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Giampiero Cama

“Lectio Mario Stoppino”

LE SFIDE DELLE DEMOCRAZIE CONTEMPORANEE

Introduzione
Dopo il momento di grande ottimismo susseguente al crollo dei sistemi comunisti e alla
caduta, in generale, dei regimi autoritari - che hanno contrassegnato la cosiddetta “terza
ondata” - le democrazie contemporanee sembrano vivere un momento di ripiegamento e
contestazione. Da un lato, sistemi politici autoritari di successo, come la Cina contemporanea,
sembrano contendere ai paesi occidentali la capacità di esercitare il “soft power” 1, legato ad
una capacità di attrazione ed emulazione, nei confronti di quegli stati che vivono la
transizione alla modernità e sono ancora incerti circa la via da seguire lungo questo percorso.
Dall’altro, proteste sempre più forti si sollevano, al loro interno, nei confronti degli istituti
della rappresentanza e dell’intermediazione politica. Molte delle sfide che le democrazie
stanno affrontando oggi i paiono nuove, ma spesso, ed è questo il punto centrale del mio
intervento, non si tratta che di antiche problematiche (come quelle evidenziate a suo tempo
già dagli autori classici e moderni del pensiero politico) camuffate sotto una nuova veste. Un
elemento ricorrente di tutti i sistemi politici è una connaturata predisposizione a oscillare tra
ordine e disordine. Ciò è probabilmente ancora più vero per le democrazie, che paiono
“condannate” ad affrontare e gestire le turbolenze e i cambiamenti che, per la loro intrinseca
natura, sono ineluttabilmente destinate a generare e alimentare.
Il mio intervento cercherà di presentare una chiave di lettura parzialmente inedita per
inquadrare e analizzare queste sfide e si articolerà concentrandosi sui seguenti punti.
Innanzitutto, una breve premessa sui sistemi democratici che consentirà di introdurre con
maggiore chiarezza le categorie concettuali utilizzate. Secondariamente, verranno illustrate le
tensioni, e i relativi dilemmi che ne derivano, intrinseci alle democrazie. Tensioni sempre

1
Cfr. J. Nye ,Soft Power, Torino, Einaudi, 2005,
1
latenti e che affiorano maggiormente in determinati contesti e periodi, con particolare
riferimento a tre dilemmi che sembrano caratterizzare peculiarmente questa fase storica. In
terzo luogo verranno esaminati i meccanismi e le strategie che possono consentire alle
democrazie di gestire sapientemente e con minori traumi tali tensioni. La parte finale sarà poi
dedicata ad alcune considerazioni conclusive.

1.Una premessa sui sistemi democratici

Le democrazie sono sistemi complessi che condividono con altri regimi alcune caratteristiche,
ma che hanno anche proprietà e aspetti che sono di loro esclusiva peculiarità . In primo luogo,
le democrazie si sono fornate in modo pragmatico integrando diversi elementi istituzionali e
valoriali. Hanno quindi una natura indeterminata e indefinita poiché non sono costruite
prevalentemente secondo una trama scritta in anticipo 2. Secondariamente, sono un “libro
aperto”, una sorta di work in progress, in quanto soggette ad una continua e incessante
evoluzione. In terzo luogo, vivono di equilibri complessi e delicati. Combinano infatti, in modo
pacifico, diversi interessi, opinioni e valori sulla base di combinazioni estremamente variabili.
Questo tipo di bilanciamento è incessante ed è fortemente influenzato dalle contingenze
spaziali e temporali (equilibri e combinazioni sono diversi secondo i casi). La riuscita delle
democrazie non dipende quindi dall’ottimizzazione dei sui ideali fondativi, ma da un loro
temperamento e aggiustamento reciproco, secondo una miscela che, seguendo una logica
adattiva e flessibile, non è definibile ex ante in modo esatto.
Anche in seguito a questa natura camaleontica e dinamica le democrazie tendono a generare,
in modo costante e fisiologico, tensioni e dilemmi che devono essere attrezzate ad affrontare e
gestire. Le fonti di tali tensioni dialettiche sono tre, e, come potremo osservare, appartengono
sia alla sfera materiale sia a quella simbolica.

- Il divario tra aspettative e realtà che questi sistemi tendono ad alimentare. Il concetto
di democrazia è infatti polisemico ed è connotato da una forte carica emotiva in quanto
oltre che una dimensione descrittiva esso contiene una forte componente valoriale e
normativa.

2
Cfr. Y. Meny, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico, Bologna, il Mulino, 2019.
2
- Gli effetti che le democrazie, sulla base del loro logica intrinseca, producono nel mondo
reale sia sul piano economico sia sociale (influenzando anche la componente
psicologica ed emotiva degli individui).
- Le conflittualità e le tensioni che le naturali dinamiche della politics, più precisamente
alcune implicazioni generali della lotta per il potere, hanno sulla stabilità e il
rendimento delle democrazie.

Queste tensioni e tali dilemmi sono latenti in ogni sistema democratico, ma la loro rilevanza e
intensità non sono costanti. In alcuni periodi alcuni si presentano con più acutezza, mentre
altri possono apparire con molta meno evidenza. Tra gli esperti in questo campo di studi la
discussione e l’analisi si è concentrata prevalentemente su temi che sono diventati un
classico della letteratura: la tensione tra il principio di libertà e uguaglianza, tra la democrazia
diretta e rappresentativa, e tra lo stato i diritto e la ragion di stato.
Dalla fine della guerra fredda, e soprattutto, dopo la grande crisi economica e finanziaria del
2008, altre tensioni, rimaste sino ad allora un po’ più latenti, sono affiorate con forza e
sembrano contraddistinguere questa fase storica. A mio avviso l’analisi di tali tensioni può
costituire una utile lente tramite cui leggere, in modo leggermente diverso e innovativo
rispetto al solito, come fanno, ad esempio, tutte le interpretazioni che si riferiscono all’
“ondata populista” (il cui esame si focalizza prevalentemente sul conflitto élite/popolo), la
“crisi” delle democrazie contemporanee.

2.Le tensioni e i dilemmi delle democrazie contemporanee

Le dicotomie che mi paiono più interessanti sono le seguenti:

- Innovazione/Tradizione
- Pluralismo/Monismo
- Cosmopolitismo/Nazionalismo

Innovazione vs tradizione

3
Le democrazie sono grandi “macchine” del cambiamento. Come sostenuto da G. Germani, e
poi ribadito da M. Stoppino3, la loro produzione politica tende a istituzionalizzare il
mutamento. In altri termini, l’organizzazione istituzionale e le politiche pubbliche sono
prevalentemente volte a garantire la creazioni di beni materiali e simbolici sempre nuovi,
favorire la mobilità sociale, consentire la partecipazione politica di massa e la circolazione
delle élite.
Soprattutto due “invenzioni” sono particolarmente legate a questa missione: l’istituzione del
governo a tempo determinato e della rappresentanza politica, meccanismi che garantiscono
flessibilità e adattabilità . Non a caso diversi studiosi hanno associato strettamente
modernizzazione socio-economica e mercato a questo tipo di regimi. Allo stesso modo, altri
studiosi hanno sottolineato gli effetti talora stranianti e laceranti di questi fenomeni, aggravati
dal fatto che spesso le democrazie promuovono visioni improntate ad una “retorica del
nuovo” che frequentemente sembra disprezzare ogni tradizione ed eredità del passato4. Ci
riferiamo, in particolare, alla perdita dei legami comunitari, alla condizione di anomia e
spaesamento legate alle trasformazioni economiche e tecnologiche. Il ritmo e il volume dei
cambiamenti e delle innovazioni può quindi produrre traumi, disorientamento e tensioni che
possono mettere a rischio la tenuta delle democrazie, come se queste ultime fossero degli
apprendisti stregoni che evocano forze non in grado di essere successivamente controllate
pienamente.
Al giorno d’oggi determinati territori (soprattutto le zone periferiche, rurali e marginali sia dei
paesi avanzati sia dei paesi in via di sviluppo) e ceti sociali si ancorano ai valori e ai costumi
del passato in difesa di una identità che percepiscono minacciata da trasformazioni vorticose,
sia economiche che sociali e culturali, guidate dalle élite urbane e cosmopolite. La perdita
dello status socio-economico – o il rischio di perderlo - evoca infatti una richiesta di
riconquistare la dignità e il riconoscimento sociale. Una esigenza che frequentemente trova
conforto in riferimenti familiari e rassicuranti, valorizzando un passato di consuetudini
radicate e trasmesse da generazioni5 .

3
G. Germani….; l’idea che le democrazie istituzionalizzino il cambiamento è stata avanzata da
M. Stoppino nel corso di lezioni e seminari.
4
H. Arendt scrisse che “in una cultura in cui tradizione – ciò che del passato vince l’usura del
tempo perché è vero – è disattivata, e quindi non viene trasmessa, gli educatori non hanno un
“mondo” in cui introdurre i giovani”: H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1999.
5
Il leader della nuova formazione di estrema destra spagnola Vox ha recentemente
dichiarato: “Una nazione non è fatta solo dai vivi. E’ fatta anche dai morti. E da quelli che
devono ancora nascere. Noi difendiamo anche loro”.
4
Pluralismo vs monismo
I sistemi democratici promuovono il pluralismo sociale, politico e ideologico. Esprimono al
meglio la tendenza alla secolarizzazione e al “politeismo dei valori” lucidamente evocata da
Weber a proposito dei processi di modernizzazione. Non vi è un limite teorico al grado di
eterogeneità tollerabile anche nelle democrazie. R. Dahl 6 ci ha messo sull’avviso circa le
conseguenze di un aumento eccessivo del livello di eterogeneità : aumentano i rischi e i costi
della tolleranza. Al giorno d’oggi l’effetto combinato di democrazia, mercato e innovazioni
tecnologiche rischia di produrre società sempre più frammentate e basate su forme estreme
di individualismo.
Come sottolineato ad esempio da alcuni studiosi 7
la tendenza odierna di un individualismo
espressivo spinto all’eccesso rischia di mettere a repentaglio la possibilità di riconoscersi in
un nucleo di valori condivisi che svolgano la funzione fondamentale di rendere possibile la
vita sociale. Occorre infatti concordare su una minima base culturale comune per definire e
stabilizzare un orizzonte morale condiviso che impedisca una totale cacofonia di valori in
aspra competizione reciproca. Inoltre, la inedita libertà di scelta che si presenta nelle fasi di
profonda trasformazione spesso non rende più felice la maggioranza della popolazione, ma
anzi le procura spesso un senso di insicurezza e una forte alienazione che la spinge alla ricerca
di una identità di gruppo monolitica ed esclusiva (fondata su un’ideologia, sull’ appartenenza
nazionale o su quella religiosa).
Il pluralismo deve poi fare i conti con un avversario ideologico ricorrente, vale a dire le visioni
organicistiche della società e degli ordinamenti politici. Queste ultime avversano le fazioni e il
conflitto da esse provocato. Gli stessi partiti, il cui nome evoca, etimologicamente, un
significato legato a interessi e valori settoriali e specifici (di parte appunto), vengono avversati
perché metterebbero a repentaglio, tramite la loro competizione reciproca, la stabilità e la
coesione politico-sociale. Anche le democrazie sono sistemi incentrati sulla lotta per il potere
e ne devono arginare, nel loro modo peculiare, gli effetti potenzialmente dirompenti (dallo
stallo politico dovuto all’impossibilità di individuare una soluzione di compromesso,
all’incapacità di garantire un livello minimo di benessere e sicurezza). Anzi, proprio la loro
natura pluralista allarga i confini dei temi e degli attori in gioco, tollerando il rischio di una
politics che comprometta la produzione efficiente dei beni politici (inducendo quello che J.
Linz definì come un deficit di effettività delle democrazie 8) e generi un disordine politico

6
Cfr. R. Dahl, Poliarchia. Partecipazione e opposizione nei sistemi politici, Milano, F. Angeli,
7
Cfr. F. Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, Utet, 2019.
8
J. Linz, La caduta dei regimi democratici, Bologna, il Mulino, 1982.
5
incontrollabile. Proprio il desiderio di efficacia e stabilità può generare una domanda e
un’offerta politica contrassegnate da orientamenti monistici sia per quel che concerne la
concentrazione del potere sia in termini di orizzonti valoriali e ideologici. Orientamenti che
appunto sono tesi a ridurre le opzioni politiche disponibili e approdare ad una conciliazione
“armoniosa” delle differenze, o addirittura alla proclamazione della loro non esistenza. I
partiti populisti di ieri di oggi sostengono non a caso una concezione indifferenziata e
monolitica del popolo, che nega differenze e fratture significative al suo interno.

Cosmopolitismo vs nazionalismo
Le democrazie tendono a promuovere il libero mercato e l’allargamento globale degli scambi
economici, sociali e culturali. Allo stesso modo favoriscono il sorgere di élite e gruppi sociali
portatori di valori universalistici. Talvolta questi ultimi si spingono sino al punto di sostenere
l’obsolescenza delle identità nazionali e della sovranità statale. Ciò all’insegna di un eccessivo
ottimismo circa le conseguenze della globalizzazione e di una corrispondente
sottovalutazione dei suoi costi sociali. E’ ormai evidente che, accanto agli indubbi benefici del
libero scambio e della crescente interdipendenza tra gli stati, sorgano altrettanti problemi.
La globalizzazione ha ridotto le disuguaglianze tra i paesi, ma le ha accentuate al loro interno
(specie nei paesi sviluppati). Ha indotto in molti paesi la paura di una omologazione che
annulla le identità e le specificità di ogni cultura. Fa emergere, infine, la tensione tra le regole
democratiche, implicanti il rispetto del principio di autodeterminazione, e la logica del
mercato, che richiede invece un’economia lasciata libera di operare con minime interferenze
da parte dei governi. L’entusiasmo per il sovranazionalismo sembra quindi lasciare poco
spazio ai processi democratici (in fondo ancora oggi la sede naturale delle democrazie è lo
stato-nazione). Ampliando i poteri delle élite tecnocratiche e delle istituzioni internazionali,
la globalizzazione limita infatti l’accountability delle istituzioni politiche nazionali e dei
sempre più rilevanti centri decisionali sovranazionali.
Riferendoci a questo particolare momento storico e alle realtà a noi più vicine, una consistente
parte delle società occidentali si è sentita marginalizzata e trascurata, spesso in favore della
difesa dei diritti di gruppi ristretti o di più recente provenienza (in particolare gli immigrati).
Ha percepito, inoltre, una duplice e congiunta minaccia che ha generato, a sua volta, una
pressante domanda di sicurezza. Una minaccia economica, provocata dalla crescente
concorrenza dei paesi emergenti e dall’esercito di riserva lavorativo proveniente dalle aree
più povere del pianeta. Una minaccia identitaria, associata alla perdita di centralità della
cultura occidentale e alla crescente influenza, in un globo sempre più “stretto” e

6
interdipendente, di altri costumi e di altri valori (talora promossi con la violenza e
l’intimidazione, come nel caso del terrorismo e del fondamentalismo islamico). Questa parte
di popolazione si è così rifugiata nella difesa delle antiche tradizioni nazionali trovando in
esse quell’identità di gruppo ed esclusiva attraverso la quale riguadagnare quella dignità
perduta in seguito alla perdita di status economico 9, e trovare un rinnovato e rassicurante
senso di appartenenza. Questo desiderio di riscatto ha favorito una accezione di nazionalismo
su base etnica e non civica, centrata su forme di identità ristrette e intolleranti.
Questi effetti economici politici e sociali della globalizzazione hanno quindi portato ad una
crescente contestazione del cosmopolitismo 10 accusato di favorire élite senza radici. Si sta
sviluppano così la tendenza a creare una contrapposizione tra la valorizzazione del proprio
specifico e delimitato gruppo di appartenenza e la valorizzazione dell’umanità e dei suoi
diritti (che è comunque uno dei presupposti delle democrazie liberali).

Dopo aver brevemente illustrato le tre dicotomie vorrei sottolineare e precisare, per fare
chiarezza ed escludere possibili equivoci, due punti che meritano un approfondimento a
parte.
Si può notare, in primo luogo, come per molti aspetti, le tensioni e i dilemmi ad esse associati
hanno a che fare con la questione identitaria. Tanto da poterle considerare come facce di un
medesimo prisma. In effetti esiste una certa sovrapposizione tra le tre dicotomie, ma, a
riprova anche delle loro differenze, tale sovrapposizione è solo parziale. Cerco di mostrare ciò
con alcuni esempi. La dicotomia tradizione/innovazione, per cominciare, può in effetti
indirizzarsi in direzione di un acutizzarsi del nazionalismo, ma può anche promuovere culture
tradizioni locali sub-nazionali, così come rivolgersi verso ideologie o religioni universalistiche
(ad esempio il Cristianesimo o l’Islam). La dicotomia pluralismo/monismo, poi, può
indirizzare l’offerta e la domanda politica non solo verso il passato e la tradizione, ma verso il
futuro e la novità (come nel caso delle utopie rivoluzionarie di destra e, soprattutto, di
sinistra). La dicotomia nazionalismo/cosmopolitismo, infine, può anche rivolgersi contro la

9
Ll’effetto psicologico della perdita di status si acuisce se si accompagna all’ascesa parallela di
soggetti appartenenti gruppi sociali precedentemente collocati più in basso nella scala
sociale, provocando un rovesciamento delle gerarchie sociali consolidate da tempo.
10
La leader del partito conservatore, T. May, ha illustrato nitidamente questo punto di vista
dichiarando: “Oggi troppe persone in posizione di potere si comportano come se avessero più
in comune con le élite internazionali che con il cittadino comune della strada e che esse
impiegano nelle loro imprese. Ma se tu credi di essere cittadino del mondo sei il cittadino di
nessun posto”.
7
tradizione, come nel caso dei regimi modernizzanti e secolari di certi paesi del Medio Oriente
(i partiti e i regimi nazionalisti del periodo post-coloniale) e dell’Asia (come nel caso del
Giappone del XIX secolo).
Va evidenziato, in secondo luogo, le possibili influenze reciproche e le “tracimazioni” tra
queste tre polarità . Lo “smarrimento” identitario associato alle innovazione convulse e troppo
rapide, per esempio, può causare una spinta verso concezioni monistiche. La spinta verso il
monismo può indirizzarsi verso una accezione ristretta ed esclusiva di nazionalismo, come
invece verso una enfatizzazione di ideologie o religioni universalistiche.

3.La “gestione” delle tensioni e dei dilemmi

Tanto nelle fasi ordinarie quanto nei periodi critici in cui alcune di queste tensioni si palesano
con maggiore intensità , le democrazie sono attrezzate generalmente per affrontarle e gestirle.
Lo fanno in modi e con soluzioni diverse secondo i casi e le epoche storiche, pur nel rispetto di
principi comuni. Anche la gestione di queste tensioni, oltre che le loro cause, ha a che fare
tanto con la dimensione materiale quanto simbolica. Inoltre si fonda sia su elementi
strutturali (attinenti le configurazioni stabili del sistema politico e della struttura sociale) sia
processuali (riguardanti invece circostanziate scelte di policy e precisi orientamenti
normativi).
La tensione tra innovazione e tradizione trova generalmente una composizione e un
accomodamento seguendo il modo tipico di organizzare i processi decisionali di questi sistemi
politici: l’incrementalismo, il procedere tramite compromessi e il gradualismo 11. Nel loro
modo di funzionare le democrazie, come ci ha insegnato Popper, si avvicinano al metodo
scientifico, poiché procedono per tentativi ed errori. Sono gli unici sistemi in grado, grazie
all’invenzione del governo limitato e a tempo determinato, di sperimentare con prudenza le
innovazioni e correggere gli eventuali errori di valutazioni o le conseguenze impreviste. Il
meccanismo di feed-back funziona nelle democrazie meglio che in qualsiasi altro tipo di
regime, e consente di contenere i costi sociali delle trasformazioni e conservando il meglio
delle tradizioni. Questo ragionevole compromesso tra innovazione e tradizione funziona a
dovere, inoltre, quando le democrazie si fondano su quella che Almond e Verba 12 hanno
11
Cfr. C. Lindblom, The intelligence of democracy: decision making through mutual adjustment,
Free Press, 1965.
12
G. Almond e S. Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in Five Countries,
Princeton, Princeton U.P., 1963.
8
definito come la “cultura civica” che indirizza le scelte pubbliche in un’ottica di gradualismo e
di rigetto delle istanze radicali. Dal punto vista delle politiche pubbliche, le innovazioni
stimolate dalle democrazie sono agevolate e rese meno traumatiche da indirizzi di governo
all’insegna dell’inclusività e dell’attenzione e cura verso le vittime delle transizioni e dei
mutamenti socio-economici. Se trattate in questo modo, le tradizioni non si cristallizzano, ma
si evolvono lentamente incorporando senza traumi gli elementi di novità che di volta in volta
si presentano nel corso degli anni e consentendo così un adattamento evolutivo tra il vecchio
e il nuovo .
La gestione della tensione pluralismo/monismo richiede altri accorgimenti. Come e più che in
altri regimi la lotta per il potere è il motore della produzione politica. Il fatto è che, a
differenza che per la produzione economica, la competizione politica rischia anche di
pregiudicare, sino a paralizzarla, la produzione dei fondamentali beni politici, quali la
sicurezza e l’ordine. A tal fine son stati predisposti alcuni “argini” strutturali che mettano
relativamente al riparo la produzione politica rispetto alle interferenze e alle turbolenza della
lotta per l potere. Tali argini sono istituzionali e culturali (Easton parlò a tal proposito di
gatekeepers istituzionali e culturali13). Da un lato le regole elettorali, i vincoli e i limiti posti
costituzionalmente alle opzioni e ai comportamenti politici, i meccanismi della
rappresentanza ecc.; dall’altro, la condivisione di un nucleo di valori comuni e condivisi che
riduca l’eterogeneità dei valori e degli interessi in competizione, attenuando le spinte
monistiche estreme e radicali. Del resto un pluralismo “temperato” è un elemento positivo che
stimola l’innovazione, la creatività e l’imprenditorialità e in definitiva la vitalità dei sistemi
sociali. Mentre un eccesso di eterogeneità e una sua non adeguata disciplina genera facilmente
violenza e conflitti talora endemici.
Anche la gestione della dicotomia cosmopolitismo/nazionalismo include sia una dimensione
materiale, concernente le politiche economiche, sia simbolica, riguardante la promozione di
determinate culture politiche. Sul piano economico occorrerebbe democratizzare la
globalizzazione tramite aggiornate politiche di cooperazione e regolazione internazionali. Si
parla a tal proposito di “embeded liberalism” 14
cioè di una versione del libero scambio
addomesticata e non abbandonata come successo negli ultimi anni ad una totale
deregolamentazione. L’esempio più riuscito nel corso della storia è stato l’accordo di Bretton
Woods , nel quale si sono conciliati libero scambio, stabilità finanziaria e sovranità macro-

13
Cfr. D. Easton., A Systems Analysis of Political Life, New York, 1965.
J. Snyder, The Broken Bargain. How Nationalism Come Back, in “Foreign Affairs”,
14

March/April, 2019, pp. 54-60.


9
economica dei governi nazionali. Oggi forse non sarebbe possibile riproporlo sic et simpliciter
come allora, ma una sua versione aggiornata sarebbe auspicabile, pur richiedendo una
notevole dose di coraggio e immaginazione politica. Sul piano culturale la soluzione più
idonea sembra essere – facendo leva anche in questo caso su un piano processuale - la
promozione di un nazionalismo civico e non etnico, basato su una comune concezione
democratica15 . Esso sarebbe compatibile, tra l’altro, con lo sviluppo “cittadinanze e
appartenenze multiple” (legate alla propria città , regione, stato e comunità internazionale)
tramite cui si possono conciliare cosmopolitismo e patriottismo in base al tipo e all’ampiezza
delle obbligazioni: quelle più circoscritte o quelle che invece trascendono in confini nazionali
(come le obbligazioni e le responsabilità legate alle questioni ambientali o alle crisi
umanitarie)16 . Tale versione “buona” del nazionalismo avrebbe tra l’altro il pregio di garantire
una contesto sociale meno teso e più sicuro, una maggiore qualità del governo, lo sviluppo
economico, un raggio più ampio di fiducia, il mantenimento di una forte rete di protezione
sociale. Come sosteneva Derek Urwin, le democrazie contemporanee dovrebbero conciliare il
diritto alle radici con il diritto alle opzioni per non dover scegliere tra sistemi chiusi e ripiegati
su se stessi e un mercato globale senza fiducia o legge.
Si può evincere da queste sintetiche esemplificazioni, che le diverse soluzioni prevedono la
costruzione di complessi e delicati equilibri tra principi e valori diversi e tendenzialmente
opposti. Va in tal senso sottolineato, e anche questo deve esser materia di ulteriori riflessioni
e approfondimenti, come gli equilibri non riguardano solo la dose, in termini quantitativi, tra
principi contrastanti, ma anche le loro accezioni e le loro proprietà , in termini qualitativi. Più
precisamente, non si tratta solo di scegliere quanta uguaglianza o libertà combinare in un
determinato momento o contesto, ma anche che tipo di uguaglianza e che tipo di libertà . Lo
stesso vale per tutti i valori discussi in questa sede. Il nazionalismo, il cosmopolitismo il
pluralismo ecc. sono definibili e interpretabili in tanti modi, sta all’arte dei politici ritagliare
un abito su misura e dallo stile adeguato ai diversi momenti e alle diverse esigenze che si
affacciano sul palcoscenico della storia17.

15
Una simile visione viene sostenuta nell’ultimo lavoro di S. Huntington: La nuova America. Le
side della società multiculturale, Milano, Garzanti, 2005.
16
K. A. Appiah, The Importance of Elsewhere. In Defense of Cosmopolitanism, in “Foreign
Affairs”, March/April, 2019, pp. 20-26.
17
Con questo intendo sottolineare, sulla scia di quanto a suo tempo ci suggerì J. Schumpeter,
quanto sia rilevante e imprescindibile la capacità creativa delle élite politiche, la sola in grado
di immaginare e attuare soluzioni istituzionali e scelte di policy all’altezza dei problemi del
loro tempo. Tale aspetto richiama, a sua volta, il tema più generale, della qualità della classe
politica, questione che merita un approfondito trattamento a parte.
10
4.Alcune considerazioni conclusive

Si parla oggi di crisi delle democrazie come se si trattasse di un fenomeno nuovo o


eccezionale. In realtà le crisi costituiscono un elemento fisiologico e ricorrente di questi
sistemi politici. Spesso ne sono uscite addirittura rafforzate, mostrando una straordinaria
resilienza.
La crisi attuale è multiforme e dipende da fattori eterogenei, spesso originati da lontano e che
si sono fusi nel coso di questi anni. Presenta alcune inquietanti analogie, non tutte per fortuna,
con i terribili anni ’30 del secolo scorso. Gli elementi che la hanno alimentata sono numerosi:
la crisi della rappresentanza, il declino dei parlamenti e dei partiti, la rivoluzione informatica,
la moltiplicazione delle deleghe a organizzazioni indipendenti e la supremazia degli esperti, la
globalizzazione e la deregulation, la governance europea, l’evanescenza dei poteri e delle
competenze dello stato nazione 18. Può quindi sorgere il sospetto che ci si trovi di fronte ad
una fenomeno di lunga durata, irreversibile nel breve periodo, nel quale la gestione difficile di
questi dilemmi influenzerà costantemente il dibattito pubblico. Naturalmente la sua intensità
e il suo impatto varierà a seconda dei paesi, della loro capacità di rinnovarsi. Analogamente
saranno diversi anche gli esiti possibili.
Come si è accennato all’inizio, i sistemi democratici sono soggetti ad una continua evoluzione
e sono, ciascuno di essi, il frutto di un unico e distintivo “bricolage” assemblato con ingredienti
diversi (istituzionali, culturali, economici e sociali) per ciascun paese. Così nel futuro gli
imprenditori politici che difendono i principi democratici dovranno mostrare di
padroneggiare l’ “ars combinatoria” in grado di creare nuovi equilibri, anche imperfetti e
instabili, ma suscettibili di continui miglioramenti. In definitiva, le democrazie sono regimi
“trasformisti” e capaci di “digerire” elementi a prima vista incompatibili, e si spera siano in
grado di farlo anche in questa fase storica.

18
Y. Meny, Popolo ma non troppo, cit.
11

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