanno che crescere
proposte, idee, suggerimenti, strategie per ‘bonificare’ il campo
dell’informazione15. Che è un ecosistema molto complesso, che include
fonti informative digitali, tradizionali e alternative, piattaforme di social
media e anche utenti e comunità online: la possibilità che la sfera del
discorso pubblico sia opacizzata, inquinata, che informazioni e notizie si
allontanino dal dato reale non può che incrementarsi16. Non è un caso
che alcuni dei maggiori paesi europei abbiano approvato normative
contro la pubblicazione di notizie false o calunniose, o regolamenti delle
autorità sulle comunicazioni, o ancora che le grandi piattaforme abbiano
cominciato a collaborare con le istituzioni, talvolta deputando il lavoro a
gruppi di fact-checkers, talaltra adottando dei codici.
C’è inoltre il rischio di un modello in cui la quantità prevalga sulla
qualità, il numero di clic, l’impatto e la condivisione sull’importanza della
notizia. Non è un caso che i più seri organi di informazione anglosassoni
tendano a separare l’ordine e la gerarchia delle notizie impostati dalla
redazione dagli articoli e dai video più cliccati, quasi ad esibire le
differenze.
Sono due quindi gli ordini di problemi. Il primo riguarda
l’organizzazione dei saperi, un nodo sul quale ci siamo soffermati anche
nel primo capitolo, nei nostri discorsi generali. È un discorso che interessa
tutta la comunità ma forse in modo più acuto la fascia giovanile. Di fronte
alla ridondanza informativa, al magma del mondo-flusso, abbiamo
bisogno di principi ordinatori, mediatori, gerarchie, o è bene puntare sul
modello della personalizzazione? I giovani ne hanno bisogno, sentono
questa esigenza? C’è una risposta forse consolatoria, e magari dettata
dall’età di chi scrive queste pagine, ma che sembra ragionevole: la
ridondanza informativa – è un discorso che in realtà vale per tutte le
informazioni che il mondo ci fornisce – vuole mediazioni, selezioni,
messa in forma. La contemporaneità, il modo in cui stiamo al mondo,
vuole (o quasi impone) risposte e gratificazioni immediate, ma il
giornalismo ha bisogno di calma e raziocinio.
Il giornalismo di qualità non può rinunciare a ciò che lo distingue dalla
canea dell’opinionismo: capacità di ricerca e cronaca, che significa cronisti
locali, corrispondenti esteri e team investigativi. Ci vogliono tempo, soldi
e personale per analizzare i contesti e spiegarli bene, ci vogliono nervi
saldi e riflessione per evitare di essere trascinati nel gorgo17. E ci vuole un
rigoroso processo di autenticazione, che significa controllo delle fonti,
fact-checking. Resta insomma fondamentale la funzione di certificazione
della veridicità e significatività dei fatti, che è quello che si definisce lo
specifico professionale18. Accade cioè nel giornalismo quello che accade
per altri campi del sapere. Scrive Pierre Nora a proposito del mestiere di
storico: «in un mondo appiattito su un eterno presente, condannato a uno
zapping continuo e dominato dai media, quindi a una lacerazione tra
Memoria e Potere, lo storico è più necessario che mai»19.
A maggior ragione se il pilastro dell’informazione è Facebook. Sul più
popolare dei social media, la letteratura è ormai corposa, ma le letture del
suo ruolo sono tutt’altro che pacifiche, anzi sono spesso divergenti20. Da
chi ne biasima il carattere di amplificatore delle inclinazioni e delle
identità, di fortificatore delle comunità chiuse, di propalatore di bufale e
inquinatore del discorso pubblico, a chi ne esalta la straordinaria capacità
connettiva e le possibilità di scoperte che offre. Per il giornalismo, e
dunque per i fruitori di informazioni, rappresenta una sfida enorme, che
definisce il campo, drena risorse, e rischia di inaridire la lettura aperta e in
profondità.
Il newsfeed di Facebook è per molti – e non solo per i più giovani – il
veicolo principe delle loro informazioni e quindi di una parte significativa
dell’organizzazione del reale, uno dei filtri attraverso i quali si guarda il
mondo. È più articolato e composito di quel che immaginiamo – ci
dicono già molte ricerche sul tema – ma resta la questione di una
organizzazione del sapere più chiusa e casuale di quella novecentesca.
Non scordiamo che sul newsfeed di Facebook ogni contenuto appare
nello stesso formato indipendentemente dalla fonte, cosa ben diversa dalle
comprensibili gerarchie grafiche di un sito di informazione o ancor più di
un tradizionale quotidiano cartaceo. L’algoritmo utilizzato prova a darci
un ordine, una gerarchia e risposte che si basano sui nostri
comportamenti, percorsi, tracce, desideri, ed è difficile scansare il dubbio
che ci spinga soprattutto verso ciò che ci è familiare. È inoltre
significativo e forse preoccupante che solo una percentuale minoritaria di
chi legge un articolo da Facebook va poi sul sito del giornale o della
rivista per vedere cos’altro c’è in pagina21. Così come andrebbero
ricordate le ricerche che ci dicono quanto ancora influenti e capaci di far
cambiare idea siano gli editoriali dei grandi quotidiani22.
Negli ultimi due anni le cose però sono cambiate. È stato lo stesso Mark
Zuckerberg, dapprima timidamente poi almeno all’apparenza con più
convinzione, a riconoscere l’enorme ruolo politico, sociale, informativo
di Facebook, andando oltre l’inadeguata definizione della sua società
come mera tech company, la cui sola funzione è quella di connettere le
persone, e ad avviarsi su una strada diversa – magari imposta, come nel
caso della direttiva europea sul copyright – : non soltanto pagare agli
editori una licenza per gli articoli al suo interno, ma anche lavorare per
debunk, disinquinare i contenuti fake o fuorvianti, costruire una squadra
editoriale per selezionare e offrire le migliori notizie.
Il secondo punto di rilievo riguarda l’educazione all’uso dei media. La
magmaticità del campo, la varietà delle fruizioni, la difficoltà di orientarsi
di fronte a quello che è stato definito l’exaflood informativo impongono
che le agenzie formative, in primis la scuola, lavorino sulla costruzione
delle capacità critiche nell’uso dei media, l’information literacy di cui già si è
parlato. Proprio le differenze interne alla generazione delle reti rischiano
di riprodurre e amplificare diseguaglianze che conosciamo bene per averle
sperimentate nel corso del Novecento, e come allora occorre rivolgersi
alle agenzie che possono portare eguaglianza di opportunità. Non si può
ignorare l’allarme, lanciato dal Censis nel 2017, sull’allontanamento degli
italiani dai mezzi a stampa, per cui si è parlato di ‘press divide’: il numero
di persone che non utilizza mezzi di comunicazione a stampa è passato dal
33,9% del 2006 al 55,1% del 2017, con un incremento di oltre 21 punti
percentuali23.
In estrema sintesi, nel mondo di ieri erano i giornalisti-mediatori a
costruire significati, orientare il lettore, l’ascoltatore, il telespettatore;
giornalisti che si muovevano all’interno di un sistema gerarchico, limitato,
controllabile. Oggi, nell’era della disintermediazione, siamo tutti noi a
fare direttamente il lavoro di selezione, «spesso senza nemmeno
accorgercene, in base agli interessi predefiniti sui nostri profili social,
oppure stimolati dai suggerimenti che ci appaiono sugli schermi dei nostri
supporti, casomai senza nemmeno conoscere i meccanismi che
c’inducono ad approfondire l’informazione sportiva piuttosto che quella
economica, le qualità di certi siti piuttosto che di determinati generi
narrativi»24.
Ed è proprio per via di questa opacità, inconsapevolezza, complessità,
che c’è forse bisogno di intermediari che abbiano le caratteristiche che
abbiamo elencato, e che sappiano aiutarci ad orientarci in un ambiente
denso di fatti ed opinioni25. Non solo, diventa sempre più urgente
lavorare sull’alfabetizzazione informativa.

1
Vedi Ivo Burum, Democratizing Journalism Through Mobile Media: The Mojo Revolution,
Routledge, London-New York 2016, pp. 180 sgg.
2
Carlo Sorrentino, Di che si parla? Forme e luoghi del discorso pubblico, in «il Mulino», 4, 2019, p.
549.
3
Cfr. Matt Carlson, Journalistic Authority: Legitimating News in the Digital Era, Columbia
University Press, New York 2017.
4
Cfr. Steve Hill, Paul Bradshaw, Mobile-First Journalism: Producing News for Social and Interactive
Media, Routledge, London-New York 2018, e Sue Greenwood, Future Journalism: Where We
Are and Where We’re Going, Routledge, London-New York 2017. Tra i più recenti testi italiani
suggeriamo Davide Mazzocco, Giornalismo online. Crossmedialità, blogging e social network: i nuovi
strumenti dell’informazione digitale, Centro di documentazione giornalistica, Roma 2018, e
Comunicare digitale. Manuale di teorie, tecniche e pratiche della comunicazione, a cura di Daniele
Chieffi, Centro di documentazione giornalistica, Roma 2018.
5
Si veda, chiaro e aggiornatissimo, Carlo Sorrentino, Le smarginature del giornalismo, in «il
Mulino», 1, 2019, pp. 121-126; vedi anche Maurizio Boldrini, Dalla carta alla rete andata e
ritorno. Giornalismo e nuovi media, La casa Usher, Firenze-Lucca 2017.
6
Vedi How Youth Navigate the News Landscape, Knight Foundation Report, 1° marzo 2017. La
ricerca si basa su un campione di persone tra i 14 e i 24 anni.
7
Per una rassegna vedi Seth C. Lewis, Logan Molyneux, A Decade of Research on Social Media
and Journalism: Assumptions, Blind Spots, and a Way Forward, in «Media and Communication», 6,
4, 2018, pp. 11-23.
8
Journalism in an Era of Big Data: Cases, Concepts, and Critiques, a cura di Seth C. Lewis,
Routledge, London-New York 2017, e Alfred Hermida, Mary Lynn Young, Data Journalism
and the Regeneration of News, Routledge, London-New York 2019.
9
Cfr. How Millennials Get the News, American Press Institute,
https://www.americanpressinstitute.org/publications/reports/survey-research/millennials-
news/.
10
Cfr. Pankaj Mishra, L’età della rabbia (2017), Mondadori, Milano 2018.
11
Massimo Ammaniti, Adolescenti senza tempo cit., p. 157.
12
In Italia è molto bassa la percentuale di coloro che pagano (4,9%) o pagherebbero per
accedere all’informazione. Un po’ più alta per la fascia giovanile (6,9%), ma ancora troppo
bassa per non suscitare dubbi sul sistema.
13
Si rimanda agli interventi sullo Stanford History Education Group,
https://sheg.stanford.edu/publications/magazine-articles, e anche a Censis, 15° Rapporto sulla
comunicazione cit., pp. 12 sgg.
14
Vedi il rapporto di Reuters Institute e Università di Oxford, Measuring the Reach of “Fake
News” and Online Disinformation in Europe, febbraio 2018,
https://reutersinstitute.politics.ox.ac.uk/our-research/measuring-reach-fake-news-and-
online-disinformation-europe.
15
Andrea Ceron, Vincenzo Memoli, Flames and Debates: Do Social Media Affect Satisfaction with
Democracy?, in «Social Indicators Research», 1, 2016, pp. 225-240. Tra i testi più generali:
Andrea Miconi, Teoria e pratiche del web cit.; Cass R. Sunstein, #Republic. La democrazia nell’epoca
dei social media (2017), il Mulino, Bologna 2017; Walter Quattrociocchi, Antonella Vicini,
Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, FrancoAngeli, Milano 2016;
Alfonso Fuggetta, Cittadini ai tempi di Internet. Per una cittadinanza consapevole nell’era del digitale,
FrancoAngeli, Milano 2018; e i rapporti del 2018 dell’Agcom. Vedi anche Roberto Basso,
Dino Pesole, L’economia percepita. Dati, comunicazione e consenso nell’era digitale, Donzelli, Roma
2019, pp. 108 sgg. Un testo generale molto ricco e stimolante è Timothy Garton Ash, Libertà
di parola. Dieci principi per un mondo connesso (2016), Garzanti, Milano 2017. Altri spunti in
Massimo Gaggi, Homo premium. Come la tecnologia ci divide, Laterza, Bari-Roma 2018, e
Francesco Nicodemo, Disinformazia. La comunicazione al tempo dei social media, Marsilio,
Venezia 2017.
16
A tal proposito è molto interessante la ricerca effettuata da Nicola Righetti, Fabio Giglietto,
Giada Marino, L’Europa fra casa e gabbia. Tono, frame ed engagement delle notizie sulle istituzioni
europee nei mesi precedenti le elezioni 2018, in «Problemi dell’informazione», 1, 2019, pp. 87-116.
Vedi anche Mario Morcellini, Odio ergo voto, in «Il Foglio», 29 marzo 2018.
17
Spiega bene come funziona il giornalismo oggi Alexander Spangher, What the Paris Attacks
Tell Us about How Foreign News Gets Made, in «Columbia Journalism Review», 4 aprile 2016,
https://www.cjr.org/analysis/map_graphic.php.
18
Carlo Sorrentino, Le smarginature del giornalismo cit., p. 123.
19
Pierre Nora, Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato, La Scuola, Brescia
2016, p. 4.
20
Di grande interesse Emily J. Bell, Taylor Owen, Peter D. Brown, Codi Hauka, Nushin
Rashidian, The Platform Press: How Silicon Valley Reengineered Journalism,
https://academiccommons.columbia.edu/doi/10.7916/D8R216ZZ, 29 marzo 2017, e
francamente preoccupante Jonathan Taplin, Move Fast and Break Things cit. Per un’analisi più
ottimistica si vedano i saggi e gli articoli di Bill Dutton.
21
Anche in questo caso la bibliografia comincia ad essere molto ampia; tra le letture utili
Beniamino Pagliaro, Attenzione! cit., e Giovanni Pitruzzella, La libertà d’informazione nell’era di
Internet, in «Media Laws. Rivista di diritto dei media», 1, 2018, in particolare il par. 6.
22
Alexander Coppock, Emily Ekins, David Kirby, The Long-lasting Effects of Newspaper Op-Eds
on Public Opinion, in «Quarterly Journal of Political Science», 13, 1, 2018, pp. 59-87,
http://dx.doi.org/10.1561/100.00016112. 
23
Censis-UCSI, 14° Rapporto sulla comunicazione. I media e il nuovo immaginario collettivo,
FrancoAngeli, Milano 2017.
24
Carlo Sorrentino, Introduzione, in Id. (a cura di), Le parole della comunicazione, Pacini, Pisa
2018, p. 12.
25
Ivi, p. 36 e, dello stesso autore, La società densa. Riflessioni intorno alle nuove forme di sfera
pubblica, Le Lettere, Firenze 2008.
13.
Intrattenimento
e partecipazione culturale

Nelle pagine precedenti ci siamo concentrati a lungo su quantità e qualità


dell’uso giovanile di libri e informazione, nella convinzione, forse di
impronta novecentesca, che queste siano da considerare le strade maestre,
i ‘canali di qualità’ per accedere alla conoscenza, ai diversi saperi critici.
Adesso proveremo a focalizzarci sulle pratiche, sui consumi, sulle attività
culturali.
Non torneremo sulla definizione di cultura, né ci addentreremo nelle
intricate tassonomie della letteratura e degli organismi internazionali su
cosa sia produzione culturale e consumo culturale, quali attività vadano
incluse e escluse dal perimetro dell’industria culturale e creativa, e ancora
cosa vada ritenuto attività artistica1.
A seconda degli approcci vengono incluse e escluse le attività più
diverse, ci sono sistemi di classificazione a cerchi concentrici, con un
nucleo – anch’esso variabile e contestato – che rappresenterebbe le attività
col legame più stretto con la cultura, quello che il Rapporto Kea
dell’Unione europea chiama ‘il cuore delle arti’. Potremmo elencarle
tutte, e analizzare e pesare gerarchie e classificazioni, ma è un lavoro dai
risultati sempre controversi e spesso insoddisfacenti. Abbiamo preferito
scegliere alcuni settori, alcuni campi, alcune attività che ci sembrano
particolarmente importanti nella vita delle nuove generazioni, e che
hanno un indubbio impatto sulla loro quotidianità e formazione.
Parliamo della musica, della televisione e della radio, del cinema, dei
videogiochi, della partecipazione ai festival e ad altre manifestazioni
culturali.
Cercheremo di procedere in modo sistematico, e tuttavia crediamo che
uno scatto fotografico iniziale, giocoforza sintetico, possa aiutare a
mettere subito le carte sul tavolo. Ci riferiamo ai dati sui consumi
culturali dei diciottenni – 1,7 milioni di italiani che costituiscono la
prima generazione del XXI secolo2 –, che offrono non pochi spunti di
interesse, specie se confrontati con quelli dei consumatori italiani di tutte
le età.
Solo il 6% di loro va al cinema più di dieci volte in un anno, mentre il
94% ci è andato almeno una volta nel corso dell’ultimo anno: si tratta
comunque di cifre superiori al dato medio registrato sul totale della
popolazione dai 14 anni in su, che fa registrare rispettivamente
percentuali del 4% e del 52%. Il 40% dei diciottenni vede film
illegalmente attraverso Internet e il 12% vede illegalmente film ancora
programmati nelle sale cinematografiche.
Anche l’uso della televisione è abbastanza diverso rispetto al pubblico
adulto. Il 79% guarda serie tv (il dato medio della popolazione adulta si
attesta al 60%), per una media annua di tre serie. Nel 33% dei casi le serie
vengono seguite attraverso servizi on demand. La visione di film sulle
emittenti generaliste e sui canali accessibili gratuitamente è del 16%
inferiore rispetto alla media dei telespettatori.
Per quanto riguarda gli altri consumi culturali, le percentuali di
fruizione da parte dei diciottenni sono notevolmente più elevate in
confronto a quelle del totale della popolazione over 14: il 68% acquista
almeno un libro all’anno (il dato complessivo è del 41%), il 54% va a
teatro almeno una volta in un anno (adulti 27%), il 48% assiste ad
almeno un concerto musicale (25%); lo scarto maggiore si registra,
naturalmente, nei videogame, ai quali gioca il 61% dei diciottenni,
rispetto al 25% della popolazione complessiva.
Anche i comportamenti relativi all’uso dei social network e dei sistemi
di instant messaging mostrano alcune tendenze evolutive di particolare
interesse. La totalità dei giovani inclusi fra i 17 e i 19 anni di età ha accesso
ad almeno una piattaforma e nell’85% dei casi viene usato WhatsApp. Si
assiste anche ad un progressivo spostamento da Facebook (un terzo dei
neomaggiorenni dichiara di averlo abbandonato) verso Instagram, usato
ormai regolarmente dalla metà dei giovani per scattare e condividere foto.
Perfino Snapchat, basato sull’immediatezza e sulla rapida distruzione dei
messaggi, delle foto e dei video che vengono inviati, sembra attraversare
una fase di declino. Twitter è ormai legato quasi solo all’uso che ne fanno
le celebrità per diffondere e commentare notizie.
Al posto di testi lunghi e impegnativi, si afferma l’abitudine a scrivere
testi sintetici e ‘contaminati’ con altri codici comunicativi, dove emozioni
e stati d’animo sono spesso espressi attraverso immagini. Anche quando si
usano forme di comunicazione ormai da considerare tradizionali se non
antiquate, come SMS e posta elettronica, i diciottenni si affidano sempre
meno alle parole e sempre più al linguaggio universale dei pittogrammi
degli emoji, che consentono anche di superare agevolmente le barriere
linguistiche. Lo smartphone è un dispositivo multimediale per fare foto,
video, ascoltare musica, giocare con i videogiochi (53,4% delle persone di
6 anni e più che usano il cellulare). La tendenza all’utilizzo del cellulare
come dispositivo multimediale è massimamente diffusa tra i giovani,
soprattutto di 15-19 anni, ma già fra i più piccoli di 6-10 anni si
registrano quote superiori al 70%; il 64% dei giovani di età compresa fra i
18 e i 24 anni condivide abitualmente foto.
Ma adesso proviamo ad entrare nei dettagli del quadro.

1
Per una sintesi dei vari modi di classificare le attività culturali, e anche per un quadro delle
difficoltà classificatorie, è utile leggere L’arte di produrre Arte. Imprese culturali a lavoro, a cura di
Pietro Antonio Valentino, Marsilio, Venezia 2012, e Gian Paolo Manzella, L’economia
arancione. Storie e politiche della creatività, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017.
2
I dati provengono dalle indagini Digital Trends e Sala e salotto, curate da Ergo Research,
https://www.ergoresearch.it/. I risultati sono stati pubblicati sul quotidiano «la Repubblica» il
1° aprile 2018. Utili anche i dati contenuti in Millennials e Cultura nell’era digitale cit.
14.
La musica

C’è una frase del celebrato critico del «New Yorker» Alex Ross che,
seppur pensata per un altro contesto e un altro momento, può far capire la
difficoltà che incontra chi volesse mappare l’universo dei consumi
musicali: «Nel XX secolo la vita musicale si è disintegrata in una massa
brulicante di culture e sottoculture, ciascuna con le sue regole e il suo
gergo. Alcuni generi hanno ottenuto maggior popolarità di altri; nessuno
è riuscito a esercitare un vero richiamo di massa. Ciò che delizia un
gruppo di persone fa venire il mal di testa a un altro. I pezzi hip hop
entusiasmano gli adolescenti e atterriscono i loro genitori. I classici che
spezzano il cuore a una generazione risultano insulsamente kitsch alle
orecchie dei nipoti»1.
Oggi la vastità, la varietà, l’articolazione del campo musicale è
impressionante, gli interessi economici enormi, la pratica e le persone che
la ascoltano quasi incalcolabili. Per l’osservatore non specialista, e forse
persino per lo specialista, orientarsi è difficilissimo. Generi e sottogeneri
si moltiplicano, cambiano di continuo, cosicché le parole di Ross sono
quasi una minimizzazione rispetto alla situazione attuale. La ricognizione
non può essere che incompleta, parziale, soggettiva.
La musica e i consumi musicali sono stati per la sociologia della cultura il
proprio campo di allenamento, di esercizio, di pratica, il più studiato, il
più monitorato, il più funzionale2. Probabilmente perché la musica –
l’espressione suonerà abusata ma ha un suo fondamento – è un linguaggio
universale, è ascoltata più o meno a tutte le età, in tutti i contesti, da tutti
i ceti3, si presta dunque ad essere il più completo dispositivo di analisi dei
consumi e dei cambiamenti. Sino a qualche decennio fa c’erano
correlazioni abbastanza leggibili tra classi sociali, istruzione e consumi
musicali, e quindi questi ultimi sono stati uno strumento molto utile per
leggere la società. Poi, con l’indebolirsi di gerarchie culturali e recinti, con
l’esplosione delle forme musicali più diverse, con le accelerazioni di
produzione e fruizione portate da Internet, il paesaggio si è fatto a dir
poco articolato, e le descrizioni, le cartografie, più imprecise. È un
mondo in cui la musica è sempre più accessibile e ubiqua, e il mercato
sempre più eclettico e complesso, tanto che la segmentazione del
pubblico, così utile ai fini del marketing, si è fatta attività molto meno
incisiva di qualche anno fa4.
In altri capitoli il nostro modo di procedere ha spesso preso le mosse dai
dati ed è approdato poi al tentativo di ordinarli, comprenderli, analizzarli.
In questo caso, al contrario, partiremo dalla pratica di ascolto ma anche
del fare musica. Il che significa sentire direttamente la voce dei giovani
che parlano di musica. Ci siamo confrontati con molti di loro, di
ambienti diversificati, gusti differenti, età diverse, con giovani che
suonano e cantano, con giovani che ascoltano, con quelli che frequentano
la musica dal vivo e quelli che la seguono solo sulla rete. Le loro voci,
dunque, e poi il tentativo di ordinarle attraverso statistiche sui consumi,
dati, numeri.
Alle domande tradizionali – Che musica ascoltate? Come la ascoltate?
Dove la ascoltate? Che ruolo ha nella vostra vita? La comprate? – sono
state date le risposte più varie, perché ovviamente contano ancora le
esperienze biografiche, i gusti, la formazione, l’istruzione, gli ambienti
che si frequentano, il ceto e il censo5.
Però un elemento, certo non sorprendente, accomuna tutti: la musica
oggi si ascolta, si trasmette, si commenta, si comunica soprattutto sulla
rete. È il supporto ad essere cambiato, è la tecnologia ad essere stata il
fattore di mutamento decisivo, è questo il cambiamento più evidente.
Anche qui – e il fatto che si parli di oltre 15 anni fa è molto indicativo –
prenderemo a prestito una descrizione di Ross: «Nel 2003 ho comprato
un iPod e ho cominciato a riempirlo di musica tratta dalla mia collezione
di cd. L’apparecchio, all’epoca piuttosto nuovo, aveva una funzione
chiamata shuffle, che saltava in modo casuale da un brano all’altro. C’era
qualcosa di affascinante nell’abdicare al controllo, lasciando decidere
all’iPod cosa riprodurre. Quell’aggeggio sfondava le barriere stilistiche,
cambiando il mio modo di ascoltare [...]. Sull’iPod la musica si trova
liberata da tutte le fatue autodefinizioni e le manie di grandezza [...].
Molti giovani ascoltatori sembrano pensarla come l’iPod. Non si
consacrano più a un unico genere, che promette di plasmare il loro essere
o di salvare il mondo»6.
In questi 15 anni le modificazioni sono state profonde, rete e dispositivi
hanno cambiato lo scenario, e le frasi di Ross sembrano paradossalmente
preistoriche. Contengono però lezioni ancora utili: sulla tecnologia, che è
il principale veicolo di mutamento e orientamento; sulla caduta di
barriere e confini di genere e stile, provocata da cause diverse e anche
dalle innovazioni tecnologiche; sui consumi giovanili, quasi naturaliter
onnivori.
C’è una riflessione che è opportuno aggiungere. La funzione shuffle,
quasi un’epitome del nostro modo di ascoltare, leggere, guardare, è
probabilmente più irreggimentata oggi di ieri, più soggetta a vincoli, a
percorsi prefissati. Perché nei nostri iPod di 15 anni fa c’era il materiale
che noi avevamo scelto di metterci, mentre oggi quasi sempre ci affidiamo
ai percorsi suggeritici dalle piattaforme, da YouTube a Spotify, certo in
parte basati sulle nostre scelte iniziali ma poi fortemente orientati dagli
algoritmi7.
Oggi i giovanissimi, tra i 12 e i 15 anni di età, si muovono davvero con
una logica, consapevole o meno, di rete. Ascoltano un brano nei luoghi o
sulle fonti più disparate, da Instagram alla radio tradizionale, da YouTube
a Spotify a Deezer ad Apple Music a Pandora; lo cercano, spesso con l’app
Shazam, altre volte attraverso le parole del testo su Google, o ancora
chiedendo agli amici; lo ascoltano su YouTube se online, o attraverso app
– ad esempio iMusic o iTube o Play Music –, spesso illegali, che
permettono di ascoltare la musica scaricata da YouTube anche offline.
Non è una logica così diversa da quella che si usava prima della rete; ad
essere cambiati sono il campo di ricerca e offerta, molto più largo, e il
supporto, ieri materiale e oggi digitale.
Sino all’avvento della rete gli strumenti principali di scoperta musicale
erano il passaparola, la radio, le riviste, i giornali, i viaggi. I supporti
attraverso i quali la musica si ascoltava erano tutti fisici: nastri, dischi, cd.
Il supporto materiale veniva prestato, scambiato, valorizzato, custodito
come un tesoro. Oggi ci si scambiano file. Il supporto fisico è un aspetto
fortemente minoritario, quasi trascurabile. Ieri era la vendita di dischi a
contare, oggi il numero delle visualizzazioni su YouTube.
Come negli altri settori dei consumi culturali, anche in questo caso
Facebook ha una funzione decisiva. Tra il pubblico generalista serve da
passaparola, da veicolo di informazioni musicali, video, audio, ed essendo
una comunità di due miliardi di persone, molte delle quali giovani, non
può che essere indispensabile. Nelle comunità musicali, tra gli
appassionati, ha anche una funzione pratico-informativa. Serve
soprattutto, in un mondo di attività febbrile, di frenetica offerta, per
sapere che cosa è uscito, che cosa è successo, dove ci sono stati concerti,
dove ci saranno. La bacheca Facebook come e più della vecchia locandina.
Ha poi – qualcuno direbbe soprattutto – una funzione di marketing e
pubblicità.
Per le scene mainstream, per la musica commerciale ma persino per le
scene più radicali, è fondamentale avere un’attività social con riscontro,
eco, che significa followers, fans, seguito. Le etichette discografiche
guardano con attenzione l’attività social di chi suona, fa musica, e gli
investimenti dell’industria musicale dipendono ormai largamente da
questo aspetto.
Il che significa – molti giovani musicisti lo confermano – che i filtri che
portano al ‘successo’, alla notorietà, sono diversi da quelli novecenteschi,
giacché se riesci ad avere una voce, se sei capace di farti conoscere e
apprezzare sulla rete, ci sono buone possibilità che i produttori decidano
di investire su di te. Tanto che si potrebbe dire che autopromozione e
autoproduzione vanno considerate un’unica cosa.
Ovviamente ci sono delle ombre. C’è il rischio che l’industria investa
soltanto sulle realtà musicali che vanno bene anche da sole, e c’è un
discreto pericolo di appiattimento. Ciò che si vede, la forma
dell’espressione musicale, il significante, è spesso ripetitivo e
standardizzato, e la parola d’ordine rischia di essere ‘fatto bene’: un video
fatto bene, un pezzo fatto bene. E un’altra domanda che si impone, tipica
della contemporaneità, è: come fai a gerarchizzare, a selezionare?
Non a caso i critici di questo nuovo modello musicale insistono su un
punto: le grandi piattaforme dello streaming rischiano di ridurre ogni
produzione al minimo comun denominatore della commerciabilità, con
un livellamento verso il basso della qualità e della sperimentazione che
dovrebbe essere sottesa ad ogni nuova uscita.
Né bisogna scordare che il moltiplicarsi delle possibilità di scelta non si
traduce automaticamente in una scelta migliore o più informata. Vanno
in altre parole tenuti presenti i tanti lavori sulla difficoltà di scegliere in
presenza di troppe opzioni, il ‘paradosso della scelta’ di Barry Schwarz,
che ci porta a considerare come un costo lo stress inflitto al nostro
cervello da un ventaglio amplissimo di possibilità, essendo abituati a secoli
di evoluzione in cui le scelte e ancor di più le informazioni erano limitate
e parziali.
Se questo è l’assetto generale, sarebbe tuttavia ingenuo ed erroneo
parlare di una dematerializzazione dispiegata, della rete come unico
campo d’ascolto. Perché in questi anni si è persino rafforzata l’esperienza
della musica dal vivo. Da un lato proprio come reazione alla
dematerializzazione, come fisiologica, quasi naturale controspinta rispetto
a una sorta di sublimazione digitale dell’esperienza musicale. Dall’altro
perché la musica dal vivo è una pratica quasi primaria, sia la pratica sia
l’ascolto, quasi incisa nelle nostre strutture cerebrali. Lo stare assieme,
l’aggregarsi, il partecipare ad eventi comuni, il condividere, l’occupare gli
spazi più diversi. È un elemento molto bello e vivo, anche qui quasi
strutturale, dell’universo giovanile.
Ma c’è anche, come sempre, un fattore economico, commerciale,
tutt’altro che irrilevante. Con l’affermarsi della rete, con la crisi dei
supporti vendibili, l’industria musicale ha dovuto reinventarsi, pena il
rischio della scomparsa. E i concerti, i tour, i live contest, gli showcase,
sono diventati la prima vera fonte di introiti per chi faccia musica, per chi
voglia farsi conoscere. Il mercato ha ovviamente interesse a sfruttare
questa aggregazione8.
Ma non bisogna peccare troppo di realismo, o essere solo realisti. Non
scordiamo che accanto alla musica come merce c’è poi, come c’è sempre
stata, l’esperienza musicale come passione disinteressata, vocazione,
volontariato, aggregazione, e la percentuale di consumo che rientra in
questa cornice è tutt’altro che irrilevante.
Cosa dicono i numeri, le tendenze? Il materiale su cui lavorare, le
ricerche, gli studi, le indagini, è oceanico. Scremando un po’ si capisce
che l’ascolto via streaming è sempre più diffuso in tutto il mondo, con
varianti geografiche che vanno assottigliandosi.
I giovani continuano ad ascoltare moltissima musica. A dispetto di miopi
previsioni, di una concorrenza mediatica fortissima, di una vera gara per
l’attenzione giovanile, la musica occupa ancora gran parte del tempo
libero giovanile.
Da una ricerca comparativa tra diversi paesi9 si scopre che sono quattro i
principali modi di ascolto: la radio (87%, di cui il 68% via broadcast e il
35% via Internet radio; oltre il 90% dei millennials, inoltre, ascolta
musica via radio Fm10), lo streaming video (75%), lo streaming audio
(45%), l’acquisto di copie fisiche o il download (32% cd, 28% download,
17% vinile).
Tra chi ascolta la musica online, è maggioritaria la percentuale di chi lo
fa tramite video streaming (55%), e all’interno di questa percentuale a
dominare è YouTube, che copre quasi il 90%. Gli italiani sono tra i più
forti utenti di YouTube per la musica, lo fa quasi il 90% degli utenti del
sito. Ed è fortissimo l’uso di YouTube tra i giovani, anche se in alcuni
paesi, ad esempio in Gran Bretagna, è in notevole crescita Spotify11.
Il resto dell’ascolto è diviso più o meno a metà tra audio streaming
gratuito e a pagamento. L’85% dei ragazzi tra i 13 e i 15 anni ascolta
musica in streaming.
Tra il 10% di coloro che ascoltano più musica è interessante la
percentuale di chi l’ascolta via smartphone, il che in media avviene in tre
quarti dei casi. In tutti i paesi la percentuale cresce in modo sensibile da
un anno all’altro. E la fascia d’età con il consumo via smartphone più alta
è quella compresa fra i 16 e i 24 anni, dove si arriva all’84%. E sono tutti
dati in crescita.
I giovani sono in generale particolarmente attivi: nella fascia 16-24 anni
l’89% ascolta musica via streaming, audio e/o video. Chi ascolta via audio
lo fa in maggioranza senza pagare (62%), il 37% paga in modi differenti12.
Più o meno la metà degli utenti nel corso dell’anno ha pagato per
acquistare o ascoltare musica. L’altra metà l’ascolta senza pagare, e la
percentuale più alta di ascolto pirata è nella fascia giovanile. Secondo
molte ricerche nordamericane, la percentuale di millennials che ha un
abbonamento, a pagamento, ad un servizio di musica via streaming è
comunque a due cifre. Più bassa in Italia, dove l’abitudine al pagamento
di servizi online – pensiamo anche ai quotidiani – è molto residuale. La
gratuità fa premio sulla qualità d’ascolto, e non a caso c’è chi ha parlato di
un mondo a bassa risoluzione, in cui prevale la dimensione
dell’immediatezza, del consumo hic et nunc su quella della qualità13.
L’affermarsi di piattaforme per l’ascolto e l’uso di algoritmi ha
comportato l’emergere della playlist rispetto all’album tradizionale, in
particolare per gli utenti più giovani. Circa la metà degli ascolti totali su
Spotify deriva dalle playlist, assemblate secondo i gusti personali, le scelte
del curatore o ideate per un momento specifico14.
Il vecchio negoziante di dischi, un’altra delle figure di intermediari che
va scomparendo, viene soppiantato da una nostra scelta diretta, non
limitata alla selezione fisicamente presente nel negozio ma vasta quanto
l’intera discografia. Una scelta non scevra tuttavia da percorsi prefissati,
più o meno imposti da un algoritmo, nuovo invisibile orologiaio del XXI
secolo.
Digitalizzazione e dematerializzazione sono stati una sfida spietata per
l’industria musicale, che ha faticato non poco ad aggiornare il proprio
modello di business, trovandosi infine costretta a riconoscere dignità
d’ascolto anche allo streaming, che da pochi anni a questa parte viene
monitorato parallelamente alle vendite di dischi.

1
Cfr. Alex Ross, Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo (2007), Bompiani, Milano 2009, pp. 9-
10.
2
A cominciare dal già citato saggio La distinzione di Pierre Bourdieu, si veda anche Giorgio
Zanchini, Gli onnivori in Italia. L’evoluzione dei consumi culturali attraverso la lente dei supplementi
culturali dei quotidiani, in «Sociologia della Comunicazione», 44, 2012, pp. 117-146.
3
A quel gioco vinciamo noi, Intervista a Shamus Rahman Khan, in «Nuovi Argomenti», 69,
gennaio-marzo 2015.
4
Peter Nuttal, Alicia Hill, Understanding music consumption through a tribal lens, in «Journal of
Retailing and Consumer Services», 18, 2011, pp. 152-159.
5
La rivista che ci sembra aver continuato a riflettere in maniera attenta e acuta sui consumi
musicali e sulla categoria degli onnivori è l’olandese «Poetics»; sul tipo di musica ascoltata dai
ragazzi italiani è interessante la riflessione di Ludovica Scoppola, Quale musica per quali giovani?,
in «Taer Journal», 56, 2013, http://www.taerjournal.it/2013/02/04/quale-musica-per-quali-
giovani.pdf.
6
Alex Ross, Senti questo (2010), Bompiani, Milano 2011, pp. 40-41.
7
Racconta questo processo il già citato romanzo di Giacomo Mazzariol, Gli squali, pp. 108
sgg.
8
Alberto Dentice, Altro che Sanremo: ecco dove nasce il nuovo pop, in «L’Espresso», 4 febbraio
2018.
9
Cfr. tra le molte ricerche Ifpi, Music Consumer Insight Report 2018, che passa in rassegna il
consumo in 13 paesi con i mercati musicali più sviluppati, tra i quali l’Italia:
https://www.ifpi.org/news/IFPI-releases-2018-music-consumer-insight-report.
10
Si vedano le più recenti ricerche Nielsen, in particolare Millennials on millennials,
https://www.nielsen.com/us/en/insights/article/2018/millennials-on-millennials-in-the-
know-on-the-go.
11
Cfr. i dati di Musiceducationuk.com. Per l’Italia, oltre ai dati dei tradizionali istituti di
ricerca sociale più volte citati, si può dare un’occhiata a Themusicblog.eu.
12
Vedi anche i dati presentati dalla Consumer Technology Association a Las Vegas nel gennaio
2019.
13
Cfr. Massimo Mantellini, Bassa risoluzione cit., pp. 10 sgg.
14
https://www.wired.com/2017/05/secret-hit-making-power-spo tify-playlist/.
15.
Le televisioni

Sembrerà paradossale o eccessivo, ma oggi parlare del rapporto tra giovani


e televisione – anzi, televisioni – significa occuparsi di uno degli aspetti del
rapporto tra i giovani e gli schermi, tra i giovani e il video. Perché la
televisione di oggi non è la televisione di qualche decennio fa, il moloch
che nella seconda metà del Novecento ha preso il posto del caminetto al
centro delle case, il magnete e persuasore, e i giovani sono i protagonisti
di una fruizione dell’audiovisivo molto diversa da quella conosciuta dalle
generazioni cresciute nel secolo appena trascorso. La televisione – è bene
insistere su questo assunto – «non è più lo strumento principale di
informazione, intrattenimento, apprendimento, socializzazione»1, è
soltanto uno – certo importante, molto importante – dei canali di
distribuzione di contenuti audiovisivi, in un mondo in cui «tutto quello
che si basa su supporti audio e video non conosce ostacoli»2. Oggi le
tecnologie hanno reso il concetto stesso di canale televisivo di incerto
significato: i dispositivi (smartphone, tablet ma anche le console per
videogiochi) permettono di accedere in modo semplice alle più diverse
fonti video, tanto che il sistema di trasmissione di un contenuto, sia esso
un film, un notiziario, un video musicale, diventa secondario. È cambiata
tutta la filiera, dall’oggetto che riproduce il segnale a chi lo emette, dal
vettore che lo distribuisce ai fruitori. Tante le piattaforme, dal televisore
tradizionale all’Internet tv, diversi i canali di trasmissione e tanti anche gli
strumenti di ricezione, dallo smartphone al tablet, dal pc all’apparecchio
televisivo tradizionale. Siamo in un’era post-network3.
Dal punto di vista storico alla tradizionale distinzione tra
paleotelevisione e neotelevisione si è sostituita nella comunità degli
studiosi una tripartizione ormai abbastanza condivisa: età della scarsità,
età della disponibilità, età dell’abbondanza. Che è poi quella che stiamo
vivendo4.
I confini si sono fatti labili e porosi. Nonostante le evidenti differenze di
qualità tra quanto ci arriva sullo smartphone o su un megaschermo al
plasma, è il contenuto che ci interessa, è il contenuto a fare premio sulla
delivery, sia esso un film, un telegiornale, un talk show, un’inchiesta o un
video musicale. È la transmedialità, la convergenza di cui si era detto
all’inizio.
In altri termini la diffusione delle tecnologie digitali ha determinato una
vera rivoluzione, ponendo l’utente al centro del ‘sistema rete’. L’uso dei
media è sempre più personalizzato, e le gerarchie e i palinsesti tradizionali
pensati per un pubblico di massa indifferenziato sono ormai scardinati.
Dal broadcasting al narrowcasting. Grazie ai social network e ai social
media, l’io-utente5 fruisce e produce contenuti, l’io stesso è il contenuto,
e «il disvelamento del sé digitale è diventata la prassi comune»6, tanto che
confini, recinti, diaframmi tra vita personale e comunicazione sono
decisamente più permeabili. Il broadcast yourself di YouTube è l’epitome di
un’epoca di omnicanalità opposta all’unilateralità che abbiamo conosciuto
nel Novecento, il cui cuore era la televisione.
Queste tendenze valgono in particolare per la fruizione giovanile: le
nuove generazioni sono protagoniste di percorsi definibili di
«autodeterminazione digitale basata sul continuo feedback dei dispositivi
tecnologici»7, in primis lo smartphone, estensione del nostro corpo.
Nonostante ciò, i numeri della fruizione televisiva restano molto alti –
«non dobbiamo cedere all’ingenuità della retorica secondo cui la
televisione non esiste più, si è trasformata»8 – anche se ormai da qualche
anno è in corso una costante erosione del pubblico della televisione
generalista, che resiste soprattutto grazie al pubblico più anziano, che
fatica ad aggiornarsi e ha deboli competenze tecnologiche.
Nel 2018 – in tutte le sue forme di trasmissione e fruizione – la
televisione continua a occupare il primo posto tra i media usati dagli
italiani, con il 94,3% di spettatori, in leggero ma costante calo rispetto
agli anni precedenti. La televisione tradizionale con l’89,9 continua ad
essere erosa dalle ‘altre’ televisioni, soprattutto dalla tv via Internet, che
nel 2007 era vista dal 10% della popolazione e che è arrivata al 30,1%, e
dalla mobile tv, che è giunta al 25,9%, in crescita del 3,8% in un solo
anno, grazie soprattutto allo smartphone e ad app come RaiPlay o Sky
Go. Sono fruizioni spesso complementari, on demand e visione lineare
spesso si rafforzano a vicenda.
Nella fascia giovanile, quella che il Censis posiziona tra i 14 e i 29 anni,
il consumo di televisione è però più basso, l’utenza complessiva nel 2017
era pari all’89,6%, e l’utenza abituale all’83,5%9. È una generazione che
accede in percentuali significative (40,9%) ai contenuti tv e video tramite
Internet, e una percentuale molto simile (40,3%) sceglie la mobile tv.
La novità più importante degli ultimi anni è probabilmente la
comunicazione integrata: le grandi media company tendono a diventare
piattaforme multicanale di distribuzione di contenuti diversi,
dall’informazione alle serie, dalla fiction agli eventi sportivi, ai video. La
percentuale di giovani che vedono, scambiano, commentano spezzoni,
frammenti di tv su Facebook è altissima, e non a caso essi considerano
Internet e social network mezzi che influenzano più della televisione.
Sono tutte indicazioni, quelle appena elencate, che confermano
un’impressione che hanno anche i profani, e cioè che oggi i giovani
guardano la televisione meno delle generazioni precedenti, ma soprattutto
che la guardano in modo diverso. E questo è un dato trasversale, nel senso
che le ricerche ci dicono che le audience mondiali hanno molti elementi
in comune10.
Gli under 30, che presentano dati di uso doppi rispetto al resto della
popolazione, fungono da traino delle piattaforme online che diffondono
servizi digitali video o audio – come Netflix e Spotify – esaltando la
fruizione personale di cui si diceva poco fa, sganciata dal tempo, dallo
spazio, dal mezzo impiegato. Una rivoluzione cominciata molti anni fa.
Uno spartiacque è stato probabilmente l’arrivo sul mercato dell’iPod, nei
primi anni 2000 – ne parlavamo poco fa a proposito della musica.
L’intuizione per cui chiunque avesse a disposizione un lettore mp3 e una
libreria di contenuti digitali avrebbe potuto creare la propria
programmazione si rivelò puntuale e aprì la strada ad anni in cui iTunes,
il soware di gestione e acquisto della musica di Apple, si affermò come
leader del nascente mercato della musica digitale.
L’acquisto di YouTube da parte di Google nel 2006 fu un altro chiaro
segnale della tendenza del mercato ad andare verso l’accentramento delle
risorse in megaimprese in grado di offrire una gamma di servizi (di
intrattenimento ma non solo) molto ampia e a costi contenuti.
La centralità dell’utente nell’esperienza di intrattenimento trova solide
basi in uno degli aspetti più trasversali delle tante sottoculture giovanili:
quella del do it yourself, di nuovo della disintermediazione, della scelta in
base al proprio gradimento personale senza filtri, dei makers. Il mezzo
utilizzato varia appunto dalla stampante 3D al programma di photo
editing fino alla playlist su Spotify, ma la tendenza resta evidente: la
possibilità di partecipazione diretta, la reinterpretazione al limite del
plagio o del divertissement, è insieme causa ed effetto per qualunque
fenomeno che circoli tra i più giovani. Nell’arena globale la lotta per la
nostra attenzione si vince creando community, aggregando fan ed
appassionati, in primis tramite i nuovi media, come le app di instant
messaging e i social network, in particolare Facebook, Instagram e
YouTube; non va mai sottovalutato l’impatto che il tam-tam digitale può
avere nell’ascesa rapidissima di fenomeni mediatici.
Gli influencer, le figure che in rete sono in grado di mobilitare masse di
seguaci verso le tematiche più varie, diventano tali se vengono percepiti
come familiari, intimi, vicini a noi: un loro consiglio, un loro parere,
viene sentito come più affidabile di quello di un ignoto esperto. Il tema di
quali e quanti di questi messaggi siano contenuti sponsorizzati continua a
interrogare il mondo digitale, con le maggiori aziende del settore (Google
e Facebook in testa) che modificano di continuo le loro linee guida per
un’informazione più trasparente possibile, sforzi che peraltro non sempre
risultano adeguati. Tramite la raccolta intensiva di dati riguardanti le
scelte di consumo sul web assistiamo al passaggio da un modello di
intrattenimento generalista verso uno predittivo: YouTube, Netflix,
Spotify, Apple Music consigliano ai propri utenti cosa guardare o
ascoltare in base a quello che hanno già apprezzato o meno, mentre
Amazon – lo si accennava qualche pagina fa – sbarca nel mondo dello
streaming audiovisivo con una piattaforma propria (Amazon Prime
Video), puntando su una base di clienti già molto fidelizzata sotto
l’ombrello dei servizi Prime. Questo fenomeno, proprio di tutta la
comunicazione online, crea onde d’urto che si ripercuotono sul nostro
modo di informarci, di impiegare il tempo libero, sul nostro stile di vita.
Non poche, come si intuisce, le conseguenze: è altamente probabile che
un utente di oggi possa trovare più facilmente un contenuto di suo
gradimento rispetto agli utenti della scorsa generazione, avendo a
disposizione librerie digitali sconfinate e l’ausilio della rete. Si gettano
però le fondamenta di un pericoloso circolo vizioso. La fruizione ripetuta
e continuativa dello stesso tipo di media, come dello stesso punto di vista
informativo, stride con il pluralismo che la rete propaganda come sua
bandiera, provocando a tutti gli effetti un impoverimento dell’intero
sistema socioculturale. Un esito molto diverso dagli ideali iniziali della
cultura della rete e dei suoi principi di condivisione, gratuità, libertà e
responsabilità11.
Questo fenomeno, definito camera dell’eco, rappresenta uno dei
maggiori rischi nell’utilizzo del web12: la paura e l’ansia per il possibile
isolamento social, il restare fuori da fenomeni che interessano le cerchie
con cui ci relazioniamo, hanno portato nel 2004 l’allora studente di
Harvard Patrick J. McGinnis13 a coniare l’acronimo FoMo (Fear of
Missing out) con riferimento alle abitudini dei millennials.
Il timore di una minore capacità di interagire porta una forte spinta
conformistica, soprattutto se pensiamo ai presupposti di ‘libertà’ spesso
evocati nelle discussioni sulla natura della rete: i social media possono
amplificare questo fenomeno, contrapponendo al senso di
disorientamento l’antidoto passeggero di una spesso illusoria interazione,
da profilo a profilo, foraggiando in realtà un sentimento di malessere. Lo
stesso McGinnis, tornando più recentemente14 sulla natura della FoMo,
ha sottolineato come la chiave del fenomeno sia da ricercarsi nella gamma
infinita di alternative per l’utilizzo del proprio tempo: la competizione
per l’attenzione dell’utente diventa così aspra da mettere in difficoltà
proprio i consumatori, che dovrebbero ricevere invece un miglioramento
della propria esperienza.
Uno dei crocevia del sistema di intrattenimento on demand, nucleo
aggregatore in particolare nella fascia di mercato oggetto della nostra
analisi, è senz’altro la serie televisiva. Negli ultimi anni abbiamo assistito
al fiorire di numerosissime produzioni dei generi più svariati, a segnale
che Hollywood non detiene più il monopolio sulle narrazioni di grandi
storie. L’ingresso di Netflix nella MPAA (Motion Picture Association of
America, l’associazione che promuove gli interessi delle case
cinematografiche statunitensi) nel 201915, da questo punto di vista, è
emblematica e, per un certo verso, suona come una resa delle grandi case
di produzione all’ingresso di un nuovo player nel campo da gioco dei
colossi dell’intrattenimento, in particolare se analizzata dopo le ripetute
polemiche sulle nomination di prodotti Netflix agli Oscar. La
competizione tra l’industria del cinema e quella dei grandi OTT16,
combattuta negli ultimi anni con acquisizioni e investimenti miliardari,
avviene non più solamente sul grande e piccolo schermo, ma anche sugli
smartphone, sui tablet, sugli orologi smartwatch.
Si ritorna all’integrazione dei servizi. Di recente Disney ha ad esempio
rilevato gran parte di 20th Century Fox, ultima di una lunga serie di
operazioni ad alto profilo della casa americana dopo le acquisizioni dei
brand Marvel e Star Wars, per portare la sua immensa libreria di
contenuti digitali su una piattaforma di streaming propria, Disney+, dopo
aver rescisso gli accordi precedentemente siglati con Netflix.
Lo strumento della serie, in particolare, si dimostra il vero driver a
disposizione delle nuove imprese dei media: fenomeni di culto come
Game of Thrones o Breaking Bad, oltre a collezionare un enorme successo
di critica e di pubblico, hanno fissato gli standard delle produzioni
successive e animato milioni di spettatori da tutto il mondo. Il carisma dei
personaggi ricorrenti, l’intreccio della trama del singolo episodio con il
quadro generale (formula di comprovato successo delle grandi produzioni
anni Novanta, da E.R. in giù), una buona qualità media delle trame
secondarie sono solo alcune delle ragioni che hanno portato a definire la
nostra come ‘l’età dell’oro della serialità televisiva’. Da questo successo
derivano fenomeni altrettanto interessanti correlati al consumo di tali
prodotti: le premiere e i finali di stagione, i momenti in cui generalmente si
concentrano azione e colpi di scena, e che diventano veri e propri riti
collettivi.
L’appuntamento settimanale per vedere una serie televisiva, spesso
consumata nella sua interezza o quasi nel tempo di una serata (il
cosiddetto bingewatching, ovvero la visione di cinque o più episodi di fila17),
diventa più di una occasione di socializzazione, un vero e proprio
momento di definizione di sé stessi nella comunità: il senso di
condivisione viene esaltato non solo dalla visione comune, ma anche dal
commento attraverso i social e la creazione di contenuti autoprodotti da
condividere in numerose e parcellizzate community online. Gli eroi della
serialità televisiva si trasformano in nuovi trendsetter, modelli di vita e di
pubblicità come lo erano stati i grandi divi della Walk of Fame
losangelina: riempiono trasmissioni televisive, giornali e spazi web. Il
lancio del primo episodio della stagione finale di Lost, serie
fantascientifica dai numeri impressionanti (un Golden Globe, tre Emmy,
16 milioni di telespettatori per ognuno degli episodi della prima
stagione), ebbe una eco tale da portare l’allora presidente degli Stati Uniti
Barack Obama a rinviare il suo discorso al paese18.
Accanto allo streaming, attività sempre più pilastro della fruizione di
materiale audiovisivo, resta forte il downloading, lo scaricare e usare file,
spesso illegalmente, in particolare nel nostro paese: la percentuale di
giovani italiani che hanno guardato o scaricato un file illegale è doppia
rispetto alla media europea (30 contro 15%), ennesimo segno di una
abitudine ormai difficilissima da correggere, quasi un nostro tratto
culturale. La pirateria non viene percepita come un crimine perché
sembrano non esistere vittime, corpo del reato né locus commissi delicti,
come spesso accade nell’era digitale. Le campagne portate avanti dalle
istituzioni poco hanno potuto, risultando scollate dalla realtà dei fatti: la
repressione di un fenomeno del genere per mezzo della soppressione dei
pirati è difficile, perché alla rimozione del file incriminato spesso segue
l’upload dello stesso su numerosi altri portali.
È nella fascia under 18 che il consumo televisivo è in costante calo: tutti
gli studi convergono su questo punto. E tuttavia va ribadito che anche in
questa fascia non è il prodotto televisivo a declinare, perché i prodotti
televisivi resistono eccome, e lo vedremo tra poco. Il nodo sta nei modi e
nelle abitudini di consumo. Soprattutto i teenager sono molto più legati
agli smartphone che alla televisione, a YouTube che alla televisione-
caminetto, ai selfie che ai grandi riti televisivi. Recenti ricerche europee
che mettono a confronto realtà diverse ci dicono che i ragazzi tra i 9 e i 16
anni in media trascorrono ogni giorno fino a più di due ore online
davanti al televisore, ma con modalità diverse dal passato19. Serie, reality,
talent non vengono più fruiti sul televisore tradizionale ma attraverso i
più diversi percorsi d’accesso. I giovani guardano soprattutto ‘altra’
televisione, tv che nasce sul web e viene distribuita attraverso la rete –
pensiamo alle clip su YouTube, o Twitch20 –, di nuovo come se la
televisione e i suoi prodotti fossero solo una parte dell’offerta video
presente sul mercato. È significativo che il 73% dei nati tra il 1996 e il
2010 sceglierebbe cosa vedere sulla base dei suggerimenti che circolano
sui social network21.
Tutto ciò ha un grande impatto sulla costruzione dell’immaginario
collettivo, della traiettoria culturale. Negli Stati Uniti le cinque star più
amate dal pubblico tra i 13 e i 18 anni non provengono da Hollywood o
dal mondo del rock ma da YouTube (comici, videogamer, dj)22.
E anche qui da noi – sempre in base ai dati Censis – c’è un’evidente
differenza generazionale sulle figure che esercitano più influenza. La
maggiore distanza riguarda giornalisti competenti e intellettuali
indipendenti, piuttosto influenti per gli over 30 e molto poco per gli
under 30.
Ancora una volta è però necessario inserire dei caveat. Lo smartphone è
la nuova lampada di Aladino, lo strumento che mette in relazione tra loro
tutti i mezzi digitali, ma non si può negare che la televisione resti decisiva
per la diffusione universale dei messaggi. Sono i canali generalisti che
riescono a fare da cassa di risonanza alla comunicazione personale o di
cerchie ristrette. Sia per la comunità degli adulti sia, anche se con minore
effetto, per la generazione delle reti. Non scordiamo che anche come peso
specifico – che significa lo spazio occupato da ciascun medium all’interno
dell’uso complessivo dei media23 – nonostante le variazioni sensibili che si
registrano, la televisione resta più o meno stabile al primo posto,
leggermente sopra a cellulare, radio e Internet. Ed è al primo posto,
seppure con una distanza minima su cellulare e Internet, anche tra i
giovani tra i 14 e i 29 anni.
Conferme di questa tendenza arrivano anche dall’analisi delle platee dei
più piccoli, dai 3 ai 16 anni. Sono stati messi a confronto i ventisette
canali tematici per bambini e preadolescenti che l’Auditel censisce: negli
anni la platea di quella che un tempo veniva chiamata la ‘tv dei ragazzi’ è
cresciuta notevolmente. Con significative differenze interne, le sette
stazioni gratuite del digitale terrestre hanno visto una crescita della platea
del 42%, mentre sono andati male – complice la crisi economica – i
canali a pagamento (quasi tutti proposti da Sky e Mediaset Premium, poi
transitata tra il 2018 e il 2019 sulla piattaforma Sky), che scendono del
43% in un quinquennio e del 32% negli ultimi quattro anni. Così come
dalla tv dei ragazzi arrivano conferme sul modo in cui si guarda. Il 56%
dei genitori sostiene che i figli utilizzano insieme almeno due device. E in
genere uno è la televisione.
Proviamo adesso ad entrare nel merito delle pratiche del consumo
televisivo, a capire insomma che cosa guardano alla televisione i più
giovani. Si diceva del forte consumo on demand, ma occorre aggiungere
che i programmi più visti spesso non coincidono con quelli più visti dalla
popolazione in generale. In Europa quattro canali annoverano tra i loro
spettatori più del 50% di giovani: Mtv nel Regno Unito, Viva e Comedy
Central in Germania, Tv 2 Zulu in Danimarca. Più donne che uomini
(in generale l’audience femminile è più alta di quella maschile).
Per quanto riguarda i generi, la preferenza va all’entertainment, al talent,
alla fiction24. Molto apprezzati e seguiti sono i programmi con una
connessione social, nei quali è possibile commentare e interloquire in
diretta. Questo dato ha un significato non irrilevante, giacché questo
attivismo, e la pratica della cultura della convergenza tra media, spingono
la generazione digitale a ri-discorsivizzare, ri-mediare i contenuti fruiti, a
elaborarli, discuterli. Attraverso la pratica social, insomma, gli spettatori
interagiscono e allungano la vita del programma stesso, e usano la rete per
controllare sui dispositivi commenti e reazioni alle trasmissioni stesse.
Ritorna il concetto dell’omnicanalità: rispetto al telespettatore passivo che
subisce il palinsesto, il nuovo metodo di fruizione dei media porta
l’utente dentro la trasmissione, gli permette di interagire con i conduttori
o con gli ospiti, lo pone direttamente al centro dell’esperienza.
Continuano ad essere molto seguiti i reality e i talent, con format che
sono in testa in diversi paesi – Got Talent, The Voice, Survivor, Grande
Fratello, Il collegio, che nel 2019 ha spopolato tra i giovanissimi –, mentre
sono meno seguiti i canali di informazione, 10 punti in meno rispetto alla
media nazionale. In generale l’universo dei contenuti televisivi di
riferimento tende ad essere meno vario di quello di fasce d’età più adulte,
e a privilegiare il bisogno di storie e di racconto anziché l’attualità.
Piuttosto interessante continua ad essere il caso di Le Iene, uno dei
programmi più amati dai giovani. Nato più di vent’anni fa, in onda su
Italia 1, seguita a far segnare alti ascolti – ha registrato una media di share
del 10%, sfiorando il 15% nell’ottobre 2019 con le puntate successive alla
morte della sua conduttrice Nadia Toffa – grazie soprattutto
all’aggiornamento dei suoi linguaggi; ha generato la community online
legata alla social tv più folta e loquace del paese; su Facebook ha una
pagina con oltre 5 milioni di fan e si configura come la fan page di un
programma tv più seguita in Italia; su Twitter ha oltre 2 milioni di
followers. I giovani sono il suo pubblico di riferimento. Emblematica è
stata la puntata sul caso Blue Whale, trasmessa a maggio 2017, per la quale
gli ascolti sono passati dal 9,71% (23:33) al 18% (00:04), con una
percentuale sul target di riferimento (15-24 anni) che è arrivata al 30%.
Nella puntata si parlava del fenomeno Blue Whale come di un macabro
rituale per giovanissimi da filmare e postare online. Intitolata Blue Whale,
suicidarsi per gioco, ha fatto molto rumore in Italia e ha contribuito a
diffondere una psicosi sui suicidi di gruppi di coetanei che si alimentano
nell’oscurità del web. Ma la puntata, grazie ad analisi e verifiche di
blogger e giornalisti (un’ottima ricostruzione dettagliata è pubblicata sul
blog valigiablu.it), si è rivelata piena di inesattezze e filmati falsi, come in
seguito ha ammesso, scusandosi, la stessa Iena Matteo Viviani che ha
realizzato il servizio. Ad esempio, il suicidio del ragazzo di Livorno che si
era gettato da un grattacielo, che apriva con grande pathos il servizio, si è
rivelato del tutto svincolato da ogni legame con gruppi online di
istigazione al suicidio. Negli anni non sono state poche le occasioni in cui
notizie non verificate e false, o inesatte, o incomplete, hanno dato vita a
movimenti d’opinione.
Le Iene ha rappresentato qualche anno fa una novità assoluta nel rapporto
tra tv e web per la cosiddetta ‘coda lunga’, ovvero per la durata
considerevole delle discussioni online legate al programma. L’hashtag
#leiene domina i trending topic su Twitter per molte ore ancora dopo la
fine della puntata e spesso per tutta la mattinata seguente. La domanda da
porsi è allora: come è possibile che, nonostante le critiche e le evidenze di
dubbia affidabilità, il programma ancora generi tanta attenzione e
adesione da parte del pubblico? La risposta è in parte nella cura della
community: la presenza di Le Iene sui social, come sapienti e costanti
foraggiatori degli spettatori, compensa le pecche informative. Ma c’è di
più e quel di più va ricercato nelle dinamiche di adesione alle cause che
hanno fatto la fortuna anche di un movimento politico in questi anni: un
linguaggio sopra le righe, ironico e tagliente, fulminante e lapidario. La
veridicità dei fatti o la conferma delle fonti non sono la priorità, secondo
uno schema comunicativo che chiede sempre in qualche modo di
schierarsi.
Eravamo partiti da considerazioni generali sulle trasformazioni
dell’universo mediatico e dei consumi. Dopo i dati, crediamo opportuno
tornare alle riflessioni. Il pubblico giovanile è sollecitato, stimolato,
distratto, multitasking, ma anche esigente, abituato a una grande varietà
di offerte. I ragazzi saltano da un medium all’altro e da una piattaforma
all’altra, vengono raggiunti ovunque e in modo particolarmente efficace
dai grandi operatori americani di contenuti on demand – pensiamo in
particolare a Netflix – con serie televisive brillantissime, che sono
diventate una delle forme narrative più efficaci per formare gusti
collettivi, nuove mitologie, immaginari.
Sono pratiche che sin dai primordi della sua affermazione hanno
suscitato molte preoccupazioni – e ancora ne suscitano – sui pericoli di
indebolimento di una cultura comune, di abitudini condivise, con una
frammentazione crescente del pubblico, sempre più parcellizzato in
nicchie, tribù, generazioni. Per la generazione dei padri i media, e in
particolare la televisione, hanno contribuito non poco a costruire simboli,
miti, dive e divi, immagini in cui riconoscersi. Per i giovani – questa è
l’interpretazione spesso avanzata – non è più così. In questi anni il
pubblico, specie giovanile, si è frammentato e si è ricomposto in modi
inimmaginabili pochi anni fa. La frammentazione, la polverizzazione, la
disarticolazione contemporanea hanno reso i processi elusivi e articolati.
Al mezzo di comunicazione di massa per eccellenza si è sostituito, come
detto, un patchwork fatto di dispositivi digitali personali, palinsesti
desincronizzati, influencer del web e follower dei social network, cosicché
l’immaginario collettivo dei giovani è difficilmente definibile, fortemente
soggettivo. E non necessariamente più libero che in passato. È un punto
nodale. Oggi, in modo magari ambiguo, il pubblico si muove spesso
dentro rotte preordinate dalle grandi società della comunicazione digitale,
che usano tutti i canali, da quelli mainstream ai portali più frequentati, che
orientano e dettano il successo, a quelli più di nicchia. E quindi rischiano
di riprodursi quei modelli verticali che si sviluppano dall’alto verso il
basso e che sembravano superati dalla logica della rete, considerata
appunto un vero strumento di emancipazione rispetto alla logica
unilaterale, cosiddetta push, dei media tradizionali, pensata per un
pubblico indifferenziato e passivo.
C’è inoltre un ulteriore nodo irrisolto. Tra gli under 30 è ancora
presente la categoria dei teledipendenti, coloro cioè che hanno una dieta
mediale sostanzialmente basata solo sulla televisione (nel 2017 è il 9,8%) e
questo dato ci dice che non tutti i giovani sono entrati nel mondo della
comunicazione digitale.
Ancora una volta la nostra attenzione deve volgersi verso le agenzie di
formazione.

1
Enrico Menduni, Televisione e radio nel XXI secolo, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 83.
2
Massimiliano Valerii, Settimio Marcelli, Introduzione, in Censis-Ucsi, 14° Rapporto sulla
comunicazione cit., p. 10.
3
Cfr. Amanda D. Lotz, Post-Network. La rivoluzione della tv (2007), minimum fax, Roma 2018.
4
La bipartizione si deve ad Umberto Eco, la tripartizione a John Ellis, ed è stata fatta propria
di recente anche da Aldo Grasso nella sua recente e ponderosa Storia critica della televisione
italiana, il Saggiatore, Milano 2019.
5
Ivi, p. 8.
6
Ibid.
7
La bibliografia su questo tema è corposissima. Tra i tanti titoli segnaliamo La televisione.
Modelli teorici e percorsi d’analisi, a cura di Massimo Scaglioni e Anna Sfardini, Carocci, Roma
2017; Crossmedia cultures. Giovani e pratiche di consumo digitali, a cura di Francesca Pasquali,
Barbara Scifo e Nicoletta Vittadini, Vita e Pensiero, Milano 2010. E ovviamente saggi e
articoli di Aldo Grasso, in specie Storia critica cit.
8
Aldo Grasso, Storia critica cit., p. 9.
9
Per ‘utenza complessiva’ si intendono gli utenti che hanno indicato una frequenza d’uso del
mezzo di almeno una volta alla settimana (ovvero hanno letto almeno un libro nell’ultimo
anno), per ‘utenza abituale’ si intendono gli utenti che hanno indicato una frequenza d’uso del
mezzo di almeno tre volte alla settimana (ovvero hanno letto almeno tre libri nell’ultimo
anno).
10
Vedi Eurodata Tv Worldwide, 2018. Analizzando i consumi televisivi dei giovani tra i 15 e i 35
anni di 10 paesi si scopre che tra il 2016 e il 2017 la media quotidiana di visione è di circa 2 ore
e mezza, un’ora e mezzo in meno rispetto alla media generale, e il 5% in meno rispetto al
2015. https://www.eurodatatv.com/fr/worldwide-content-and-audience-insights.
11
Cfr. Paola Castellucci, Carte del mondo nuovo. Banche dati e Open Access, il Mulino, Bologna
2017, p. 65.
12
http://www.ninjamarketing.it/2016/11/15/clickbait-ed-echo-chambers-fenomeni-social-
influenzano-lopinione-pubblica/.
13
http://www.harbus.org/2004/social-theory-at-hbs-2749/.
14
http://patrickmcginnis.com/how-to-dump-fomo-2018/.
15
https://deadline.com/2019/01/netflix-in-talks-to-join-mpaa-120 2539433/.
16
L’acronimo OTT, Over The Top, definisce le grandi media company, principalmente
statunitensi, come Google, Facebook e Netflix.
17
Il binge watching non è peraltro l’ultima frontiera. Stanno nascendo app che permettono una
fruizione accelerata delle serie, ma già il video speed controller permette di guardare a velocità
aumentata. Vedi Stefania Parmeggiani, A tutto speed: così si divorano libri e serie tv, in «la
Repubblica», 5 novembre 2018.
18
http://marquee.blogs.cnn.com/2010/01/08/president-won% E2%80%99t-interrupt-lost-
premiere/.
19
www.abi.it/Pagine/Societa/Festival-della-cultura-creativa.aspx.
20
Twitch è la piattaforma leader nello streaming di videogiochi: basata sul modello dello
streaming live, in contrapposizione alle clip di YouTube, ha raccolto grande successo presso gli
appassionati.
21
Rapporto La nuova centralità televisiva. Schermi, contenuti, pratiche delle audience connesse, a cura
dell’Osservatorio Social Tv dell’Università La Sapienza di Roma e SWG, 2016.
22
Sono dati di una ricerca commissionata da «Variety» nel 2017.
23
I media e il nuovo cit., pp. 31 sgg.
24
Rispettivamente 44 e 31%, dati Eurodata Tv Worldwide, 2017.
16.
La radio

Quanto alla radio va detto anzitutto che, come e forse più ancora della
televisione, è uscita trasformata in modo profondo dall’incontro con
l’ecosistema mediatico Internet. Essa è pienamente parte del cambio di
paradigma, e come altre volte nel XX secolo si è saputa adattare,
reinventare – tramite soprattutto la tecnologia –, connettersi coi linguaggi
del proprio tempo.
Grazie alle innovazioni tecnologiche si è rotta la simultaneità tra
emissione e fruizione, si sono decuplicati i modi in cui è possibile
trasmettere e ascoltare, e l’incontro tra radio e social media ha prodotto il
trionfo di una antica promessa della radiofonia: la partecipazione, la
rottura dell’unilateralità. Webradio, streaming, radio digitali, podcast,
social radio, sono tutti termini familiari a chi ascolta la radio oggi e per
chi è giovane. Come per la televisione, la fruizione radiofonica è oggi lo
specchio della parcellizzazione che caratterizza le nostre vite. L’ascolto in
simultaneità cala, e grazie alla rete e a una crossmedialità sempre più
intensa, miriadi di pezzi di radio vengono rimessi in circolo. La
partecipazione è esaltata da quella panoplia di media sociali – in
particolare SMS, WhatsApp, WhatsApp audio, mail, tweet, post su
Facebook ecc. – che permettono a chi ascolta di intervenire, interagire,
anche orientare le trasmissioni, e dare una vita ulteriore e diversa a
qualsiasi contenuto, sia esso un intero programma o più probabilmente
un frammento, un meme, magari trasformato, ‘rimediato’, con
immagini, video, effetti.
È un ascolto in fondo coerente con le forme della contemporaneità, che
esalta appunto la facilità d’uso, l’ubiquità, la scomparsa di confini
temporali e geografici, e fa però correre il rischio di un ascolto più breve e
distratto che in passato, con format che assecondano queste tendenze e
una radio che diviene più uno strumento di accompagnamento della
frammentazione, colonna sonora del mondo-flusso, interstizio nell’era
delle notifiche, che mezzo per informarsi, approfondire i temi, ascoltare
conversazioni raziocinanti e pacate. Come con le immagini televisive, lo
smartphone è lo strumento centrale di questa rivoluzione.
Lo stato di salute della radio è più che buono. E lo è in tutto il mondo.
Se in Occidente la radio è pienamente parte della metamorfosi dettata dal
digitale – con una tenuta dell’ascolto soprattutto nel maturo mercato
anglosassone: nel Regno Unito l’89,3% della popolazione ascolta la radio
ogni settimana (era oltre il 90% nel 2013-14 ma meno all’inizio degli
anni 2000), il cittadino medio l’ascolta per 21,2 ore a settimana; negli
Stati Uniti gli ascoltatori dei radio show continuano a crescere – in altre
aree del mondo i modi di produzione e fruizione restano gli stessi del
Novecento, e ci sono paesi in cui la radio ha una centralità che in
Occidente si è perduta. In alcune aree economicamente poco sviluppate è
tutt’oggi il medium più diffuso. È così nell’Africa subsahariana, nelle
zone interne del Brasile, nei paesi dell’Indocina. Anche in Italia negli
ultimi anni è riuscita a ritrovare una sua solida tenuta, e a partire dalla
metà degli anni Ottanta, dopo che la crescente forza della televisione
aveva marginalizzato, anche simbolicamente, il suo ruolo, a recuperare
ascolti. Nel 2018 gli ascoltatori totali nel giorno medio sono stati poco
meno di 35 milioni, in leggero calo rispetto all’anno precedente, di cui
circa 15 sull’emittenza locale. Nel 2015 erano stati poco sopra ai 35
milioni, nel 2012 erano scesi a 34,2 milioni, nel 2001 circa 35 milioni.
Nel 1955 si era poco sotto i venti milioni di ascoltatori quotidiani e sino
alla metà degli anni Ottanta si era restati sotto ai 25 milioni, poi
soprattutto a partire dagli anni Novanta gli ascoltatori sono cominciati a
crescere – quasi 30 milioni nel ’94 – e dagli anni 2000 ad oggi hanno
ruotato attorno ai 35 milioni, con un picco di quasi 40 nel 2010, figlio
però di un sistema di rilevamento contestato e soppresso.
Nel 2007 – sono dati Censis1 – l’utenza complessiva corrispondeva al
77,7% della popolazione, nel 2018 al 79,3%. Se si scorpora il dato
generale si scopre che il 56,2% ascolta da radio tradizionale, il 67,7% da
autoradio – sono percentuali in calo –, il 17% da pc e il 20% da
smartphone, e sono percentuali in crescita. Seppure più lentamente che in
altri paesi, il modo di ascoltare la radio segue i mutamenti generali del
sistema mediatico. Nel decennio 2007-2017 la crescita complessiva
dell’utenza radio da smartphone è stata del 13,7%, quella da Internet via
pc del 6,9%.
I giornali radio sono la terza fonte utilizzata dagli italiani per informarsi,
dopo telegiornali e Facebook, e molte ricerche convergono sulla
credibilità dell’informazione che si ascolta alla radio.
Forse sono ancora più significativi i dati sugli investimenti pubblicitari.
In un mercato che solo negli ultimissimi anni ha ricominciato a crescere e
che vede un inarrestabile calo degli investimenti su quotidiani e riviste, la
radio è assieme al web il settore che è cresciuto di più. Seppur ancora
molto distante dalla tv – meno di un decimo degli introiti – la radio è in
segno positivo da molti mesi, e lo è stata anche nel 2019. Non è un caso
che negli ultimi anni sia stato uno dei settori più mobili del mercato, con
diverse acquisizioni importanti, specie da parte di Mediaset.
Tra le novità più rilevanti per gli usi della radio c’è senz’altro il podcast –
che è una parola figlia della fusione tra i termini iPod e broadcasting, e
che indica il sistema che permette di scaricare su qualsiasi dispositivo i
contenuti audio delle trasmissioni, e di ascoltarli quando si desidera. I
numeri del podcast sono crescenti soprattutto nel mondo anglosassone,
ma solidi anche in Italia2. Il podcast è uno strumento versatile,
particolarmente consono ai contenuti di qualità e lunga durata – quelli
che non invecchiano dopo poche ore, come le news – e ai contenuti
narrativi. Dopo anni di crisi, grazie al podcast sta tornando la produzione
di audio-documentari, reportage, narrazioni vere e proprie. E come in
televisione è crescente il successo delle serie audio, ma sono in aumento
anche i daily news show e gli approfondimenti giornalistici audio di giornali
e riviste – anche qui in Italia – e soprattutto l’uso dei podcast da parte di
celebrities e influencer – attori, rapper, scrittori, giornalisti – molto ascoltati
dal pubblico giovanile.
Altri fenomeni di grande interesse sono la proliferazione di radio
settoriali, specializzate nei generi e nei periodi musicali più diversi, e la
crescita del numero delle radio di parola identitarie. È il volto radiofonico
del fenomeno delle nicchie.
È ovviamente il web ad aver permesso la moltiplicazione delle radio.
Fare una webradio è semplice, e se non si bada tanto al bacino di
ascoltatori, talvolta ridottissimo, ci si può sbizzarrire con le passioni più
diverse, specie musicali, le nicchie più nicchie, dalla musica country
dell’east coast dei primi anni Sessanta agli audio-documentari più
sofisticati. Si parla di più di 50mila webradio nel mondo.
La radio in altre parole è cambiata moltissimo, e grazie alla rete ha anche
per il futuro straordinarie opportunità. Ma la rete pone anche sfide
difficili, specie per l’universo che stiamo descrivendo in questo lavoro.
Perché l’ascolto da parte dei giovani, soprattutto per le radio pubbliche,
diminuisce un po’ ovunque3, e non basta a frenare l’incremento del
numero di radio e la grande varietà nell’offerta. A incidere su questo dato
è in modo particolare la diffusione musicale, perché la radio non è più il
canale prevalente attraverso il quale i giovani scoprono e si scambiano la
musica4. Le generazioni giovanili usano YouTube, iTube, Deezer,
Pandora, Spotify o, in Cina, QQ. Non solo. Dobbiamo pensare che i
giovani sono abituati a muoversi su piattaforme multimediali che hanno le
immagini, che sono obiettivamente seducenti, e sulle quali la
competizione è difficile. Ci sono inoltre servizi audio che non sono radio:
pensiamo al crescente mercato degli audiolibri, e in particolare ad app
come la svedese Storytel, che offrono un servizio in streaming con
migliaia di titoli – un po’ come Netflix per il video – e che sono già
inseriti, accanto a Spotify o Pandora, tra i servizi offerti negli schermi di
alcune automobili. E conta anche la funzione identitaria, la ‘propria’
radio, la conversazione identitaria, la radio come luogo di una possibile
sincronia emozionale. La generazione dei baby boomers, ovvero di coloro
che sono stati giovani negli anni Settanta e Ottanta, ha trovato nella radio,
in alcune stazioni radio, dei luoghi dove riconoscersi, scambiarsi idee e
abitudini, sentire che si parla la stessa lingua. Oggi quei luoghi sono
sempre di più i social network.
Insomma, se in Occidente la radio tiene in termini di ascoltatori
complessivi, fatica però a intercettare il pubblico più giovane, la fascia 18-
24, che tende a non mutare le abitudini mediali una volta cresciuta e
quindi ad ascoltare poco la radio. Negli Stati Uniti l’ascolto al mattino
della fascia 12-24 è in sensibile diminuzione, e in Europa c’è un calo
generale dell’ascolto giovanile delle radio pubbliche, in particolare in
Svezia, il paese dove è nato Spotify. Una ricerca americana sull’ascolto
delle radio pubbliche da parte dei millennials indica come quest’ultimi
considerino quasi sorpassata l’idea del palinsesto che accompagna le
giornate degli ascoltatori, e privilegino l’on demand e l’informazione
locale5.
Ma per la radio e la sua capacità di farsi ascoltare dai giovani non ci sono
solo ombre. Anzitutto ci sono aree del mondo in cui è ancora molto
ascoltata anche dai giovanissimi6, e poi la radio è un medium antico – ha
un secolo di vita – ed è parte delle abitudini di vita delle persone, e i
giovanissimi l’hanno vista e ascoltata grazie ai loro genitori, nonni,
parenti. C’è dunque un elemento mimetico. Anche tra i millennials la
percentuale di chi risponde che l’ascolta perché è una delle abitudini di
vita è vicina al 50%7, quindi la speranza è che prima o poi divenga parte
almeno di un frammento della loro quotidianità. In realtà quello che sta
probabilmente accadendo è che la radio viene ascoltata dai giovani per
meno tempo di quanto non si facesse qualche anno fa, perché anche
l’ascolto radiofonico è parte di quella dieta frammentata, varia, composita
di cui abbiamo parlato a più riprese. Non è più un ascolto fedele e
costante, insomma, ma c’è.

1
Censis, Rapporto 2018 cit.
2
Dove il fenomeno sta assumendo grandezze, varietà e ruolo ragguardevoli; cfr. Luigi Lupo,
Podcasting. La radio di contenuto ritorna sul web, Meltemi, Milano 2019. Le ricerche di Ipsos,
Voxnest e Spreaker parlano di 7 milioni di ascoltatori di podcast in Italia nel 2019, con una
media di 160mila ascoltatori al giorno.
3
La radio in Italia. Storia, mercati, formati, pubblici, tecnologie, a cura di Tiziano Bonini, Carocci,
Roma 2013, p. 18.
4
Enrico Menduni, Il mondo della radio. Dal transistor a Internet, il Mulino, Bologna 2012, p. 241.
Si vedano anche i dati di The Infinite Dial 2018, dai quali si desume che la radio resta uno
strumento importante per scoprire e ascoltare la musica, ma più per le generazioni over 30 che
per i giovanissimi.
5
Tyler Falk, New study dives into public radio habits of millennials, in «Current», 15 agosto 2017,
https://current.org/2017/08/new-study-dives-into-public-radio-habits-of-millennials/?
wallit_nosession=1.
6
Cfr. dati e notazioni di uno dei maggiori conoscitori dell’universo radiofonico, James
Cridland, https://james.cridland.net/.
7
Fred Jacobs, Radio: A Century Head Start, http://jacobsmedia.com/radio-century-head-start/.
17.
Il cinema

Si è scritto poco fa delle serie televisive, che sono qualcosa di più e di


diverso dalla televisione tradizionale. Esse hanno avuto un effetto
notevole sulla televisione, ma lo hanno avuto anche sul cinema, sulla
fruizione giovanile dei prodotti audiovisivi. Sono state una sorta di
grimaldello per rompere gli assetti esistenti. Rivoluzione digitale e
dispositivi mobili stavano ovviamente cambiando tutto il paesaggio, ma è
grazie alle serie che c’è stata un’accelerazione.
L’effetto del combinato disposto di questi vari elementi è che oggi risulta
più difficile, particolarmente per i giovani, parlare di generi, distinguere
in modo netto tra contenuti e prodotti, da un lato, e vettori, luoghi e
strumenti che li trasmettono, dall’altra. C’è un’espressione che tutto
riassume: contenuti audiovisivi. Che poi sia un film, una puntata di una
miniserie web, un video, è relativamente importante, così come è
relativamente importante, o percepito come non essenziale, che il
prodotto sia fruito in una silenziosa saletta, in una meno silenziosa
maxisala, sullo schermo di un tablet o di uno smartphone, in televisione,
o proiettato sul muro della camera, il cosiddetto home entertainment.
I dati sembrerebbero dirci questo. Tutte le ricerche degli ultimi anni
convergono su due-tre punti di indubbio significato: i millennials sono
tutt’oggi grandi consumatori di film, vanno però poco al cinema perché
per la visione usano per lo più mezzi diversi, come pc e smartphone. La
visione di fiction ha superato quella di film.
Entrando nel dettaglio1 di una ricerca piuttosto articolata del 2017 si
scopre che il 91% dei giovani tra i 20 e i 34 anni vede almeno un film a
settimana, il 62% più di uno a settimana, il 12% un film al giorno. Ma
solo uno su cinque (il 18,6%) va al cinema più di una volta al mese, tutti
gli altri utilizzano tablet, smartphone, o schermi televisivi.
Tra le motivazioni per le quali si va poco in sala, oltre alle mutate
abitudini di vita e alla pervasività dei dispositivi mobili, c’è anche il
prezzo del biglietto, troppo alto ad avviso del pubblico giovanile. La
domanda c’è, e i tentativi di avvicinare il pubblico con abbassamenti di
prezzo – pensiamo all’iniziativa del ‘mercoledì a due euro’ – hanno
riscosso un discreto successo.
Il genere preferito di film è la commedia (21,5%), sia per gli uomini sia
per le donne, seguito dal thriller (17,5%), più amato dagli uomini, poi dal
fantasy e, al quarto posto, dal genere avventura. Molto bassa la fruizione
di documentari.
Le serie televisive si sono decisamente affermate, hanno superato i film,
ma non c’è stata una sostituzione. Per più di un terzo dei giovani
intervistati i generi convivono, e non c’è prevalenza di un genere
sull’altro. Tra chi guarda le serie il 36% usa solamente la tv, il 21,3% usa
anche altre piattaforme ma principalmente la tv, il 23,6% usa soprattutto
tablet, smartphone e pc.
Interessanti anche i dati sulle sale: il 66,3% dei giovani apprezza le sale
multiple ipertecnologiche e con molti servizi, e sono specialmente gli
under 25 a cercare questi luoghi. Tra chi apprezza le piccole sale è alta la
percentuale di laureati.
Ricerche più recenti confermano e dettagliano in profondità gli assunti
di fondo2. È lo smartphone il dispositivo più usato per la visione dei film
(79,4%), mentre il 43,2% continua a preferire la visione sulla televisione
generalista. Il caro biglietto – e il fatto che non ci sia grande elasticità, che
i biglietti costino più o meno lo stesso ovunque e a prescindere dagli orari
– è un forte motivo di dissuasione dall’andare al cinema ed è significativa
la percentuale di chi scarica film illegalmente dalla rete: il 20,4%, dato
peraltro probabilmente sottostimato. C’è un ulteriore elemento che rende
lo streaming molto competitivo: si può decidere a proprio piacimento
inizio, pause e fine della visione. È la vittoria dell’on demand. Questa
forma di fruizione segna la crisi conclusiva del cinema tradizionale e della
visione nella sala? Non bisogna trarre conclusioni affrettate: è vero che
l’on demand è molto più consono allo stile di vita e agli usi del tempo
libero della contemporaneità, ma il cinema resta comunque per il
pubblico giovanile la più praticata tra le forme di intrattenimento
culturale extradomestico. È in altre parole ancora un’arte popolare, anche
tra i giovani.
Come e dove si informano i giovani sui film da vedere? Prevalentemente
online (58,6%), ma ci torneremo.
Come quasi sempre gli Stati Uniti fanno da capofila di tutte le nuove
tendenze, e quindi quei dati sullo streaming e sul tipo di fruizione sono
persino più accentuati. In Europa la situazione è più variegata. In Olanda
e Francia i teenager sono tra i maggiori consumatori di film, con una
media di due film e mezzo a settimana, ma preferiscono gli schermi
tradizionali – televisione e cinema – agli smartphone. In Francia3, paese
che ha una grande attenzione per la cultura cinematografica e primo
mercato d’Europa, con circa 200 milioni di spettatori nel 2018, si registra
un dato abbastanza stabile nell’ultimo decennio (il periodo d’oro è
comunque alle spalle, con i 411 milioni del 1957; l’Italia nel 2018 si attesta
su 85 milioni, in calo di 7 milioni rispetto all’anno precedente, la
Germania su 90, la Gran Bretagna su 176, la Spagna su 92). In altre parole
i giovani, specie la fascia 20-24, sono i più grandi consumatori di cinema,
ma il loro numero tende a restare statico o a calare, mentre è il numero
degli over 35 a crescere. Il cinema resta comunque, anche lì, il genere di
spettacolo o intrattenimento fuori casa preferito dal pubblico giovanile.
Tra l’altro in Francia i giovani parlano molto di cinema, e un terzo di
coloro che frequentano le sale segue anche festival, cineclub e conferenze.
Anche in Francia lo strumento principale per informarsi sul cinema è la
rete, ma forte influenza hanno anche gli annunci che precedono i film e il
tradizionale passaparola. La percentuale di chi sceglie un film sulla base di
recensioni di critici è inferiore al 20%4.
In tutto il mondo sta crescendo l’abitudine di parlare di un film sui
social network dopo la visione, ma è molto significativo che, almeno in
Italia, sono molto ristrette le cerchie di giovani che frequentano siti,
forum e blog specialistici, sui quali dichiara di intervenire circa il 4% dei
giovani. È un peccato perché la rete offrirebbe moltissimo, c’è stata una
vera «proliferazione di blog e siti dedicati al cinema di genere o a
cinematografie culturalmente distanti dall’egemonia statunitense, in cui
l’aspetto informativo e critico è strettamente connesso a quelli di scambio,
condivisione di interessi simili, appartenenza»5. Oggi ci sono molti blog,
siti, versioni online di riviste che hanno un ruolo riconosciuto di
orientamento qualificato per il lettore/spettatore. Siti come Comingsoon,
MYmovies, Rotten Tomatoes sono frequentatissimi, in realtà più da un
pubblico adulto che da un pubblico giovanile.
In altre parole, l’online è una risorsa fondamentale per reperire
informazioni ma è meno usato per discutere delle esperienze. Questo
potrebbe essere interpretato come un cattivo segno, perché sarebbe la
prova di una certa mancanza di ricerca di approfondimento, di confronto
serio e informato, che potrebbe preannunciare un altro fenomeno
preoccupante: i giovani sembrano pensare al cinema e ai film soprattutto
come forma di intrattenimento ludico, e non come potenziale prodotto
culturale alto. Infatti, sono le grandi produzioni americane ad attrarre i
maggiori consensi, le trame e le star dominano le ricerche online, e anche
i generi preferiti dimostrerebbero più una ricerca di evasione che di
crescita o riflessione.
Tra le ulteriori considerazioni possibili sulla base dei dati riportati,
quella forse più pregnante tocca il tema dell’individualizzazione
dell’esperienza della visione. Nel passato ‘andare al cinema’ era
un’espressione che sussumeva una serie di azioni, che quasi sempre
coinvolgevano più persone e non si esaurivano nella visione. Oggi è
frequente l’immagine di una famiglia6, o di una coppia, in cui ognuno
sceglie e guarda il suo prodotto su un dispositivo mobile. Non a caso tra
le motivazioni per cui i giovani, pochi, vanno ancora al cinema c’è ai
primi posti la rilevanza della socialità con amici e partner.

1
I dati citati sono tratti dall’indagine Giovani e cinema commissionata dall’Ente dello Spettacolo
all’Istituto Toniolo e presentata al Festival del cinema di Venezia nel 2017. Un’analisi molto
attenta di ciò che è accaduto negli ultimi anni, con una messe utilissima di dati, è in Fabio
Introini, Cristina Pasqualini, Grandi e piccoli schermi: la fruizione di film e cinema dei giovani in
Italia, in La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2016, a cura dell’Istituto Giuseppe
Toniolo, il Mulino, Bologna 2016, pp. 183-213. Molto utili anche i dati delle ricerche sui
consumi culturali dell’Osservatorio News-Italia dell’Università di Urbino.
2
Dati disponibili sul sito della Fondazione Ente dello Spettacolo,
https://www.entespettacolo.org/.
3
I dati riportati sono del Centre National du Cinéma, https://www.cnc.fr/a-propos-du-cnc.
4
Sul ruolo della critica cinematografica e più in generale su ciò che spinge a scegliere il film da
vedere è molto utile Chiara Checcaglini, L’informazione culturale e il settore audiovisivo: il caso
dell’informazione cinematografica, in Info Cult. Nuovi scenari di produzione e uso dell’informazione
culturale, a cura di Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini, FrancoAngeli, Milano 2015.
5
Chiara Checcaglini, L’informazione culturale cit., p. 115.
6
Sulle ‘famiglie multimediali’ si veda Fabio Introini, Cristina Pasqualini, Grandi e piccoli schermi
cit., p. 185.
18.
I videogiochi

Parlare di consumi culturali e di videogiochi come argomenti correlati


può risultare spiazzante: l’Italia, storicamente avversa al digitale e agli
investimenti infrastrutturali, ha spesso mostrato segni di ritardo rispetto ai
processi di modernizzazione legati all’industria tecnologica. Ne è riprova
il tuttora forte digital divide, il divario tra chi ha la possibilità e gli
strumenti per fruire delle tecnologie dell’informazione e chi ne è
sprovvisto. Al progressivo inserimento dei giovani in un mondo
esclusivamente digitale e alla crescita della copertura dei servizi ADSL è
seguita un’impennata nella ricerca di nuove forme di intrattenimento e
condivisione. Le dimensioni del fenomeno sono enormi: per avere un
termine di paragone, basti dire che il giro di affari globale dei videogames
arriva a 138 miliardi contro i 40 del cinema. L’Associazione editori
sviluppatori videogiochi italiani (AESVI) è l’organismo di categoria che
rappresenta produttori di console, sviluppatori ed editori di videogiochi:
attiva dal 2001, pubblica con base settimanale i dati di vendita relativi sia
al mercato pc che a quello console, oltre che numerosi studi e analisi
sull’andamento del mercato. Nel suo rapporto del 2019 sullo stato di
salute dell’industria videoludica1 l’AESVI riporta che il 37% degli italiani
tra i 6 e i 64 anni ha videogiocato negli ultimi 12 mesi.
La definizione di ‘videogiocatore’ è ottenuta dall’addizione dei seguenti
elementi: possesso in famiglia di console fissa o portatile per videogiochi;
utilizzo della console per connettersi ad Internet negli ultimi 3 mesi;
acquisto via Internet di videogiochi; download da Xbox Live, Nintendo
Wii Shop, PlayStation Network o altre piattaforme; gioco online negli
ultimi 3 mesi; utilizzo dello smartphone per giocare online e/o per
scaricare; gioco tramite i social network; download su tablet di app di
videogiochi2.
Vale la pena soffermarsi ad analizzare la terminologia utilizzata: è un
elenco complesso ma non esaustivo, che comprende le categorie più
disparate, dall’adolescente che acquista gli ultimi titoli usciti fino al
nostalgico delle console passate, per non dire dell’enorme massa di utenti
proveniente dai giochi disponibili sui social network. Il mercato si
presenta ampio e variegato: da un lato abbiamo infatti il mercato delle
copie fisiche vendute materialmente in negozio, in difficoltà come tutto il
comparto retail3, dall’altro le piattaforme di acquisto e gioco online che le
maggiori case videoludiche hanno lanciato negli ultimi anni.
Nell’analisi tradizionale dei consumi lo spartiacque fondamentale era il
possesso di una console, ovvero un dispositivo concepito specificamente
per il gioco, dalla prima Odyssey del 1972 alle moderne PlayStation 4 e
Xbox One, oppure di un computer generalista: la scelta era di non poco
conto, considerato il costo nettamente maggiore di un computer rispetto
ad una console, ma anche la fondamentale diversità di approccio
all’esperienza videoludica. La possibilità di aggiornare le componenti del
computer per migliorarne le prestazioni, non prevista dalle console,
implicava che il possessore di pc era disposto a investire una quantità
maggiore di denaro al momento dell’acquisto per assicurarsi performance
superiori a quelle delle console sul lungo periodo e a rimaneggiare il
proprio hardware per rimanere aggiornato con le novità.
Questo duopolio, parzialmente alterato dall’arrivo sul mercato delle
console portatili, versioni miniaturizzate delle sorelle maggiori, dal Game
Boy alla PlayStation Vita, viene totalmente sconvolto dall’arrivo dello
smartphone. Tra le possibilità subito esplorate dal nuovo mezzo vi è
quella di portare dei titoli sul piccolo (o piccolissimo) schermo per
avvicinare ai videogiochi un pubblico enorme di utenti che adesso porta
in tasca un dispositivo con una potenza di calcolo maggiore rispetto a
quella delle console dedicate di pochi anni fa. Il successo planetario di
Angry Birds, celebre rompicapo per smartphone lanciato nel 2009 dai
finlandesi di Rovio, si spiega anche con la possibilità di portare una
grafica molto colorata e un game play accattivante ad un costo bassissimo
(quando non gratuitamente) e senza la necessità di acquistare costose
console: nonostante il vantaggio competitivo dovuto all’intuizione, la
stella della startup scandinava pare però essersi eclissata, con profitti in
calo e il valore in borsa crollato del 50% in un solo giorno nel febbraio
20184 a seguito di report finanziari negativi. Attrarre nuovi utenti, anche
grazie agli standard qualitativi sempre maggiori, diventa ogni giorno più
difficile proprio per quel fenomeno del ‘paradosso della scelta’ di cui si è
detto più volte.
I giochi presenti sui social network seguono una simile filosofia: pur
presentando meccaniche ancora più semplificate rispetto alle app, la leva
dell’appoggio al social network li rende appetibili per un pubblico
mondiale che vi trascorre in media 135 minuti al giorno5.
Giova sottolineare come l’inclusione nel novero dei videogiocatori di
questo tipo di fruitori, lontani dalle logiche classiche del mercato
duopolistico console/pc, allarga notevolmente il raggio della nostra
riflessione, ma rende necessarie alcune distinzioni. Se non si può ignorare
il fenomeno del gioco casual, sporadico, che si svolge sui social, bisogna
sottolineare come l’esperienza digitale dei possessori di console/pc sia
sostanzialmente diversa. L’ascesa degli e-sport¸ ovvero dei professionisti
del videogioco (di cui si dirà in seguito), evidenzia come una parte del
pubblico è attratta da un approccio di tipo competitivo al loro hobby
preferito, più serioso e metodico.
Questa nuova distinzione, figlia non del mezzo ma del sentimento
profuso nell’esperienza videoludica, pare più adatta a descrivere il
frammentato scenario attuale, in cui coesistono smartphone dai display
sempre più generosi, console portatili adattabili anche per l’uso in casa,
quale ad esempio la Nintendo Switch6, e pc da gioco professionali dal
peso di un paio di chili: lo strumento tramite il quale si usufruisce del
gioco svanisce, così come la logica dei titoli ‘in esclusiva’ per questo o
quel mercato, disponibili solo su una determinata console o un’area
geografica.
Le divisioni anche del pubblico videoludico in community diverse,
comparabili ma non sovrapponibili, sembra portare a dedurre che non vi
sia nessun vero filo rosso nei consumi videoludici che leghi tutte le varie
tribù, mentre abbondano le divisioni e le caratterizzazioni polarizzanti:
offline/online, console/pc, gioco singleplayer o multiplayer.
Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a notevoli modifiche del
panorama dei consumi: dal dominio totale del giocatore singolo, che
fruisce il prodotto tramite l’esperienza casalinga da solo o con pochi
amici, al gioco online diffuso capillarmente attraverso le connessioni ad
alta velocità che iniziano a farsi strada anche nel nostro paese. Nel
mercato dei titoli per giocatore singolo emergono le grandi avventure dai
budget hollywoodiani, come Assassin’s Creed o Grand The Auto, ideate
come un film interattivo; sportivi e strategici invece dominano il mondo
del multi giocatore, per le loro caratteristiche di immediatezza e azione
frenetica, che li rendono molto appetibili per la trasmissione televisiva o
online. Non può essere infatti trascurato l’impatto che piattaforme come
YouTube e Twitch.tv7 hanno avuto sulla crescita dei consumi in ambito
videoludico: mettere in onda sé stessi, come recita il motto del portale
rosso, è anche mettere in mostra le proprie partite, i propri record, l’aver
sconfitto il proprio compagno di banco davanti a (potenzialmente) tutto il
mondo connesso in streaming.
L’industria dei videogiochi, però, si modifica ad un ritmo estremamente
veloce. Infatti, se lo smartphone ha scosso dalle fondamenta il duopolio
console/pc, potremmo essere di fronte a un nuovo, enorme mutamento:
quello legato allo streaming dei titoli da remoto. Google ha annunciato
«Stadia», ambizioso tentativo dell’azienda di Mountain View di entrare
nel mercato videoludico, dopo anni di speculazioni, con una formula
simile a quella di Netflix: un servizio in abbonamento mensile che offre la
possibilità a chiunque disponga di un computer, a prescindere dalle
specifiche tecniche, di usufruire di tutti i titoli presenti nella libreria
digitale di Google. Il titolo viene materialmente fatto eseguire da un
supercomputer che, attraverso Internet, ne invia l’immagine agli schermi
di tutto il mondo, ricevendo a sua volta gli input dei giocatori. L’impatto
di una simile novità sul mercato è potenzialmente enorme, tanto che c’è
chi già pronostica il definitivo autunno delle console a fronte
dell’abbonamento dematerializzato. La mossa di Google ha creato
notevole clamore mediatico, anche se resta da chiarire quanto un
approccio simile potrà effettivamente trovare spazio in paesi in cui le
connessioni a banda ultralarga, necessarie per la trasmissione del gioco
senza eccessivi tempi, faticano ad affermarsi.
L’accesso ai servizi di streaming  ha offerto a una platea sconfinata di
utenti la possibilità di registrare e trasmettere clip e video in diretta in
maniera semplice e con costi contenuti, diventando essi stessi produttori
di contenuti e aprendo le porte al fenomeno degli youtuber.
Generalmente giovani o giovanissimi, con il loro contatto diretto, fatto
di reazioni agli impulsi del pubblico in chat e di scambio continuo,
riescono a costruire intorno alla loro figura un seguito di persone e di fan:
novelli intrattenitori nel senso più ampio possibile. Nemmeno il
crowdfunding, la raccolta fondi online a partire da cifre molto esigue, è un
concetto estraneo all’universo videoludico: ci sono storie di enorme
successo cresciute grazie all’entusiasmo di pochi sostenitori accanto a vere
e proprie truffe, facilitate dall’evanescenza delle promesse in fase di
presentazione del progetto.
L’impressionante popolarità tra i giovani di alcuni influencer web rende
questi ultimi molto efficaci come testimonial pubblicitari: le grandi
aziende videoludiche, e dei contenuti in generale, hanno intravisto delle
possibilità di sviluppo, e infatti molto spesso forniscono i propri titoli in
anteprima ai personaggi più influenti su una determinata fascia di mercato
perché li recensiscano. L’età della disintermediazione corrode la fiducia
nei confronti degli esperti e dell’autorità, ma per una singola comunità di
consumatori/fruitori il parere positivo di un popolare youtuber
dominicano può fare la differenza: pur non avendo mai interagito di
persona, viene a crearsi una connessione tra il pubblico e lo spettatore
impensabile per i media tradizionali, tanto da accogliere virtualmente
nelle nostre case persone da ogni parte del mondo, a patto che il nostro
interesse comune sia sufficientemente forte. Comunicare bene i prodotti
più appetibili per il pubblico dei più giovani, come i videogiochi, è
fondamentale se si vuole avere successo in una competizione globale che
si fa ancor più forte in un ambiente in cui si è naturalmente portati a
sfruttare molto la lente della rete per le proprie riflessioni.
Anche in ambito videoludico, peraltro, non mancano controversie e
polemiche legate ad un uso irresponsabile della rete stessa. No Man’s Sky
è un ambizioso titolo sviluppato dalla piccola casa di produzione Hello
Games: annunciato nel 2013, il titolo promette di portare grandi
innovazioni al genere fantascientifico e attira l’attenzione del pubblico con
coloratissimi video promozionali. Nel 2016 non è ancora uscito e
nell’annunciare l’ennesimo rinvio, probabilmente dovuto agli enormi
tempi di sviluppo di un progetto tanto ambizioso per una così piccola casa
di produzione, i dirigenti spiegano di aver ricevuto minacce di morte via
web8. L’attesa si è trasformata in morbosa ossessione per alcuni utenti,
portandoli a conseguenze assurde: ancora una volta bisogna riflettere
attentamente sull’uso dei social media come randello per punire chi osa
negare la bontà della nostra opinione. Il titolo, una volta uscito, sarà una
delusione cocente per pubblico e critica, che lo troveranno incompleto e
ripetitivo, ma nulla importa più. Il peso delle aspettative online ha
schiacciato un progetto inizialmente molto interessante ma sbriciolatosi
alla prova dell’uscita, perché lanciato ancora non perfezionato. Ciò che di
positivo può essere tratto da questo esempio è che anche un piccolissimo
sviluppatore può far parlare di sé con un progetto accattivante:
l’evoluzione tecnologica, d’altro canto, permette di acquisire le
competenze tecniche e gli strumenti di programmazione necessari alla
creazione del prodotto con un investimento economico modesto, con
interessanti conseguenze anche per il mondo dei micro sviluppatori:
modder e hacker.
I primi si dedicano a manipolare (dall’inglese to mod, modificare) i titoli
aggiungendo elementi non previsti nella versione originale: modalità di
gioco, migliorie grafiche e rinnovamenti completi del sistema e
dell’interfaccia portano a volte le modifiche a superare in estensione
l’originale, donando nuova vita a titoli di nicchia, dimenticati o
semplicemente bisognosi di piccoli aggiustamenti. La parola hacker,
ormai velata di carica negativa ma che alla sua origine definisce solo un
programmatore, in ambito videoludico si veste di altri panni: l’hacker
parte dallo scheletro di un gioco e ne costruisce uno totalmente nuovo, a
volte grazie a strumenti messi a disposizione dalle stesse case produttrici
del titolo originale. La possibilità di personalizzazione in quest’ambito
sono infinite, limitate esclusivamente dalle capacità tecniche e dai mezzi a
disposizione del creatore, oltre che dal suo estro: spesso i risultati sono
così incoraggianti che le case di sviluppo seguono i consigli di modder e
hacker o ne implementano direttamente idee e concetti.
Il videogiocatore di oggi è decisamente più esigente di quello di 10 o 15
anni fa: sono aumentate le fonti tramite cui informarsi, tra blog e social
mediati dagli influencer, mentre perdono terreno i tradizionali canali
quali, ad esempio, le riviste cartacee. Va sottolineato come la maggiore
barriera all’ingresso del mondo del videogioco, di natura tecnica ed
economica, va sgretolandosi a fronte del fenomeno dell’autosviluppo.
Come tutti i fruitori dei media digitali i videogiocatori soffrono di un
eccesso di informazioni, che può portare confusione, ma l’esplosione
delle galassie delle comunità online permette a chiunque di poter
accedere alla propria nicchia di genere preferita.
L’ibridazione del genere videoludico con le possibilità date dal web ha
portato alla nascita di generi completamente nuovi: nel vasto novero dei
titoli innovativi venuti alla luce negli ultimi anni un ruolo principe è
ricoperto da Minecra. Fusione dei due verbi inglesi to mine (minare) e to
cra (creare manualmente), questo titolo parte da un assunto
incredibilmente semplice: porre il giocatore in un mondo diverso ad ogni
nuova partita e permettergli di esplorare liberamente e di costruire
oggetti, da un semplice letto ad un castello. La procedura di creazione
richiede dei materiali che possono essere reperiti minando il terreno
circostante; non ci sono grandi storie, nemici da sconfiggere o mondi da
salvare, ma la propria fantasia e pochi limiti. Evidente è il richiamo ad
un’altra tecnologia molto amata da giovanissimi e non: quella dei
blocchetti LEGO. Minecra ha digitalizzato questa esperienza e l’ha
messa a disposizione di un pubblico enorme su console o computer,
fornendo potenziale per infinite creazioni al costo di una singola copia del
gioco. Il successo planetario riscontrato dal titolo, con milioni di copie
vendute dal 2011 al 2019 (risulta tuttora tra i 10 titoli più venduti nel
nostro paese9) ha attirato l’interesse di un colosso come Microso, che nel
2014 ha acquistato la piccola casa di sviluppo Mojang per la cifra record di
2,5 miliardi di dollari. La parabola del piccolo sviluppatore rilevato da un
colosso ricorda molte operazioni di fusione e acquisizione avvenute
nell’ambiente digitale da diversi anni a questa parte, da Microso con
Skype a Facebook con WhatsApp e Instagram.
Se quindi da un lato abbiamo un’esperienza videoludica improntata alla
libertà creativa e alla personalizzazione, dall’altro troviamo i professionisti
del videogioco, per cui un singolo fotogramma può far la differenza tra la
vittoria o la sconfitta.
Potrà sembrare paradossale ma in nuce alla stessa definizione di e-sport,
cioè il gioco competitivo, si trova la nozione di qualcuno che faccia del
proprio talento in quest’ambito un lavoro: un videogiocatore professionista. I
maggiori brand del settore, allettati dalle possibilità di marketing, hanno
stimolato la creazione di team professionistici per partecipare agli ormai
numerosissimi eventi che si tengono in varie parti del mondo.
Il settore sta vivendo un momento di intenso sviluppo: un recente
report di Newzoo segnala un giro d’affari da 700 milioni di dollari nel
2017, con un tasso di crescita annuale del 40% e un raddoppio degli
investimenti dei brand in ambito pubblicitario10.
La trazione mediatica e pubblicitaria è tale che il comitato organizzatore
dei Giochi Olimpici di Parigi 2024 sta valutando la possibilità di inserire
gli e-sport nel novero delle discipline olimpiche11: d’altro canto, seppure
la decisione abbia un impatto più limitato, il Consiglio Olimpico
dell’Asia, ramo orientale del CIO, ha stabilito che a partire dalla prossima
edizione dei Giochi asiatici del 2022 in Cina gli e-sport saranno una
disciplina vera e propria12. Numerose sono state le polemiche seguite a
una simile decisione, animate principalmente dal rifiuto di equiparare
un’attività svolta seduti davanti ad uno schermo con lo sport
tradizionalmente inteso: non c’è dubbio che ci sia un fondamento in
queste osservazioni, ma d’altro canto alcune caratteristiche richieste dal
gioco competitivo (capacità di rapida analisi di uno scenario complesso,
valutazione di uno scenario che muta mentre lo si osserva, riflessi veloci e
un numero con molti zeri di ore di pratica) possono essere utili anche a
chi non abbia familiarità con controller, mouse e tastiere.
Non di rado capita di scorgere, magari nelle so skills richieste delle
aziende alle future figure manageriali, qualche caratteristica familiare ai
videogiocatori: capacità di gestire la pressione e di prendere decisioni
rapide, attitudine al pensiero strategico multilaterale, creatività. Si dirà che
queste caratteristiche possono essere affinate anche con altri metodi non-
videoludici, come ad esempio il gioco degli scacchi, e ciò è sicuramente
vero, ma non si può ignorare l’impatto che le nuove tecnologie hanno sul
nostro modo di interagire con la realtà. Un giovane che oggi realizza la
propria costruzione in digitale su Minecra ha possibilità infinitamente
maggiori rispetto a un suo coetaneo che si muova unicamente
nell’universo analogico: per non scoraggiarsi di fronte a troppe possibilità
ha bisogno di una guida, di un canone da imitare che magari passa da
YouTube o Twitch, il che lo porta magari a seguire il suo influencer
preferito anche sui social network. Il mondo dei videogiochi è in una fase
di sviluppo e di iperconnessione con altri media che fino a pochi anni fa
sdegnosamente rifiutavano la sua presenza, relegandolo ad un ruolo
subalterno. Ormai risulta evidente come il videogioco abbia guadagnato
un ruolo di genere ibrido e originale nel nostro pantheon
dell’intrattenimento.
Valutare oggi l’impatto di questo medium sulla cultura popolare non è
facile. Indubbio è il fatto che l’economia delle app ha causato una
democratizzazione notevole del settore ed una diffusione globale mai
raggiunta prima.
Le specifiche tecniche dei dispositivi crescono più velocemente dei
prezzi, per cui la barriera all’ingresso del costo di fruizione va sempre più
sgretolandosi: il videogioco ha ormai travalicato il confine tra medium e
si è insediato stabilmente tra altre forme più tradizionali, come cinema e
tv, nella lotta per il nostro tempo, il vero ‘petrolio digitale’.
Se da un lato questa democratizzazione ha portato a un maggiore
numero di ore trascorse facendo uso di contenuti digitali, dall’altro
bisogna sempre tener conto della sostanziale distanza tra tipi di approccio,
da quello più leggero, fatto di partite veloci tra un impegno giornaliero e
l’altro, a quello più ragionato, dall’e-sport in giù.
Da questo punto di vista, quindi, si può affermare che il volano della
crescita del videogioco può ritrovarsi nella sua grande adattabilità a
coinvolgere lo spettatore-utente in situazioni sempre nuove e molto
diverse tra loro senza soluzione di continuità.
Delle potenzialità del videogioco transmediale si è ovviamente accorta
anche l’industria dei contenuti: nel dicembre 2018, infatti, Netflix rilascia
il film interattivo Black Mirror: Bandersnatch: la serie Black Mirror, che
analizza le pieghe più oscure e controverse del nostro rapporto con la rete
e la tecnologia, è uno dei titoli di punta del palinsesto Netflix, essendosi
guadagnata un foltissimo pubblico di affezionati con il suo sguardo
disincantato e cinico su tematiche come il libero arbitrio e la libertà di
parola nella società contemporanea.
In questo caso, in particolare, per la prima volta lo spettatore veste
direttamente i panni del protagonista, non casualmente un giovane
sviluppatore di videogiochi: in base alle scelte effettuate dallo spettatore
digitando sul suo schermo, la trama del film si dipanerà in direzioni
diverse, permettendo all’utente di essere insieme fruitore e creatore del
proprio prodotto. Figlio spirituale dei libri-game degli anni Ottanta e dei
giochi di ruolo tradizionali, da Dungeons & Dragons in poi, Bandersnatch
dimostra come la nuova generazione dell’intrattenimento prospera
ovunque ci sia disponibilità di una connessione ad Internet, uno schermo
ed un processore.
Le divisioni tradizionali tra forme di intrattenimento ‘alte’ e ‘basse’ si
fanno insomma sempre più sfumate, in nome di una personalizzazione
spinta all’estremo, tra ibridazioni e prodotti pensati per ogni tipo di
pubblico: non può stupire, quindi, che anche tramite la lente del
videogioco e della serie tv (o entrambi contemporaneamente, come in
Bandersnatch) possono essere analizzate tematiche complesse quali la
moralità umana, la dignità della persona e l’insicurezza verso il futuro.

1
http://www.aesvi.it/cms/view.php?dir_pk=902&cms_pk=3002.
2
http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2017-05-11/i-videogiochi-italia-valgono-
miliardo-82percento--100120.shtml?uuid= AEkDiKKB&refresh_ce=1.
3
https://www.techspot.com/news/69031-brick-mortar-video-ga me-retailers-may-obsolete-
2020.html.
4
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-02-22/angry-birds-picchiata-rovio-
crolla-helsinky-profit-warning-134118.sht ml?uuid=AEpq4i4D.
5
https://www.statista.com/statistics/433871/daily-social-media-u sage-worldwide/.
6
Si tratta della nuova console ibrida della storica casa giapponese Nintendo: essa rappresenta
un riuscito tentativo di combinare console portatile e casalinga in un unico prodotto.
7
Twitch.tv, portale di proprietà di Amazon, è il luogo di ritrovo di moltissimi videogiocatori:
la sua interfaccia ci permette di vedere chi nel mondo sta trasmettendo le sue partite ai nostri
titoli preferiti. Le grandi competizioni videoludiche, nei palazzetti o nei centri convegni, sono
generalmente sempre affiancate dalla diretta web sul portale Twitch, per raggiungere un
vastissimo pubblico.
8
https://www.polygon.com/2016/5/29/11807840/no-mans-sky-delayed-death-threats-
creator.
9
http://www.aesvi.it/cms/view.php?dir_pk=209&cms_pk=2834.
10
https://newzoo.com/insights/articles/esports-revenues-will-rea ch-696-million-in-2017/.
11
https://www.theguardian.com/sport/2017/aug/09/esports-2024 -olympics-medal-event-
paris-bid-committee.
12
https://www.theguardian.com/sport/2017/apr/18/esports-to-be-medal-sport-at-2022-asian-
games.
19.
I festival

L’Italia è il paese dei festival: lungo la penisola se ne contano di ogni tipo,


letterari, musicali, gastronomici, di economia, di filosofia, su qualsiasi
tema e di qualsiasi livello. Non disponiamo di un censimento completo di
questo genere di manifestazioni, ma si stima che fra grandi e piccoli siano
oltre un migliaio e che metà degli editori italiani vi partecipi1.
Il fenomeno è particolarmente rilevante per la sua capacità di
aggregazione e coinvolgimento, che unisce la spettacolarizzazione della
cultura alla possibilità di avvicinare il pubblico ai protagonisti del mondo
letterario e artistico: i visitatori possono vivere un’esperienza diretta e
immediata di approfondimento, sentendosi parte di una comunità che
condivide le stesse passioni e gli stessi interessi. Il numero dei partecipanti
cresce di anno in anno e anche la ricaduta economica è in alcuni casi
notevole: in vent’anni il Festivaletteratura, uno degli appuntamenti più
attesi dell’anno, ha fatto di Mantova una delle capitali della cultura e del
turismo italiani2. Alla prima edizione parteciparono 200 scrittori e artisti,
con un pubblico di circa 15mila persone. Nel 2018 gli scrittori e gli artisti
sono stati 330, 62mila i partecipanti degli incontri a pagamento, ai quali
vanno aggiunte altre 60mila persone che hanno partecipato agli eventi
gratuiti. In questi oltre vent’anni i volontari che rendono possibile il
festival sono passati da 150 a 700. E Mantova è solo un esempio, ma sono
tante le città italiane, a volte anche piccole, che divengono meta di decine
o addirittura centinaia di migliaia di visitatori in occasione di queste
iniziative.
Nella maggior parte dei casi i festival sono frequentati da un pubblico
adulto, ma alcuni di essi sono caratterizzati da una forte presenza
giovanile, o per il taglio vivace che viene dato agli incontri o per le
tematiche affrontate.
Emblematico è il caso del Festival di giornalismo organizzato all’inizio
di ottobre di ogni anno a Ferrara dal settimanale «Internazionale»3, una
rivista che raccoglie e traduce in italiano il meglio della stampa mondiale,
riservando un’attenzione particolare all’attualità politica ed economica, a
reportage e inchieste su questioni di interesse sovranazionale. Nella
manifestazione ferrarese, caratterizzata da molte presenze straniere, si
alternano conferenze, documentari e dibattiti sui temi caldi della politica,
sul futuro della comunicazione e dell’informazione, ma anche sulle
dinamiche sociali, sulle tendenze culturali e su altro ancora. La rivista
conta molti lettori tra i giovani, che accorrono in massa anche a Ferrara
nei giorni del festival: il 70% dei partecipanti ha un’età compresa fra i 20
e i 35 anni. Il dato è estremamente interessante, trattandosi di incontri
che mettono a fuoco problemi centrali dei destini del pianeta ed è
confortante notare questa forte partecipazione giovanile.
Anche il Salone del Libro di Torino4, la maggiore manifestazione
italiana dedicata al libro e all’editoria, è molto frequentato dal pubblico
dei giovani. Senza calcolare i numerosi studenti portati al Lingotto dalle
scuole, i visitatori individuali che hanno frequentato l’ultima edizione del
Salone sono per il 30% di età inferiore ai trent’anni (superano il 55%
contando anche le scolaresche). Simili anche i dati di Pordenonelegge5, la
festa del libro che dal 2000 si organizza nella città friulana: oltre un terzo
dei 130.000 visitatori annui ha meno di 35 anni.
Gli esempi potrebbero non fermarsi qui; altre occasioni in cui il
pubblico è in maggioranza giovanile sono il Festival internazionale del
giornalismo di Perugia, i festival dedicati al cinema e ovviamente tutte le
occasioni in cui ci si raduna e si ragiona per parlare di musica,
videogiochi, fumetti. Sono dati interessanti, che testimoniano una volontà
di partecipazione e la preferenza per una forma di trasmissione del sapere
di grande valore esperienziale. È un fenomeno non dissimile da quello dei
concerti, dei live musicali, che, per le ragioni che abbiamo spiegato, in
questi ultimi anni non hanno fatto che crescere. Confrontarsi fisicamente,
incontrare persone, esperti, protagonisti, resta un’esperienza insuperabile,
che da un lato è parte del modo in cui gli esseri umani sono fatti,
agiscono, dall’altra è probabilmente stimolata proprio dalla
dematerializzazione che caratterizza la nostra epoca. Chi ha frequentato
quei luoghi sa quanta passione c’è tra i giovani partecipanti, quanta
conoscenza e qualità c’è nelle domande che essi pongono, quanto
desiderio di accrescere quella conoscenza essi manifestano. Molto
rilevante anche la mobilitazione di migliaia di giovani e adolescenti, che
lavorano giorni e giorni come volontari per la buona riuscita di queste
iniziative.
L’unica preoccupazione è che, nonostante i numeri più che buoni,
questo sia comunque un fenomeno di minoranze, minoranze virtuose,
ennesimo volto dell’eterno deficit culturale italiano, che ritroviamo in
tutte le ricerche e i numeri sui consumi culturali del nostro paese. In altre
parole, che siano contesti in cui si predica ai convertiti. Ma sono
comunque un buon segno, una testimonianza di vitalità, sulla quale
continuare ad investire.
Come si sarà capito dalle pagine che precedono, se investissimo meglio e
di più sulle altre agenzie di formazione quei luoghi si moltiplicherebbero,
e soprattutto si amplierebbe finalmente la cerchia dei partecipanti.

1
Una minima parte di questi eventi è censita sul sito https://trovafestival.com/. L’impatto,
economico ma non solo, di queste manifestazioni, è stato ripetutamente analizzato da Guido
Guerzoni, le cui ricerche sono disponibili all’url
https://www.festivaldellamente.it/it/effettofestival/.
2
http://www.festivaletteratura.it/it.
3
https://www.internazionale.it/festival/.
4
http://www.salonelibro.it/.
5
http://www.pordenonelegge.it/.
Considerazioni conclusive

Quanto abbiamo cercato di descrivere è talmente in divenire che sarebbe


contraddittorio proporre a questo punto qualche considerazione che
voglia essere davvero ‘conclusiva’. Possiamo solo riprendere e sottolineare
alcune questioni emerse dall’analisi che abbiamo proposto e che meritano,
a nostro avviso, di essere seguite con particolare attenzione.
Anzitutto, quanto abbiamo ricompreso sotto il concetto di
‘orizzontalità’. Allo stato indica un processo che può assumere fisionomie
assai diverse poiché è indicativo tanto della partecipazione e dell’ampia
condivisione che la rete favorisce, quanto del rischio di un appiattimento:
non sono liquidabili le questioni poste da formatori, docenti, insegnanti,
maestri, che misurano nel tempo competenze, maturità, consapevolezze.
Quantità di offerta, velocità e facilità di accesso sono forse gli elementi
principali che caratterizzano il rapporto fra gli individui e la rete. Questo
libro non ha lo scopo di analizzare l’ambiente digitale nella sua globalità,
ma soltanto alcune pratiche culturali in rete. Ebbene, se quantità, velocità
e facilità sono i connotati peculiari del modo in cui si produce e si fruisce
cultura in rete – non possiamo dire che le cose stiano davvero così al
cento per cento, ma questa affermazione ci sembra quanto meno
verosimile in questo momento, considerando il tempo che stiamo
vivendo – allora si profila all’orizzonte il pericolo di un impoverimento
delle pratiche culturali e di una perdita di complessità che non può che
preoccupare.
Riteniamo che la cultura debba attivare processi di ‘discernimento’, e
ciò vale a dire partire da quello che i sensi ci consentono di percepire e
usare l’intelletto per distinguere, valutare criticamente, riflettere,
comprendere, rielaborare attraverso un processo di progressivo confronto
e arricchimento. Viceversa, se i comportamenti culturali diventano
soltanto un consumo, a volte compulsivo, in cui non c’è spazio e non c’è
tempo per accostarsi gradualmente e digerire in modo profondo e intimo
l’essenza del contenuto che la rete ci offre, il timore può essere fondato. È
vero che il mondo online alimenta l’intelligenza fluida, agile, immediata,
ma noi non possiamo fare a meno di quella cristallizzata, di una memoria
a lungo termine che permette contestualizzazione e comprensione degli
eventi. Quanto detto a proposito dell’informazione, sulla crescente
importanza della comprensione del contesto in un mondo orizzontale,
vale a maggior ragione quando è in gioco la formazione.
Bisogna essere consapevoli, però, che questa nostra affermazione può
essere viziata da un approccio intimamente sbagliato, che di fatto
impedisce una reale comprensione dei fenomeni in atto: chi si è formato
in un’era pre-internettiana e si è accostato alla cultura attraverso forme e
linguaggi propri dell’universo analogico (l’apprendimento impostato sulla
lezione frontale, lo studio fondato sulla comunicazione scritta, la
fruizione culturale praticata nei luoghi della cultura ‘alta’ come i teatri, i
musei, le biblioteche) imposta inevitabilmente la sua osservazione delle
evoluzioni in corso facendo un confronto fra il ‘prima’ e il ‘dopo’, fra il
modo in cui si faceva cultura fino a una trentina di anni fa e il modo in
cui la si fa adesso, tra ciò che rischiamo di perdere e il nuovo di cui
facciamo fatica a comprendere le potenzialità. E molti dei nostri
riferimenti culturali, degli autori citati, potrebbero essere vittime della
stessa trappola.
Il grande fenomeno di trasformazione e democratizzazione della cultura
e dei consumi culturali, che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento
e che è stato definito anche con un’espressione come ‘secolarizzazione
della cultura’, è stato accelerato negli ultimi decenni dalla rivoluzione
digitale ed era in qualche modo inevitabile che un ceto come quello degli
intellettuali italiani1, già molto sospettoso nei confronti della cultura di
massa e della civiltà massmediatica, accogliesse con non poche riserve il
cambio di paradigma. La resistenza al cambiamento è stata ostinata ed è
tuttora forte; figure autorevoli e rispettate hanno parlato di liquidazione
delle forme tradizionali della cultura, di tramonto del moderno, di fine
dell’umanesimo, di post-logos, di crisi della civiltà borghese europea.
Spesso si è trattato e si tratta di difese della propria storia e dei propri
studi, o di incomprensioni e scarse conoscenze tecnologiche. Fatto sta
che, per evitare il rischio di cadere in trappole nostalgiche, non abbiamo
voluto analizzare le pratiche culturali attraverso la rete nella loro globalità,
ma preferito osservarle soprattutto attraverso il modo in cui giovani e
adolescenti stanno vivendo questa era: si tratta, infatti, di una generazione
che conosce le pratiche tradizionali, per il solo fatto di aver avuto
probabilmente i primi contatti con la produzione culturale in quelle
forme, ma che si è poi rapidamente immersa in un universo totalmente
nuovo, che sembra abbia voglia di mettere da parte o addirittura
cancellare tutto ciò che c’era prima.
Finora non è stato così e, come ci insegna la storia sociale dei mezzi di
comunicazione e trasmissione culturale, «con l’introduzione di nuovi
media i vecchi non sono stati abbandonati, ma sono coesistiti e hanno
interagito con i nuovi arrivati. I manoscritti sono rimasti importanti
nell’età della stampa, come i libri e la radio nell’età della televisione. I
media vanno visti come un sistema, un sistema in perenne mutamento,
nel quale i diversi elementi giocano un ruolo maggiore o minore»2.
Questa volta stiamo forse vivendo una trasformazione più profonda,
perché non siamo in presenza di una nuova invenzione o dell’apertura di
un nuovo canale, ma assistiamo al mutamento dell’ecosistema della
conoscenza. I giovani, i nati dopo l’avvento della rete, sono attraversati da
questo cambiamento e per questo motivo l’osservazione del mondo
giovanile ci è parso il modo migliore per cogliere la portata della
transizione che tutti stiamo vivendo, ma che vede i giovani ‘cresciuti nella
rete’ come veri protagonisti: per loro, a differenza di quanto accade per gli
adulti e gli anziani, il web non è solo un ambiente nel quale fare in modo
diverso le stesse cose che si facevano prima, o per aggiungere al vecchio
qualcosa di nuovo, ma è ‘il modo’ per fare le cose.
Parlare dei ‘giovani’ comporta però un rischio, perché presuppone
l’esistenza di una identità culturale dei giovani, ed è tutt’altro che facile
descrivere quale sia l’identità giovanile e quella degli individui nell’era
della rete.
Tanto per cominciare, possiamo fare nostra una bella espressione, molto
vera proprio per la sua apparente banalità, usata recentemente da Paolo Di
Paolo3, il quale ci ha ricordato che i ‘giovani d’oggi’ sono sempre esistiti.
La staffetta generazionale è un ritornello già sentito, che torna sempre
uguale e che grossolanamente, ricorrendo a stereotipi e luoghi comuni,
rappresenta i giovani come alieni giunti a turbare le nostre certezze,
cercando di inquadrarli all’interno delle categorie che gli adulti,
invecchiando, costruiscono ex post. Il principale errore che si rischia di
commettere quando si ricorre a frettolose generalizzazioni consiste nel far
riferimento a gusti e comportamenti di una minoranza (i ‘capelloni’ e i
‘rockettari’, tanto per fare un esempio riferito a qualificazioni e
classificazioni in voga quasi mezzo secolo fa) e utilizzarli per delineare in
modo approssimativo e superficiale il profilo collettivo di un’intera
generazione. Ovviamente, per quanto sbrigative, queste etichettature non
erano forse del tutto prive di fondamento, in quanto le minoranze da cui
esse scaturivano erano comunque la punta di un iceberg che, tutto
sommato, almeno in parte condivideva con loro una sensibilità simile. Ma
in quel caso, il carattere generazionale del fenomeno era l’elemento
fondante di ciò che stava accadendo. Ci sembra invece che con la rete stia
accadendo qualcosa di più profondo e di molto più generalizzabile.
Quindi, basta parlare di ‘giovani d’oggi’: è preferibile mettere l’accento
non sui giovani ma sull’oggi, perché il contesto, l’ambiente è così forte,
così impositivo da rendere evidente che da esso occorre partire.
Anche nei decenni passati, ovviamente, la composizione sociale, la
stratificazione, i consumi culturali erano molto articolati, e in questi anni
sono stati pubblicati diversi studi di storici e sociologi che ci hanno
aiutato a capire come spesso non ci fosse coincidenza tra ciò che
ritenevamo cultura mainstream, eventi, fatti di rilievo, e ciò che si muoveva
a livelli meno visibili nella società; e tuttavia il mondo di oggi appare
molto più articolato, molto meno perimetrabile, molto più disperso e
dispersivo, perché la rivoluzione digitale ha cambiato il paradigma e
quindi le forme e i contenuti dei processi di formazione dell’identità e
anche delle strutture cognitive. Oggi bisogna per prima cosa chiedersi se
esistono ancora connotati talmente forti da poter ‘marchiare’ un’intera
generazione, come è accaduto in passato con i gusti musicali, il pacifismo,
la spinta all’emancipazione femminile e i tanti movimenti che hanno
attraversato la seconda metà del Novecento, caratterizzando le
generazioni che si affacciavano su quello scenario. È possibile fotografare
con un’unica immagine la realtà giovanile dell’inizio di questo nuovo
millennio? E siamo proprio certi che il connotato di questi
comportamenti sia riconducibile all’età anagrafica di questi soggetti, o
piuttosto al fatto che essi siano profondamente calati nel contesto digitale?
La globalizzazione può omogeneizzare gusti e comportamenti, ma al
tempo stesso favorisce la nascita di tante piccole e meno piccole comunità
di interessi, ognuna con i suoi tratti identitari, come ci ricorda Frédéric
Martel4. E finisce quindi con l’attenuare il denominatore comune
applicabile a una generazione intera. Siamo andati a cercare queste
comunità e ad osservarne i comportamenti, provando a descriverli, allo
scopo di individuare i fattori che le coagulano e gli elementi che le
distinguono. La verità è che i giovani d’oggi sfuggono a qualsiasi
incasellamento. Ormai – forse a causa delle tante occasioni o dei tanti
strumenti di cui dispongono e, per opposto, degli effetti della
comunicazione globale – un’etichetta stereotipata non basta più e si
dovrebbe ricorrere, per assurdo, a tanti stereotipi per descrivere i giovani e
i loro atteggiamenti di fronte alla cultura: si pensi, per esempio, alla
frammentazione dei gusti musicali in generi e sottogeneri. La profilazione
dei consumi culturali giovanili offre davvero pochi spunti che possano
essere assunti per una generalizzazione che abbia un senso.
Un’altra chiave di lettura, forse più efficace, riguarda non tanto cosa
fanno i giovani ma come e dove lo fanno. Abbiamo motivato le ragioni di
questo approccio: come si è detto più volte in precedenza, il rapporto con
le tecnologie digitali è forse il principale elemento distintivo per giovani e
giovanissimi, essendo il web l’ambiente in cui oggi i giovani sono calati.
Ciò conferma la definizione di ‘generazione delle reti’ che Alleva e
Barbieri5 hanno utilizzato per etichettare i nati dopo il 2000. A volte,
l’insieme degli adolescenti viene perfino chiamata touch generation, per
sottolineare la svolta epocale rappresentata dagli schermi tattosensibili. La
rete è il ‘terreno di coltura’ in cui questa generazione sta crescendo, al
punto che si è ipotizzata una evoluzione digitale della specie ed è stata
creata, forse a sproposito, l’espressione digital natives6, come se le capacità
d’uso dei dispositivi digitali si acquisissero insieme al latte materno, al pari
della lingua madre: bene ha fatto Roberto Casati a chiarire che si tratta di
competenze acquisite, magari durante la prima infanzia, non innate7.
Tuttavia, la portata del fenomeno non va sottovalutata. Per
comprenderlo fino in fondo basta prendere atto che si sta trasferendo sulla
rete tutto ciò che è tecnicamente riproducibile. Le statistiche sull’uso dei
social network ci danno la misura delle trasformazioni ‘ambientali’ che
stanno verificandosi: una crescente quantità di adolescenti è
perennemente ‘connessa’. Interessante la percezione che gli adolescenti
hanno tra la vita online e quella offline: il 35,5% degli intervistati in
un’indagine, condotta dall’Istituto Toniolo e rivolta ai giovani nati in
questo secolo8, ritiene che sia più facile comunicare i propri stati d’animo
e i propri sentimenti online. Alla richiesta di indicare con una metafora la
valenza della presenza sui social, la risposta più gettonata risulta quella che
indica l’account come «il buco della serratura da cui spiare le vite degli
altri», al secondo posto «il luogo in cui incontrare le persone con cui piace
stare» e al terzo «il diario in cui raccontare la propria vita mentre accade».
Le più frequenti pratiche d’uso riguardano la comunicazione istantanea
tramite i servizi di messaggistica, seguite da un utilizzo prevalentemente
‘passivo’ (attività di visione/lettura), che prevale sulle pratiche più
propriamente ‘interattive’ (postare immagini, foto e video; creare gruppi
ecc.).
Prendiamo in prestito un’altra metafora, racchiusa in una parola, in
un’immagine che circola molto tra coloro che in precedenza sono stati
definiti tardo-umanisti: l’alveare, lo sciame. Essere sempre connessi,
vivere nel flusso delle notifiche e delle esperienze online rappresenta forse
anche una torsione rispetto al modo in cui per secoli ci si è formati, si è
strutturato il pensiero, si sono costruite le relazioni. È la grande
preoccupazione di molti studiosi del pensiero classico: la
miniaturizzazione del mondo in uno schermo e l’incantamento del
telefono intelligente hanno anche l’effetto di inibire il processo di
maturazione che avviene nel continente profondo. L’incessante ronzio
dello sciame che riempie la rete dell’interconnessione globale non può
non influire sul dialogo che ognuno ha con sé stesso, e che per Platone era
il luogo di formazione del pensiero stesso, senza il quale la polis è priva di
pensiero e la conversazione che vi intratteniamo con gli altri è solo un
chiacchiericcio che non ha il potere di promuovere la pluralità e l’amor
mundi. Scrive Robert Pogue Harrison, riprendendo proprio Platone: «ai
nostri giorni la quiete del pensiero ha nemici diversi dalla propaganda
invasiva. Una rete globalizzata di voci ci ridurrebbe tutti a dei ronzii, e
chiunque cercasse di disconnettersi da essa sentirebbe da ogni parte
risuonare lo stesso ritornello: ‘Resistere è inutile’. Ciò può essere vero,
ma non cambia il fatto che, se il mondo che io penso scompare, il mondo
della città perde il suo opposto e diventa essenzialmente privo di pensiero
[...] e un mondo senza pensiero non è un mondo ma un alveare [...]
quando i giovani non riescono a isolarsi nel pensiero, l’amor mundi non
può attecchire adeguatamente in loro»9.
E il paradosso potrebbe essere che il ritirarsi in sé nel mondo online
significhi patologia. Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, ha curato
recentemente un volume10 in cui vengono analizzate varie forme di
interazione che la rete può assumere, comprese quelle di carattere
patologico: tornando a parlare del gioco in ambiente digitale, occorre
distinguere, infatti, tra un ambiente espressivo nel quale gli adolescenti, e
non solo, sperimentano nuove possibilità di realizzazione e, invece, alcuni
sintomi di malessere o dipendenza, riferiti proprio alla pratica dei
videogame. Ci riferiamo non soltanto alla ludopatia e alla diffusione del
gioco d’azzardo in rete, ma al rischio di vivere il digitale come un rifugio
in cui ricoverarsi in occasione di profonde crisi evolutive. In particolare,
alla luce dell’esperienza maturata negli ultimi quindici anni, gli autori del
volume curato da Lancini inquadrano la psicodinamica del ‘ritiro sociale’,
che può essere considerata oggi una delle più significative manifestazioni
del disagio giovanile.
Non solo i social network hanno preso il posto o si sono giustapposti
alle chiacchiere tra amici, che prima si facevano in piazzetta o in altri
punti di ritrovo, ma la rete e i dispositivi mobili vengono usati per
liberarsi da ogni schiavitù di luogo e di tempo: essere ‘sempre connessi’
consente di non andare al cinema – che significa scegliere un film, uscire
di casa, cercare parcheggio, parlare con il cassiere ecc., in altre parole
incrociare il mondo, la realtà – e di non sottostare alle scelte dei palinsesti
delle emittenti televisive o degli editori discografici. E quindi, come si è
raccontato nelle pagine precedenti, via libera allo streaming e ai servizi on
demand con i quali costruire playlist e fruire serie televisive, per cui il
pubblico giovanile è migrato verso Spotify e Netflix, solo per citare i due
servizi maggiori. Oggi il paesaggio è quello di un’industria, sia
discografica che dell’home video, troppo lenta nel capire l’effetto
pervasivo di ciò che stava accadendo, uscita con le ossa rotte dallo scontro
frontale con la rete, criminalizzata come se fosse solo un covo di pirati.
C’è da augurarsi che l’editoria libraria non commetta il medesimo errore:
per valutare fino in fondo i cambiamenti in atto può essere utile chiedersi
il perché del successo delle serie tv tra i giovani. Le serie non sono una
sequenza di episodi indipendenti l’uno dall’altro, ma un unico lungo
‘racconto orizzontale’ (ecco che torna ancora il paradigma della
orizzontalità), che si sviluppa nel tempo e con solido tessuto narrativo che
tiene insieme le varie puntate. Il fenomeno, quindi, come speriamo di
aver dimostrato nel capitolo specificamente dedicato ai cambiamenti in
atto nel panorama televisivo, non può essere liquidato solo come un
desiderio di ‘semplificazione’, ricercato attraverso la sostituzione della
parola scritta con il linguaggio visivo, passando quindi dal testo narrativo
alla narrazione per immagini, anche se questo aspetto non va sottostimato
e trova conferma anche nel massiccio trasferimento dei più giovani da
Facebook verso Instagram. Le serie televisive non sono forse una forma di
narrazione, spesso di qualità molto elevata? Non possiamo sostenere che i
giovani non abbiano interesse per le ‘storie’, se trascorrono ore e ore
guardandole: dobbiamo prendere atto del fatto che i segmenti delle serie
televisive mettono insieme, paradossalmente, brevità e lunghezza: dieci o
quindici episodi di tre quarti d’ora ciascuno – e la possibilità di guardarli
tutti d’un fiato o di interromperli a piacimento, mettendoli in pausa e
rendendoli compatibili con uno stile di vita multitasking – rappresentano
il massimo della flessibilità. Fa parte di questa flessibilità anche la
‘portabilità’, del tutto simile a quella del libro, di queste storie, che ci
seguono sul nostro smartphone o sul nostro tablet a letto, in
metropolitana, in bagno e forse perfino sotto il banco di scuola, magari
durante una lezione noiosa. Con l’aggiunta che a queste forme di
fruizione individuale si possono affiancare anche quelle di gruppo,
insieme agli amici.
In conclusione, l’infrastruttura di rete sta sostituendosi all’infrastruttura
urbana: come vale per lo shopping online, che mette in crisi non solo il
commercio al dettaglio, ma anche la grande distribuzione e i centri
commerciali, non deve sorprenderci se le attività culturali si trasferiscono,
almeno in parte, sulla rete, a volte riproducendosi allo stesso modo che
nell’universo analogico, altre volte subendo trasformazioni imposte dal
mezzo che si utilizza.
Possiamo parlare di ‘giovani fuori posto’, nel senso che la loro identità è
indipendente dai luoghi e dal contesto sociale in cui vivono: se esiste un
condizionamento ambientale, è la rete a determinarlo perché la rete è
l’ecosistema in cui viviamo.
Poi, come ci hanno insegnato la sociologia e la psicologia sociale, le
spinte trovano controspinte, i processi omologanti suscitano reazioni, e la
vita perennemente online ha un suo rovescio, costituito dai refrattari,
dalle controculture, dagli anticonformisti, ma soprattutto dalle cose che
non si possono riprodurre su supporto digitale e ricondurre a una
fruizione ‘addomesticata’, nel senso letterale del termine. Andare in
discoteca o frequentare un pub sono pratiche che si identificano con un
luogo fisico e sfuggono alla smaterializzazione del web. Così come
continuano ad attrarre i grandi eventi di massa, come i concerti musicali
e, in parte, alcune manifestazioni sportive, dove incontrare persone
animate dalla stessa passione e con cui è gratificante condividere queste
esperienze.
Ma la rete resta comunque l’ambiente in cui ognuno di noi in varia
misura si trova immerso, e i giovani, spesso maggiormente recettivi agli
sconvolgimenti sociali, ne vengono investiti fin dai primi anni di vita e vi
acquisiscono quindi molto velocemente dimestichezza. Non deve
sorprenderci, quindi, se in particolare nelle giovani generazioni la rete si
sia imposta come hub dei consumi, snodo centrale intorno a cui ruota
ogni altro aspetto, base fondante su cui costruire un’infinità di nuovi
servizi e contenuti, sempre meno provenienti dall’alto e sempre più
percepiti come vicini, adattabili alle nostre esigenze.
Il cuore pulsante del villaggio globale è proprio la piazza pubblica del
web e in quest’ottica possiamo analizzare alcuni fenomeni che sono
emersi dalla nostra analisi dei consumi culturali dei giovani: senza la rete
non sarebbe possibile né l’ascesa della playlist né il tramonto del palinsesto
monodirezionale; la filosofia del do it yourself11, che pure non è nuova alla
scena culturale giovanile – si pensi all’ondata punk, che ne fece un
pilastro –, guadagna forza pari all’esposizione digitale dei suoi adepti, che
scelgono di apprendere da soli, magari senza altra mediazione che un
tutorial su YouTube.
Un’altra conseguenza di questa mutazione possiamo individuarla nel
rifiuto del ‘mercato della cultura’. Diciamo subito che intanto è diverso (e
ridotto) il valore che viene attribuito al danaro e al concetto di proprietà
intellettuale: si fa fatica ad immaginare di dover pagare l’accesso
all’enorme quantità di contenuti che sono a disposizione attraverso un
semplice click. Aveva colto questo punto Chris Anderson, uno dei padri
della rivoluzione digitale: «Lo sviluppo della freeconomics, l’economia del
gratis, è stimolato dalle tecnologie dell’era digitale»12. Dimenticando con
ciò che la produzione culturale è anche un’attività economica che deve
dare da vivere a tante persone (non solo agli ‘intellettuali’, ma anche a
tipografi, maestranze ed esercenti del cinema o del teatro, e così via).
Nonostante i giovani si muovano con disinvoltura in questa nuova forma
di economia fondata sulla gratuità, non bisogna illudersi che la rete sia un
paese dei balocchi che offre tutto a tutti e che prefigura l’utopia di un
mondo senza mercato. Non è affatto così: quello che accade è che si
sposta il business dalla vendita di un oggetto o di un servizio alla
valorizzazione del traffico e dei contatti13. Si parla molto di queste nuove
forme dell’economia di mercato e non sono soltanto i manager della
finanza o delle tecnologie a discuterne. In un suo recente pamphlet lo
scrittore Walter Siti14 ha scritto: «Sì, è vero, lavori gratis, ma in compenso
puoi ottenere gratis molte cose, la Rete ti toglie e la Rete ti dà, quindi
mugugna pure se questo ti procura sollievo, ma non azzardarti a ribaltare
veramente il tavolo. [...] Lo stesso concetto di ‘comprare’ è andato in
crisi: man mano che tutto si computerizza, le cose che compriamo non ci
appartengono davvero – le abbiamo soltanto in uso, con una licenza».
Lo streaming sta diventando la ‘forma’ che emblematicamente
rappresenta la fruizione culturale e forse ogni genere di consumo nel
nostro tempo.
Ovviamente ciò che non si paga non è affatto gratis. «Google saprà tutto
di noi, ci convincerà che noi siamo Google – spiega Siti –, e
contemporaneamente avrà abbastanza denaro per ingaggiare i migliori
ricercatori che inventeranno nuovi modi per far entrare Google nella
nostra vita»15. Non a caso si comincia a parlare di ‘capitale documediale’
che deve essere redistribuito16.
Ma le facce della medaglia sono tante: il movimento open source che
promuove l’accesso libero alla conoscenza, sia quella depositata in libri e
riviste sia quella necessaria a produrre applicazioni informatiche, è
fondato sul nobile principio che tutto ciò che è stato prodotto attraverso
finanziamenti pubblici, come la ricerca scientifica, debba essere messo
liberamente a disposizione della collettività senza doverlo pagare una
seconda volta, ciò anche per massimizzarne la diffusione e il riuso. Ma in
parallelo troviamo anche un mercato sommerso e illegale: la possibilità di
accedere gratuitamente a libri, giornali, film, musica, soware e altri
contenuti è legata spesso a pratiche di pirateria e a veri e propri reati,
talvolta commessi per ingenuità o per un infantile rifiuto delle leggi di
mercato.
Ben più grave l’attività criminale condotta ai danni dell’industria
culturale attraverso canali di accesso ‘in ombra’ o ‘nascosti’, come le
Shadow Libraries, con le ‘biblioteche pirata’ Library Genesis (LibGen),
per gli e-book, e Scientific Hub (Sci-Hub) per gli articoli di periodici
accademici, che sfruttano anche la ‘rete sotterranea’ del deep web17. Il
Parlamento europeo ha cercato di porre rimedio alle violazioni del diritto
d’autore di cui si rendono responsabili piattaforme e siti web che
pubblicano frammenti, anche brevi, di notizie ricavate da testate
giornalistiche o testi postati da utenti che ripropongono contenuti protetti
da copyright. Questa direttiva – tra i provvedimenti più discussi, lodati e
criticati degli ultimi anni – prevede che gli editori possano richiedere un
compenso e che solo in questo modo le anteprime degli articoli possano
essere mostrate tra i risultati recuperati attraverso i motori di ricerca18. Gli
Stati membri stanno recependo la direttiva, ma Google ha già fatto sapere
che non intende pagare.
Tornando dove eravamo rimasti e in estrema sintesi: l’apprendimento e
l’accesso ai saperi, in particolare quello praticato dai più giovani, viene
rivoluzionato con l’approccio digitale. A nostra disposizione abbiamo più
fonti formative e informative e più divulgatori – che oggi a volte
chiamiamo influencer – di quanti ve ne siano mai stati nella storia umana
ed è naturale che per uno studente seguire una lezione di matematica
sullo schermo di un computer, con la possibilità di ridurla a icona o
metterla in pausa per confrontare altre fonti o per esercitarsi, può risultare
più semplice e più efficace delle metodologie tradizionali di
apprendimento. E tuttavia quello che si è scritto sull’informazione – e
cioè che la vastità sconfinata delle informazioni a disposizione
sembrerebbe rendere indispensabile la ricerca di ordine, significati,
riferimenti, filtri, e che dunque persino in un settore in piena buriana
della disintermediazione come quello giornalistico non perdono di ruolo
le figure che possono fornire un orientamento – vale ancora di più per la
formazione, per la costruzione dei saperi.
Se è vero che l’approccio multiculturale, multidimensionale, onnivoro,
della generazione delle reti riposa sul presupposto tecnico e da un certo
punto di vista ‘filosofico’ della vastità mondiale degli stimoli che tutti
riceviamo, è anche vero che quegli stimoli hanno bisogno di essere messi
in forma, ordinati, che il sapere ha bisogno di essere correlato, che le
conoscenze hanno bisogno di essere consolidate e organizzate. La cultura
orizzontale in altre parole non può fare a meno della cultura verticale.

1
Ma non è andata in modo molto diverso in altri paesi europei, in primis in Francia.
2
Asa Briggs, Peter Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet (2000), il Mulino,
Bologna 2002, p. 12.
3
Paolo Di Paolo, Carlo Albarello, C’erano anche ieri i giovani d’oggi. Generazioni, memoria, scuola
fra Novecento e Duemila, Città Nuova Editrice, Roma 2018. La prima parte del volume
raccoglie alcuni articoli scritti da Di Paolo e particolarmente interessanti ai fini delle riflessioni
che qui stiamo proponendo.
4
Cfr. Frédéric Martel, Smart cit.
5
Cfr. Giorgio Alleva, Giovanni A. Barbieri, Generazioni cit.
6
Marc Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, in «On the Horizon», 9, 5, 2001. Si veda
anche il volume di Howard Gardner, Katie Davis, Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo
mondo digitale (2013), Feltrinelli, Milano 2014.
7
Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Roma-
Bari 2013, in particolare pp. 58-65.
8
Paola Bignardi, Elena Marta, Sara Alfieri, Generazione Z cit.
9
Cfr. Robert Pogue Harrison, L’era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo (2014),
Donzelli, Roma 2016, p. 137.
10
Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa, a cura di Matteo
Lancini, Raffaello Cortina, Milano 2019. Sul fenomeno degli Hikikomori, gli adolescenti che
non escono di casa e che si autorecludono volontariamente, esiste un’ampia bibliografia.
11
‘Fallo-da-solo’, slogan che si riferisce ad una partecipazione diretta alle attività sociali e
culturali verso cui si prova interesse: dalla cucina al cucito, dall’intrattenimento alla definizione
della propria identità e alla programmazione di piccoli computer.
12
Chris Anderson, Gratis. Come funzionerà l’economia del futuro (2009), BUR, Milano 2010.
Non ci addentriamo qui in altri aspetti specificamente legati alle trasformazioni economiche,
come l’economia collaborativa fondata sulla condivisione teorizzata da Karl Paul Polanyi, cui
si deve la nascita della sharing economy, oggi molto diffusa in ambiti come i servizi di trasporto e
di ospitalità.
13
Andrew Lewis ripete come un mantra: «se non state pagando qualcosa, non siete un cliente,
siete il prodotto che stanno vendendo». Paghiamo con l’affiliazione ciò che abbiamo l’illusione
ci venga regalato dalla rete.
14
Walter Siti, Pagare o non pagare. L’evaporazione del denaro, Nottetempo, Milano 2018, pp. 109-
111.
15
Ivi, p. 101. Corsivo dell’autore.
16
Cfr. Maurizio Ferraris, Germano Paini, Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale,
Rosenberg & Sellier, Torino 2018.
17
Shadow Libraries: Access to Educational Materials in Global Higher Education, a cura di Joe
Karaganis, MIT Press, Cambridge (MA) 2018.
18
Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 26 marzo 2019 sulla proposta di direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto d’autore nel mercato unico digitale,
https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-8-2019-0231_IT.html.
Gli autori

Giovanni Solimine insegna presso l’Università di Roma La Sapienza, dove dirige il Dipartimento
di Lettere e Culture Moderne. Si occupa di politiche della ricerca, di progettazione e gestione di
servizi bibliotecari, di biblioteche digitali e consumi culturali in rete, di cultura editoriale e
promozione della lettura, di information literacy. Ha presieduto l’Associazione Italiana Biblioteche
(AIB) ed è attualmente presidente della Fondazione Bellonci – Premio Strega e presidente
onorario del Forum del libro. Autore di numerosi volumi, per Laterza ha pubblicato La biblioteca.
Scenari, culture, pratiche di servizio (2004), L’Italia che legge (2010) e Senza sapere. Il costo dell’ignoranza
in Italia (2014).

Giorgio Zanchini, giornalista e conduttore radiotelevisivo, lavora alla Rai dalla fine degli anni
Novanta. Conduce Quante storie su Rai3 e Radio anch’io su Rai Radio1. Tra le sue pubblicazioni: Il
giornalismo culturale (Carocci 2013); Infocult. Nuovi scenari di produzione e uso dell’informazione culturale
(a cura di, con L. Mazzoli, FrancoAngeli 2015); Leggere, cosa e come. Il giornalismo e l’informazione
culturale nell’era della rete (Donzelli 2016); La radio nella rete. La conversazione e l’arte dell’ascolto nel tempo
della disattenzione (Donzelli 2017); Cielo e soldi. Il giornalismo culturale tra pratica e teoria (Aras 2019).
Per Laterza ha curato Un millimetro in là. Intervista sulla cultura di Marino Sinibaldi (2014).

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