Sei sulla pagina 1di 40

MARIO STOPPINO- POTERE E TEORIA POLITICA

Capitolo 1- Il potere
Nel suo significato generale la parola potere designa la capacità o possibilità di operare e produrre
effetti e può essere riferita a individui, gruppi, oggetti o fenomeni. Inteso in senso sociale il potere
diventa capacità dell’uomo di determinare la condotta dell’uomo  potere dell’uomo sull’uomo.
L’uomo è infatti sia oggetto che soggetto del potere sociale. Il potere sull’uomo va distinto da
quello quello sulle cose: bisogna discostarsi da visioni come quella di Hobbes che si basano sui
mezzi. Le cose sono rilevanti solo nel momento in cui sono un mezzo per esercitare potere (es.
denaro, ma il mio potere non consiste in esso bensì nel fatto che un altro individuo in cambio di
esso è assoggettato al mio potere).
Come fenomeno sociale dunque il potere è un rapporto tra uomini ed è una relazione triadica
perché è sempre necessario definire la sfera del potere, che può essere più o meno vasta e più o
meno delimitata.
Il potere attuale
Bisogna distinguere tra potere come possibilità (potere potenziale) e potere effettivamente
attuato o potere attuale. Con questo si intende identificare i casi in cui A tiene un comportamento
volto a modificare la condotta di B ( se si accetta unicamente il requisito dell’intenzione), o tale da
modificare il comportamento di B nei propri interessi (se si accetta anche il concetto di interesse,
inteso come stato della mente di chi esercita il potere). Il comportamento di B è dotato di almeno
un minimo di volontarietà, ma non è detto che B sia consapevole di agire negli interessi di A.  i
rapporti di violenza o quelli dove il comportamento di un uomo, provocato da un altro uomo, è del
tutto involontario (es. durante un’ipnosi) sono esclusi dai rapporti di potere. I casi in cui il potere è
abituale come un saluto militare verso il proprio superiore sono voluti e quindi possono rientrare
nella sfera del potere. Un tipo di potere diffuso è la manipolazione ovvero quando A cerca di
nascondere le sue intenzioni a B.
Ma cosa intendiamo quando diciamo che il comportamento di A causa quello di B? Con causa
intendiamo una causa non necessaria, ma probabilistica; inoltre si parla di causa riferendosi ad un
particolare evento, non significa che per gli eventi successivi A causi sempre un comportamento in
B. Tuttavia resta aperta la questione di come questo rapporto di causazione sia da intendersi:
alcuni autori pensano che il comportamento di A debba essere condizione necessaria per il
comportamento di B; altri (tra cui Stoppino) pensano che il comportamento di A basta che sia
condizione sufficiente perché si verifichi il comportamento di B. Altri pesano che debba essere
condizione necessaria e sufficiente ( il comportamento di B si verifica SOLO quando si verifica
quello di A).
Molte relazioni di potere hanno caratteristica di essere unidirezionali, ma ve ne sono altre che
sono contraddistinte da un grado di reciprocità (es due partiti politici che devono contrattare,
anche se spesso uno ha più potere dell’altro).
Il potere potenziale
È la capacità di determinare i comportamenti altrui. Mentre il potere attuale è un rapporto tra
comportamenti, quello potenziale è un rapporto tra attitudini ad agire. Poiché esercitare potere
implica necessariamente avere la possibilità di esercitarlo, nel suo senso più generale il potere
sociale è la capacità della determinazione intenzionale o interessata dei comportamenti altrui.
Perché questa possibilità sussista, A deve avere a sua disposizione delle risorse che possano essere
impiegate per esercitare tale potere (ricchezza, forza, amicizia…). Ma questo non è sufficiente : la
suddetta capacità di A dipende anche dalla sua propensione a usare le risorse per esercitare
potere, anziché per altri scopi e dall’abilità con la quale è in grado di convertire in potere le proprie
risorse. Un altro requisito fondamentale è l’attitudine di B a lascarsi influenzare ( in un caso come
quello di un martire che si sacrifica per il proprio Dio nessuna risorse da parte di un'altra persona
può influenzarlo). Questa attitudine dipende dalla scala di valori di B.
Si parla di potere stabilizzato quando a un’alta probabilità che B compia con continuità i
comportamenti nell’interesse di A fa riscontro un’alta possibilità che A compia con continuità
azioni volte o idonee a modificare il comportamento di B nel proprio interesse. Quando è di tipo
intenzionale questo potere si traduce spesso in comando e obbedienza. Quando la relazione di
potere stabilizzato si articola in una pluralità di ruoli parliamo di potere istituzionalizzato, molto
diffusa nella società contemporanea ( coinvolge scuola, governo, esercito, burocrazia…).
Il ruolo delle percezioni sociali e delle aspettative
È evidente che il potere non deriva semplicemente dal possesso o dall’uso di certe risorse, ma
anche dall’esistenza di determinati atteggiamenti dei soggetti implicati nel rapporto, tra cui le
percezioni e le aspettative che riguardano il potere. Le prime, dette immagini sociali del potere,
esercitano un’influenza sui fenomeni del potere reale: l’immagine che un individuo si fa della
distribuzione di potere contribuisce a determinare il suo comportamento. La reputazione del
potere costituisce una possibile risorsa di potere effettivo. A, se le persone pensano che il suo
potere sia maggiore di quello che è, eserciterà un potere maggiore rispetto alle proprie risorse
effettive. Il ruolo delle aspettative è quindi molto importante, soprattutto nei rapporti di potere
che operano attraverso il meccanismo delle reazioni previste  quando B modifica la sua condotta
verso l’interesse di A, senza un intervento diretto di A ma solo perché B prevede che A
adotterebbe reazioni per lui spiacevoli se B non tenesse quella data condotta. Ovviamente la
previsione di B non è campata per aria, ma si fonda su una precedente condotta di A. Questo
meccanismo rende ambigue molte situazioni di potere, perché in certi casi potrebbe risultare
difficile capire chi esercita potere su chi.
Modi di esercizio e conflittualità del potere
I modi di esercizio del potere, ovvero i modi specifici in cui le risorse possono essere usate per
esercitare potere sono molti: persuasione, manipolazione, minaccia ecc.
Alcuni autori distinguono tra potere (quando la determinazione dei comportamenti altrui si fonda
sulla coercizione) e influenza.
La coercizione può essere definita come minaccia di privazioni fisiche, ossia di interventi violenti.
Essa implica che le alternative di comportamento di B vengano alterate dalla minaccia di sanzioni
di A. Nel concetto di coercizione alcuni fanno rientrare anche un alto grado di allettamento (o
promessa di vantaggi). Importante è anche il concetto di conflittualità di potere ovvero se il
carattere antagonistico del rapporto di potere viene inteso come conflitto di volontà tra soggetti
del rapporto. Che via sia un conflitto iniziale tra la volontà di A e B è implicito nella definizione di
esercizio di potere ( senza A B avrebbe agito diversamente). Ma vi è necessariamente un conflitto
di volontà anche nel momento finale di esercizio di potere? No, per esempio con la persuasione, B
vuole fare quello che vuole A: quindi B attribuisce minor valore al comportamento che tiene dopo
l’intervento di A che a quello che avrebbe tenuto prima, e quindi non c’è conflitto. In caso invece
di minaccia di punizione è il contrario e c’è conflitto.
Ma il carattere antagonistico dei rapporti di potere può derivare anche da diversi fattori  per
esempio nel caso di manipolazione il conflitto insorge solo quando B si rende conto che la sua
condotta è stata manipolata da A oppure nel caso di allettamento potrebbe insorgere risentimento
per la grave disuguaglianza tra le risorse che B sente di avere e quelle di A e più questa
disuguaglianza è sentita maggiore è il risentimento.
Si deve sottolineare che la matrice di disuguaglianza del potere consistente nella disuguaglianza
delle risorse è solo causa potenziale di conflitto (infatti questa disuguaglianza può non essere
percepita oppure essere accettata in base a dottrine politiche o ideologiche oppure nonostante
giudicata male può la colpa di essa essere attribuita a entità diverse che i detentori di potere).
In conclusione si può affermare che non è possibile stabilire in generale e una volta per tutte se i
rapporti di potere siano o meno antagonistici, dipende dal caso.
Cenni sulla misurazione del potere
Un modo per misurare il potere è quello di determinare le diverse dimensioni che può avere la
condotta che ne è oggetto. La prima dimensione riguarda il potere potenziale, ed è data dalla
probabilità che il comportamento di B si verifichi (quanto più è probabile, tanto più il potere è
maggiore). Una seconda dimensione è costituita dal numero di uomini sottoposti al potere; la
terza al settore di attività a cui il potere si riferisce (alcune sfere sono più rilevanti di altre). Una
quarta dimensione riguarda il grado di modificazione del comportamento di B che A può
provocare entro una certa sfera di attività. Queste ultime tre dimensioni sono chiamate da
Lasswell campo, sfera e peso del potere. Una quinta dimensione è l’efficacia del potere ovvero la
corrispondenza tra l’interesse di A e la condotta di B (con più o meno precisione). Una sesta
dimensione è il grado in cui il potere di A restringe le alternative di B. È importante tenere conto
anche dei costi in cui A incorre per esercitare l potere e nella forza, ovvero i costi in cui
incorrerebbe B se non obbedisse.
Il potere nello studio della politica
Quello del potere è uno dei fenomeni più generali della vita sociale ed è infatti stato usato per
interpretare i fenomeni più disparati della società, tuttavia il campo in cui acquista il ruolo più
cruciale è quello politico. Per Weber le relazioni di comando e obbedienza politica più o meno
continuative nel tempo tendono a basarsi non solo su fondamenti materiali ma anche su uno
specifico fondamento di legittimità, designato con il termine autorità, che per Weber può essere di
tre tipi: legale (tipico della società moderna, si fonda sulla credenza di legittimità degli ordinamenti
statuiti), tradizionale (si fonda sulla credenza del carattere sacro del potere che esiste “da sempre”
e carismatico ( si fonda sulla dedizione affettiva alla persona del capo e al carattere del sacro, la
forza eroica, il valore esemplare, la potenza di spirito che possiede.
Da Weber partirono molte correnti, tra cui quella che ha come rappresentante Lasswell e he si
basa sull’analisi del potere come fenomeno empiricamente osservabile. Da una parte Lasswell vide
nel potere l’elemento distintivo dell’aspetto politico della società, dall’altro esaminò i rapporti
intercorrenti tra potere e personalità: individuò la personalità politica in quella orientata in modo
prevalente verso la ricerca di potere, sostenendo che si formava attraverso il trasferimento su
oggetti pubblici di impulsi privati repressi.
Più di recente, Talcott Parsons individuò nel conseguimento di fini la funzione propria del sistema
politico e definì il potere politico come una proprietà del sistema che diventa il mezzo circolante
politico, ancorato da una parte alla legittimazione e istituzionalizzazione dell’autorità, dall’altro
dalla possibilità effettiva del ricorso alla minaccia e uso di violenza. Attualmente il potere è
considerato come una delle variabili fondamentali in tutti i settori di studio della politica.
Metodi di ricerca empirica
Un primo metodo di ricerca del potere (molto semplice) è quello posizionale che consiste
nell’identificare le persone più potenti in coloro che hanno una posizione di vertice nelle gerarchie
pubbliche e private più importanti. Tuttavia non è detto che il potere effettivo corrisponda alla
posizione occupata formalmente, infatti accanto a strutture formali ve ne sono altre informali, e
quindi il metodo è impreciso, ma può essere usato per accertare le sovrapposizioni tra gli
occupanti le cariche più elevate in diverse organizzazioni. Un altro metodo di ricerca è quello
reputazionale, che si fonda sul giudizio di alcuni membri della comunità studiata, considerati buoni
conoscitori della vita politica di essa (ci si affida alle reputazione espressa da un certo numero di
giudici considerati affidabili). La maggiore critica a questo metodo è che esso non accerta il potere
effettivo ma quello reputato ( e spesso i due non corrispondono).
Un terzo metodo è quello decisionale che si basa sull’osservazione di comportamenti effettivi che
si manifestano nel processo decisionale pubblico; ovviamente è un metodo meno semplice ed
economico dei precedenti e quindi viene impiegato solo per alcuni settori decisionali chiave. Ciò
viene criticato, perché si pensa che lo studio di solo pochi settori decisionali non sia esaustivo,
inoltre il processo decisionale pubblico è la sede non di tutto il potere ma solo di una parte, infatti
ci sono altre esercitazioni del potere invisibili nel processo decisionale (e sono importanti i
contesti). Infatti la delimitazione del processo decisionale poggia su altri centri di potere come
quello economico, religioso ecc che condizionano il governo locale. Dunque nessuno dei tre
metodi riesce ad accertare la distribuzione effettiva del potere nella comunità, per questo nella
ricerca del potere vanno utilizzate simultaneamente più tecniche.

Capitolo 2- Potere, intenzione e interesse


Causazione sociale, potere e intenzione
Il potere è un rapporto di causazione sociale. Il nesso causale può essere attuale o potenziale, nel
primo caso vi è una nesso causale tra i due comportamenti compiuti da A e B, nel secondo vi è un
nesso causale potenziale tra un possibile comportamento di A e uno probabile di B.
Abbiamo detto che accogliamo il concetto di causa come causa sufficiente. Ma c’è un altro
problema, riguardante l’estensione della nozione di potere rispetto a quella di causazione sociale.
Secondo alcuni (tra cui Robert Dahl) “potere” non è che un’altra parola per indicare la causazione
sociale.
La concezione più diffusa del potere invece lo distingue definendolo “causazione sociale
intenzionale”  A esercita potere su B se il comportamento che causa su B corrisponde all’intento
di A. Anche Dahl passando dalla teoria all’analisi empirica accettò questa definizione. Per
intenzione si intende la finalizzazione all’azione, per A il senso della propria azione deve essere
causare il comportamento di B, e perché ci sia potere il comportamento di B deve corrispondere al
proposito deliberato che accompagna e orienta il comportamento di A; il grado di corrispondenza
può variare, ma finché ce ne è un minimo è potere.
Possiamo concludere che: la causazione intenzionale di un comportamento altrui è potere, ma non
lo è la causazione di un comportamento altrui contrario alle intenzioni o interessi di chi lo causa.
Rimane aperta una questione: è potere quando la causazione non intenzionale di un
comportamento altrui è favorevole a chi lo causa?
Insufficienza del criterio dell’intenzione
L’analogia di Dahl e Lindblom tra controllo intenzionale e controllo non intenzionale resta valida
solo se nel rapporto di causazione sociale non intenzionale c’è un atteggiamento favorevole verso
la produzione di un risultato. White sostiene che la condotta politica non sia sempre calcolata e
razionale ma che possa essere anche istintiva o intuitiva e che quando lo è l’assenza di un
proposito deliberato non basta ad escludere che i suoi effetti possano dirsi l’oggetto di un esercizio
di potere, occorre infatti guardare anche ad altri aspetti.
Es di White: un ministro deve scegliere se espellere o meno l’inviato di una potenza straniera,
senza sapere quali saranno gli effetti  lo espelle  il governo straniero recepisce un’azione di
forza e mette da parte il progetto di invasione  per White questo è un rapporto di potere perché
quello che conta non è la presenza o meno di intenzione ma gli effetti.
White contempla anche il caso in cui un’azione giudicata insignificante dell’attore dia inizio a una
catena di reazioni che conducono ad un risultato di prima grandezza. In questo caso si presentano
alcune difficoltà. La prima riguarda la complessità delle azioni e reazioni comprese nella catena
causale che porta al risultato finale: anche se si accetta che il fatto iniziale sia stata un’effettiva
concausa che abbia portato al fatto finale sorge un secondo problema: quello riguardante lo stato
della mente dell’attore nel momento del fatto iniziale  nel caso in cui lo stato della mente fosse
comunque conforme alle conseguenze a cui il fatto porta, White considera che ci sia stato un certo
grado di potere. White quindi sostiene che occorra parlare di potere ogni volta che la persona che
provoca una condotta altrui ha un atteggiamento favorevole verso gli effetti rilevanti del rapporto,
e non è necessario che chi esercita potere sia consapevole di tale atteggiamento. Stoppino invece
ritiene che “l’atteggiamento favorevole” sia un requisito troppo vago.
Un'altra questione è quella del rapporto di imitazione. Con contagio del comportamento si intende
l’imitazione da parte di un gruppo di un comportamento iniziato da un membro, senza intenzioni
di contagio; esso si differenzia dall’influenza diretta che implica la consapevolezza e l’intenzione.
Richard Schermerhorn considera il contagio del comportamento al confine tra popolarità e potere
carismatico, ma lo include più nell’area del potere (= Partridge). Stoppino ritiene che sia
importante distinguere i casi in cui l’imitazione è favorevole ad A e quelli in cui è sfavorevole (es. il
caso in cui l’autorità presa a modello abbia un valore sociale proprio per la sua rarità). Anche in
questo caso possiamo parlare di potere, anche quando non c’è intenzione diretta, solo nel primo
caso.
L’ultimo caso che fa emergere il problema tra potere ed intenzione è quello delle reazioni previste.
In questo caso B tiene un comportamento desiderato da A, senza che quest’ultimo manifesti
direttamente la propria intenzione ma perché B prevede che A adotterebbe reazioni per lui
spiacevoli se non tenesse quel comportamento, o perché prevede gratificazioni future. I requisiti
perché questo tipo di rapporto possa essere definito di potere sono che il comportamento di B sia
dovuto da un precedente comportamento di A (infatti quando le convinzioni di B derivano soltanto
da un dinamismo psicologico o da un inganno di C non è potere); d’altra parte il comportamento di
A non deve essere inteso ad ottenere un comportamento di B, ma tale che da esso B può
prevedere le sue reazioni ad un dato comportamento.
In conclusione quindi i rapporti fondati sulle reazioni previste sono relazioni di potere se A di cui B
anticipa le reazioni, ha un interesse al comportamento risultante di B.
Che cos’è un interesse?
Bisogna sempre distinguere quelli oggettivi/reali da quelli soggettivi ovvero quelli che i soggetti
nutrono di fatto. Per Geiger per poter accertare scientificamente gli interessi reali bisognerebbe
essere in possesso di una scala di valori universalmente accettata, che però non esiste e quini ogni
analista costruisce un criterio di interesse oggettivo basandosi sulla propria scala di valori.
Tuttavia una posizione può essere socialmente predefinita sulla base di una data scala di valori
nell’ambito di una data cultura o contesto specifico, e gli interessi in un dato contesto sociale, per
le persone che ne fanno parte, possono essere considerati oggettivi. Comunque se usiamo la
parola interesse per identificare uno stato mentale, dobbiamo intendere il senso di interesse
soggettivo. Parlarono di interesse, attraverso la teoria dei gruppi, Bentley e Truman. Per Bentley
interesse, attività e gruppo sono tre facce della stessa medaglia e in particolare l’interesse è
l’attività peculiare di un gruppo. Per Truman gli interessi di un gruppo sono atteggiamenti condivisi
che possono trasformarsi in richieste o pretese. Queste due nozioni sono troppo generiche ( la
prima sfuma nella nozione di attività la seconda di atteggiamento). Per Lasswell invece l’interesse
è un modello di domande e aspettative che sostengono tali domande. Per Deutsch l’interesse
significa sia una distribuzione di attenzione sia un’aspettativa di ricompensa. Queste due nozioni
hanno in comune l’aspettativa e sono invece differenziate perché da una parte vi è la domanda,
dall’altra la distribuzione di attenzione. Combinando le due cose si ottiene una definizione triadica
secondo la quale l’interesse verso un certo oggetto comporta l’aspettativa di una ricompensa, la
domanda e l’applicazione selettiva all’attenzione rispetto a quell’oggetto.
 Dimensione cognitiva: L’aspettativa di una gratificazione può essere fondata o infondata,
ottimistica o pessimistica ma di per sé è una previsione di accadimenti. Possiamo infatti
distinguere l’interesse dall’impulso (istintivo). L’interesse sorge invece da esperienza e
conoscenza. Inoltre è necessario distinguere gli interessi dai bisogni generali della
personalità ovvero energie interne all’organismo che lo spingono sempre verso un certo
tipo di azione (es. bisogno di successo che non presuppone una specifica dimensione
cognitiva, e inoltre può corrispondere a diversi interessi come quello economico o politico).
 Dimensione direttiva: l’interesse comporta anche una spinta ad agire in vista dell’oggetto
dell’interesse stesso. La parola domanda è un po’ vaga, perché l’interesse attivo è cercare
qualcosa e non per esempio riceverlo passivamente. Bisogna anche distinguere tra
interesse e atteggiamento favorevole (ovvero disposizione a reagire in presenza di un certo
oggetto a differenza dell’interesse che ha in se l’energia che da inizio all’azione). In ultimo,
definizione di interesse: è un’attitudine complessa, composta dall’aspettativa di una
gratificazione, dalla diposizione ad agire per ottenere o mantenere la gratificazione e
dall’applicazione selettiva all’attenzione, in rapporto a quell’oggetto
Interesse e potere
Stoppino preferisce differenziare tra interesse e atteggiamento favorevole (espressione di White).
L’atteggiamento favorevole è uno stato soggettivo troppo debole per fornire la base do un
allargamento della nozione di potere oltre i confini della causazione sociale intenzionale. Infatti
l’interesse comporta una disposizione ad agire per ottenere un dato risultato mentre
l’atteggiamento favorevole comporta soltanto una disposizione a reagire positivamente al
verificarsi di un evento. Il diverso grado di pertinenza dell’interesse e dell’atteggiamento
favorevole si ripercuote nella loro diversa capacità di orientare la ricerca empirica (è pressoché
impossibile descrivere tutti gli atteggiamenti favorevoli di tutti gli attori partecipanti ad un sistema,
mentre è più facile per ciò che riguarda l’interesse che si esprime solitamente in una attività. In
ultimo i rapporti che intercorrono tra interesse, intenzione e potere possono essere riassunti nel
seguente schema: l’interesse di A può esprimersi in un’azione che provoca intenzionalmente il
comportamento b di B (esercizio deliberato di potere); oppure può accompagnare un’azione di A
che provoca in modo non intenzionale il comportamento b di B (imitazione o contagio del
comportamento); oppur in quanto si palesa in condotte e atteggiamenti di A conosciuti
direttamente o meno da B, può provocare il comportamento b di B, il quale si attende in tal modo
di evitare delle reazioni spiacevoli o di ottenere delle reazioni piacevoli da parte di A. Ovviamente
questa è una definizione generale, che non va presa in modo troppo rigifo.
Alcune conseguenze per la ricerca
Come tecnica di potere che si basa esclusivamente sull’intenzione possiamo prendere quella
decisionale. Il ricercatore che accoglie la nozione allargata di potere e che utilizza la tecnica
decisionale, adotterà come canale per cercare potere, anche il criterio dell'interesse. Per mezzo
dell'attività ricostruibile empiricamente, il ricercatore accerterà l'interesse dei principali gruppi e in
base a questo, cercherà i nessi causali tra i comportamenti e gli outputs decisionali pubblici.
L'attenzione del ricercatore è concentrata:
1. sull'ambiente esterno al processo decisionale pubblico 2. su comportamenti che possono
orientare o limitare il processo decisionale.
La tecnica decisionale tende ad indirizzare:
• verso gli individui che sono i protagonisti del processo decisionale pubblico • verso
comportamenti aperti che si manifestano nell'arena politica pubblica • verso gli aspetti dinamici
del potere.
I gruppi e le organizzazioni incarnano gli interessi più consistenti verso dei comportamenti meno
aperti e verso degli aspetti più stabili del potere dal momento che gli interessi dei gruppi si
innestano in attività strutturate che hanno un carattere più o meno continuativo. Questo concetto
allargato di potere è adatto per lo studio delle NON decisioni che sono esercizi di potere che non si
attuano nell'ambito del processo decisionale pubblico ma che lo limitano dall'esterno. Il potere
infatti, si esplica anche nell'impedire che certe proposte “entrino” nel processo decisionale.
Questo tipo di potere opera attraverso le reazioni previste, nel senso che i protagonisti della scena
pubblica non formulano una data proposta, perché anticipano le reazioni di gruppi o individui che
restano fuori dal processo decisionale.
Un secondo modo in cui si esercita il potere nel senso delle “non decisioni” consiste nel minacciare
direttamente o a infliggere sanzioni a coloro che intendono avanzare proposte “inammissibili”. In
questo caso l'esercizio del potere non è individuabile per mezzo della tecnica decisionale perché
resta al margine dell'arena pubblica MA è maggiormente individuabile se si studiano gli interessi
principali nella comunità e filtra il processo decisionale attraverso questi interessi.
Se il ricercatore dispone di una mappa di interessi è in grado di sapere se certi individui prevalgono
in certi settori decisionali ed è anche in grado di selezionare i settori decisionali da studiare in
rapporto agli scopi della ricerca. Occorrerà quindi fare una classificazione sistematica degli
interessi distinguendo, per esempio, tra:
• interessi specifici del settore di attività nel quale un gruppo è impegnato; • interessi strumentali
per la sopravvivenza del gruppo;
• interessi ideali relativi alla legittimità dell'organizzazione autonoma o privata del settore di
attività nel quale il gruppo è impegnato.
Quindi il concetto allargato di potere può correggere certi limiti gravi alla tecnica decisionale,
tecnica che suppone che il potere politicamente rilevante sia soltanto quello che si manifesta
apertamente.

Capitolo 3- Violenza
Premessa
Fino a pochi anni fa la violenza era un tema molto poco trattato da politologi e sociologi, questo
probabilmente perché la parola designa un fatto terribile, feroce che colpisce l’incolumità fisica
dell’uomo; da qui la tendenza a evitarla e nasconderla. Per il potere è differente, perché non esiste
solo quello coercitivo, e per questo spiegarlo può contribuire ad esorcizzarlo. Il tabù sociale
riguardante la violenza svolge una funzione di difesa dello status quo e sta alla base del
“pregiudizio conservatore”. Se si eccettua quella legittima dello stato (forza), la violenza è vista
come il massimo male perché distrugge l’ordine e da ciò scaturisce la condanna per qualsiasi tipo
di violenza. D’altra parte vi è la minimizzazione del ruolo della violenza, vista come qualcosa di
estraneo alla società politica, e anche la violenza legittima dello stato interviene solo in via
eccezionale.  questa visione rafforza l’orrore di fronte agli episodi di violenza effettiva.
A quello conservatore si contrappone il “pregiudizio del ribelle” formato di due atteggiamenti
dominanti che sono l’esatto rovesciamento di quello conservatore: la condanna alla violenza si
rovescia in esaltazione e l’affermazione della sua marginalità si trasforma in affermazione della sua
onnipresenza. La violenza è infatti vista positivamente come qualcosa che rompe la catena dello
sfruttamento sociale che forgia una nuova coscienza per gli uomini  strumento principe che crea
un ordine nuovo. La violenza è vista come qualcosa che sta alla base della struttura della società,
nel suo senso molto allargato, spesso anche a fenomeni di potere  visione di società
velatamente violenta che rafforza la convinzione della doverosità del ricorso ad una ribellione
violenta come mezzo per abbattere lo sfruttamento della classe dominante.
Per superare questi due pregiudizi occorre esaminare in modo distaccato il fenomeno: ovviamente
l’intervento fisico non è l’unico mezzo di sopraffazione ma questo non deve indurre a chiamare
violenza ogni mezzo di sopraffazione.
Che cos’è la violenza?
È l’intervento fisico volontario e che ha scopo di distruggere, offendere e coartare di un individuo
o un gruppo contro un altro individuo o gruppo, anche se stesso. Di solito la violenza è contro la
volontà di chi la subisce (eccezioni come suicidio). Può essere diretta (quando colpisce
immediatamente chi la subisce) o indiretta (quando opera attraverso un’alterazione dell’ambiente
fisico in cui la vittima si trova o distruggendo risorse materiali). Il risultato è una modificazione
dannosa dello stato fisico dell’individuo o gruppo bersagliato. Le più note distinzioni fatte tra
violenza e forza si fondano su giudizi di valore: si carica positivamente la forza perché considerata
lecita, mentre la violenza è considerata illecita oppure si carica positivamente la violenza
considerata strumento di ribellione mentre la forza è considerata strumento di dominio
autoritario. Questi aspetti però sono legittimi in un discorso prescrittivo, non scientifico.
Ovviamente il politologo distinguerà tra interventi fisici ritenuti legittimi o meno ma rispetto ad un
giudizio di valore non proprio, ma appartenente al contesto che sta studiando. Stoppino giunge
alla conclusione che convenga impiegare violenza e forza come sinonimi e distinguere piuttosto tra
la violenza o forza creduta legittima e quella creduta illegittima.
Violenza e potere
Sono diversi: il potere cambia la volontà dell’altro, la violenza lo stato del corpo o delle sue
possibilità ambientali e strumentali. Tuttavia gli interventi fisici possono essere usati come mezzi
per esercitare potere, ma di per se l’intervento fisico è violenza e non potere. La distinzione è
importante anche sotto il profilo dei risultati: col potere posso ottenere qualsiasi condotta tanto
un’omissione quanto un’azione, o portare qualcuno a credere o non credere. Con la violenza
posso ottenere solo un’omissione, immobilizzando o recludendo la vittima. Per quanto riguarda il
potere coercitivo è importante distinguere tra violenza in atto e minaccia di violenza: nei rapporti
di potere coercitivo la violenza interviene quando la minaccia non ha raggiunto il suo scopo, e
perciò sanziona il fallimento del potere. Molti usano il termine violenza anche per descrivere
rapporti di manipolazione, coercitivi e di potere costrittivo basato su sanzioni diverse dalla forza
(danno economico, morale, ecc.). Tuttavia l’uso indiscriminato del termine può creare confusione
ed è quindi più opportuno chiamare con il proprio nome questi tre tipi di potere. Per quanto
riguarda il potere coercitivo, l’uso della violenza come punizione mentre mostra l’inefficacia della
minaccia può nello stesso tempo accrescerla per il futuro, infatti l’efficacia della minaccia dipende
molto dalla sua credibilità, e nulla accresce più la credibilità del fatto che il minacciante abbia
messo effettivamente in pratica la punizione in precedenza  questo effetto dimostrativo della
violenza è cosi importante che vi si ricorre anche al di fuori del caso della punizione, in particolare
con dimostrazioni di forza (irrogazione immediata di una razione moderata della violenza
minacciata). Altre volte la dimostrazione di forza non si collega con una minaccia in particolare ma
ha lo scopo più generale di instaurare il controllo coercitivo in una data situazione  violenza
come avvertimento generale che tende a rafforzare tutte le possibili minacce future.
Violenza e potere politico
In politica la violenza ha un ruolo cruciale, una delle definizioni più diffuse del potere (Weber)
punta proprio sul monopolio della violenza legittima. Questa importanza deriva da un lato
dall’efficacia generale delle sanzioni fisiche, dall’altro da quello che è lo scopo minimo di ogni
governo: il deterrente della violenza è indispensabile per conseguire uno degli scopi minimi del
governo, cioè il mantenimento delle condizioni esterne che salvaguardano la coesistenza pacifica.
Tale coesistenza può riguardare solo una parte della popolazione e non si tratta dell’unico scopo
del governo ma è preliminare a ogni altro fine; mantenere le condizioni esterne di coesistenza
pacifica significa evitare azioni violente contro la comunità e per questo scopo è necessaria la
minaccia delle violenza dello stato e la sua irrogazione pronta nei casi di diobbidienza. Si può
parlare di monopolio della violenza solo nelle comunità politiche pienamente sviluppate, e in ogni
caso tale monopolio non è mai assoluto. Negli stati contemporanei lo stato usa con continuità la
violenza attraverso uno o più apparati specializzati (polizia, esercito) che dispongono degli uomini
e dei mezzi necessari per usarla.
Ma in alcune società politiche ci sono anche altri usi della violenza che non fanno capo al potere
politico: gli usi illegittimi (rapine, aggressioni) ma anche legittimi come la violenza più o meno
limitata che il padre può usare con il figlio, quella di legittima difesa, ecc. Agli usi illegittimi di
violenza il governo ne contrappone di legittimi e inoltre tende a regolare quelli legittimi. Bisogna
ricordare che la violenza non è il fondamento del potere politico, infatti è sempre necessario il
consenso, poiché la legittimità della violenza del governo corrisponde a una credenza condivisa da
almeno una parte dei governati. Il consenso a sua volta si basa in parte sul conseguimento dei
propri interessi, in parte su la condivisione di determinati valori, in parte su atteggiamenti affettivi.
Quindi la violenza può avere più o meno efficacia: è più efficace nei governi che la impiegano non
solo per punire ma anche per seminare terrore  mentre la prima genera un terrore razionale, il
terrore colpisce a caso comportamenti non prefissati come furia selvaggia generando una paura
irrazionale e perenne che impedisce qualsiasi calcolo  l’unico modo per sentirsi sicuri è non
accennare nemmeno a qualsiasi tipo di opposizione. Ed è proprio la funzione del terrore quella di
inibire l’opposizione potenziale contro la trasformazione totale della società: regimi che ricorrono
alla violenza terroristica sono stati rintracciati nell’Africa precoloniale (dispotismi terroristici). Nei
regimi che usano la violenza terroristica, soprattutto combinata con un sistema di incentivi che
stimola la competizione, si ottiene anche maggior adesione al regime dei membri più passivi (nei
casi più estremi o diventi vittima o carnefice).
Il governo usa la violenza non solo all’interno ma soprattutto all’esterno, nei confrotni di altre
comunità politiche. Il carattere distintivo dei rapporti tra stati è che essi si verificano in un contesto
che rende normale l’alternanza guerra/pace e dove perciò è data per scontata la possibilità di
ricorso a violenza per risolvere le controversie.
Sulle cause della violenza politica
La violenza ha importanti funzioni anche nei rapporti tra gruppi interni ad un sistema politico, in
particolare nell’azione di un gruppo ribelle e nella salvaguardia o cambiamento dello status quo.
Sono state proposte varie risposte sulle cause che determinano l’insorgere della violenza. Due
sono le più significative:
 La prima punta a interpretare la violenza ribelle ed è stata formalizzata da Ted Gurr che fa
capo al concetto di privazione relativa  la violenza politica ribelle ha la sua matrice nella
percezione da parte dei membri di un gruppo che esiste un grave divario tra le loro
aspettative e la situazione reale (per ciò che riguarda i valori e le condizioni di vita). La
privazione consiste proprio nel divario tra ciò che il soggetto ritiene di aver diritto di
ottenere e ciò che può ottenere. Ovviamente la situazione si può creare sia per un
innalzamento delle aspettative, sia per un deterioramento della situazione. Seconda questa
teoria tanto più la percezione vera o falsa che sia è intensa e diffusa nel gruppo, tanto più i
membri di esso saranno disposti a ricorrere a violenza collettiva contro altri o il regime
vigente. L’ipotesi, per quanto plausibile, va incontro a due limiti importanti: spiega solo la
violenza ribelle e individua solo una matrice potenziale di violenza, non una condizione
sufficiente dell’insorgenza effettiva di violenza (non è detto che lo scontento sfoci in
violenza aperta).
 La seconda punta ad interpretare tutti i fenomeni di violenza politica ed è stata elaborata
da Charles Tilly, riconduce la violenza politica a determinati aspetti ricorrenti nella prassi
della lotta per il potere  in ogni sistema politico la pluralità di gruppi è impegnata nella
lotta per il potere e per le risorse sociali. Tra questi gruppi alcuni sono membri del regime
politico vigente e hanno capacità di influire sul governo: la posizione di questi gruppi è
difesa da apparati come polizia ed esercito. Lo scopo principale dei gruppi che non fanno
invece parte del regime politico è di cercare di forzare le barriere per entrare a farne parte:
è proprio intorno alle linee di confine che tendono a disporsi in prevalenza i fenomeni di
violenza politica. In questa prospettiva i conflitti violenti non sono altro che una modalità
specifica nella lotta al potere. Dal punto di vista politologico questa interpretazione è la più
pertinente  in primo luogo perché è in grado di dare pienamente conto delle componenti
cognitive che sembrano costituire il fattore soggettivo della violenza politica (ovvero la
percezione da parte di un gruppo che la situazione di potere può essere modificata in
meglio con il ricorso alla violenza); in secondo luogo questa interpretazione spiega in modo
efficace il ruolo che spesso assumono gli apparati di polizia e esercito e quindi è in grado di
fornire una visione d’insieme più completa della violenza. Infatti è importante guardare la
violenza non solo come ribellione ma anche come resistenza al cambiamento.
Alcune funzioni politiche della violenza
Si possono distinguere a seconda che riguardino i gruppi che sono oggetto della violenza, i gruppi
esterni che non sono ne oggetto ne soggetto ma costituiscono l’ambiente, i gruppi che ricorrono
alla violenza.
1-Funzioni e scopi della violenza in relazione al gruppo antagonistico. Da questo punto di vista lo
scopo più diretto dell’impiego della violenza è di distruggere gli avversari politici (guerre di
sterminio, genocidi, tutte le forme di reclusione). Anche l’assassinio politico può avere questa
funzione nei casi nei quali l’autorità del gruppo è concentrata nelle mani di un leader che ha
potere grazie alle sue doti personali. Molto più comune è l’uso della violenza non per distruggere
gli avversari politici ma per piegarne la volontà. Un caso particolare è la tortura, dove la violenza è
monopolizzata da una sola delle parti. Più importanti sono invece i casi in cui la violenza è presente
da entrambi i lati della relazione (rapporti di aggressione e contro aggressione). Anche nelle
guerre, salvo quelle di sterminio i belligeranti impiegano la violenza non per la distruzione totale
del nemico ma per imporgli le proprie condizioni: di qui l’interesse da entrambe le parti di
mantenere canali di comunicazione durante il conflitto. La stessa funzione di vincere la resistenza
dell’avversario ha la violenza durante le rivoluzioni; idem per le azioni terroristiche o la ribellione
di un gruppo all’interno del sistema politico dove l’obbiettivo è minare la coesione del gruppo
avversario e imporgli delle condizioni. È importante ricordare che gli atti violenti hanno
conseguenze anche sull’ambiente esterno, sui gruppi non coinvolti. Un primo effetto consiste
nell’attivazione dell’attenzione infatti la violenza richiama attenzione pubblicizzando il
risentimento: da ciò i metodi di violenza spettacolari. Una seconda funzione della violenza di un
gruppo ribelle è di carattere simbolico: il ricorso alla violenza esprime la gravità di una situazione
di ingiustizia e la legittimità delle rivendicazioni di un gruppo ribelle  gli uomini che in questo
senso infrangono la legge si fanno legislatori nel nome della giustizia (ovviamente per essere
simbolica la violenza deve essere rara e colpire solo chi detiene il potere). Un altro metodo in
situazioni in cui non c’è possibilità di azione operante, per affermare la legittimità delle proprie
azioni è il suicidio. Va inoltre notato che questo tipo di violenza contesta la legittimità dei privilegi
del gruppo antagonistico: per questo spesso lo scopo è provocare la reazione dell’avversario è
strappargli una maschera di ipocrisia. Tuttavia lo scopo principale della violenza rivoluzionaria nei
gruppi esterni è conquistarne il sostegno.  bisogna fare però due osservazioni: la violenza
potrebbe allontanare chi era favorevole allo scopo perché contrario alla violenza e potrebbe anche
trasformare l’indifferenza in opposizione attiva. L’uso continuo della violenza può anche mirare a
erodere il sostegno ad un altro gruppo, soprattutto quando questo detiene il potere). In questo
ambito anche gli atti terroristici possono avere una funzione: questo avviene quando si inseriscono
in una strategia più complessa che comporta la divisione tra una frazione ragionevole e una
appunto irragionevole  la violenza cieca degli estremisti può accrescere il potere contrattuale
dei moderati, ma in alcune circostanze può farlo anche scemare. Possiamo dire in conclusione che
la violenza non può determinare la direzione che prenderà il sostegno di un gruppo (spesso infatti
la violenza porta sostegno al gruppo aggredito.
Infine nei riguardi dello stesso gruppo che vi ricorre la violenza ha inizialmente la funzione di
favorire la formazione della coscienza del gruppo e di stabilire l’identità e i confini del gruppo
stesso; la violenza separa inoltre il gruppo dal resto della comunità e la contrappone al gruppo
antagonista, individuando il nemico. Sorel sosteneva che soltanto il conflitto violento contro la
borghesia poteva salvaguardare i caratteri distintivi del proletariato. Più la pratica della violenza
diventa dominante in un gruppo, più è probabile che l’ingresso nel gruppo rivoluzionario comporti
per ogni candidato il compimento di un atto irreversibile che rompe i ponti con la società.
All’interno di un gruppo costituito la violenza collettiva tende ad accentuare la centralizzazione e a
cementare l’unione tra i membri, anche se dall’altra parte la conduzione di un conflitto esige una
differenziazione e subordinazione di compiti e ruoli. Tuttavia maggiore è la coesione precedente al
conflitto, maggiore è la sua successiva intensificazione, mentre l’aumento della centralizzazione è
contenuto; minore è la coesione precedente più è probabile che il gruppo si disgreghi o che il
gruppo specialmente se grande, si centralizzi a volte prendendo struttura autoritaria. Incidono
anche la solidarietà interna (es Francia e GB nella seconda gm), e le dimensioni del gruppo (minori
sono più c’è coesione, perché si avverte maggiore pericolo, tuttavia questo senso di fratellanza è
solo transitorio).
Si può anche parlare del dirottamento delle ostilità contro i capi politici, o tra diverse componenti
della comunità, mediante l’attacco contro un nemico esterno o capro espiatorio. Questa condotta
può consistere in xenofobia e talora anche guerra; allo stesso modo in presenza di una disfatta, la
compattezza del gruppo può essere preservata dirigendo l’aggressività contro un presunto
traditore interno. Esempio cruento è l’olocausto  i nazisti dirottarono contro gli ebrei parte delle
ostilità contro l’immoralità della città e lo sbriciolamento dei codici tradizionali. Inoltre gli ebrei
erano considerati il popolo deicida e prendersela con loro aiutava i tedeschi che si sentivano in
colpa per le cose antireligiose e antimorali che avevano commesso nella miseria post bellica.

Capitolo 4- Autorità
Le proprietà dell'autorità sono:
• Potere stabilizzato → La prima proprietà dell'autorità è la stabilità (l'autorità è una specie del
genere potere). L'autorità è un potere stabile, continuativo nel tempo e al quale i sottoposti
prestano entro certi limiti, una obbedienza incondizionata.
• Obbedienza incondizionata →essa non significa che il soggetto passivo annulli le sue capacità di
critica, si può obbedire in modo incondizionato anche se si è critici. Il fenomeno dell'autorità sta
alla base di qualsiasi tipo di organizzazione, compreso il sistema politico.
• Credenza nella legittimità → è l'elemento peculiare che rende l'autorità tale. La credenza nella
legittimità è un giudizio di valore positivo nei confronti della fonte del potere (colui o coloro da cui
viene il comando). (es. io ho un genitore e accetto la sua legittima fonte del potere, non per una
convenienza qualsiasi, ma perché era giusto così). Si forma quindi la credenza che chi ha l'autorità
ha il diritto di comandare e i sottoposti hanno il dovere di obbedire.
L'autorità come potere stabilizzato
Il concetto di autorità è quasi sempre messo in rapporto con quello di potere. La tesi più rilevante
è che l'autorità è considerata una specie del genere potere. Le caratteristiche dell'autorità sono:
• il soggetto passivo del rapporto di potere adotta come criterio del proprio comportamento il
comando o la direttiva del soggetto attivo senza valutare il contenuto.
• Secondo Lewis, il principio di autorità consiste nell'adottare la credenza di altri senza riguardo
alle particolari ragioni sulle quali tale credenza possa basarsi.
• Secondo Easton, vi è autorità se A manda un messaggio a B e B adotta questo messaggio come
base del proprio comportamento senza valutarlo. Se ne può dedurre che vi è autorità quando si
obbedisce al comando indipendentemente da qualsiasi
valutazione del suo contenuto.
Si ha autorità quando il soggetto passivo del rapporto non chiede le ragioni del messaggio e
quando obbedisce indipendentemente dal suo giudizio di valore. Per questo motivo l’autorità è
distinta dalla persuasione.
L'autorità è un rapporto di potere stabilizzato o istituzionalizzato nel quale i sottoposti prestano
un'obbedienza incondizionata. Il potere diventa autorità ogni volta che “B” è disposto a tenere il
comportamento voluto da “A” indipendentemente da una sua valutazione del contenuto della
direttiva.
Amitai Etzoni distingue il potere in:
– potere coercitivo → basato sulla minaccia o sull'applicazione di sanzioni fisiche – potere
remunerativo →basato sul controllo delle risorse materiali – potere normativo →basato
sull'allocazione dei premi e delle privazioni simboliche.
Gli orientamenti dei sottoposti verso il potere sono:
– alienato →intensamente negativo – calcolatore →negativo o positivo di
intensità moderata – morale →intensamente positivo
Combinandoli insieme Etzoni trova tre casi congruenti di autorità e altri casi
incongruenti o misti . I casi congruenti di autorità sono:
• potere coercitivo + orientamento alienato →autorità e organizzazioni coercitive
• potere remunerativo + orientamento calcolatore →autorità e organizzazioni utilitarie • potere
normativo + orientamento morale →autorità e organizzazioni normative
Coleman, invece, distingue tra sistemi di autorità congiunti e disgiunti:
– sistemi di autorità congiunti →i sottoposti si aspettano dei benefici intrinseci dal suo
esercizio – sistemi di autorità disgiunti →sottoposti accettano l'autorità per ottenere vantaggi
estrinseci (es. salario). Coleman distingue anche tra sistemi di autorità semplici e complessi:
– sistemi di autorità semplici → l'autorità è esercitata dal suo detentore. – sistemi di autorità
complessi → l'autorità è esercitata da agenti delegati dal detentore.
L'autorità è quindi definita come un potere stabilizzato, continuativo nel tempo, ai quali i
sottoposti presentano un'obbedienza incondizionata.
Recentemente, il politologo Eckstein, ha identificato la politica nelle strutture di autorità ( insieme
di relazioni asimmetriche tra membri di un'unità sociale ordinati gerarchicamente che ha per
oggetto la guida dell'unità sociale stessa). Ogni autorità stabilizzata si è formata in un determinato
lasso di tempo, sorgendo da principio come un'autorità emergente e diventando via via sempre
più solida. Di conseguenza, ci sono spesso aspri conflitti tra autorità emergente e autorità
stabilizzata.
Autorità come potere legittimo
La più comune definizione di autorità, dato che la prima è troppo larga, prevede che soltanto il
potere stabilizzato in cui la disposizione a obbedire in modo incondizionato è basata sopra la
credenza nella legittimità del potere, sia autorità  potere legittimo, che presuppone un giudizio
di valore positivo da parte degli individui che partecipano alla relazione, nei confronti del potere.
La valutazione positiva può riguardare diversi aspetti del potere: il contenuto del comando, la
fonte dalla quale esso proviene, il giudizio di valore che fonda la credenza nella legittimità. Si
forma quindi la convinzione che può essere o meno formalizzata in un ordinamento scritto, che chi
comanda ha il diritto di farlo e chi obbedisce ha il dovere di farlo. Queste convinzioni possono
ancorarsi alla tipica doverosità della sfera etica ma anche ad una semplice opportunità pratica che
riguarda un’autorità con una particolare competenza. Weber ha distinto tra legittimità
tradizionale, carismatica e legale-razionale, ma noi ne potremmo aggiungere una terza che si basa
sulla credenza nella capacità di un certo gruppo di trasformare il corpo sociale nel futuro.
Guglielmo Ferrero distinse invece tra 4 principi di legittimità: principio democratico, elettivo,
aristocratico-monarchico, ereditario  si dividono in due coppie solitamente; tuttavia la
democrazia diretta rifiuta l’elettività e talvolta il principio aristocratico-monarchico può accordarsi
a quello elettivo (es Papa).
Carlo Friedrich divide invece tra: legittimità religiosa, legittimità giuridica o filosofica, legittimità
tradizionale, legittimità procedurale o pragmatica (basata su rendimento e successo). Il fatto che
l’autorità abbia la legittimità come fonte, equivale a sottolineare che l’autorità è un rapporto
stabilizzato, che non si esaurisce in unico esercizio di potere, ma che ha continuità: una volta
accettata l’autorità di A, B tende ad adottare come criteri del proprio comportamento tutti i
messaggi che gli provengono da A, entro la sfera di attività, più o meno ampia, entro alla quale
l’autorità si esaurisce. Tuttavia per quanto il periodo di tempo per cui l’autorità è affermata possa
essere lungo, non è mai illimitato, ed è quindi necessario di tanto in tanto riaffermare quella
qualità della fonte del potere alla quale è attribuito il valore che fonda la legittimità (Weber parla
di prova del carisma)  prova d’autorità, essenziale nel dinamismo di essa.
L’autorità come fonte del potere
Carl Friedrich vede nell’autorità non una specie ma una fonte di potere: infatti egli ritiene che
l’autorità sia la capacità di un uomo di trasmetter ad altri comunicazioni suscettibili di una
elaborazione ragionata (in termini di credenze e valori condivisi). Stoppino ritiene che dal punto di
vista empirico non ci possa limitare rigorosamente ad una semplice qualità di comunicazione 
infatti la suscettibilità di una elaborazione ragionata deve essere attribuita alla capacità di chi
trasmette la comunicazione e soprattutto il riconoscimento che di tale capacità fanno i destinatari
della comunicazione stessa. Pertanto Friedrich semplicemente individua un particolare tipo di
rapporto di autorità che ha grande rilievo nel capo del potere sulle opinioni  fattore razionale
dell’autorità.
Efficacia e stabilità dell’autorità
Si può definire un rapporto “puro” di autorità, un rapporto di comando e obbedienza fondato
esclusivamente sulla credenza nella legittimità  molto raro, esiste di solito in certe relazioni
fondate su una particolare competenza. Di regola però la credenza nella legittimità, non è l’unico
fondamento del potere, ma soltanto una delle sue basi (vi è anche la possibilità di essere puniti o
premiati, la costrizione ecc.). Si tratterà allora di rapporti di potere che assumono soltanto in parte
e in diversa misura la forma dei rapporti di autorità. L’importanza peculiare della credenza nella
legittimità, consiste nel fatto che essa tende a conferire al potere efficacia e stabilità. Sia dal lato
dell’obbedienza ma anche del comando: il venir meno della fede di chi ritiene che il proprio potere
sia legittimo prelude al crollo di tale potere perché vengono meno alcuni caratteri come la
convinzione, che contribuiscono alla sua efficacia. Inoltre la credenza nella legittimità a un effetto
rilevante sulla coesione tra gli individui che detengono il potere  più fede nella sua legittimità,
meno scontri interni, governi più efficaci e stabili. Dal lato dell’obbedienza, nel grado in cui essa si
converte in un senso di dovere, la relazione di potere assume più efficacia e i comandi vengono
eseguiti senza ricorso ad altri mezzi. Tuttavia la credenza nella legittimità non sempre implica
un’effettiva obbedienza: posso pensare che mio padre abbia un potere legittimo su di me ma non
obbedirgli lo stesso  la legittimità, per diventare autorità, richiede un’accettazione pratica.
Quanto più è diffusa la credenza nella legittimità del potere, tanto maggiore tenderà ad essere la
disposizione ad obbedire, anche perché quando un potere è largamente ritenuto legittimo, chi non
si conforma può essere soggetto a varie pressioni (si pensi agli atei che si sposano in chiesa).
Ambiguità dell’autorità: quando genera violenza e la falsa autorità
Tra la credenza nella legittimità e altre basi del potere, possono intercorrere rapporti significativi,
che alterano la portata autonoma di tale credenza, conferendo all’autorità un carattere di
peculiarità. Vi sono due tipi di credenze diverse: che la legittimità derivi dall’effettività del potere e
che l’effettività del potere derivi dalla legittimità. Questa contrapposizione può essere ricondotta
ad una più generica sui rapporti sociali: l’una che ne vede il fondamento nei fattori materiali, l’altra
in quelli ideali. La scienza politica rifiuta entrambe le concezioni, in quanto esse sono riduzionismi
assoluti  spesso le relazioni di potere sono fondate su entrambi i fattori. Quindi la credenza nella
legittimità è una delle basi del potere ed è una base reale, nel senso che non è sempre una pura
conseguenza dell’effettività del potere. Per esempio la violenza può essere una conseguenza della
credenza nella legittimità, e in questo caso è ritenuta positiva e chi la ritiene legittima collabora
positivamente o meno al suo impiego. Possiamo vedere anche storicamente questa relazione tra
legittimità e violenza, negli stermini in Germania e Russia per esempio. Il secondo tipo di nesso
riguarda invece la violenza che genera la credenza nella legittimità (es figlio che dipende
economicamente e dalla forza del padre).
Cosa è la falsa autorità? Può essere sia l’inganno nei confronti di altri (la falsa manifestazione di
una credenza), ma anche l’auto-inganno  la falsa coscienza, che è il nucleo centrale del concetto
marxista di ideologia. Poiché la credenza nella legittimità riguarda il fondamento del potere, il suo
carattere ideologico consiste nel fatto che il principio di legittimità nasconde la vera base del
potere. Tale formazione mentale corrisponde al bisogno sociale che gli uomini hanno di
comandare e sentirsi comandati non solo alla forza materiale o economica, ma anche in base a
principi morali  uno schiavo assoggettato al padrone si convince che sia giusto così, anche per
evitare ostilità e sentimento di odio. È importante sottolineare che il concetto di ideologia vieni qui
usato in senso avalutativo, come un carattere empiricamente rilevabile della funzione motivante
delle credenze che interpretano e giustificano il potere. Indicatori del carattere ideologico della
credenza nella legittimità di un certo potere, possono essere l’impiego o la minaccia della forza
oppure la preponderanza stabile quanto a forza o strumenti materiali in favore dei detentori di
potere, anche se non messi in atto. Accertare se e in quale grado la credenza nella legittimità del
potere ideologico è molto importante: se il grado è alto si parla di falsa autorità, che quindi porta
anche ad una minore stabilità del potere che viene a cadere appena cessa di esistere la
preponderanza della forza.
Le ambiguità dell’autorità: l’autorità apparente e l’autoritarismo
Può accadere che la credenza nella legittimità sia presente solo da un lato della relazione di
potere.
Cominciamo dal caso in cui il potere è riconosciuto legittimo soltanto da chi vi è sottoposto: in
questo caso continua a sussistere una forma di autorità, seppur attenuata, infatti c’è più autorità
se è chi obbedisce a credere alla legittimità rispetto che se fosse chi comanda  la legittimità è il
fondamento del rapporto e A, se vuole mantenere il potere su questa base deve solo mostrare di
credere in essa  tuttavia l’efficacia e la stabilità del potere sono indebolite.
Caso in cui il titolar del potere creduto legittimo non detiene del potere effettivo  su questo caso
ha studiato Lasswell che considera l’autorità potere formale e non per forza effettivo. comandi che
vengono obbediti incondizionatamente, provengono formalmente dal titolare del potere creduto
legittimo, ma in realtà i comandi sono imputabili a centri di volontà che si mantengono nell'ombra.
Vi è autorità apparente quando il titolare di una certa autorità non ha il potere che in apparenza
esercita nel rapporto di autorità. Infatti, le relazioni di autorità possono essere circondate da altre
relazioni di potere e il titolare dell'autorità può essere condizionato da altri rapporti di potere.
Consideriamo infine il caso in cui la credenza nella legittimità del potere è presente solo nel lato
del comando: non è autorità, perché l’obbedienza che segue non è fondata su legittimità 
autoritarismo, le decisioni sono prese dall’alto senza il consenso dei subordinati: la situazione si
accentua se il detentore ricorre alla forza o altri mezzi di potere per ottenere obbedienza. La
caduta della credenza nella legittimità può verificarsi sia perché i sottoposti non credono più che la
fonte di potere abbia le qualità che prima gli attribuivano, sia perché i subordinati abbandonano il
vecchio principio di legittimità, abbracciandone uno nuovo (es. studenti nel ’68 con la scuola, figli
con i genitori durante l’adolescenza, processi di indipendenza di vari stati).

5-Una classificazione formale del potere


Premessa
Per potere si intende qualsiasi rapporto di causazione sociale intenzionale o interessata, dove A
tiene un comportamento causante e B un comportamento conseguente: la condotta può essere
libera o meno, attuale o potenziale. Si parla di classificazione formale perché poggia sopra criteri
distintivi che concernono le forme delle relazioni potestative e non la loro sostanza. Il primo
criterio di classificazione riguarda un’importante modalità del rapporto tra A che esercita il potere
e B che lo subisce (potere aperto// nascosto). Il secondo criterio concerne lo specifico oggetto
presso B dell’intervento mediante il quale A esercita potere  quadripartizione tra forme di
potere che intervengono su: alternative di comportamento, conoscenze di fatto e credenze di
valore, dinamismi piscologici inconsci , situazione ambientale. Infine, il terzo criterio classificatorio
riguarda la dimensione soggettiva dell’intervento di A, ossia l’orientamento che accompagna il
comportamento dell’attore che esercita potere.
La manipolazione
Potere nascosto: qualsiasi relazione di potere in cui A cerca di nascondere a B il proprio esercizio di
potere (importante che sia un proposito deliberato), e B effettivamente rimane inconsapevole. 
di solito è chiamato manipolazione. Se A non ha l’intenzione di nascondere il potere è
condizionamento, può avvenire anche che A non abbia nemmeno l’intenzione di esercitare il
potere di B (causazione sociale interessata). La manipolazione è un rapporto caratterizzato dallo
scarto marcato tra il carattere attivo e intenzionale dell’intervento del manipolatore e quello
passivo e inconsapevole della condotta del manipolato. La manipolazione è sempre causazione
intenzionale (mai interessata). Una tipologia della manipolazione è possibile in base al criterio che
discrimina l’oggetto dell’intervento di A  intervenire anteriormente sulle condizioni che
contribuiscono a modellare le alternative di comportamento: o sulle conoscenze di fatto e
credenze di valore, o sull’ambiente sociale o sui dinamismi psicologici inconsci.
1- Manipolazione dell’informazione
Si tratta delle conoscenze di fatto (orizzonte fattuale) e delle credenze di valore (orizzonte
valoriale) e dei rapporti che intercorrono tra esse. La manipolazione dell’informazione distorce e
sopprime di nascosto le comunicazioni che l’attore riceve che possono riguardare sia conoscenze
di fatto, sia le credenze di valore.  la più semplice è la menzogna. L’importanza di essa in politica
è stata rilevata da Platone e Macchiavelli, molto presente in governi totalitari ma non solo. La
seconda tecnica di manipolazione informatica è la soppressione dell’informazione, che di per se
non comporta menzogna; in questo caso si opera mediante restringimento della base delle
conoscenze e quindi restringimento delle alternative di scelta  infatti questa tecnica ha spesso
come scopo quello di inibire l’opposizione potenziale (censura). La terza tecnica è l’eccesso di
informazione l’emissione incessante di informazioni può saturare a tal punto la capacità di
recezione e valutazione del destinatario da portarlo all’indifferenza e al ritiro in interessi privati.
Una quarta forma può verificarsi a scuola, quando l’insegnamento diviene indottrinamento:
pericolosa perché i giovani sono plasmabili e vulnerabili  scuola come apparato dell’ideologia
dominante  tesi eccessiva, ma è importante distinguere tra insegnamento volto a far
comprendere e quello diretto a far credere: è questo il caso dell’indottrinamento, sia esso
conformista o settario; in questo caso vi è uso di tecniche di distorsione e soppressione.
La condizione che influenza nel modo più decisivo il grado dell’efficacia della manipolazione
dell’informazione è il regime nel quale opera l’emittente: se esista cioè un monopolio
dell’informazione o un pluralismo.
2- La manipolazione psicologica
Opera sui meccanismi psicologici inconsci, che influenzano le scelte comportamentali degli attori
 B compie un’azione da lui stesso scelta, ma la scelta di B a sua insaputa è determinata da A per
mezzo del controllo che egli esercita sui dinamismi psicologici di B. L’efficacia di questa
manipolazione è ricondotta anche al fatto che ci sono simboli e immagini che hanno forte capacità
di richiamo sopra gli impulsi emotivi degli uomini  il manipolatore associa continuamente un
simbolo all’oggetto sociale su cui intende convogliare l’impulso emotivo, fino a quando il
collegamento diventa automatico con riflesso condizionato (pubblicità subliminale). L’appello
diretto agli impulsi emotivi inconsci è molto efficace quando applicato a una folla di persone, dove
l’autocontrollo razionale si indebolisce e si forma un controllo emotivo  tecnica usata da
agitatori politici anche attraverso slogan o gesti emblematici.  tecnica portata a grado elevato
durante i regimi totalitari. Una forma particolarmente intensa e prolungata di questa
manipolazione è il lavaggio del cervello, ovvero la disintegrazione dell’intero sistema di valori
acquisito dal soggetto (tecniche usate per ottenere confessioni o rieducazione  casi di massicci
interventi fisici come tortura e isolamento e inibizione ad oltranza dei riflessi acquisiti e
dell’identità). La spossatezza fisica e mentale portano il soggetto ad una disintegrazione della
personalità e stato di paura e angoscia.
3- Manipolazione situazionale
Opera sulla situazione ambientale, ovvero il contesto sociale in cui B è collocato, ovvero una
configurazione di attori, una distribuzione di risorse sociali e di credenze e disposizioni ad agire. Le
condizioni esterne che definiscono l’ambiente sociale contribuiscono ordinariamente a plasmare le
alternative del nostro attore. Un esempio è l’intervento sulle disposizioni ad agire degli attori di un
dato ambiente, come quando i genitori dicono ai parenti di avere un certo atteggiamento con il
figlio. Il caso più semplice di manipolazione situazionale è il conseguimento e mantenimento, in
segreto del monopolio di un certo tipo di risorse. A che ha il monopolio di certe risorse può
guidare la condotta di B che ha bisogno di esse. Questa manipolazione si adatta meglio a contesti
sociali limitati, infatti nei contesti sociali globali è più facile individuare forme aperte di
condizionamento.
Il potere aperto
A non cerca di celare il suo esercizio di potere a B, che ne è consapevole. La forma più aperta è
quando A chiede esplicitamente a B di tenere un dato comportamento. Ma è anche aperto il tipo
di potere del condizionamento in cui A interviene palesemente sull’ambiente di B, oppure potere
interessato come le reazioni previste o l’imitazione in cui manca il proposito di A di esercitare
potere. Oppure le relazioni in cui B è inconsapevole di essere soggetto al potere di A.
Sottolineiamo che si fa riferimento a nascosto/ aperto parlando solo di A e B e non osservatori
esterni, infatti alcune relazioni aperte possono essere invisibili a terzi. La cosa cambia solo se la
tattica di celamento verso terzi è parte di una strategia per instaurare un potere nascosto su C e D.
Anche del potere aperto si può costruire una classificazione in base al criterio che discrimina
l’oggetto dell’intervento di A; qui però il tipo di intervento che resta precluso sono i dinamismi
psicologici inconsci (escluso caso di terapie psicoanalitiche)
Situa ambientale Dinamismi psico Conoscenze di fatto e Alternative di comportamento
inconsci credenze di valore
Potere Manipolazione Manipolazione Manipolazione -
nascosto situazionale psicologica dell’informazione
Potere aperto Condizionamento - Persuasione Remunerazione, costrizione
intenzionale
Potere aperto Condizionamento - Imitazione Reazioni previste
interessato interessato
Per ciò che riguarda il potere aperto bisogna introdurre un’altra distinzione che riguarda la
dimensione cognitiva : forme intenzionali/ forme soltanto interessate.
1-Remunerazione e costrizione
Intervenire sulle alternative di comportamento significa alterare le valutazioni dei costi e benefici
cui l’attore subordina la selezione della condotta da seguire, immettendo direttamente
dall’esterno nuovi elementi come punizioni o compensi. Sia le remunerazione, sia la costrizione,
consistono nell’impiego di sanzioni positive o negative che modificano il valore relativo delle
alternative di comportamento. Il calcolo comparativo costi-benefici viene alterato accrescendo i
costi o i benefici di uno o più corsi di azione  A può accrescere i benefici di un’opzione oppure i
costi di tutte le altre. Remunerazione e costrizione sono le due forme di potere più diffuse nelle
relazioni sociali (ricompense economiche, religiose, morali, violenza e perfino scambio o ritiro di
affetto)
2-Le reazioni previste
B tiene un comportamento, desiderato da A, senza che A esprima l’intenzione di ottenerlo, ma
perché B prevede che A eviterà reazioni spiacevoli o avrà reazioni piacevoli. Due sono le condizioni
perché questo meccanismo sia definibile potere: la previsione di B deve essere causata da un
precedente comportamento x di A dal quale B ricava realisticamente le possibilità e che il
comportamento x di A, sia associato ad un interesse di A. Quindi il rapporto delle reazioni previste
è la versione interessata della remunerazione e costrizione  nella ricerca empirica è spesso
difficile distinguere i due casi.
3-Persuasione
È una forma di potere aperto che agisce sulle conoscenze di fatto e credenze di valore 
convincere e persuadere B mediante rettifiche del suo orizzonte fattuale/valoriale. La persuasione
è definita come un rapporto nel quale A determina la condotta di B modificando le conoscenze di
fatto e/o credenze di valore che plasmano tale condotta, per mezzi di argomentazioni aperte, che
non contengono ne ricompense ne minacce (bisogna stare attenti, perché è facile che A se vuole
molto la data condotta di B, ricorra anche a queste, inoltre sia persuasione che sanzioni vengono
manifestate attraverso la comunicazione), le argomentazioni sono il cuore della strategia, esse
possono contenere ragionamenti sui fatti, incluse evidenze e prove o invocazioni di doveri o
sentimenti. A volte può sussistere uno sfondo di costrizione o remunerazione che risied nel fatto
che tra i due attori esiste una relazione più o meno continuativa di scambio sociale. La linea di
confine è sottile anche nei confronti della manipolazione: entrambe adoperano le comunicazioni
simboliche, e nei messaggi persuasivi che A indirizza a B ci possono essere distorsioni di
informazioni e in questo caso diventa manipolazione.
4-L’imitazione
L’oggetto sopra il quale l’imitazione opera è circoscritto alle credenze, agli interessi, agli stili di vita,
alle conoscenze, alle capacità…. Insomma agli orizzonti fattuali e valoriali dell’attore. Inoltre
l’imitato deve avere un interesse ad esserlo, se invece che interesse è una vera e propria
intenzione il rapporto si converte in una forma di persuasione. Quindi l’imitazione è la versione
soltanto interessata della persuasione, è una persuasione fatta di esempi. L’imitazione è un forte
canale di trasmissione di orientamenti (es. diffusione di imitazione sociale tra generazioni). I tipi
più intensi di comunicazione sono quelli in cui il odello esibisce un impegno serio e profondo e
felice dell’imitato.
5-Condizionamento
Forma di potere aperto che agisce in modo intenzionale sulla situazione ambientale: questo tipo di
potere ha un carattere spiccatamente indiretto  però le condizioni ambientali influenzano
direttamente l’attore. Tuttavia notiamo che A per modificare l’ambiente di B può ricorrere ad altre
forme di potere come la remunerazione o manipolazione su D, C, E ecc, però su B avrà esercitato
condizionamento. Si potrebbe pensar che questo metodo di potere sia debole, perché prevede
una concatenazione di troppi fattori, e questo è vero, perché gli attori sociali possono reagire in
vari modi ai condizionamenti ambientali, ma ciò non toglie che il condizionamento abbia molta
importanza nelle relazioni sociali  infatti l’uomo è un animale sociale che dipende molto dal suo
ambiente, e per perseguire i suoi scopi ha bisogno di risorse e di altri attori da ricercare appunto
nel suo ambiente sociale. Una determinata configurazione sociale rappresenta vincoli e
opportunità  perciò la reazione degli attori ai mutamenti ambientali è un fenomeno costante e
generale della vita sociale. Dunque il suo carattere indiretto non rimpicciolisce l’importanza del
condizionamento nelle relazioni sociali. Soprattutto la mappa della distribuzione delle risorse
sociali struttura gli orientamenti ad agire degli attori, a seconda della loro specifica collocazione, e
ogni strategia di alterazione o conservazione della distribuzione di tali risorse è condizionamento.
6-Condizionamento interessato
Il condizionamento interessato è l’equivalente solo interessato del condizionamento: la condotta
risultante di B è causata dal cambiamento delle condizioni ambientali provocato da A, senza che A
avesse lo scopo deliberato di ottenere quella condotta, ma che tale condotta aiuti tuttavia certi
risultati presenti nel suo orientamento soggettivo. In questo caso è molto arduo distinguere tra
condizionamento interessato e normale: infatti in entrambi una richiesta esplicita di A a B è
assente, e spesso l’intervento sull’ambiente può essere il medesimo. È facile che si verifichi un
“prolungamento interessato” del condizionamento, ovvero ulteriori effetti non previsti ma
favorevoli.
6- Potere, scambio e dominio
La classificazione formale riguarda gli aspetti procedurali della relazione di potere, mentre quella
sostantiva riguarda la sua sostanza, il concreto campo sociale in cui opera. Questo punto di vista
assume come criterio tipologico la classe delle risorse sociali sopra le quali il potere si fonda, che
possono essere violente o distruttive, economiche e simboliche  da qui le tre categorie che
hanno da sempre caratterizzato la storia (guerrieri, padroni, sacerdoti):
 Potere coercitivo: per strumenti di violenza si intende l’insieme di strumenti materiali di
offesa e difesa e delle tecniche di impiego di essi. I valori in gioco concernano l’integrità
fisica e la possibilità di usare liberamenti strumenti materiali  categoria generale della
sicurezza.
 Potere economico: per risorse economiche si intendono l’insieme di strumenti materiali di
produzione di beni e servizi, dei lavoratori e delle tecniche  categoria generale del
benessere; dai beni di prima necessità al comfort.
 Potere simbolico: poggia su risorse simboliche capaci di produrre valori etici, religiosi (es
salvezza dell’anima) e politici (es gloria dell’impegno politico), ma anche l’onore sociale (es
rango di classe sociale)  categoria generale dell’identità etico-sociale. Le risorse
simboliche usano sia strumenti, sia uomini, sia tecniche di impiego ma soprattutto
credenze.
Le tre forme sostantive del potere hanno in comune il fatto di operare generalmente tramite
remunerazione/costrizione. Violenza- coercizione, risorse economiche-remunerazione, e anche le
risorse simboliche sono oggetto di erogazione o di ritiro di erogazione. Quindi la remunerazione e
costrizione costituiscono la parte cruciale dei rapporti di potere in una società, mentre le altre
forme di potere intenzionale sono usate di solito come rinforzo.
Lo scambio di vantaggi e il dominio economico
Il possesso di risorse economiche e simboliche si traduce in disponibilità di benefici positivi ch si
possono impiegare nelle relazioni di potere. La remunerazione economica può essere rcondotta a
uno scambio di potere fondato sull’erogazione di vantaggi emergenti. Questo perché un rapporto
di remunerazione è sempre un rapporto di scambio A ottiene benefici dal comportamento di B che
ottiene benefici dalla ricompensa di A (es. banale la compravendita). Tuttavia lo scambio
economico non è sempre uno scambio uguale, può essere che ci sia una disuguaglianza di risorse e
potere economico tra gli attori  la disuguaglianza sta nel divario della forza strategica delle
risorse economiche di A e B (combinazione tra il grado di controllo della risorsa e grado di salienza
che gli altri attori vi attribuiscono). Tanto più il divario è grande tanto più la relazione remunerativa
diventa costrizione  condizione di rispettiva dipendenza/ dominio. La base dell’interazione non è
più promessa di benefici reciproci ma minaccia di vantaggi cessanti (tutte le forme di riduzione dei
compensi e multe). Di tali punizioni la più drastica è l’espulsione, ossia il ritiro ultimativo dei
vantaggi (es. licenziamento). La posizione di dominio consente ad un attore di chiedere molto di
più di quanto sia disposto a dare. Condizioni di dominio economico:
1-Le risorse economiche di A sono salienti per B
2-A detiene il monopolio delle risorse economiche salienti per B (B non deve avere alternative)
3-B è privo di risorse economiche salienti per A (sennò la disuguaglianza viene meno)
4-B è nell’impossibilità di ricorrere a violenza o coercizione contro A.
Quali sono le strategie di emancipazione che B può adottare
1-Alla salienza delle risorse di A è possibile contrapporre una ridefinizione della propria scala di
valori (es. creazione di dottrine religiose e politiche tese alla demistificazione di un potere sociale).
2-Contro il monopolo della controparte è possibile contrapporre la ricerca di surrogati.
3-Al vincolo costituito dalla mancata disponibilità di risorse salienti per la controparte si può
contrapporre la creatività, inventando nuove risorse (es lavoro qualificato, ovvero abilità speciali e
ricercate oppure esempio dei sindacati che si sono contrapposti agli imprenditori).
Concludendo tutte le relazioni di potere sono collocate su un continuum che ha ai due poli estremi
il modello puro dello scambio di vantaggi (perfetta uguaglianza) e il modello assoluto dominio-
dipendenza (reciprocità ridotta ai minimi termini). Possiamo contrapporre al rapporto di
dipendenza quello di interdipendenza, che contraddistingue entrambi gli attori in gioco nelle
relazioni in cui prevalgono uguaglianza di risorse e remunerazioni. Vi è poi la condizione di
indipendenza, ossia autosufficienza in relazione alle risorse economiche.
Bisogna infine sottolineare che nelle situazioni sociali la grandezza dei poteri reciproci dipende
anche dalla percezione degli attori dell’importanza delle risorse rispettivamente detenute 
perciò una delle tattiche di contrattazione è sminuire le risorse della controparte e ingrandire le
nostre.
Lo scambio di sicurezza e il dominio coercitivo
Le risorse di violenza implicano sempre una relazione di costrizione, producendo danni. Infatti il
potere costrittivo si configura come inflizione di danni emergenti. La violenza costituisce la
sanzione negativa di efficacia più intensa, questo anche perché il suo potenziale di influenza
rimane grande, qualunque sia l’ambito in cui viene giocato il rapporto di potere: l’integrità fisica è
un bene fondamentale, senza il quale è impossibile proseguire altri valori, solo nelle situazioni in
cui la componente simbolica o la dipendenza economica sono molto accentuate la violenza risulta
inefficace (però l’umiliazione morale o la già nominata espulsione sono forme di violenza).
La violenza può dimostrarsi rilevante anche quando gli attori sociali non sono implicati in prima
persona nel rapporto di coercizione  violenza protettiva in cui l’intervento di A su B è volto alla
protezione di C.
Un’ulteriore differenza tra relazione costrittiva in senso economico o simbolico e la violenza è che
nel primo caso esiste sempre una dose seppur minima di scambio di vantaggi reciproci, mentre nel
secondo caso si ha solo un’inflizione unilaterale dei danni emergenti. Ne segue che B si sottomette
senza ricevere vantaggi e si crea un rapporto di soggezione e dominio coercitivo. La differenza con
il rapporto di dominio- dipendenza è che qui B è colpito da vantaggi cessanti, mentre nel
precedente da danni emergenti. Condizioni dell’esistenza del dominio coercitivo:
1-Salienza per B delle risorse detenute da A: le risorse distruttive tendono ad essere salienti in
quanto tali. La disuguaglianza in materia di risorse distruttive tende a trasformarsi in dominio.
Anche la tattica di emancipazione corrispondente ad una ridefinizione della propria scala di valori
(che corrisponde al martirio) viene meno, soprattutto nel caso in cui la violenza sia economica.
2-Monopolio di A delle risorse salienti per B: questa condizione riguarda armi, armati e tecniche di
impiego. Se il monopolio viene meno e anche C e D esercitano coercizione su B, la posizione di A
peggiora ma quella di B non migliora e potrebbe anzi peggiorare, rendendolo soggetto a una
sequenza di violenze. La tecnica di emancipazione corrispondente alla ricerca di surrogati è
completamente inapplicabile poiché la surrogazione di risorse distruttive porterebbe comunque
danno.
3-B non possiede risorse, dello stesso tipo di quelle di A, salienti per A: in caso contrario la
situazione sarebbe equilibrata  tale situazione non porterà però a vantaggi positivi ma genererà
uno stato di intersoggezione che può sfociare in combattimento oppure in un equilibrio delle
minacce, ovvero uno scambio di sicurezza per cui i due attori non esercitano violenza reciproca per
paura di un contrattacco. Quest’ultima situazione porta a benefici (danni cessanti)  caso di
rapporti di pace ma anche situazione durante la guerra fredda. Qui la tattica di emancipazione
della creatività è possibile, grazie a nuove tecnologie per esempio.
4-Impossibilità di B di far ricorso a beni economici particolarmente salienti per A. Questa è una
situazione particolare, perché per B potrebbe non essere vantaggioso far vedere ad A di avere
queste risorse (infatti i ricchi sono quelli più esposti alle rapine). Tuttavia ci sono dei casi in cui non
solo B ha delle risorse, ma ha anche la possibilità per assicurare l’erogazione continuativa di esse.
In questo caso A può avere interesse ad instaurare un rapporto stabilizzato con B
(è più conveniente tosare la pecora che ucciderla). Questo rapporto potrebbe creare vantaggi per
B: se A non è l’unico detentore di risorse coercitive, B potrebbe ricevere una protezione da
quest’ultimo  quindi anche attraverso le risorse distruttive è possibile pervenire ad una
interazione vantaggiosa completamente.
Ultima situazione è quella di non-soggezione in cui la condizione di una attore è di invulnerabilità
agli atti di violenza degli attori in gioco.
Lo scambio di riconoscimento e il dominio simbolico
Da una parte risorse economiche e simboliche sono simili perché entrambe portano benefici
positivi, in particolare le seconde conferiscono un’identità etico sociale, l’identificazione con un
gruppo. D’altra parte la grossa differenza è che quelle economiche definiscono un campo dove
prevalgono gli interessi, quelle simboliche dove prevalgono le passioni. Le risorse simboliche
rimandano in ultima analisi a credenze degli attori coinvolti per loro natura, mentre quelle
economiche o distruttive basta saperle usare. Da ciò segue che il bene dell’identità etico-sociale
presuppone sempre l’esistenza di una dottrina religiosa, politica o sociale, cui nucleo risiede nella
raffigurazione-avvaloramento di un gruppo sociale. Una parte cospicua di questa identità dipende
dal riconoscimento pubblico, dall’identificazione dell’attore con il gruppo avvalorato. Bisogna
sviscerare in due parti l’identità: quella etica e quella sociale.
Con identità etica, si intendono i valori morali dell’uomo: essa può essere ricondotta a due temi
principali, il sacrificio e la genuinità. Tanto più i precetti morali della dottrina sono elevati, tanto
più il perseguimento dell’identità etica richiede il sacrificio di valori meno elevati, in particolare il
benessere e la sicurezza e quindi comporta autodisciplina. Perché si verifichi l’identità etica è
necessaria la genuinità: si può tenere anche una condotta insincera, ma scompare l’esperienza
morale; la genuinità dell’esperienza comporta anche che essa sia libera  per questo l’erogazione
di benefici simbolici estorta con la violenza perde il proprio valore (es. corruzione politica). Questo
non vuol dire che non debbano esserci scambi tra risorse simboliche e economiche o distruttive,
ma questi scambi devono essere indiretti, forma di atti reciproci e indipendenti di donazione,
motivati in modo simbolico.
Passiamo all’identità sociale: si parla di essa perché la qualità etica non viene riconosciuta al
singolo attore in quanto tale ma in quanto membro di una comunità. Sono gruppi simbolici i
partiti, le chiese, le sette e la stessa famiglia. I temi che compongono la componente sociale sono
la comunione (delle credenze e dei valori) e il riconoscimento. La comunione porta con se varie
caratteristiche intrinseche:
1-Carattere intrinseco dei benefici dei seguaci: i benefici simbolici sono intrinseci, ovvero
conseguenza diretta del perseguimento di scopi simbolici.
2-Carattere intrinseco del fondamento del potere dei capi: tale fondamento poggia sulla loro
capacità di impersonare e produrre beni simbolici intrinseci.
3-I beni simbolici sono beni comuni: non sono beni individuali che il singolo può tenere per se, e
neppure beni pubblici da cui godimento nessun attore può essere escluso.
Veniamo alla modalità fondamentale mediante cui si gode dell’identità etico-sociale: il
riconoscimento. Il primo è operato dal capo nei confronti dei seguaci  congiunta identificazione
in un noi collettivo. Il riconoscimento pubblico ha grande valore perché da esso dipende
l’acquisizione di un proprio posto nel mondo  di qui grande solennità delle cerimonie. Un
secondo riconoscimento è la dignità etico-sociale dei capi da parte dei seguaci  scambio
reciproco. In terzo luogo vi è il riconoscimento latente che si scambiano i seguaci, che tende a
produrre un’eguaglianza simbolica (anche con epiteti come fratello, compagno). Quindi nelle
relazioni simboliche vi è sempre un certo grado di reciprocità. Tuttavia tra gli attori in gioco la
disuguaglianza della forza strategica delle risorse simboliche può essere tanto forte da dare luogo
ad una situazione di dominio  dominio simbolico, ecco le condizioni:
1-A detiene risorse simboliche salienti per B  (es controllo di una tradizione orale che si
tramandano i sacerdoti oppure funzioni simboliche attive come decidere i membri ecc). Più
intensa è per B la scala di valori di cui detiene le risorse A più A è saliente  dipendenza simbolica,
legata a tecniche di indottrinamento e trasmissione delle credenze. La tattica dell’emancipazione
qui deve contrastare con l’indottrinamento, e porta quindi ad una nuova identità simbolica.
2-A detiene il monopolio delle risorse simboliche salienti per B  il monopolio di queste risorse
viene acquisito mediante la credenza degli uomini, per questo è importante la propaganda. Inoltre
all’interno del gruppo si verifica di solito una lotta per l’ortodossia, che consente ad un capo di
acquistare controllo assoluto. Il monopolio è una condizione importante, perché in una società
simbolicamente pluralista il dominio simbolico viene meno (si può passare da un partito all’altro).
La tattica di emancipazione della ricerca di surrogati è stata spesso perseguita (eresie religiose che
si trasformano in nuove chiese).
3-B non detiene risorse simboliche salienti per A  B svolge come singolo una funzione passiva. Le
tattiche di emancipazione sono difficili da seguire: la creatività urta con le prerogative dei capi, e
quindi questa strategia sbocca probabilmente in un movimento ereticale. Anche la tattica di
organizzazione delle unità disperse è inefficace, in quanto contraddittorio.
4-B non ha accesso alla violenza nei confronti di A  in questo caso mentre la rapina non può
esistere in quanto non ci si può semplicemente appropriare delle risorse simboliche, può verificarsi
uno scambio tra l’erogazione continuativa di un riconoscimento simbolico e la salvaguardia della
sicurezza  scambio di legittimazione e di protezione. Vi può essere questo rapporto anche con le
risorse economiche  scambio di legittimazione e sostentamento. Anche nel caso delle risorse
economiche esistono interdipendenza, dipendenza e indipendenza.
Contrattazione, conflitto e cooperazione
La remunerazione e la costrizione, rappresentano un modo di perseguire i propri fini, ma tra l’uso
dei mezzi e il perseguimento di fini si interpone un’altra variabile: la conformità di un altro attore.
La conformità di B è la condizione sine qua non del potere di A. Tutti i beni che gli uomini cercano
di ottenere possono essere conseguiti per il tramite della collaborazione di un numero più o meno
vasto di altri attori, perciò gli uomini impiegano tante energie per ottenere il potere. È evidente
che entrambi gli attori della relazione cercheranno di fare valere reciprocamente le proprie risorse
in modo da conseguire un massimo di conformità da parte dell’altro attore, utilizzando un minimo
di risorse  mirano alla massimizzazione della ragione di scambio  su questa strategia poggia la
contrattazione, definita come un intercorso comunicativo tra attori sociali, nel quale ciascuno di
essi presenta minacce, promesse ed elaborazioni simboliche, con lo scopo di ottenere la ragione di
scambio più favorevole.  possono esserci anche persuasione e manipolazione. Una delle mosse
più ricorrenti è la minaccia di ritiro dei beni. E per questo la contrattazione è considerabile come
una relazione sociale che sconfina nel conflitto, laddove la comunicazione non risulti efficace. Il
conflitto servirà a provare: la reciproca capacità degli attori di resistere al ritiro dei vantaggi, la
reciproca capacità difensiva-distruttiva delle armi dei due attori, e talvolta anche della violenza.
Solo a questo punto sarà raggiunta la prova della maggior capacità di offesa e di difesa di una delle
parti (mosse di questo tipo sono in ambito economico gli scioperi, simbolico il ritiro del
riconoscimento e violento la guerra). Quindi il conflitto altro non è che la continuazione della
contrattazione con altri mezzi. Considerato invece indipendentemente dalla contrattazione il
conflitto è definibile come una relazione sociale tra almeno due attori in cui entrambi si infliggono
intenzionalmente dei mali. Se è solo un attore a infliggere i mali  azione conflittuale. Questi mali
possono essere sia danni emergenti (combattimento), sia vantaggi cessanti (confronto). Il
confronto può riguardare sia l’ambito economico, sia simbolico. 4 tipi di azioni conflittuali:
1-Ritiro della conformità: sciopero, serrata, ritiro di affetto, riconoscimento, ecc.
2-Ostruzione: impedimento della cooperazione tra altri attori sociali (occupazione di edifici o di vie
di comunicazione).
3-Violenza sulle cose (sabotaggio).
4-Violenza sulle persone (sequestro, reclusione, ferimento, omicidio).
Questi 4 tipi costituiscono un’escalation, in cui la violenza costituisce il gradino più alto.
Nozione di cooperazione sociale: qualsiasi relazione tra due o più attori, nella quale le azioni delle
parti sono reciprocamente e intenzionalmente vantaggiose. La cooperazione sociale è
scomponibile in tre componenti: compatibilità (scambio di sicurezza e no violenza),
complementarietà (ciascun attore contribuisce all’ottenimento di un beneficio dell’altro),
convergenza (due attori perseguono insieme un valore comune).

Capitolo 8- Che cos’è la politica


Introduzione
Si può definire la politica sulla base dell’individuazione del significato specifico dell'azione politica:
l'azione politica è individuabile senza far riferimento a ciò che sta intorno o è collegato al Governo,
ma solo in riferimento alla sua struttura prasseologica. L’azione politica in generale viene intesa
come azione razionale nel senso di razionalità strumentale, per Stoppino razionalità limitata di
Simon, (l'azione politica è logica e razionale). Secondo ciò, il potere è il concetto chiave per la
teoria politica perché il potere, o la conformità (che è l'altra faccia), costituisce lo scopo tipico
ideale dell'azione politica in quanto tale. Inoltre, il potere garantito (stabilizzato e generalizzato) è
lo scopo di tutte le azioni politiche, quindi il potere non è la posta in gioco, il potere e la lotta per il
potere sono lo scopo di tutte le azioni politiche e dei soggetti che non fanno parte dell'azione
politica. La politica intesa come lotta per il potere permette di analizzare i campi di azioni e di
relazioni politiche (arene) nei quali il potere garantito (ossia stabilizzato e generalizzato) è
ricercato, conteso, prodotto e distribuito: questi campi sono chiamati arene. Esse vanno distinte
tra arene politiche naturali (prive di governo) nelle quali il potere garantito distribuito ad ogni
attore dipende dalla forza strategica delle sue risorse sociali, e le arene politiche dotate di governo
(o monetarie) nelle quali il potere garantito distribuito ad ogni attore dipende anche dalla funzione
politica svolte da terzi (politici insediati in istituzioni).
L’azione politica: la ricerca della conformità garantita
Perché l’azione politica?
Immaginiamo una società in cui non vi sia politica, intesa come governo, tribunali e leggi. Un
campo sociale come questo, fatto di attori che cercano di esercitare potere sugli altri per ottenere
valori finali, ciascuno dei quali agisce in modo razionale e quindi cerca una ragione di scambio
favorevole, ciascuno dei quali ha risorse rilevanti, incluse quelle di violenza, ciascuno dei quali non
può isolarsi e rendersi indipendente dagli altri, si configura come un processo ininterrotto di
contrattazione e conflitto  stato di perenne incertezza (intesa come mutevolezza e
imprevedibilità delle ragioni di scambio) e insicurezza (nel senso di imprevedibilità del grado di
sicurezza fisica), situazione in cui ogni patto tra attori è precario.

Valori
A attore
R risorse (mezzo)
C Conformità
(mezzo) v (fine)

Ma qual è l’elemento chiave che rende instabili i valori, sia in termini di vantaggi, sia in termini di
integrità fisica? È la conformità dell’altro o degli altri attori, perché essa sarà indebolita o ritirata
nell’interrotto processo di contrattazione e conflitto. Se supponiamo che un attore non abbia
bisogno della conformità altrui per conseguire i propri valori, avremo allora un’azione economica
robinsoniana, dove la razionalità risiede nel miglior utilizzo delle risorse scarse per il
conseguimento di valori alternativi. In questo caso quanto egli può ottenere in termini di vantaggi,
impiegando la propria energia e i propri strumenti è per lui prevedibile e relativamente certo 
prevedibilità dei fini che deriva dal fatto che è l’attore stesso a controllare i mezzi.
Tuttavia è questa (non quella robinsoniana, ma quella precedente) condizione costitutiva dello
stato permanente e grave di incertezza e insicurezza a formare l’oggetto dell’azione politica
l’esigenza fondamentale diventa fermare la conformità degli attori, stabilizzarla, ed è questo lo
scopo dell’azione politica, essa spezza l’esercizio di potere che da A attraverso R e C arriva fino a V,
e si ferma in C. Vi è perciò una duplicazione della strategia razionale dell’attore, da una parte lo
schema rimane quello che culmina nei valori, dall’altra però questi valori possono essere
stabilizzati e resi sicuri se la conformità viene garantita in quanto tale. In tal modo la conformità da
mezzo diventa fine, ed è il fine dell’azione politica  conformità stabilizzata (nel tempo) e
generalizzata (tra tutti gli attori). Conformità e potere altro non sono che due facce della stessa
medaglia e quindi possiamo chiamare lo scopo dell’azione politica conformità garantita o potere
garantito. La duplicazione dell’azione dell’attore di cui parlavamo prima si ha tra azione politica x e
azione sociale y. Questo significa che la ricerca di conformità garantita stabilizza il potere e per
questa via stabilizza i valori finali che l’attore può ricavare dalla conformità degli altri; ovviamente
in ultima analisi il fine sono comunque i valori. Possiamo dire che l’azione x è un investimento di
potere mentre l’azione y è fruizione di potere per ottenere valori finali. Quando la conformità
fruita corrisponde con l’autorità la forma del conseguimento di valori finali passa dolo attraverso le
conformità dell’altro attore, senza un impiego di risorse; questo perché all’autorità coloro che
prestano obbedienza obbediscono in modo incondizionato, senza bisogno di altri mezzi (lo schema
diventa ACV).
L’azione politica: illustrazioni
Nella politica naturale il quantum di conformità garantita di un attore dipende dalla sua posizione
nella bilancia della forza strategica della risorse sociali, dal suo stock di risorse. Chiamiamo potenza
la capacità complessiva di offesa e di difesa, di remunerazione e costrizione dello stock di risorse
che sono a disposizione degli altri attori e dunque in politica naturale la ricerca di conformità
garantita è ricerca di potenza (avviene nelle relazioni interstatali).
Nella politica monetaria per un attore la conformità degli altri è garantita da un attore terzo dotato
di autorità politica. Tale garanzia ha la forma di una garanzia-diritto costituita di titoli che
permettono all’attore di far ricorso all’autorità garante. In questa situazione ricercare la
conformità garantita significa usare le proprie risorse per ottenere diritti e posizioni di autorità 
ricerca di diritti e posizioni di autorità.
Stoppino prende in considerazione 5 tipi di azione politica: quella in un’arena politica naturale di
un attore, quella anch’essa naturale di un detentore di dominio naturale (es signore feudale),
quella in una politica monetaria di lotta per il potere tra leader partitici, quella dei gruppi dirigenti
e di pressione ma non politici (chiesa, sindacati…) e infine quella degli attori che non sono
impegnati nella lotta politica e non sono né classe politica né classe dirigente ma solo membri della
partecipazione politica. Tutte queste azioni politiche, se analizzate, si risolvono in una ricerca alla
conformità garantita:
1-Corsa alla potenza: competizione per la potenza tra i vari stati. Infatti i rapporti tra stati sono
prevalentemente di contrattazione e conflitto. Negli stati premoderni possiamo dire che chi aveva
più terra aveva anche più potenza; e poi la corsa all’oro, alle materie prime, all’imperialismo 
tutte queste cose sono finalizzate al mantenimento o ingrandimento del proprio rango di potenza,
cioè la capacità stabilizzata di ottenere la collaborazione di altri governi.
2-La difesa del dominio: l’azione politica del dominante sta nella ricerca del mantenimento del
proprio rango di potenza, cioè nella difesa del monopolio della risorsa chiave (risorse sociali nei
confronti dei servi) che si traduce anche in una lotta di difesa della propria potenza verso l’esterno,
dagli altri signori feudali.
3-La lotta per il potere: la lotta tra i partiti è per conquistare e mantenere il potere politico, ovvero
i ruoli di governo, ovvero posizioni di autorità politica nei confronti delle quali la maggior parte dei
consociati avranno atteggiamento di conformità
4/5-Pressione sul potere e partecipazione politica: la pressione non ricerca il potere politico, bensì
dati contenuto delle decisioni politiche, riguarda il “che cosa”. Queste decisioni politiche, che siano
distributive, redistributive o regolative si traducono in diritti. A ogni diritto corrisponde la capacità
garantita di esercitare un’attività nei confronti della quale , in un’arena politica monetaria sono
schierate disposizioni stabilizzate alla conformità di tutti gli altri attori in gioco, almeno nel senso di
non-interferenza. Con partecipazione politica intendiamo le condotte nelle quali un attore utilizza
le proprie risorse di energia personale, di attivismo e di tempo in favore di una frazione politica o
in modo diretto, per esempio con proteste, per ottenere determinati contenuti di decisioni
politiche, che si traducono in diritti, che si traducono in condizioni di vita dei sudditi, ovvero
conformità garantite. In conclusione, ogni azione politica può essere ricondotta alla ricerca di
conformità garantita.
Produzione politica e arene politiche naturali
Il concetto di produzione politica differisce da quello di investimento di potere, in quanto non è
semplicemente ricerca di conformità garantita per sé, è invece l’incontro di una pluralità di
investimenti di potere, di azioni politiche da parte di attori diversi. Al contrario della produzione
economica, quella di garanzia di conformità politica implica una relazione tra almeno 2 attori.
Ecco i punti principali per una analisi della nozione di produzione politica:
1-La produzione politica è produzione di garanzia di cooperazione sociale: la rete di poteri garantiti
multilaterali per una pluralità di attori in un dato campo sociale, rende possibile per ogni attore la
previsione delle azioni degli altri e le conseguenze delle proprie azioni  ciò apre la possibilità di
intraprendere relazioni sociali rilevanti da cui ricavano vantaggi (cooperazione sociale). In questo
senso la produzione politica è produzione di garanzia di cooperazione: questa è la sua funzione
essenziale.
2-La produzione politica opera mediante ordinamenti vincolanti: la produzione politica involge
sempre un salto tra ciò che l’attore cerca e quanto viene messo in atto da essa e quindi richiede
ordinamenti vincolanti, ai quali i singoli attori non possono fuggire. Vi è effettiva produzione
politica solo quando tutti gli attori interessati non sono in grado di mettere in pericolo la
stabilizzazione della conformità di altri. Nelle arene politiche naturali gli ordinamenti vincolanti
sono messi in essere da accordi tra attori che stabilizzano quote rispettive di conformità garantita.
Quando le risorse rilevanti sono concentrate nelle mani di un singolo gli ordinamenti vincolanti
vengono stabiliti da lui. Quando c’è un governo sono stabiliti da decisioni collettive prese dai
governanti. Con collettive si intende che sono valide per tutti gli attori in gioco. La proprietà
collettiva in questo senso permette di chiarire la distinzione dall’ambito economico, in cui la
decisione presa è valida individualmente, non implica qualcosa di valido per gli altri attori.
3-La produzione politica è anche in se stessa distribuzione politica: la produzione politica in quanto
produzione di conformità garantita per una pluralità di attori, implica l’allocazione di una quota di
conformità garantita a ognuno di essi. L’atto di produzione è quindi un atto di distribuzione. Anche
qui vi è differenza con la produzione economica basata su una previsione di distribuzione, ovvero
la vendita, di cui non c’è garanzia (la distribuzione non dipende dalla produzione ma dal successo
nel mercato).
Nelle arene politiche dotate di governo, accanto e prima del processo politico normale, si deve
parlare di un processo politico costituente, nel quale si instaura una data forma di governo. Gli
ordinamenti vincolanti sono il frutto di patti e conflitti tra gli attori politici, conflitti che possono
essere confronti o combattimenti, che non ci sono nelle relazioni economiche dove si risolvono in
scambi o scambi mancati (per questo parliamo di arena e non di mercato). La prima e più
importante distinzione tra le arene è quella tra quelle politiche senza governo e quelle di governo
o monetarie. Nelle arene naturali quando non c’è un monopolio di risorse e quindi c’è una
dispersione di risorse, la decisione collettiva per mezzo della quale si dà produzione politica è un
patto esplicito o implicito (che avvengono anche tra attori con disuguaglianza di risorse). Qualora
ci sia un monopolio delle risorse, l’ordinamento vincolante è frutto di una decisione individuale del
monopolista, questo tipo di arena è chiamato dominio naturale e costituisce in un certo senso
un’antecedente alle arene monetarie. Un esempio di dominio naturale e la servitù della gleba,
dove i contadini hanno come unica risorsa il possesso del proprio organismo: questa risorsa potra
servire come ragione di scambio, soprattutto quando la forza lavoro scarseggia  il modo per
essere di meno è abbandonare i bambini. Il signore darà non solo sussistenza ai servi ma anche
protezione esterna, qualcosa che da soli non potrebbero avere.
Arene politiche dotate di governo e istituzioni politiche
Dal punto di vista di ciascun attore sociale la garanzia di conformità risiede in titoli o diritti: la
moneta politica. Le decisioni vincolanti non assumono quindi forma di patti, ma quella di decisioni
prese da un attore, come avviene nel dominio naturale. La differenza è che la capacità del
dominante naturale di prendere decisioni vincolanti risiede nel suo monopolio di risorse, mentre
quella del politico nell’acquisizione e conservazione di titoli e di autorità politica, che sono anche
loro moneta politica. Si chiama funzione politica l’opera di produzione politica dell’attore
specializzato che detiene autorità in un’arena monetaria. Si parla di allocazione quando la
produzione politica opera per mezzo dell’assegnazione diretta gli attori sociali di quote di bene
servizi e di compiti e mansioni (comunismo). Ogni funzione politica è svolta per mezzo di
un’organizzazione, l’istituzione politica. Alla funzione di produzione esterna corrisponde l’esercito,
quella di arbitrato le corti e i tribunali e le forze di polizia sono la traduzione istituzionale della
funzione di giurisdizione, mentre alla funzione regolativa fanno capo governi e parlamenti; il
corrispettivo dell’allocazione dipende dal regime politico. Per far vivere un’istituzione politica non
basta la struttura organizzativa ma serve anche sostegno dall’esterno. Ma qual è la
differenziazione che la vita le funzioni politiche? Ognuna di esse è frutto di una differenziazione in
base alla quale un solo tipo di attore assume questa funzione di produzione politica per l’intero
campo sociale. Nella politica naturale la garanzia di conformità per un attore corrisponderanno
dall’occupato nell’ordine della potenza, e quindi si verifica la lotta alla potenza, perché essa porta
anche a quote maggiori di valori tutelati. Nella politica monetaria vi è invece la ricerca di autorità
politica e ricerca dei diritti. Le due ricerche sono tra loro distinte, ma lo stesso tempo
reciprocamente condizionate, infatti il mantenimento di autorità dipende dalla capacitò di
produrre diritti per gli attori sociali. In quest’arena molti diritti detenuti dagli attori sociali appaiono
sganciati da ogni legame con le risorse che si posseggono o meno (non c’è più legame diretto tra
risorse politiche e risorse sociali di base, la cosa importante non è più ciò che uno possiede ma il
sostegno che ha). Inoltre lo stock di risorse che si trova gestire come politico, deve destinarlo
all’esercizio della funzione politica e non per il proprio fini. Questo avviene perché la somma di
potere in mano al politico non è più una prerogativa naturale, ma dipende dalle sue funzioni
politiche. La disgiunzione inizia già con le monarchie feudali, poi con quelle assolute, e poi si
accentua sempre di più nei regimi liberaldemocratici.
Come nascono e persistono le funzioni e le istituzioni pubbliche e una data forma di governo?
Ci sono due teorie prevalenti: quella contrattualistica e le teorie che sottolineano l’elemento di
comando, ossia il fatto che i governanti costituiscono una minoranza organizzata che domina la
maggioranza (teorie elitistiche). Entrambe sono sbagliate, poiché sono unilaterali: la funzione-
istituzione politica può essere spiegata con il concatenamento oggettivo che collega le idee alla
base delle due teorie. Le situazioni politiche non possono dirsi risultato del progetto e della
volontà di un singolo attore, sono piuttosto risultato, almeno in parte non intenzionale, del
concatenamento che in date condizioni produce vantaggi per diversi attori in gioco. I singoli attori
solitamente perseguono nel periodo che costituisce la durata di una forma di governo, nella
posizione di autorità politica si succederanno diversi gruppi, i quali interpreteranno in maniera più
o meno differente la produzione di dritte per il campo sociale. i propri scopi mediante istituzioni
politiche, come qualcosa di dato, un quadro stabile di autorità e di regole, da cui nessuno può
prescindere e che nessuno può cambiare da solo. D’altra parte, restando stabile la forma di
governo, diversi gruppi sociali si impegnano per premere sui gruppi politici al fine di ottenere o
evitare date decisioni, che modifica certi diritti.  processo politico normale. In questo processo
le decisioni politiche di un dato gruppo sono indirizzate in favore di certi gruppi o ceti più che altri,
nell’intento di conseguire il sostegno sufficiente per conquistare posizione nel governo. Anche chi
vota è selettivo e si indirizza verso uno o alcuni gruppi politici, nell’aspettativa di ottenere in tal
modo delle decisioni politiche favorevoli. Quindi l’attore politico prende decisioni vincolanti
orientate, mentre gli attori sociali sollecitano il sostegno selettivo.
Conclusione
Quest’orientamento teorico dell’azione politica sembra essere capace di distinguere in modo
chiaro e di identificare i rapporti tra risorse e poteri sociali da un lato e attività potere politico
dall’altro. Per un verso i poteri sociali attribuiti alle risorse sociali costituiscono il quadro delle
condizioni entro cui si muove le strategie politiche, peraltro l’attività politica retaggi e stabilizza le
diverse attività sociali, garantendone l’uso pacifico continuativo e soddisfacente. L’orientamento
teorico dell’azione politica può essere applicato sia l’arena politica dotata di istituzioni di governo
sia a quelle che non lo sono. In quest’ultima la garanzia del potere di ogni attore proviene dalla
forza strategica comparativa delle sue risorse. Nelle prime invece una garanzia del potere di ogni
singolo attore proviene in special modo della funzione politica esercitata da un’autorità politica
istituzionalizzata che mediante decisioni vincolanti produce e distribuisce diritti. Infine
quest’orientamento teorico non nega l’importanza degli aspetti di reciprocità e di scambio del
potere: in tutti i regimi politici vi è uno scambio politico, più o meno generalizzato e indiretto tra gli
attori sociali che offrono sostegno politico per ottenere determinati contenuti delle decisioni
politiche, cioè diritti.

Capitolo 9- Potere politico


D’ora in poi parleremo solo di arene dotate di governo, quest’ultimo racchiude in se il potere
politico per eccellenza. Dopo l’opera di Lasswell, dobbiamo sempre ricordarci che intorno al
potere politico operano sempre altri poteri sociali che sono talora efficaci come il governo e che
sono influenti su quest’ultimo  poteri politicamente rilevanti.
Definizione di potere politico di Bruno Leoni: il potere politico è la possibilità di ottenere rispetto,
tutela o garanzia dell’integrità e dell’uso dei beni che ogni individuo considera fondamentali per
propria esistenza.
Definizione di Norberto Bobbio: il potere politico è sempre collegato all’uso della forza ed è inoltre
un potere che si esercita su un gruppo abbastanza numeroso di persone, che ha per scopo di
mantenere nel gruppo un minimo di ordine e che tende ad essere esclusivo.
Definizione di Mario Albertini: potere cercato per se stesso è il carattere essenziale della vita
politica.
Sono 3 definizioni molto diverse, la prima mette in rilievo le qualità di un potere politicamente
rilevante, la seconda l’autonomia del potere politico rispetto ad altri fini e il suo carattere di lotta,
mentre la terza è più conforme al potere politico.
Tentativi di definire il potere politico
Quando si parla di potere politico ci si riferisce solitamente al governo.
Una primo modo di definirlo è quello di identificarlo sulla base della considerazione della
particolare pluralità di uomini su cui esso viene esercitato. Ma questo carattere è comune anche
ad altri poteri; potremmo allora dire che quello politico viene esercitato su tutti i membri della
società, mentre gli altri solo su alcuni  anche qui non basta perché ci sono altri poteri, come la
Chiesa, che possono estendersi su un gruppo intero. Lapierre allora parla di potere politico come
un potere che viene esercitato su una società globale. Ma la nozione di globale non ci permette di
individuare con chiarezza un tipo specifico di gruppo umano. Allora possiamo parlare di un
raggruppamento umano in cui vengono elaborate tutte le risorse materiali e soddisfatte tutte le
esigenze spirituali indispensabili per la sopravvivenza della vita sociale.  non è comunque
sufficiente, quindi bisogna trovare una nota caratteristica che vada oltre la pluralità di uomini. Una
possibile strada è individuare la sfera di attività a cui il potere politico si riferisce.  anche questa
strada è sterile (diventano più definizioni valutative che descrittive)  stessa cosa se il criterio
adottato è il fine per il quale il potere politico viene esercitato: es punto di vista del potere politico
come perseguimento del bene comune, espressione usata spesso ma che non dice nulla di
concreto. Possiamo però parlare di scopi dicendo che il potere politico ha per scopo di mantenere
nel seno del gruppo un minimo di coesistenza pacifica, anche se essa può non riguardare ogni
membro e la sua efficacia può non essere uguale per tutti. Tuttavia non è ancora abbastanza
poiché la coesistenza pacifica non è un fine esclusivo del potere politico.
Quindi come possiamo definire il tutto? Quello di governo è un potere stabilizzato e in molte
società politiche istituzionalizzato, che si traduce spesso in un rapporto di comando e obbedienza
su una pluralità di uomini. Uno dei suoi fini, premessa per il perseguimento di tutti gli altri, è la
coesistenza pacifica. Una definizione soddisfacente di potere politico deve tenere conto anche
della sua funzione, ciò che esso produce  poteri garantiti (diritti) per la società.
Il monopolio tendenziale della violenza
La definizione del potere politico che punta sul monopolio della violenza guarda in modo
privilegiato ne all’oggetto, ne al soggetto bensì al mezzo che detentori di tale potere impegnano.
Già la definizione di Bobbio diceva che il potere è sempre collegato all’uso della forza. Le direttive
e i comandi impartiti dal governo sono assistiti da una minaccia che implica la possibilità
dell’impiego della violenza, di cui ha monopolio esclusivo  Bobbio dice che questo potere tende
ad essere esclusivo. Stoppino non condivide questa definizione perché ritiene che non sempre il
potere politico tenda ad eliminare ogni altro potere. Questa definizione è accettabile se la si
interpreta in modo di restrittivo cioè se la tendenza all’esclusività viene riferita soltanto ai poteri
che implichino l’uso della violenza. Anche Weber diceva che lo Stato pretende per sé il monopolio
dell’uso legittimo della forza fisica  teoria che ha molti seguaci. Questa definizione anche due
diverse critiche:
1- non tutti i poteri con monopolio di violenza sono politici es. banda di gangstar  però il
potere politico si oppone in modo rilevante ad essa, ed inoltre il capobanda non ha reale
monopolio della violenza, perché la banda non è separata dalla società.
2- non tutti i poteri politici sono associate monopolio di violenza  critica che appare molto
solida: si può parlare di governi con monopolio della violenza solo in società moderne e
contemporanee ma per esempio no nel Medio Evo o quelle antiche. Possiamo dire però per
ciò che concerne le tribù primitive che non fanno parte del nostro campo di indagine in
quanto sono arene politiche naturali. Per quanto invece riguarda Roma e la Grecia c’erano
anche forti scontri interni, ma anche nei grandi imperi nei quali era difficile centralizzare la vita
politica e soprattutto nell’epoca medioevale in cui vi era onnipresenza della violenza. Quindi
possiamo dire che il monopolio tendenziale della violenza è un mezzo che caratterizza non già
il genus potere di governo, ma solamente la species potere di governo degli stati moderni e
contemporanei di matrice europea. Si tratta di un monopolio tendenziale, e non assoluto,
perché in ogni società politica si riscontrano così della violenza che non fanno parte del potere
politico e nessun governo può evitarli del tutto  tuttavia il governo si oppone ad essi con il
suo apparato specializzato. Inoltre ci sono anche usi della violenza legali come i genitori che
sculacciano i figli oppure la legittima difesa  tuttavia è il governo a regolare questi usi. In via
definitiva l’espressione “monopolio tendenziale della violenza” significa che i detentori del
potere politico impiegano tipicamente e con continuità la violenza, attraverso l’apparato
specializzato, di cui dichiarano legittimo l’uso della violenza, regolano l’uso della violenza
legittimo in talune circostanze dei privati, e si oppongono agli usi non consentiti della violenza
da parte di privati. Ovviamente ciò non significa che i governanti possano usare la violenza a
loro piacimento, ma sempre in modo regolato; e inoltre non involge che tutti i comandi del
governo siano assistiti dalla minaccia di violenza. Una volta stabilito che la violenza non è la
base principale del potere politico e neppure la maggioranza dei casi, perché il monopolio
della violenza è l’elemento chiave?  perché solo i governi ricorrono alla violenza nel modo
tipico e tendenzialmente monopolistico: quindi la violenza non è base esclusiva ma mezzo
specifico del potere politico.
Il potere che produce potere
Date le considerazioni in precedenza possiamo affermare che il potere politico è il potere che
produce potere sulla società. Ma in cos consistono i poteri garantiti (diritti) prodotti dal governo?
Nelle società contemporanee abbiamo 4 tipi di diritti principali: libertà, facoltà, potestà e
spettanze  a ciascun tipo di diritto corrisponde un obbligo di conformità nei confronti degli altri
gruppi. Le libertà richiedono conformità nel senso di non impedimento. Le facoltà sono come
quella di ottenere una quantità di cose offerte al pubblico pagando il prezzo corrispettivo oppure
quelle connesse con il diritto di proprietà, anche qui l’obbligo corrispondente è la non interferenza
da parte di tutti i membri della società. In terzo luogo vi è la potestà come quella di un direttore di
azienda sopra i dipendenti oppure di un parroco su una chiesa, esse richiedono specifiche
disposizioni stabilizzate alla conformità da parte dei sottoposti. Infine vi sono le spettanze che
sono i diritti a determinate cifre di denaro o quote di servizi sociali, per esempio la scuola oppure
la pensione, ad esse corrispondono particolari obblighi di determinati operatori pubblici e anche
qui la non interferenza. Tutti diritti menzionati sono poteri più o meno durevoli nel tempo e
generalizzati nello spazio sociale: sono poteri garantiti per esercitare i quali ci possiamo sempre
rivolgere al giudice. Ultimamente nei paesi democratici si sono affermati i diritti di cittadinanza che
appartengono ad ogni cittadino adulto e possono dividersi in civili( diritti delle libertà individuali,
come quella personale, di parola, di pensiero, di religione, di proprietà, di ottenere giustizia),
politici (diritto ad esercitare potere politico sia passivo che attivo) e sociali (diritti sulla sicurezza
economica e partecipazione ai benefici e valori che costituiscono il patrimonio della società,
welfare state). Poteri e conformità garantiti vengono distribuiti secondo diverse linee guida e la
produzione politica tanto più ha successo, quanto più getta un’efficace canale di collegamento tra
le diverse sfere di attività produzione sociale. I tipi di diritti di cui abbiamo parlato offrono
l’esempio di un avanzato grado di uguaglianza giuridica e di riavvicinamento delle opportunità di
partenza per tutti i cittadini. Nelle società più antiche le gerarchie sociali erano più marcate e
alcune classi sociali restavano del tutto prive di difesa, ma anche in quelle società il potere politico
centrale produceva diritti almeno per una parte politicamente rilevante della popolazione e
assicurava la cooperazione sociale  dunque è la funzione di produzione di poteri garantiti per un
dato campo sociale assicurando la cooperazione sociale, ciò che distingue il potere politico dagli
altri che producono beni e servizi, identità etico-religiosa, e danni. Il governo invece non produce
beni finali ma esso, e solo esso, produce reti ed ordinamenti vincolanti di poteri garantiti, che sono
strumentali e servono a stabilizzare e tutelare l’acquisizione di beni finali. Tuttavia tra il potere
politico e tra principali poteri sociali si instaurano generalmente relazioni molto significative: da
una parte il potere di governo mobilità parte le risorse degli altri poteri entro un dato campo
sociale, delle risorse di violenza ha bisogno per produrre la protezione esterna e quella interna e
talvolta il monopolio tendenziale della violenza. Delle risorse economiche ha bisogno per
sostenere le istituzioni e gli apparati pubblici, per poter produrre determinati poteri garantiti e per
allocare beni economici in funzione distributiva. Delle risorse simboliche ha bisogno per
conseguire una propria legittimazione delle sue decisioni vincolanti dei suoi agenti nelle credenze
dei membri del corpo sociale di riferimento. Qualche volta il potere di governo si basa su uno o un
altro tipo di risorse in modo spiccato (governi militari, governi patrimoniali es Medici a Firenze e
ideocrazie es totalitarismi). Si può affermare che la distribuzione delle principali risorse costituisce
un quadro definito di vincoli e di opportunità, che delimita la gamma delle forme di governo
possibile in quel campo sociale.
Dall’altra parte i detentori delle principali risorse sociali hanno bisogno del governo per trasformar
loro non lo possesso in diritti riconosciuti all’interno della cooperazione sociale. Si pensi per
esempio alla regolazione di possesso o uso della terra oppure un insieme di diritti di proprietà, di
lavoro libero oppure all’introduzione dei diritti organizzazione sindacale o le leggi anti-trust; se
pensiamo alle risorse simboliche Ilario detentori per esempio religiosi hanno bisogno del potere
politico, si pensi a tutti i concordati con la Chiesa cattolica fino arrivare alla libertà di culto, ma si
può parlare anche di quella di pensiero o di stampa. Per quanto riguarda le risorse di violenza
l’intervento il potere politico cerca di regolare e di limitare l’uso delle armi nel campo sociale.
Pensando le forme della produzione politica la prima che viene in mente è la regolazione, vale a
dire l’emanazione di regole vincolanti riguardanti l’intercorso sociale e la cooperazione
complessiva. Eppure essa sia fermata di recente, prima si usava la tradizione, o al massimo la
consuetudine veniva regolarizzata. Le società moderne sono in continua trasformazione e il
compito del potere politico è diventato quello di istituzionalizzare il cambiamento. Di qui
l’importanza della ridefinizione delle regole dei giochi sociali cioè di acquisizione, uso e
trasferimento delle risorse sociali. Molto più antica è la forma di produzione politica che possiamo
chiamare protezione esterna, che garantisce la difesa delle persone dei loro beni. Mediante questo
apparato, ovvero l’esercito, molti stati hanno cercato di garantire il benessere della popolazione
attraverso la conquista di schiavi di terre. Antica è pure la produzione politica che garantisce la
risoluzione o la moderazione dei conflitti interni, nella monarchia feudale per esempio il re
svolgeva una funzione politica di arbitro, negli stati europei moderni alla fine del ‘600 si affermò la
giurisdizione e la creazione di una legge valida per tutti. Al monopolio tendenziale della violenza è
connessa proprio la piena giurisdizione e alla piena protezione interna, ossia la garanzia
dell’integrità fisica delle persone indipendentemente dalle proprie risorse sociali, aspetti nuovi e
caratteristici degli stati moderni. Questo vuol dire che il monopolio tendenziale della violenza
ricondotto a due forme di produzione politica e dunque precisamente alla funzione che definisce il
potere di governo il generale: la produzione di poteri garantiti, sotto forma di diritti, per un dato
campo sociale. Altre due forme, oltre alla regolazione, di produzione politica che sono state
importanti negli stati moderni sono la facilitazione (produzione di diritti-facoltà che agevolano la
cooperazione sociale come la moneta oppure la manutenzione di strade pubbliche, la
comunicazione ecc.) e l’allocazione (produzione di diritti-spettanze che riguardano denaro come le
pensioni, salari minimi, tutti i vantaggi del welfare state).
Infine bisogna aggiungere che, perché la produzione politica possa operare, devono intervenire
altre attività del potere politico, che mettono in essere strumenti indispensabili per la produzione
politica: le attività strumentali alla produzione politica. Le principali sono: l’organizzazione delle
istituzioni e degli apparati (come quello sanitario, esercito, giudici), l’estrazione di risorse dalla
società (tasse, leva obbligatoria), l’alimentazione della fiducia (lealtà tra governo e opposizione, tra
una coalizione di governo, o a livello di cittadinanza la partecipazione politica).
Violenza e consenso
Tutti i poteri politici dispongono di risorse di violenza, in alcuni casi il monopolio tendenziale.
Tuttavia la violenza non è la base del potere politico, in molti casi i comandi provenienti dal
governo sono seguiti non per timore bensì per consenso. Ci sono due punti di vista diversi sulla
società politica il primo sostiene che si basi sulla violenza (società frutto della dominazione
violenta di una parte sull’altra), il secondo suo consenso (società frutto di cooperazione
consensuale). Secondo quest’ultimo punto di vista, la violenza rappresenta una rottura della
cooperazione e dello stesso potere politico.
La violenza il consenso non sono le uniche basi dell’obbedienza del governo: per esempio via il
consenso in base alla semplice volontarietà del comportamento di obbedienza, oppure ci sono
comportamenti di obbedienza tenuti per abitudine, più indifferenza o per disposizione conformisti
co. La nozione di consenso va riferita solo ai comportamenti di obbedienza fondati
sull’apprezzamento positivo del comando, della sua fonte o di qualche altra sua qualità  il
consenso non è un tipo di obbedienza ma un tipo di fonte di obbedienza, sono opinioni o credenze
(che possono essere legate a interessi o a credenze relative di valori) favorevoli al comando o al
potere. Oltre agli interessi e alle credenze relative di valori vi è la categoria degli atteggiamenti
affettivamente favorevoli al potere (identificazione, con bandiere, riti, inni, emblemi). Le forme di
consenso orientate secondo valori possono essere diversi: possono riguardare il contenuto di un
singolo comando, oppure fini generali in vista dei quali potrebbe essere esercitato. La credenza più
importante è quella della legittimità del potere che può essere fondata sulla persona del
governante (rara), sul regime o sulla comunità politica  questi tipi di credenze nella legittimità si
possono riscontrare spesso insieme ed anche accompagnate da timore nella violenza e/o
consenso. Molte forme di consenso possono essere solo apparenti, infatti credenza nella
legittimità può essere di carattere ideologico, e le opinioni possono essere manipolate. Quindi se
sia maggiore il consenso o la violenza dipende dalla società politica: ce ne sono alcune nelle quali
un intenso consenso da parte in una minoranza fa riscontro una dominazione sulla grande
maggioranza basata sulla forza e sulla coercizione. Tuttavia anche il governo sostenuto dal più
largo consenso non può fare a meno di impiegare la violenza nei confronti dei pochi contrari.

Struttura politica
Premessa
La distinzione tra processo e struttura politica è analitica e deve essere tracciata in rapporto a ogni
sistema politico inteso come un insieme complesso di comportamenti che hanno rapporti
significativi tra loro  comportamenti che costituiscono un processo dinamico. Tuttavia il
processo che coinvolge questi comportamenti si svolge in relazione ai con certi punti di
riferimento stabili: con il fatto del potere politico localizzata organizzato o che vi sono determinati
canali riconosciuti, ecc.  questi punti di riferimento costituiscono la struttura politica. Lo studio
del processo politico è lo studio dei dinamismi che si verificano all’interno della struttura, o che la
modificano. Lo studio della struttura politica è lo studio del quadro dei limiti e delle regole
relativamente permanenti, entro cui secondo cui svolge il processo politico. Il potere politico può
essere considerato l’elemento centrale della struttura di un sistema politico e nel contempo non
svolge da solo una funzione chiave per interpretare il processo politico. L’altro limite della portata
esplicativa della nozione di potere riguarda la struttura del sistema politico: ci sono poteri che non
sono propriamente politici ma che influiscono in modo significativo sullo stesso potere politico e
tendono ad essere in ogni arena politica. Per questo la teoria politica deve studiare i fenomeni di
potere nel contesto di comportamenti politico, compresi quei rapporti di potere che poi non
essendo politici sono parte integrante del dominio della politica. Il primo condizionamento è
costituito dal fatto che ogni sistema politico nazionale non è isolato, ma trova posto in un’arena
politica interstatale in cui le varie nazioni si condizionano a vicenda. Tuttavia per svolgere uno
studio non troppo complicato faremo finta che i paesi siano isolati, svolgendo un analisi
unicamente interna. I poteri politicamente rilevanti tendono a raggrupparsi in due livelli
fondamentali: il primo è quello dei poteri che, basati sulla disponibilità di risorse materiali e ideali
di grande importanza per il funzionamento della società, condizionano con continuità in modo
rilevante il potere politico (livello della classe dirigente); il secondo livello è quello dei poteri
minimi che sono basati sulla necessità della collaborazione continuativa degli individui, al
funzionamento e la società nel suo complesso, appartengono tendenzialmente a tutti membri la
società, condizionano con continuità in modo limitato il potere politico (soprattutto
negativamente) (classe diretta). I primi li chiamiamo poteri politicamente influenti, i secondi poteri
minimi politicamente rilevanti. La portata e l’efficacia di questi due tipi di poteri variano a seconda
delle diverse comunità politiche del tempo storico.
I poteri politicamente influenti
Definire il potere politico distinguendo tra governanti e governati è troppo semplicistico: questo
perché i governati non sono tutti uguali. Tra di essi vi sono gruppi che da recitare un potere molto
rilevante e talora preponderante suoi governanti. Gaetano Mosca e mise, a fianco della classe
politica, la classe dirigente ovvero uno strato molto più numeroso che comprende tutte le capacità
direttrici del paese. La classe dirigente è il potere organizzato che ha la direzione politica,
intellettuale e materiale e comprende anche la classe politica che invece è la parte della classe
dirigente che ha funzioni strettamente politiche. Stoppino non è d’accordo nel porre in una stessa
categoria il potere politico e le altre forze direttrice della società, come fatto da Guido Dorso.
L’idea che la classe politica sia un comitato direttivo della classe dirigente e devi dente dice di
marxiana, tuttavia i questa concezione la classe dominante è unitaria ed è identificata
esclusivamente in base ad una qualificazione economica  questo non è vero, perché può
avvenire che la classe dirigente sia analitica ma può avvenire anche che sia articolata in diversi
gruppi dirigenti, che possono essere in conflitto tra loro (si pensi ai conflitti tra le grandi aziende
produttrici). Si può affermare che esistono interessi comuni a tutta la classe dirigente, rispecchiate
nei valori politici dominanti, ma ciò non rende ovviamente la classe dirigente monolitica. Inoltre
nonostante le basi di natura economica siano molto importanti, la classe dirigente non poggia
esclusivamente su di esse: un’altra importante base è per esempio la disponibilità di
un’organizzazione per influenzare in modo rilevante le opinioni e le credenze (si pensi ai gruppi
che detengono i mezzi di comunicazione oppure l’importanza dell’organizzazione di una chiesa).
Altri gruppi dirigenti si fondano sulla particolare importanza della collaborazione diretta con i
detentori del potere politico: può essere il caso dei quadri di vertice dei grandi apparati
burocratici, oppure dell’esercito. Quindi non si può stabilire a priori quanti e quali siano i gruppi
dirigenti tutte le comunità politiche, per farlo serve un’accurata ricerca empirica, considerando
che essi si presentano come una costellazione di poteri, che presentano alcune caratteristiche
fondamentali e ricorrenti. Innanzitutto questi poteri poggiano sempre sulla disponibilità di risorse
e di grande importanza strategica per il funzionamento della società che possono essere reali o
materiali e risorse umane di rilievo nel processo politico. In secondo luogo l’impiego di queste
risorse ha di regola una forma organizzata (grandi sindacati, chiese, burocrazia, esercito…).
Grazie alla detenzione di queste risorse si instaura uno scambio o una collaborazione tra potere
politico e gli altri poteri. Da una parte i detentori del potere politico hanno bisogno della
collaborazione dei gruppi dirigenti e dall’altra i gruppi dirigenti hanno bisogno degli ordinamenti
vincolanti, e dunque dei diritti, prodotti dal potere politico per impiegare in modo soddisfacente le
proprie risorse. Naturalmente le portate relative del potere esercitato dai due gruppi possono
essere molto diverse, ci sono una serie di diverse situazioni di potere reciproco. Ma come i poteri
politicamente rilevanti influenzano quello politico? I poteri politicamente influenti limitano in
modo relativamente stabile l’azione dei detentori del potere politico entro un’area nella quale gli
interessi permanenti dei gruppi dirigenti non possono essere messi in pericolo  aspetto
negativo. Tuttavia i poteri politicamente influenti influenzano il potere politico anche in modo
positivo: l’utilizzo pacifico continuativo delle risorse che stanno alla base di quei poteri
comportano l’intervento del potere politico, i gruppi dirigenti di conseguenza tendono ad
esercitare stabilmente su governanti un potere che ha per oggetto la presa di decisioni politiche
atte a garantire il mantenimento dell’utilizzo pacifico continuativa redditizio delle risorse.
Il regime
La costellazione stabile dei poteri politicamente influenti costituisce, in parte, la base sociale del
regime di un sistema politico.
Che cos’è un regime politico?
Il regime politico riguarda l’ampiezza del campo di azione del potere politico e l’orientamento
generale di tale azione, le regole del gioco politico, la struttura organizzativa del potere politico. Le
componenti essenziali sono quindi tre. 1- I valori o principi politici dominanti nel regime, che
orientano l’azione di governo e delineano l’area entro quale essa può esplicarsi, questi valori
pongono all’azione politica dei limiti e un orientamento generale. 2-Le regole del gioco politico,
stabiliscono i tipi riconosciuti di comportamento che possono essere adottati nella lotta per la
conquista del potere politico; in assenza di tali regole e gioco politico si trasformerebbe in una
battaglia senza esclusione di colpi. 3-La struttura organizzativa del potere politico, determina le
diverse istituzioni e le divere forme di produzione dei diritti, nonché il modo in cui sono
coordinate. Bisogna però tener conto che l’organizzazione reale del potere politico può essere
diversa da quella prevista dalla costituzione scritta.
Il condizionamento dei poteri politicamente influenti
Le tre componenti che abbiamo analizzato sono legate ai poteri politicamente influenti.
Considerando i valori politici dominanti, constatiamo che la loro funzione coincide con il modo
tipico in cui i poteri politicamente influenti operano stabilmente sul potere politico. Nel rapporto
stabile tra l’assetto dei poteri politicamente influenti e la configurazione dei gruppi politici trovano
la loro fonte quei principi comuni che sono appunto i valori politici dominanti nel regime. I gruppi
dirigenti hanno interesse anche alle regole del gioco e alla struttura organizzativa del potere
politico (se la classe dirigente è monolitica avrà interesse ad un regime che non consenta ad
individui non appartenenti a questa classe di conquistare il potere, se non è monolitica avrà
interesse che le regole del gioco lascino relativamente aperta la via per la conquista del potere).
Il tipo specifico di regole del gioco e di struttura organizzativa non dipendono solo dai poteri
politicamente influenti ma anche dalla configurazione dei gruppi politici e dalle loro capacità di
invenzione e costruzione istituzionale. Un dato assetto di istituzioni politiche può avere un grado
anche molto elevato di autonomia nei confronti di sottostanti gruppi dirigenti. Tuttavia una
costellazione stabili di potere politicamente influenti non consente numerosi altri tipi di regime (si
pensi ai tentativi falliti di introdurre la democrazia parlamentare in paesi ex coloniali e
sottosviluppati).
Il sostegno strutturale dei poteri politicamente influenti
Possiamo quindi dire che attraverso il regime la costellazione stabile dei poteri politicamente
influenti limita il potere politico: sia perché circoscrive l’azione dei governanti, sia perché definisce
una gamma di possibilità delle regole del gioco e della struttura organizzativa. Nello stesso tempo
però attraverso regime la classe dirigente sostiene appoggia il potere politico  quindi opera sotto
l’aspetto del condizionamento e sotto quello del sostegno. Il sostegno fornito dai gruppi dirigenti
al potere politico consiste in azioni e atteggiamenti favorevoli per il regime stesso: da una parte il
sostegno strutturale è ogni forma di conferimento di risorse sociali, sia materiali che ideali, in
favore del regime; dall’altra è sostegno strutturale la disposizione dei gruppi dirigenti obbedire con
continuità ai comandi e alle direttive provenienti dei governanti  questo è importante perché i
gruppi dirigenti sono in grado di influire in modo rilevante sulla società nel suo complesso 
diffusione di una disposizione positiva verso la cooperazione sociale. Oltre all’interasse ci sono altri
due motivi che potrebbero portare all’obbedienza: il timore della violenza, e la credenza nella
legittimità basato sul regime (credenza che si fonda su un giudizio di valore positivo sulla fonte del
potere politico e che porta ad una disposizione ad obbedire alle direttive provenienti da essa). La
credenza nella legittimità non agisce mai da sola ma sempre accompagnata in qualche grado dagli
due motivi di obbedienza.
I valori che fondano la legittimità del regime
I valori che stanno a fondamento della credenza nella legittimità del regime sono parte integrante
dei valori politici dominanti ed esercitano influenza rilevante sulle regole del gioco, soltanto su una
parte però, cioè quella che riguarda le regole concernenti l’acquisizione del potere politico. Questo
avviene sotto forma di orientamento generale, perchè i valori che fondano la credenza della
legittimità del regime non stabiliscono le regole dell’acquisizione del potere in tutti i loro dettagli,
ma determinano solo l’indirizzo fondamentale. I valori che fondano la credenza nella legittimità
stabiliscono la fonte dalla quale il potere politico deve provenire per essere ritenuto legittimo. I
valori politici dominanti stabiliscono la sfera di attività e l’orientamento in cui i detentori del
potere politico possono impartire i loro comandi. Infine le regole che presiedono
all’organizzazione del potere, stabiliscono la legalità dei comandi e delle direttive provenienti di
detentori del potere politico  tra questi tre aspetti del potere politico corrono strette relazione.
Nei regimi legittimi la quarta componente del regime sono i valori che ne fondano la legittimità.
Ma non tutti i regimi sono legittimi (es dominazione straniera delle colonie)  in questo caso c’è
un regime politico con valori dominanti, regole del gioco e struttura organizzativa, ma può
avvenire che questo regime non venga ritenuto legittimo dai gruppi dirigenti autoctoni, che
obbediscono per timore di violenza e in qualche modo perché va nei loro interessi. Quindi la
legittimità non è una componente necessaria del regime politico.
Il sostegno strutturale dei gruppi politici
Dal punto di vista strutturale questo sostegno consiste oltre che nell’obbedienza ai comandi e alle
direttive impartite, nella disposizione a rispettare le regole del gioco relative alle condotte volte ad
acquisire il potere politico e di rispettarle sia all’opposizione, sia al governo. I motivi che stanno
alla base del sostegno al regime fornito dai gruppi politici sono simili a quelli dei gruppi dirigenti.
Tuttavia in questo caso l’interesse si concreta nell’opportunità che il regime offre loro, in relazione
a una loro determinata configurazione relativamente stabile, di conquistare il potere politico. E il
timore dell’impiego della violenza per i gruppi politici può manifestarsi anche nei confronti
dell’opposizione.
Regime, classe politica, classe dirigente e classe diretta
Possiamo dire che il livello maggiormente rilevante al quale si deve guardare per individuare la
base e il sostegno di un regime è quello dei gruppi dirigenti e dei gruppi politici  a questo livello
troviamo largamente condivisi i valori politici dominanti, e a questo livello operano i motivi che
stanno alla base del sostegno fornito al potere politico. Soltanto in un caso la considerazione dei
gruppi dirigenti e dei gruppi politici non basta ad accertare la legittimità del regime: quando esso
mette in grave pericolo gli interessi fondamentali dei membri della classe diretta  in questi casi
anche tentativi di ribellione, ma negli altri casi, se tutti i gruppi dirigenti e politici condividono la
credenza nella legittimità del regime, si può dire con certezza che il regime è legittimo, se una
parte contesta è semilegittimo  questo si verifica soprattutto quando i gruppi che ritengono il
potere legittimo hanno le stesse chances formali di chi lo ritiene illegittimo. Può anche avvenire
che un nuovo gruppo dirigente si formi nella società e allora o la società si modifica, oppure
avviene la rivoluzione che è proprio il cambiamento repentino e violento di un regime politico,
sulla base di un mutamento sostanziale di poteri politicamente influenti.
I poteri minimi politicamente rilevanti
Anche i membri della classe diretta hanno dei poteri che limitano in modo tendenzialmente stabile
la libertà d’azione dei governanti  poteri prevalentemente negativi e minimi cioè relativi a una
sfera di attività molto circoscritta. Può accadere che i governanti infrangano questo limite
occasionalmente, ma se diventa una cosa frequente si manifesterà una reazione che tenderà a
ristabilire il limite. Chiamiamo politico il potere del governo, attorno a cui, nelle società
contemporanee, ruota l’attività politica; chiamiamo politicamente rilevanti i poteri che
condizionano il potere del governo dall’esterno. I poteri minimi politicamente rilevanti hanno per
oggetto il rispetto, da parte dei detentori del potere politico, di una certa sfera di interessi,
materiali e ideali, considerati fondamentali dai membri della classe diretta. La chiamiamo minima
perché la sfera di dati interessi, che tuttavia può essere più o meno ampia, appare tale rispetto agli
interessi per cui operano i poteri politicamente influenti. In alcuni casi i poteri minimi
politicamente rilevanti possono non essere omogenei per tutta la classe diretta  pluralità di
livelli. Il fondamento di tali poteri minimi è costituito dall’indispensabilità della collaborazione dei
membri della classe diretta al funzionamento della società. Si crea una reciprocità tra governati e
governanti: i governati hanno bisogno dell’obbedienza e del sostegno della classe diretta, e
quest’ultima ha bisogno del potere politico per ottenere il rispetto di una sfera minima di beni
fondamentali. Quindi la classe diretta condiziona il governo sia in senso positivo che negativo: in
primo luogo limita stabilmente la sfera dell’azione del governo (limite meno elevato delle classi
dirigenti) , in modo che non metta in pericolo gli interessi fondamentali, in secondo luogo la classe
diretta tende a reagire contro i membri del governo solo quando l’azione di quest’ultimo risulta
gravemente inefficace riguardo il rispetto degli interessi fondamentali. Sia positivamente che
negativamente i poteri minimi politicamente rilevanti operano attraverso il meccanismo della
reazioni previste. Anche i membri della classe diretta (=classe dirigente) non solo limitano ma
anche sostengono il potere politico. Tale sostegno da un lato si concretizza nella partecipazione
politica prevista nell’ambito del sistema (es in un sistema democratico le elezioni), dall’altro lato si
concretizza nella disposizione ad obbedire con continuità alle direttive del governo. Questo
sostegno è condizionato al rispetto da parte del potere politico dei diritti fondamentali, ma non è
condizionato al tipo di regime entro il quale il potere politico opera  la disposizione ad obbedire
dei membri di una certa classe diretta non cambia con il cambiamento del regime, se l’azione del
governo non cambia. I motivi che stanno alla base del sostegno da parte della classe diretta sono:
l’interesse sui beni considerati fondamentali, il timore della violenza, la credenza nella legittimità,
ma non del regime, bensì della comunità, l’abitudine ovvero quando l’obbedienza al governo viene
considerato come un comportamento scontato che si è sempre tenuto e infine il conformismo
ovvero l’accettazione positiva delle idee, norme e valori della maggioranza del gruppo a cui si
appartiene, e/o l’allineamento passivo alle opinioni e alle direttive dell’autorità ufficiale alla quale
si è sottoposti. La disposizione ad obbedire di tipo conformistico è largamente diffusa nelle società
di massa. Possiamo dire in via definitiva che a livello di gruppi dirigenti e politici la credenza nella
legittimità del potere politico si fonda prevalentemente su un giudizio di valore positivo nei
confronti della fonte di potere nel regime, mentre a livello di classe diretta tale credenza si fonda
principalmente su un giudizio di valore positivo e un sentimento favorevole nei riguardi della
comunità politica, intesa come l’insieme degli individui che partecipano alla struttura e al processo
di un sistema politico (sentimento di appartenenza alla comunità politica e identificazione con
essa). In questa situazione il potere politico da potere sulla comunità, tende a diventare potere
della comunità: la quale è concepita come fonte di potere. Questo tipo di credenza si manifesta
anche a livello dei gruppi dirigenti politici, in modo ancora più significativo nella fase di fondazione
di una nuova comunità politica. Tuttavia la credenza della legittimità principale è basata sulla
comunità anche se essa non è presente in tutte le società, ce ne sono alcune in cui non esiste
sufficiente integrazione nella comunità politica  es monarchie assolute dove la legittimità si
fondava sul principio divino dal quale discendeva in sovrano. Inoltre bisogna dire che
l’integrazione che sta fondamento della credenza nella legittimità presuppone l’azione del potere
del governo: tale credenza è molto spesso una conseguenza dell’instaurazione di un nuovo Stato e
non la fonte. Infine tale credenza del potere politico può essere più o meno diffusa e più o meno
intensa, fino ad arrivare a diventare contestazione che può condurre a conflitti radicali. Quindi
possiamo infine dire che: la credenza nella legittimità personale riguarda caratteristiche personali
del governante e può essere diffusa sia nei gruppi dirigenti sia in quelli politici sia nella classe
diretta, la credenza nella legittimità basata sul regime riguarda la fonte del potere stabilita del
regime e tende a essere diffusa specialmente nei gruppi politici e dirigenti. La credenza nella
legittimità fondata sulla comunità, riguarda la comunità politica ed è diffusa in gruppi politici e
dirigenti sia nella classe diretta, in una società politica stabile è particolarmente significativa a
livello di classe diretta. Tutti i tre tipi indicati sono di solito presenti nei sistemi politici concreti.
Conclusione
Dal punto di vista strutturale si può quindi dire che il condizionamento esterno del potere politico
si divide in quello della classe dirigente e quello della classe diretta. Tuttavia può venire che ci
siano dei livelli intermedi tra queste due classi. La differenza principale sta però tra il processo e la
struttura: nel primo i gruppi che influenzano la presa di una decisione politica sono molti e dotati
di poteri diversi, della struttura politica invece livelli i significativi si riducono. Nella scienza politica
l’azione dei poteri minimi politicamente rilevanti viene spesso trascurata perché il
condizionamento dei poteri minimi opera solitamente attraverso il meccanismo delle reazioni
previste ed è quindi invisibile  la classe diretta ha assunto maggiore importanza nelle
democrazie moderne, dove le sfere di interesse di essa sono state integrate tra i valori dominanti
del regime.

Capitolo 11- Processo politico


Precedentemente abbiamo descritto la struttura politica: i livelli in cui essa si articola sono tre, il
potere politico, i poteri politicamente influenti, e i poteri minimi. La struttura politica può essere
guardata dal punto di vista dei soggetti (classe politica, dirigente, diretta) che fanno capo ai poteri
sopra citati e da quello della conformazione stabilizzata dei comportamenti politici operata da tali
poteri. Da quest’ultimo punto di vista ovvero dei modi in cui la costellazione dei poteri strutturali
conferisce forma organizzazione attività politica, gli elementi costitutivi sono: l’insieme dei ruoli
dai quali il potere politico è esercitato, la sfera entro la quale l’attività decisionale del potere
politico può esplicarsi (orientamento generale), le regole del gioco politico, la cui funzione è
stabilire i tipi di comportamenti che possono essere adottati nella lotta per il potere, i diritti
politici, civili e sociali fondamentali della classe diretta.
Ora ci occuperemo del processo politico: L’insieme dei comportamenti dinamici che modificano la
struttura politica ovvero si svolgono al suo interno. È costituente il processo politico che presiede
le trasformazioni strutturali, e normale il processo politico che si instaura nella struttura senza
modificarla. Il processo politico normale si può definire in base ai suoi esiti, che sono di due tipi:
formazione e sostituzione dei governi, decisioni politiche sostantivi. Il processo politico normale
determina il chi e il che cosa della politica; per analizzarlo prendiamo in considerazione i sistemi
politici liberal-democratici. Come nella struttura, anche nel processo politico si possono
distinguere tre livelli, tre tipi di comportamenti:
1-il comportamento della classe politica, che è più ampia che nella struttura, perché include
qualsiasi gruppo che lotta per il potere, compresi quelli ribelli. Inoltre il suo comportamento è più
articolato e si concentra in molte azioni: tattiche per la formazione di coalizioni, elaborazione di
programmi, manovre per la conquista del sostegno dei gruppi dirigenti, tattica di propaganda…
2-Il comportamento della classe dirigente: anch’essa si allarga perché nel processo entrano a far
parte altri gruppi che, pur non disponendo delle risorse sufficienti a mettere in atto
condizionamenti strutturali, sono però interessati i possibili contenuti delle decisioni politiche e
cercano di influenzare singole decisioni.
3-il comportamento della classe diretta: essa non è alterata e il processo politico è semplicemente
un’attivazione dei poteri minimi politicamente rilevanti; la distinzione è piuttosto tra potenzialità
e attualità.
L’analisi attuata da Stoppino esclude il processo costituente e tratta solo di quello normale e in
particolare della classe politica e di quella dirigente.
La lotta per il potere: la posta in gioco
La classe politica è costituita dagli uomini politici ovvero da coloro che si occupano di politica
facendone una professione  si impegnano con continuità per la lotta per il potere; il senso
tipico-ideale del loro agire è costituito dalla conquista, conservazione e accrescimento del potere.
Identifichiamo l’attività propria della classe politica nella lotta per il potere. La posta del gioco
politico e quindi il potere; tuttavia non bisogna interpretarlo in un senso psicologico ovvero come
necessità, come godimento intimo che si trae dal suo possesso e dal suo esercizio  questo
errore è presente nella teoria lasswelliana della personalità politica (la personalità politica ricerca
il potere perché il suo godimento le dà il massimo di gratificazione  p]t]r]=P.  p=impulsi privati
sorti da bambini, t= trasferimento di impulsi privati sopra oggetti pubblici, r= razionalizzazione di
tale trasferimento, P=personalità politica). Nonostante queste deduzioni siano importanti, gli
uomini politici non devono essere necessariamente caratterizzati da una personalità politica nel
senso psicologico indicato. D’altra parte non tutti gli uomini che sono indirizzati dalla personalità
incentrata sul potere, si rivolgono verso l’attività politica, possono dedicarsi a quella religiosa o
economica. Dunque il godimento interiore del possesso e esercizio di potere non è la posta del
gioco politico; l’accentuazione del potere nella struttura della personalità non è nemmeno una
precondizione psicologica necessaria, ma solo possibile. Qual è dunque la posta in gioco? Bisogna
ricordare che in un rapporto di potere stabilizzato, il potere si solidifica in ruoli di potere durevoli
nel tempo e quindi diventa una cosa che si può conquistare, conservare o perdere. Quindi la lotta
per il potere è la lotta per conquistare o conservare le posizioni e ruoli stabili dai quali si esercita il
potere politico, che è un potere garantito che produce potere garantiti, che negli stati moderni
corrisponde anche al monopolio tendenziale della violenza. In un certo grado la lotta per il potere
tende a manifestarsi anche in campi diversi da quello politico, ogni volta che si pone il problema
di scegliere tra una pluralità di candidati: la differenza è proprio che questi soggetti vi si
impegnano soltanto una tantum quando si apre il problema di selezione: solo in politica la lotta
per il potere è durevole e pienamente spiegata, intorno al potere politico si forma una classe di
persone, la classe politica che si impegna in modo continuativo  la lotta per il potere diventa
una professione. Il potere politico assume un ruolo centrale per la distribuzione delle diverse
risorse sociali della vita di una comunità, in quanto potere globale ovvero che può decidere in tutti
campi per questo la lotta per conquistarlo e così importante da dar luogo a una specifica
sottosistema sociale. Possiamo dire che la posta del gioco politico si definisce in termini di chi, e
non in termini di che cosa. La centralità della lotta per il potere deriva dalla combinazione di due
fatti: 1-la lotta è relativamente indipendente da programma politico che si vuole attuare una volta
conquistato il potere, 2-la conquista del potere una condizione indispensabile della attuazione
effettiva del proprio programma. Per questo la lotta per il potere costituisce una prassi autonoma:
per esempio tra due partiti ci possono essere grosse differenze nei programmi politici ma essi
possono usare le stesse strategie nell’ambito delle regole del gioco, per cercare di vincere la lotta.
La seconda affermazione invece ci dice che la lotta per il potere è una prassi necessaria per
l’attuazione di qualsiasi dottrina, se non si impegna nella lotta per il potere, chi idea una dottrina
resta solo un profeta disarmato.
La lotta per il potere: il gioco
Il gioco politico è una competizione nelle liberaldemocrazie o poliarchie ( in questo senso si
distingue tra sistemi politici competitivi e non).
La competizione poliarchica è caratterizzata da due fattori: la competizione è aperta e la regola
del gioco, che decide chi vince, è il voto popolare. Il carattere aperto della competizione
presuppone che siano garantite le libertà di costituire associazioni e aderirvi e la libertà di
pensiero. Perché invece sia garantito il secondo presupposto devono essere garantite alcune
condizioni tra cui il diritto dei cittadini al voto, le eleggibilità dei cittadini, la periodicità la
correttezza delle elezioni. Una prima conseguenza di questi due presupposti fa sì che la
competizione poliarchica palesi una potente forza di espansione: diverse frazioni sono in cerca di
nuovi problemi o gruppi sociali emergenti di cui possono farsi paladini. L’ammontare dei voti
ottenuti dalla possibilità ciascun gruppo politico di percepire la quantità del sostegno conseguito,
ed essi delle nuove tattiche da intraprendere. La competizione poliarchico e quindi espansiva
(capace di attirare nuove forze ed interessi sociali nel processo politico) ed è strutturata in un
quadro di aspettative relativamente stabile (grazie alla periodicità delle elezioni e al metodo
quantitativo e oggettivo con cui si misura la forza relativa dei gruppi politici, ovvero la quantità di
voti).
Il caso della politica di corte: in essa la competizione è chiusa perché non c’è la possibilità di
appellarsi al popolo e i soggetti che hanno il titolo di entrare in competizione sono limitati: la
regola del gioco è il favore del sovrano e da questo segue la bassa permeabilità verso l’esterno
della politica di corte (non attrae nuovi interessi e forze sociali) e l’incertezza e imprevedibilità
della politica di corte (il favore del sovrano si può conquistare o perdere ogni giorno).
Il caso della politica burocratica (nell’ambito di un partito unico): la competizione è chiusa perché
non ci si può appellare al pubblico generale, alle elezioni non partecipano le diverse fazioni
politiche, vi partecipa tutto intero il partito unico per ottenere legittimazione per l’intera classe
politica burocratica  elezioni non competitive. Il titolo di accesso non è ascrittivo come nella
corte, ma l’accesso effettivo viene deciso da quelli che fanno già parte della burocrazia  la
regola del gioco è il gradimento dei burocrati dirigenti. Il partito unico non ha la forza espansiva
della competizione poliarchica, ma neppure l’impermeabilità della politica di corte. Per quanto le
procedure di avanzamento sono lente e macchinose sono relativamente stabili e prevedibili,
almeno finché la competizione riguarda i politici intermedi, le cariche politiche più elevate
tendono a rimanere permanenti, i tentativi di lotta a livello di vertice hanno luogo in un regime di
incertezza. Quindi in tutti sistemi politici la lotta per il potere è una competizione in cui i diversi
attori cercano di ottenere un dato premio seconda regola accettate da tutti gli attori: ciao le
regola fondamentale è quella in base alla quale si decide chi vince e chi perde; la differenza tra
competizione combattimento è che la prima si mantiene entro l’alveo di un determinato regime,
la seconda è una lotta per il potere senza regole senza esclusione di colpi ( si verifica spesso
quando la lotta è la stessa conformazione del regime, come nelle rivoluzioni o guerre civili). Un
carattere comune tre tipi di competizione politica di cui abbiamo parlato è che in tutte occorre
passare attraverso il consenso o il sostegno di altri attori  lotta per il potere diventa lotta per il
sostegno politico rilevante. Un altro carattere comune è il fatto che nella competizione politica è
sempre di importanza primaria il sostegno delle forze sociali che hanno un’elevata capacità di
condizionare e influenzare il potere del governo (gruppi dirigenti). Nella poliarchia il consenso che
conta è quello dell'elettorato che è molto influenzato dei gruppi dirigenti. Nella burocrazia il
consenso che conta è quello dei burocrati che è facile che siano influenzati dai quadri di vertice
dei vari settori funzionali della società. Anche quando il consenso che conta è quello del sovrano,
esso è influenzato dalle richieste e dalle pressioni di gruppi sociali dirigenti. La cerchia dei gruppi
sociali il cui sostegno è importante, tuttavia è tanto più ampia quanto più la competizione è
aperta. Quindi la lotta per il potere politico è sempre, nell’ambito del processo politico normale,
in grado determinante, lotta permanente per conquistare e conservare sostegno politico decisivo.
Le contestazioni dichiarazioni di promesse di un gruppo politico di opposizione, e gli indirizzi
politici generali alle singole decisioni politiche del governo, sono mezzi per conquistare,
conservare o a crescere e sostegno politico rilevante nella lotta per il potere a proprio vantaggio
 affermazione valida in massimo grado per i sistemi poliarchici. La competizione in ultimo si
gioca sul quantum di sostegno che i diversi gruppi politici conquistano o conservano o perdono.
La pressione sul potere
Ai gruppi dirigenti fanno capo i poteri politicamente influenti, che limitano e indirizzano in modo
stabile l’azione dei governanti. Ricordiamo che l’ attività propria dei gruppi dirigenti non è la
politica e quindi bisogna sottolineare in vista di quali scopi essi operino nel processo politico. Ciò
che li distingue dei gruppi politici è che l’interesse per la politica non è diretto, ma indiretto: è
attivato dal fatto che molte o alcune delle decisioni politiche hanno o possono avere conseguenze
rilevanti sulle condizioni sul contenuto delle loro attività. Quindi l’interesse del gruppo dirigente
verso la politica è filtrato per tramite della specifica attività sociale nella quale è impegnato. Più
consistenti e permanenti sono gli interessi sociali di un attore, più alta è la probabilità che le
decisioni del governo esercitino un’influenza su di essi. Questa influenza non tocca soltanto i
gruppi dirigenti, ma una cerchia molto più vasta di organizzazioni: l’intera fenomenologia dei
cosiddetti gruppi di pressione. Questi gruppi pur non avendo poteri di condizionamento
strutturale, mantengono desta l’attenzione sopra le possibili conseguenze delle decisioni politiche
nei termini dei propri interessi sociali, e sono pronti a intervenire nel processo politico, perché
hanno da guadagnare o da perdere dalla politica (es gruppi per la salvaguardia del patrimonio
artistico)  anche i gruppi dirigenti sono gruppi di pressione. La pressione sul potere politico
costituisce il tipo generale di comportamento politico di questi gruppi. In che modo esercitano
questa attività? Ciò che veramente importa a questi gruppi sono i contenuti delle decisioni
politiche e non la composizione del governo, a differenza dei gruppi politici per i quali la politica è
soprattutto il chi, nelle prospettive dei gruppi di pressione la politica è saliente soprattutto per il
che cosa  I gruppi di pressione orientano la loro azione in vista del conseguimento dei contenuti
decisionali favorevoli e dell’impedimento di quelli sfavorevoli  il senso tipico-ideale della loro
condotta consiste nella pressione che esercitano in modo selettivo sopra la classe politica. Per
promuovere o difendere determinati diritti. Per la nostra analisi non importa di che tipo siano i
gruppi di pressione, perché c’è qualcosa che li accomuna: essi esauriscono allora azione politica
nella pressione selettiva sul potere politico. Pressione politica è un’espressione metaforica: ma
che cosa si intende per essa? La pressione politica può essere scomposta in due componenti
essenziali: premere sulla classe politica significa articolare determinate domande politiche
(richiedere l’emanazione o meno di certe leggi). La pressione è però una domanda rinforzata dalla
capacità di pensare presso il destinatario della domanda quindi premere sulla classe politica
significa anche accompagnare la domanda con il conferimento o il ritiro selettivo del proprio
sostegno politico. Pressione politica= domanda+ sostegno politico. Il sostegno consiste
essenzialmente nel trasferimento ad una frazione della classe politica delle specifiche risorse
sociali che il gruppo di pressione detiene  il gruppo di pressione trasferisce risorse che il gruppo
politico può impiegare in modo autonomo  processo di conversione politica delle risorse sociali,
che segna la linea di confine tra sistema politico e altri sistemi sociali (es risorse economiche
utilizzate per finanziare l’attività di partito). Le risorse sociali vengono risucchiate della
competizione politica, e utilizzate come armi per la lotta. Dal punto di vista dei gruppi di pressione
questa conversione politica delle risorse sociali serve a tradurle in pressioni politiche.  sostegno
politico selettivo che è guidato dalla aspettativa-speranza dei contenuti desiderati delle decisioni
politiche. Questa aspettativa-speranza viene ridefinita dei diversi gruppi di pressione, in rapporto
alla dinamica del processo politico, nella quale le diverse frazioni della classe politica assumono
nuove posizioni. Da ciò segue che ci sia anche una possibilità di ritiro del sostegno, da applicare
alle formazioni politiche che non appaiono più corrispondere all’aspettativa-speranza in modo
soddisfacente. Quindi il conferimento e il ritiro di risorse sociali, e dunque di sostegno politico,
che i gruppi di pressione operano nei riguardi delle diverse frazioni della classe politica, vanno
interpretati come mosse per ottenere o evitare determinati contenuti delle decisioni politiche.
Lo scambio politico
Se guardiamo le condotte dei gruppi politici e dei gruppi di pressione nel loro rapporto reciproco
ci prendiamo immediatamente conto che tale rapporto è uno scambio: tra sostegno politico e
decisioni politiche. Lo scambio politico riguarda i due tipi generali di esiti del processo politico il
chi è e che cosa  i gruppi di pressione offrono un chi per ottenere un che cosa e viceversa 
scambio politico. Esso non implica necessariamente la prassi di tipo clientelare (scambio
immediato tra sostegno e una determinata decisione politica, che non è corruzione perché
entrambi i beni scambiati sono politici). In primo luogo il che cosa che viene scambiato può non
essere un vantaggio di tipo particolaristico, può essere un programma politico generale in cui il
gruppo di pressione ravvisa la migliore difesa dei propri interessi. In secondo luogo lo scambio
politico può non avere il carattere dell’immediatezza del rapporto clientelare  infatti si può
legare all’aspettativa speranza e dunque alle promesse, dichiarazioni d’intenti o programmi
formulati da una certa frazione politica. Non solo l’azione dei gruppi politici è guidata
all’aspettativa-speranza di sostegno da parte dei gruppi di pressione, essa può essere guidata
anche da un insieme più o meno elaborato di congetture circa il probabile accrescimento futuro
del proprio sostegno politico. L’utilità del concetto di scambio politico è legata alla condizione che
la ricerca del chi resti relativamente autonoma dalla ricerca del che cosa (accade spesso che un
gruppo di pressione si sposti dall’una all’altra frazione della classe politica, col mutare dei loro
programmi). Questa autonomia permane anche in presenza del grado massimo di possibilità degli
ideali del gruppo di pressione e del gruppo politico: anche un gruppo di pressione che nasce ai
margini di un partito politico, una volta che quest’ultimo sarà il potere, avrà delle divergenze con
esso  il gruppo ideologico vorrà che la dottrina sia perseguita in modo puro, mentre il partito
politico cercherà di perseguire il suo obiettivo che è il potere e quindi di accontentare la maggior
parte possibile di persone. Per quanto riguarda il chi, la ricerca del potere non sempre è il fine
ultimo del politico, ma può essere solo un fine strumentale pragmaticamente necessario. Ci sono
politici che cercano il potere per godimento, altri per servire una causa: per i primi la ricerca del
potere è autonoma e sono disposti a qualsiasi politica pur di avere il potere, per i secondi la
ricerca del potere non è autonoma in senso soggettivo, ed essi lottano per il potere solo per
realizzare politicamente alcuni valori  qualora il partito pare della fede entità originaria e si
possono uscirne e cercare di fondarne un altro  in questi casi il che cosa delimita
soggettivamente la sfera del chi. Ciò non cambia il fatto che la lotta di potere rimane autonoma
nella sua specifica logica pragmatica, sia per i politici che lottano per una causa, finché questi
restano impegnati nella competizione, sia per gli altri.
In relazione alla lotta per il potere i diversi regimi politici incanalano e limitano le conseguenze del
carattere permanente la competizione politica, frapponendo dei filtri fra esso e l’accesso ai ruoli
del governo. Per esempio la periodicità delle lezioni combinata con un sistema bipartitico tende a
far coincidere la durata dei governi con quella delle legislature(≠Italia, dove c’è un sistema politico
di pluralismo polarizzato). Soprattutto nel primo caso la permanenza al potere è relativamente
garantita per alcuni anni, e il partito al governo può ,per esempio, prendere decisioni politiche
impopolari a breve periodo se ci si aspetta che avranno aspetti positivi nel lungo. Il diverso modo
di atteggiarsi dei due tipi di politica ( quello con bipartismo e quello tipo italiano) dipende da
differenti condizioni: rilevante è il grado di consolidamento e dell’autonomia strutturale
dell’istituzioni politiche del regime  maggiori sono, più efficace la capacità del regime di
modellare la lotta per il potere di frapporre un filtro tra essa e l’accesso ai ruoli di governo.
Tuttavia la lotta per il potere non sparisce, ma, nella sua relazione di scambio mutevole e
permanente con la pressione sul potere, rimane il sistema di comportamenti che definisce il
campo del processo politico.

Potrebbero piacerti anche