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Riassunto - Principi di scienza politica - Clark - Scienza


Politica

Scienza Politica (Università degli Studi di Genova)

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Capitolo 4: le origini dello stato moderno

Che cos’è uno Stato?

Definizione Max Weber: è una comunità di persone in cui l’apparato amministrativo rivendica con
successo il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica all’interno di un determinato territorio.
Questa definizione contiene diversi elementi distintivi:
- primo: uno stato necessita di un dato territorio. Questo aspetto distingue gli “stati” dalle
“nazioni”.
Nazione: è un gruppo di persone che condivide una qualche identità comune come la lingua, la
religione o l’etnia - non è necessario che la nazione sia collocata geograficamente in un
determinato territorio, come lo è per lo stato (es. molti ebrei ritenevano di appartenere a una
nazione molto prima che venisse fondato lo stato di Israele).
L’emergere degli stati nazionali ha portato molti ad associare le nazioni con gli stati e con un dato
territorio. E’ importante riconoscere che esistono ancora nazioni senza stato come i curdi in Iraq,
e nazioni disperse come i rom. Nazione e stato quindi rimangono due concetti distinti, anche se
sempre più sembrano coesistere. Tutte le definizioni di stato dopo quella di Weber mantengono il
suo postulato con un dato territorio sia una caratteristica necessaria a uno stato.
- secondo: è che lo stato deve avere il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica. Questo
però ha messo in difficoltà gli studiosi, perché non è sempre facile determinare che cos’è e cosa
non è un uso legittimo della forza. Non è difficile pensare a situazioni in cui l’uso della forza da
parte dello stato manchi di legittimità. E’ per questo che molti degli studiosi successivi a Weber
hanno lasciato cadere ogni riferimento alla legittimità nelle loro definizioni di stato.
- terzo: è che lo stato deve avere il “monopolio dell’uso legittimo della forza fisica”. Anche questo
ha creato problemi. Il motivo principale è che è facile pensare a esempi in cui attori diversi dallo
stato possono fare uso della forza fisica in un modo che potrebbe essere considerato legittimo.
Quello che per alcuni è un combattente per la libertà, per altri è un terrorista, e considerare
legittime o meno le azioni violente di questi gruppi dipenderà da quale posizione si assume
rispetto al conflitto. Non è scontato che uno stato abbia sempre il “monopolio” dell’uso legittimo
della forza.
Due definizioni più recenti di stato:
1. Gli stati sono organizzazioni relativamente centralizzate e differenziate, i cui funzionari
rivendicano, con maggiore o minore successo, il controllo sui principali strumenti della violenza
all’interno di una popolazione che abita un ampio territorio unitario. (Charles Tilly, sociologo,
1985).
2. Uno stato è un’organizzazione con un vantaggio comparato nella violenza, che si estende su
un’area geografica i cui confini sono determinati dal suo potere di tassare i residenti. (Douglass
North, premio Nobel per l’economia, 1981).
Queste definizioni sono diverse da quella di Weber, ma condividono la sua convinzione che tutti
gli stati devono avere un dato territorio e che tutti fanno sempre ricorso alla minaccia della forza
per governare.
Lo storico Frederick Lane definisce lo stato come un’impresa che produce violenza. Tutti gli
stati usano almeno la minaccia della forza per organizzare la vita pubblica e questo vale sia per la
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più rigida delle dittature che per la più encomiabile delle democrazie. L’uso della forza da parte
delle dittature non deve nascondere il fatto che anche nelle democrazie l’autorità dello stato è
basata sulla minaccia della coercizione (es. pensiamo a quanti cittadini pagherebbero davvero
tutte le tasse se non fosse implicita, da parte dello stato, la minaccia di incarcerazione per
evasione fiscale).
Il fatto che gli stati governino attraverso la coercizione non significa che siano onnipotenti. Gli
stati non monopolizzano mai perfettamente l’uso della forza. Questo ci spiega come mai North
sostiene solo che gli stati devono avere un “vantaggio comparato nella violenza” e Tilly che essi
hanno un controllo “sui principali strumenti della violenza”. L’uso della coercizione infatti non
significa necessariamente che uno stato riesca sempre a imporre la propria volontà (es. uno stato
non punisce ogni automobilista che beve alcolici. Oltre un certo punto, il costo marginale del far
valere la legge diventa talmente alto che qualsiasi stato preferisce permettere un certo grado di
inadempienza piuttosto che spendere ulteriori risorse per migliorare l’applicazione della legge.
Risultato: sebbene stati diversi giustifichino la coercizione in modi diversi, sebbene possano usare
la coercizione per scopi diversi, e sebbene il loro uso della coercizione possa avere effetti diversi,
per governare tutti gli stati fanno affidamento sulla possibilità di esercitare la coercizione e sul suo
effettivo impiego).
Gli stati che non riescono a impiegare la coercizione e usare la forza per controllare con
successo gli abitanti di un determinato territorio sono descritti come stati falliti. Es.
Afghanistan, Bosnia, Repubblica Democratica del Congo, Haiti, Liberia, Sierra Leone, Somalia,
Yemen e altri.
Questi stati hanno fallito perché incapaci di esercitare le funzioni che li definiscono in quanto stati,
vale a dire esercitare la coercizione e controllare con successo gli abitanti del loro territorio.

LA PROSPETTIVA CONTRATTUALISTA DELLO STATO

Hobbes, Locke e Rousseau si impegnarono in esperimenti mentali che li aiutassero a riflettere sul
ruolo dello stato nel mondo contemporaneo. Come sarebbero, si chiedevano le relazioni sociali tra
gli uomini in un mondo senza stati né governi?

Lo stato di natura

Hobbes descriveva la vita nello stato di natura come una “guerra di tutti contro tutti” in cui la vita
era solitaria, povera, violenta, brutale e breve. Riteneva che gli individui nello stato di natura si
trovassero di fronte a un dilemma.
Ogni individuo riconosce che avrebbe da guadagnare attaccando il sui vicino in un momento di
vulnerabilità; sa però che probabilmente anche i suoi vicini pensano esattamente la stessa cosa
nei suoi confronti. Hobbes credeva che in uno stato di natura, anche l’individuo più debole, se

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vuole, ha il potere di sopraffare il più forte, sia con l’inganno che alleandosi con altri che si sentono
minacciati dal potere del più forte. Nello stato di natura starebbero meglio se tutti si impegnassero
a non approfittare l’uno dell’altro. Però, se vi dovesse essere un atto di violenza o un furto, sarebbe
meglio essere l’aggressore piuttosto che la vittima. Senza un potere comune che tenga tutti in
soggezione questo era il dilemma che si trovavano a fronteggiare gli individui in uno stato di
natura.
Rousseau era preoccupate per l’uomo moderno e aveva una nozione romantica del “buon
selvaggio”. I teorici del contratto sociale sostenevano che c’era qualcosa di fondamentale nella
struttura che caratterizza lo stato di natura a rendere difficile per i cittadini comportarsi bene.
La teoria dei giochi ci aiuta a comprendere gli aspetti strutturali dello stato di natura attraverso
le parole di Hobbes: immaginate che ci siano due individui che desiderano la stessa cosa che
tuttavia non possono avere entrambi. In assenza di protezione da parte di terzi, un invasore
non ha da temere altro che la singola forza di un altro uomo. Di conseguenza, se uno pianta,
semina, costruisce, o possiede un’abitazione confortevole è possibile che vengano altri,
organizzatisi unendo e loro forze, per spossessarlo e privarlo non soltanto del frutto del
suo lavoro ma anche della vita o della libertà. E l’invasore a sua volta è nella stessa condizione
di pericolo di un altro. In queste condizioni, non c’è posto per l’industria, perché nessuno può
essere sicuro di poter godere del frutto della propria fatica.
Che cosa intende Hobbes? In questa interazione schematizzata entrambi gli individui hanno due
scelte: rubare o non rubare. Se un uomo non ruba, sta scegliendo di guadagnarsi da vivere
facendo qualcosa di produttivo anziché rubare. Che cosa dovrebbe fare? La scelta di ciascun
individuo è complicata perché quello che ognuno sceglierà di fare dipende da quello che pensa
farà l’altro. In questo caso, la teoria dei giochi è uno strumento molto utile per analizzare questo
tipo di situazioni strategiche.
Un gioco in forma normale o strategica è rappresentato da una matrice dei payoff che ci mostra
che cosa succede quando i giocatori decidono nello stesso momento; nei giochi normali in forma
normale le decisioni avvengono simultaneamente anziché in sequenza.
Nel nostro esempio, ognuno dei due deve decidere se rubare o non rubare. Ci sono quattro
possibili risultati:
- entrambi i giocatori non rubano
- il giocatore A ruba e il giocatore B non ruba
- il giocatore A non ruba e il giocatore B ruba
Che cosa vi aspettate che facciano i giocatori? Non potete saperlo, perché non sapete il
valore che da ciascun giocatore ai possibili esiti finali. Occorre conoscere il beneficio che ogni
giocatore associa a ogni singolo esito.
Basandovi su quanto dice Hobbes, come pensate che i giocatori ordinerebbero le loro preferenze?
Una possibilità è che l’esito migliore per ciascun giocatore sia rubare i beni dell’altro e tenersi i
suoi. L’esito migliore per ciascuno è quando lui ruba e l’altro non ruba. L’esito peggiore è il
contrario: quando lui non ruba e l’altro ruba.
Dalla descrizione di Hobbes gli individui preferirebbe il primo caso (entrambi non rubano) al
secondo (entrambi rubano). Preferirebbero questo esito perché quando entrambi scelgono di
rubare vivono in uno stato di guerra, che impedisce loro di intraprendere attività produttive e li
rende riluttanti a investire in cose che migliorerebbero le loro vite.
Basandoci quindi sulla concezione di stato di natura di Hobbes, possiamo compilare un
ordinamento delle preferenze per ciascun giocatore rispetto ai quattro esiti possibili; cioè
determiniamo come entrambi i giocatori ordinerebbero in graduatoria i diversi esiti possibili:

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A: (rubare; non rubare) > (non rubare; non rubare) > (rubare; rubare) > (non rubare; rubare);
B: (non rubare; rubare) > (non rubare; non rubare) > (rubare; rubare) > (rubare; non rubare).
Payoff ordinali: ci permettono di sapere come ciascun giocatore ordina in graduatoria tutti i
possibili esiti; non ci dicono quanto un giocatore preferisca un dato esito a un altro.
Risolviamo questo Gioco dello Stato di Natura utilizzando gli equilibri di Nash: si tratta cioè di un
insieme di strategie per cui nessun giocatore ha un incentivo a cambiare unilateralmente la propria
strategia alla luce di quello che fa l’altro giocatore. Si dice che entrambi i giocatori hanno le
risposte migliori in un equilibrio di Nash, ogni giocatore fa il meglio che può dato quello che l’altro
giocatore sta facendo.
(vedi esempio pag. 83)
Un aspetto interessante di questo gioco è che entrambi i giocatori scelgono di rubare
indipendentemente da quello che sceglie l’altro. Quando questo accade, si dice che entrambi
hanno una strategia dominante, e in questo caso abbiamo quello che è appunto chiamato
equilibrio di Nash basato su strategie dominanti. L’esito che possiamo aspettarci dal nostro
Gioco dello Stato di Natura, è che sarà improbabile che gli individui non rubino e che la ruberia
sarà endemica. Questo è il motivo per cui Hobbes descrive la vita allo Stato di Natura come
una “guerra di tutti contro tutti”.
Nel mondo reale, tuttavia, anche i deboli sono capaci a volte di sventare un attacco. Quando i due
attori hanno pari forza, gli attacchi avranno successo solo in momenti di vulnerabilità. Tuttavia, in
assenza di qualcuno che l tenga in uno stato di “soggezione” gli attacchi si verificheranno ogni
volta che se ne presenterà l’occasione. Quindi, gli individui diranno in un persistente stato di paura
che può essere debilitante, anche nei momenti di relativa calma.
Pensiamo, ad esempio, alla storia della Somalia. Molti osservatori hanno descritto questa
situazione come una versione odierna dello stato di natura di Hobbes. Oppure pensiamo all’Iraq,
durante l’occupazione americana, la regione del Darfur in Sudan, e alcune periferie di Los Angeles
a New York negli anni Ottanta ecc.
Di fatto, il mondo di Hobbes descriveva come assenza di invenzioni, commercio, arti e letteratura,
corrisponde con buona precisione a gran parte della storia umana.
Risolvendo il Gioco dello Stato di Natura con l’equilibrio di Nash, forse avete notato qualcosa di
strano. Infatti, l’equilibrio di Nash corrisponde al secondo esito peggiore per entrambi i giocatori, in
quanto questi ultimi avrebbero ottenuti di più se avessero scelto di non rubar. Per questo motivo
l’assenza di cooperazione rappresenta un dilemma: la razionalità individuale conduce gli attori a un
risultato che entrambi riconoscono inferiore a una possibile alternativa. La categoria di problemi in
cui la razionalità individuale produce risultati che tutti i componenti della società riconoscono come
inferiori ha affascinato i teorici della politica sin dai tempi di Hobbes. Il fatto che i giocatori
riconoscano che i loro comportamenti sono dannosi non sembra sufficiente a fare emergere la
cooperazione.
Parte del problema infatti, è che ogni attore potrebbe pensare che l’altro se ne approfitti. Cosa
accadrebbe se voi foste il solo a mantenere la promessa di comportarsi bene? Se l’avversario
rompesse la promessa e incominciasse a rubare, la risposta migliore sarebbe quella di fare
altrettanto.
Come sottolinea Hardin fare affidamento sulle promesse di buon comportamento o della
persuasione morale può avere conseguenze nefaste dal punto di vista evolutivo. Se il mondo
funziona davvero come il Gioco dello Stato di Natura, allora gli individui che si lasciano convincere
con le buone a comportarsi bene e a non fare agli altri quello che non vorreste che gli altri
facciano a voi probabilmente non potrebbero sopravvivere abbastanza a lungo da trasmettere

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queste idee alla loro progenie; quindi Hardin suggerisce che affidarsi alla persuasione morale
significa correre il rischio che le persone oneste vengano eliminate dalla società.

Società civile e contratto sociale

La soluzione di Hobbes ai problemi che si trovano di fronte gli individui nello stato di natura era
creare qualcosa o qualcuno - il Sovrano - dotato di una forza sufficiente tale per cui gli individui ne
abbiano soggezione. Hobbes si era reso conto che la promessa di non rubare non sarebbe stata
sufficiente a impedire che la gente rubasse. Credeva nella necessità di un potere coercitivo che
costringa gli uomini a ottemperare ai patti mediante la paura derivante da qualche
punizione più grande dei benefici che potrebbero aspettarsi dalla natura dei patti stessi.
Hobbes voleva un sovrano che potesse costringere gli individui a non rubare, per il loro stesso
bene. Il sovrano doveva essere creato attraverso un contratto sociale implicito tra gli individui
nello stato di natura. Gli individui avrebbero concordato tra loro di rinunciare ai propri diritti di
natura in cambio di diritti civili che sarebbero stati garantiti dal sovrano.
Hobbes riteneva lo stato di natura così deleterio che gli individui sarebbero stati disposti a
trasferire potere al sovrano in cambio di protezione. La visione di Hobbes aiuta a comprendere
perché così tanti afgana e somali siano stati pronti ad accettare “la legalità e l’ordine” portati dai
talebani e dal Consiglio Supremo delle Corti Islamiche.
Altri teorici, come Rousseau e Locke, erano più ottimisti circa il fatto che gli individui nello stato di
natura potessero raggiungere un certo grado di cooperazione: la misura in cui gli individuo in uno
stato di natura dovrebbero delegare l’autorità a una “terza parte che imponga il suo potere”, come
il sovrano, dovrebbe essere sempre valutata alla luce delle condizioni in cui si trovano. Tutti i
teorici del contratto sociale vedono lo stato come una terza parte che impone il sui potere per
distribuire punizioni agli individui che mettono in atto comportamenti socialmente distruttivi in
violazione del contratto sociale. Queste devono essere strutturate in modo che “rubare” non sia più
la strategia dominante per gli individui che vivono in società.
La nuova figura (pag. 86) mostra la stessa interazione tra due persone, A e B, con la presenza di
un giocatore passivo che è lo Stato, che vigila sullo sfondo e possiede la forza fisica necessaria
per punire questi individui se scelgono di rubare anziché non rubare.
Questo gioco lo chiamiamo Gioco della Società Civile, perché i teorici del contratto sociale usano
il termine società civile per descrivere la situazione in cui gli individui vivono in presenza di uno
stato. Anche qui, ogni giocatore deve decidere se rubare o non rubare, e nel caso uno dei due rubi,
lo stato gli assegna una punizione.
I quattro esiti possibili sono gli stessi di prima: entrambi i giocatori non rubano, entrambi rubano, il
giocatore A ruba ma il giocatore B non ruba, il giocatore A non ruba ma il giocatore B ruba. Una
volta stabilita la matrice dei payoff per il Gioco della Società Civile, si può esaminare se la
presenza di uno stato che distribuisce punizioni sia sufficiente a indurre buoni comportamenti da
parte degli individui in questione. La risposta è dipende.
Da che cosa dipende lo possiamo vedere risolvendo il Gioco della Società Civile, utilizzando gli
equilibri di Nash (pag. 87).

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Sembra che creando un terzo attore (lo stato) che si impegni a distribuire punizioni per i cattivi
comportamenti, si possa indurre gli individui a rinunciare a quel tipo di comportamento che rende
la vita nello stato di natura così terribile.
Problema risolto? No, ovviamente.
Iniziamo a chiederci perché qualcuno dovrebbe voler assumere il ruolo di sovrano e perché
dovrebbe farci un favore agente come nostro poliziotto. Una risposta comune: è che i membri
della società civile hanno un rapporto di scambio con lo stato. Il sovrano si impegna ad agire come
un poliziotto in cambio di tasse pagate dai cittadini. Uno degli utilizzi di questa tassazione sarà per
costruire il vantaggio comparato nell’uso della violenza e il controllo sui principali mezzi della
violenza da parte dello stato, in modo che questi possa assoggettare i cittadini e svolgere il suo
compito. Dato che uno stato sovrano esigere entrate fiscali per svolgere il proprio lavoro, non è
scontato che il cittadino preferirà lo stato di natura alla società civile; molto dipenderà dal livello
della tassazione: quindi non sempre i cittadini sceglieranno di creare uno stato.
Affinché lo stato possa costituire una soluzione allo stato di natura, come affermano i teorici del
contratto sociale, occorre che:
- la punizione imposta dallo stato per il furto sia sufficientemente alta tale per cui gli individui
preferiscano non rubare piuttosto che rubare
- che l’aliquota imposta dallo stato per agire come poliziotto non sia così alta da spingere gli
individui a preferire lo stato di natura alla società civile.
Questo confronto è fondamentale per la natura stessa della politica.
I teorici che vedono lo stato di natura come uno scenario deleterio si aspettano che i cittadini
accettino una serie di responsabilità molto penalizzanti in cambio di protezione fornita dallo stato.
E chi vede la società civile come qualcosa di solo marginalmente conveniente rispetto a un
efficace stato di natura porranno molte più restrizioni a ciò che lo stato può domandare ai suoi
cittadini.
Hobbes riteneva che la differenza tra una società civile e lo stato di natura fosse enorme. Per
questo motivo riteneva che qualsiasi livello di tassazione dei cittadini in cambio di protezione da
parte dello stato fosse un buon affare.
Jefferson riteneva che tutti noi abbiamo un diritto naturale alla vita, alla libertà e al perseguimento
della felicità, e che i nostri doveri nei confronti dello stato siano talmente limitati che probabilmente
dovremmo fare una rivoluzione o riscrivere la costituzione ogni vent’anni circa.
Il dibattito contemporaneo in corso negli USA e altrove, che si chiede se dobbiamo limitare le
libertà civili dando più potere allo stato nel tentativo di proteggerci da minacce terroristiche,
rispecchia questo dibattito storico tra Hobbes e Jefferson. Quei politici che sostengono che la
minaccia del terrorismo giustifica una riduzione delle libertà civili perché la libertà significa ben
poco senza la sicurezza stanno evidentemente dalla parte di Hobbes. In ogni caso, sembra chiaro
che, sebbene la creazione dello stato potrebbe risolvere il problema politico che esiste fra individui
di una società, potrebbe anche creare un potenziale problema tra gli individui e lo stato stesso. Se
cediamo il controllo sulla violenza dello stato, cosa impedisce allo stato di utilizzare questo potere
contro di noi? Come alcuni hanno osservato, chi ci guarderà dal guardiano? Una volta che lo stato
ha sviluppato un vantaggio comparato potremmo aspettarci una rinegoziarono del contratto
sociale, da far s’ che, per i cittadini sia indifferente scegliere tra lo stato di natura e la società civile.
E’ la paura che possa accedere qualcosa del genere che spinge i difensori delle libertà civili in tutto
il mondo a opporsi a tentativi in atto di trasferire poteri magici nelle mani dello stato. 

Il sovrano: nonni può vivere con lui, non si può vivere senza di lui.

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LA PROSPETTIVA PREDATORIA DELLO STATO

Essa si concentra su potenziali conflitti di interesse tra cittadini e lo stato. Gli studiosi cercano di
comprendere le condizioni in cui ci si può aspettare che lo stato faccia rispettare la legge e
promuova la cooperazione anziché servirsi del “vantaggio comparato nella violenza” per depredare
i cittadini. Secondo la prospettiva predatoria, i governi sono come gli individui nello stato di natura.
Anche loro devono affrontare il problema della propria sicurezza, in quanto hanno potenziali rivali
che tentano continuamente di prendere il loro posto.
Charles Tilly, il sociologo, si è spinto fino a sostenere che gli stati assomigliano a una forma di
criminalità organizzata e dovrebbero essere visti come racket dediti all’estorsione. Perché?
L’approccio predatorio guarda allo stato come a un’organizzazione che offre sicurezza in cambio di
entrate tributarie. La differenza è che il fornitore di sicurezza in questo caso viene a rappresentare
una minaccia fondamentale per una sicurezza durevole dall’acquirente. Lo stato quindi
assomiglia a un racket dedito all’estorsione perché chiede dei tributi ai cittadini all’interno della sua
giurisdizione in cambio dell’impegno a proteggerli, anche da se stesso.
I teorici della prospettiva predatoria sottolineano come, se non riteniamo che gli individui siano
meritevoli di fiducia e dotati di spirito civico, allora non c’è ragione per cui dovremmo pensare che
lo siano i rappresentanti dello stato, i quali detengono il monopolio della coercizione. I sostenitori
della prospettiva predatoria sostengono che il monito di Rousseau a prendere gli uomini per
come sono e le leggi per come possono essere si applica a chi governa e a chi è governato.
Tilly sostiene che il livello della depredazione perpetrata dai governanti nei confronti dei loro sudditi
nell’Europa della prima modernità variava da luogo a luogo perché chi governava si trovava di
fronte a un complesso sistema di pressioni incrociate. Questi governanti emergevano da quello
che a noi appare come un periodo senza legalità protrattosi per tutto il Medioevo. Dopo la caduta
dell’Impero Romano, l’Europa comprendeva un composito insieme di signori locali che offrivano
protezione ai contadini in cambio di affitto per l’uso della terra, pagato in natura o sotto forma di
lavoro nei terreni del padrone. Come vertici delle organizzazioni criminali, i signori feudali
cercavano di sottomettere i loro rivali. Negli anni, i territori feudali si consolidarono in possedimenti
più grandi sotto il controllo di sovrani feudali. Per qualche tempo questi re coesistettero con
qualche difficoltà con i signori locali; benché controllassero in prima persona alcuni possedimenti,
si affidavano spesso a signori locali perché controllassero altri territori a loro nome. Con il passare
del tempo, l’equilibrio del potere si spostò a favore dei sovrani e i signori locali finirono per
diventare loro sudditi. Il territorio controllato da questi sovrani iniziò a configurarsi come quella che
conosciamo come la geografia politica dell’Europa contemporanea.
Secondo Tilly, la geografia politica dell’Europa moderna è una conseguenza non intenzionale delle
strategie adottate da re e signori feudali per mantenere il proprio potere, che per restarvi si
impegnavano in quattro attività fondamentali:
- fare la guerra: eliminazione o neutralizzazione dei rivali al di fuori dei territori in cui essi
avevano una preminenza chiara e continuativa come detentori della forza;
- formazione dello stato: eliminazione o neutralizzazione dei rivali all’interno di tali territori;
- protezione: eliminazione o neutralizzazione dei nemici dei loro “clienti”;
- estrazione: acquisizione dei mezzi necessari a svolgere le prime tre attività.
Lo stato moderno quindi è nato come un sottoprodotto dei tentativi dei leader di sopravvivere.
Pressioni geopolitiche esterne ed evoluzione della tecnologia militare hanno fatto sì che i signori
feudali dovessero migliorare la loro capacità di fare la guerra per proteggere se stessi e i loro

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sudditi dagli attacchi di rivali esterni. Questa cresciuta capacità di fare la guerra poteva essere
usata contro i loro stessi sudditi per aumentare la capacità di estrarre ulteriori risorse che erano
necessarie per sconfiggere gli avversari.
La dinamica del tipo “uccidi o sarai ucciso”, che in larga misura sta alla base della prospettiva
predatoria dello stato, dimostra che gli stati odierni esistono solo in quanto sono riusciti ad avere la
meglio sui loro rivali che oggi non esistono più.
La necessità di estrarre risorse dai loro sudditi ha posto dei vincoli alla depredazione da parte di
alcuni dei primi leader moderni. I governati possono estrarre le risorse di cui hanno bisogno per
rispondere a pressioni geopolitiche in due modi:
- possono impadronirsi direttamente dei beni dei sudditi;
- possono cercare di estrarre le risorse di cui hanno bisogno tramite quello che Levi definisce
obbedienza quasi volontaria. Quest’ultima si riferisce a situazioni in cui il suddito si sente di
ottenere qualcosa in cambio delle tasse estratte dallo stato.
L’obbedienza quasi volontaria presenta molti vantaggi rispetto all’espropriazione diretta. I
governanti avrebbero bisogno di meno risorse per costringere i sudditi se questi
accondiscendessero spontaneamente alle loro richieste. In questo modo, quelli che fossero in
grado di ottenere un’obbedienza quasi volontaria potrebbero raccogliere con successo le risorse
di cui hanno bisogno per affrontare le sfide che vengono dall’esterno, senza uccidere la gallina
dalle uova d’oro. Tenendo a freno i loro istinti predatori, i governanti potrebbero aumentare la loro
capacità estrattiva netta riducendo i costi per svolgere le loro attività e appropriandosi di una
porzione più piccola di una torta più grande.

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Capitolo 5: concettualizzare e misurare la democrazia

DEMOCRAZIA E DITTATURA IN PROSPETTIVA STORICA

La democrazia ha acquisito una connotazione positiva nella seconda metà del XX secolo. Anche
paesi quasi unanimemente considerati dittatoriali hanno professato fedeltà agli ideali democratici,
adattando la definizione di democrazia in modo che il termine potesse essere applicato anche alla
loro forma di governo. Molti stati riconosciuti come dittature hanno nomi che fanno riferimento al
“popolo” o alla “democrazia”, come se questo li rendesse democratici.
Fino alla metà del XIX secolo la democrazia era comunemente vista come un sistema politico
obsoleto e antico, che era pericoloso e instabile. Uno dei motivi di questa concezione è che il
dibattito sulla forma migliore che doveva avere un governo aveva luogo tra le elite.
Possiamo far risalire le origini della riflessione nel merito delle diverse forme di governo, intorno al
520 a.C. in Persia. Tuttavia, furono Platone e Aristotele che per primi incominciarono a pensare
alle diverse forme che potevano assumere i regimi. Nella Repubblica, Platone sostiene che il
processo decisionale politico deve essere basato sulle competenze e che, se in una democrazia si
consentisse a tutti di governare, si avrebbe un “governo della plebe”. Platone infatti credeva che
solo gli esperti statisti dovessero guidare lo stato. La parola stessa demokratia spesso viene
tradotta come “governo del popolo” ma senza specificare chi si intenda per il popolo. Ai tempi di
Platone e Aristotele, demos si riferiva alla “gente comune”. Tuttavia, Platone pensava che la
democrazia non fosse il governo del popolo ma il governo dei poveri e degli ignoranti contro i ricci
e istruiti. Egli credeva che la massa ignorante sarebbe stata facilmente vittima della demagogia,
portando a democrazie di breve durata in cui il popolo cede il potere a un tiranno.
Aristotele era in disaccordo con Platone e credeva che ci fossero alcune condizioni secondo le
quali la volontà di molti avrebbe potuto essere più o ugualmente saggia della volontà di pochi. Ciò
non significa che avesse una buona opinione della democrazia. Nella sua Politica, egli classificò i
regimi in base al numero di governanti che avevano, sostenendo che il governo “deve essere nelle
mani di uno, di pochi o di molti”.
Egli credeva che i governi si dividessero in:
- forme benefiche: in queste i governanti agivano per il bene di tutti
- forme corrotte: i governanti agivano unicamente per il proprio bene.
Le forme benefiche erano:
- la monarchia
- l’aristocrazia
- la politeia
Le forme corrotte erano:
- la tirannia
- l’oligarchia
- la democrazia.
La preoccupazione di Aristotele era che ciascuna delle forme benefiche di governo potesse venire
corrotta e il bene comune potesse così essere sostituito dal bene dei governanti (es. una
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monarchia corrotta sarebbe diventata una tirannia; un’aristocrazia corrotta sarebbe diventata
un’oligarchia; una politeia corrotta sarebbe diventata una democrazia).
Aristotele sosteneva che si dovesse scegliere il tipo di governo che aveva la forma di corruzione
meno pericolosa e questa era l’aristocrazia. Egli, come Platone, credeva che la democrazia fosse
la più pericolosa tra l forme di governo perché caratterizzato da un governo di classe, in cui i
cittadini poveri e ignoranti governano perché caratterizzata da un governo di classe, in cui i
cittadini poveri e ignoranti governano per se stessi piuttosto che per la comunità. Alcuni degli stessi
timori nei confronti della democrazia furono avvertiti con altrettanta forza nel XVIII secolo e nel XIX
secolo, quando si discuteva sull’estensione del suffragio. Un esempio è Marx che affermò che il
suffragio universale e la democrazia inevitabilmente scatenano la guerra di classe. Erano gli
stessi motivi in base ai quali, nel corso del XX secolo, alcune categorie di individui premevano per
limitare il suffragio negli Stati Uniti.
Bisogna poi osservare che la democrazia ai tempi di Platone e Aristotele appariva diversa da come
la intendiamo. Ad esempio, essa non aveva niente a che fare con le elezioni. I capi venivano scelti
per elezione solo nelle forme aristocratiche di governo, mentre nelle democrazie venivano nominati
a sorte.
E quindi, l’opinione che la democrazia fosse un sistema in cui le cariche politiche erano
determinate per sorte resistette fino al XVIII secolo ed è per questo motivo che molti teorici della
politica come Hobbes, Hegel, Locke ecc., si schierarono a favore dei benefici della monarchia
contro quelli della democrazia. Ai loro occhi la democrazia era associata alla legiferazione diretta
da parte del popolo ed era possibile solo nelle città-stato del mondo antico.
Solo con il delinearsi di una più netta frattura tra democrazia e aristocrazia nell’epoca delle
rivoluzioni francese e americana, governo rappresentativo e democrazia cominciarono a diventare
sinonimi.
Nella realtà delle cose i signori e gli altri membri della nobiltà si schieravano spesso con il popolo
per liberarsi di governanti ingiusti. In questo senso, l’obbiettivo dei gruppi di opposizione erano i
monarchi corrotti piuttosto che la monarchia in sé. Questa situazione cominciò a cambiare con la
Rivoluzione Francese.

CLASSIFICARE DEMOCRAZIE E DITTATURE

Perché alcuni paesi sono democrazie e altri dittature? Quali fattori influenzano la sopravvivenza
della democrazia?
Per rispondere dobbiamo essere in grado di misurare la democrazia e classificare i paesi come
democrazie o dittature. Questo implica osservare dei fenomeni empirici concreti, ovvero tradurli
attraverso indicatori, che catturino il concetto astratto di democrazie.

La prospettiva di Dahl sulla democrazia


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Robert Dahl ha messo gli studiosi in guardia dall’adorare una visione sostanziale della
democrazia, che classifica i regimi politici in base ai risultati che producono. La visione di
democrazia di Aristotele che abbiamo descritto può essere vista come sostanziale, perché
distingue tra regimi buoni e regimi cattivi basandosi sul grado in cui essi servono il bene pubblico.
Dahl sosteneva che si gli studiosi dovessero usare definizioni sostanziali o normative di
democrazia ideale, aspettandosi che le vere democrazie governino in determinati modi e
producano determinati risultati, allora potrebbero incontrare difficoltà a trovare esempi di simili
regimi nel mondo reale. Dahl credeva che gli studiosi dovessero adottare una visione
procedurale o minimalista della democrazia, che classifichi i regimi politici secondo le loro
istituzioni e procedure.
Dahl identificò due dimensioni come importanti per classificare i regimi politici:
- il livello di competizione, o liberalizzazione. Essa ci dice la misura in cui i cittadini sono liberi di
organizzarsi in blocchi correnti per cercar di ottenere le politiche e i risultati che desiderano.
Aspetti legati alla competizione includono la libertà di formare dei partiti politici, la libertà di
parola e di assemblea, la misura in cui i capi sono scelti con elezioni libere e regolari. Essa
riguarda le procedure della competizione democratica.
- livello di inclusione, o partecipazione. Essa ci dice chi partecipa al processo democratico.
Pensiamo ai regimi politici in cui le barriere che ostacolano la naturalizzazione degli immigrati
sono basse e il suffragio elettorale è esteso a tutti i cittadini adulti, avranno un alto indice di
inclusione.
L’Unione Sovietica è un esempio di paese che aveva alti livelli di inclusione, perché tutti avevano
diritto a votare e partecipare, ma bassi livelli di competizione perché c’era solo un partito politico.
La Cina ha bassi livelli sia di inclusione che di competizione, perché c’è un solo partito e non ci
sono elezioni, al di là del livello municipale.
In Sudafrica durante l’apartheid e negli Stati Uniti prima del 1830 la competizione era alta, perché
c’erano elezioni cui partecipavano più partiti, ma l’inclusione era bassa perché c’erano vasti
segmenti della popolazione che non avevano diritto al voto o alla partecipazione.
Dahl riconosceva che la competizione e l’inclusione erano solo due aspetti di ciò che si è soliti
prendere in considerazione quando si pensa al concetto di democrazia. Proponeva quindi di
abbandonare il termine democrazia e usare la parola poliarchia, per descrivere un regime politico
con alti livelli sia di competizione che di inclusione. Un ulteriore motivo era il fatto che nessuno dei
grandi paesi del mondo mostrasse livelli sufficienti di competizione o di inclusione per essere
considerato a buon diritto una vera democrazia; tali paesi potevano essere più o meno lontani dal
tipo ideale di democrazia, ma non ci sarebbero mai arrivati veramente.

Tre misure di democrazia

Ci concentriamo sulle tre comunemente utilizzate nella letteratura sui regimi democratici:
-PACL: Przeworski, Alvarez, Cheibub e Limongi forniscono un indicatore annuale di
democrazia per 199 paesi dal 1946 fino al 2000. Secondo PACL, le democrazie sono regimi in cui
coloro che governano vengono scelti mediante elezioni competitive.

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Gli autori che hanno costruito questo tipo di misurazione forniscono quattro regole fondamentali
per operazionalizzare ciò che per loro è il concetto di democrazia. Il regime politico di un paese è
classificato come democrazia se vengono rispettate le seguenti condizioni:
- il capo dell’esecutivo viene eletto
- il legislativo viene eletto
- c’è più di un partito che compete alle elezioni
- c’è stata alternanza al potere sotto identiche regole elettorali.
Un paese viene classificato come autoritario se anche soltanto una di queste quattro condizioni
non è soddisfatta. Gli autori riconoscono che le elezioni non sono sufficienti per distinguere le
democrazie dalle autocrazie. E questo perché in gran parte dei paesi del mondo si sono tenute
elezioni legislative o presidenziali.
Gli autori riconoscono anche l’importanza della competizione, che richiede che ci sia più di un
partito, ma gli studiosi che hanno creato questa misura ritengono che essa esiga di molto più.
Secondo loro la competizione implica:
- incertezza ex ante: il risultato delle elezioni non deve potersi considerare scontato prima dello
svolgimenti. Questa esclude quei paesi come l’Iraq sotto Saddam Hussein, in cui non vi era
alcuna incertezza su quale candidato o partito avrebbe vinto prima che i votanti si recassero alle
urne.
- irreversibilità ex post: il vincitore della competizione elettorale deve, a seguito del suo
successo, ricoprire la carica politica in palio. Essa esclude paesi come l’Algeria nel 1991,
quando le forze armate intervennero per evitare che esponenti politici del Fronte Islamico di
Salvezza rivestissero cariche di governo in seguito al successo ottenuto al primo turno delle
elezioni legislative.
- ripetibilità: le elezioni devono svolgersi a intervalli regolari noti. Quest’ultima avrebbe escluso
paesi come la Germania di Weimar negli anni Trenta del Novecento, quando il Partito Nazista
andò al potere attraverso elezioni democratiche per poi sopprimere il confronto elettorale.
Queste tre caratteristiche della competizione forniscono la giustificazione per la quarta regola,
secondo cui un’alternanza al potere sotto identiche regole elettorali deve aver luogo prima che un
paese venga considerato effettivamente una democrazia. Un’alternanza al potere significa che
l’individuo a capo dell’esecutivo viene sostituito da un altro, attraverso il procedimento elettorale.
Senza alternanza al potere è impossibile distinguere tra regimi in cui i governanti in carica sono
sempre al potere perché sono popolari, e quelli in cui i governanti in carica indicono delle elezioni
solo perché sanno già che non le perderanno. Questi due scenari appaiono sostanzialmente
uguali.
La misura PACL si fonda sulle intuizioni di Dahl sotto due aspetti:
- corrisponde a una visione procedurale o minimalista della democrazia, perché le regole di
classificazione non prendono a riferimento prestazioni e risultati prodotto da diversi regimi
politici.
- si basa sulla nozione di competizione di Dahl.
Una differenza però rispetto all’approccio di Dahl è che questa misura ignora del tutto la
dimensione dell’inclusione. Gli autori giustificano questa scelta affermando che rispetto all’arco di
tempo da loro preso a riferimenti, i diversi paesi considerati non mostrano nessuna variazione
rilevante nel livello di inclusione.
Già nel 1946 quasi tutti i paesi del mondo avevano adottato il suffragio universale. Ma la a
differenza principale tra la misura PACL e lo schema di classificazione di Dahl, è che la prima

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tratta i regimi in modo dicotomico, mentre Dahl li considera dislocati lungo un continuum, ai cui
estremi si trovano le dittature forti e le democrazie forti.
Sebbene a misura PACL ammetta che alcuni regimi sono più democratici di altri, essa ha per
presupposto che i paesi in cui le cariche politiche non sono contenibili non debbano considerarsi
nemmeno in parte democratici. Gli autori credono che ci sia una differenza qualitativa tra le
democrazie e le dittature e che non abbia senso pensare che possa in astratto esistere una
condizione in cui un regime sia parimenti considerato democratico e dittatoriale, com’è impiccato in
una misura continua della democrazia.
Dovrebbe quindi essere chiaro che la scelta della misura PACL come misura dicotomica dipende
dalla concettualizzazione a partire dalla quale i suoi autori classificano i regimi politici e non, dal
fatto che essi ritengano impossibile determinare se taluni regimi siano più o meno democratici di
altri.

-POLITY IV: dal 1800 a oggi fornisce una valutazione annuale del livello di democrazia e
autocrazia per 184 paesi. I punteggi di democrazia e autocrazia assegnati a ciascun paese variano
da zero a dieci; viene poi costruito un indicatore sintetico chiamato polity score calcolato, per ogni
paese, sottraendo il punteggio di autocrazia dal punteggio di democrazia. Ne risulta che il Polity
score di un paese può variare da un minimo di -10 (corrispondente al massimo grado di autocrazia
o dittatura) a un massimo di +10, cioè il massimo grado di democrazia. Questa misura risponde
all’impostazione di Dahl nel determinare il grado di democrazia rispetto a un continuum.
Polity IV si richiama a Dahl perché fornisce una misura di democrazia minimalista e procedurale,
che non guarda a prestazioni e risultati effettivi.
Le regole del Polity score sono:
- competitività nella selezione dell’esecutivo
- trasparenza nella selezione dell’esecutivo
- vincoli imposti all’esecutivo
- regolamentazione della partecipazione politica
- competitività della partecipazione politica.
Tutte queste dimensioni comprendono le nozioni di Dahl di competizione e inclusione. Anche se
Polity IV aggiunge una dimensione al concetto di democrazia proposto da Dahl, ovvero che un
regime democratico deve avere limiti.

-FREEDOM HOUSE: dal 1972 fornisce un indicatore annuale della libertà globale per 192
paesi e diciotto territori. Sebbene non si tratti di un indicatore di democrazia, molti studiosi lo usano
come se lo fosse, presumibilmente in base all’assunzione che democrazia e libertà siano sinonimi.
Il punteggio Freedom House di un paese si basa su due dimensioni che indicano:
- il suo livello di tutela dei diritti politici
- il suo livello di tutela dei diritti civili.
Il grado di libertà lungo la dimensione dei diritti politici viene misurato con una serie di dieci
domande, ciascuna delle quali produce l’attribuzione di un punteggio da zero a quattro. Le
domande sono ad esempio: chi governa viene scelto con elezioni libere e corrette? C’è uno
stato di corruzione dilagante? Il governo deve rispondere del suo operato nel periodo che
intercorre tra un’elezione e l’altra? ecc.
Il punteggio ottenuto, fino a un massimo di 40 punti, viene convertito in una scala da 1 a 7; alla fine
ogni paese riceve da 1 a 7 punti lungo la dimensione dei diritti politici.

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Il grado di libertà lungo la dimensione dei diritti civili viene misurato con una serie di quindici
domande, ciascuna delle quali produce l’attribuzione di un punteggio da zero a quattro. Le
domande sono ad esempio: i mezzi di informazione sono liberi e indipendenti? Esistono
organizzazioni religiose libere? La magistrature è indipendente? I cittadini godono del
diritto di proprietà? ecc.
Il punteggio ottenuto, fino a un massimo di 60 punti, viene convertito in una scala da 1 a 7; alla fine
ogni paese riceve da 1 a 7 punti, anche lungo la dimensione dei diritti civili. Il punteggio totale per
ciascun paese è determinato dalla media dei punteggi ottenuti lungo le due dimensioni.
Le domande relative ai diritti politici e civili riflettono i contenuti dell’analisi di Dahl per quanto
riguarda i livelli di competizione e inclusione di ogni paese. Freedom House è coerente con
l’impostazione di Dahl anche rispetto alla rappresentazione concettuale di una democrazia nei
termini della sua collocazione lungo un continuum.
Tuttavia, nella prassi di ricerca molti studiosi scelgono di classificare i paesi come liberi,
democratici, parzialmente liberi, misti, e non liberi, dittature, basandosi sul punteggio da questi
ottenuto in base alla misura Freedom House: se un paese totalizza da 1 a 2,5 punti è considerato
libero; da 3 a 5,5 è parzialmente libero; da 5,5 a 7 è considerato non libero. Diversamente dagli
altri metodi, Freedom House utilizza una prospettiva sostanziale, più che procedurale della
democrazia. Ritiene che, malgrado alcune istituzioni siano necessarie per la democrazia, la loro
presenza non sia di per sé sufficienti; e volge la propria attenzione verso i risultati sostanziali
prodotti dai diversi regimi politici, quali la presenza di libertà scientifico-accademica, l’assenza di
guerra, e l’affrancamento delle disuguaglianze socioeconomiche.
Per concludere, PACL e Polity IV classificano la Turchia come democratica, mentre Freedom
House la considera un regime misto (parzialmente libero).

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Capitolo 6: le determinanti economiche della democrazia

LA TEORIA CLASSICA DELLA MODERNIZZAZIONE

La teoria della modernizzazione sostiene che tutte le società passano attraverso le stesse fasi
storiche di sviluppo economico. La tesi era che i paesi sottosviluppati si trovassero semplicemente
in una fase precedente di questo processo storico, rispetto ai paesi più sviluppati.
Rostow e Gerschenkron ritenevano che i paesi di Africa, Asia e America Latina negli anni
Cinquanta e Sessanta fossero versioni primitive delle nazioni europee, e che essi si sarebbero
alla fine sviluppati e sarebbero diventati simili all’Europa occidentale e agli Stati Uniti. Queste
società erano caratterizzate da un ampio settore agricolo e da ridotti settori dell’industria e dei
servizi. Questi paesi sarebbero cresciuti e sarebbero diventati società mature caratterizzate da
settori agricoli ridotti, ampi settori industriali e dei servizi.
I teorici della modernizzazione in scienza politica sostengono che quando una società passa
dall’essere immatura o tradizionale all’essere matura o moderna essa ha bisogno di dotarsi di un
tipo di governo più adatto Se le dittature sono sostenibili in società immature, esse non lo sono in
società mature una volta che esse si sviluppano automaticamente.
Infatti la democrazia scaturisce dalla dittatura mediante lo sviluppo economico. Przeworski e altri
sottolineano la tesi della teoria della modernizzazione secondo cui un paese diventerà democratico
non appena si svilupperà economicamente. Tuttavia, Lipset sostiene che la teoria della
modernizzazione implica che la democrazia avrà maggiori probabilità di sopravvivere in paesi
economicamente sviluppati, secondo le sue stesse parole: più una nazione è ricca, maggiori
sono le probabilità che essa rimanga una democrazia.
Per molti autori la terminologia usata dalla teoria della modernizzazione e le sue implicazioni sono
insoddisfacenti e problematiche. La teoria suggerisce che tutti i paesi, una volta mauri, finiranno
per assomigliare agli Stati Uniti e all’Europa occidentale. Sono stati effettuati diversi tentativi per
modificare la terminologia usata per descrivere i paesi primitivi, e lentamente si è arrivati a
chiamarli del terzo mondo. Tuttavia anche questo ha iniziato ad assumere una connotazione
negativa, perché il termine terzo implicava che questi paesi erano dietro al primo e al secondo
mondo. Di conseguenza gli studiosi hanno cominciato a riferirsi a questi paesi come
sottosviluppati.
Tuttavia, la teoria classica della modernizzazione è falsificata oppure no?
Una delle implicazioni centrali è che dovrebbe esistere una relazione stretta tra il livello di sviluppo
economico di un paese e il fatto che esso sia o meno una democrazia. Gli studiosi misurano lo
sviluppo economico in termini di ricchezza del paese poiché, quando i paesi si sviluppano, essi
tendono a diventare più ricchi. Esiste una relazione tra ricchezza e democrazia? In questo caso
la ricchezza è misurata dal reddito (o PIL) pro capite: esso indica il prodotto interno lordo pro
capite. Quest’ultimo misura il valore di tutti i beni e servizi prodotti all’interno di un dato paese
durante un determinato periodo, solitamente un anno. Il PIL pro capite è pari al prodotto interno
lordo di un paese diviso per la dimensione della popolazione. E’ una misura comune della quantità
di ricchezza per persona in una data economia.
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Sembra esservi una forte relazione tra ricchezza e democrazia. Ma questo implica che la teoria
classica della modernizzazione sia corretta?
Stando alla storia della sopravvivenza, un aumento della ricchezza promuove la sopravvivenza
della democrazia, ma non influisce sulle probabilità che un paese diventi una democrazia. Quale
delle due tesi è più accurata? Gli studiosi hanno svolto molte ricerche nel tentativo di rispondere
a questa domanda.
Adam Przeworski affermò che l’aumento della ricchezza aiuta sì le democrazie a sopravvivere,
ma non aiuta i paesi a diventare democratici. Egli sostiene che la scelta tra democrazia o
dittatura dipende dal tipo di risultati che ci attendiamo che questi regimi producano per noi.
Egli descrive la democrazia come un sistema dal quale ciascuno può aspettarsi un minimo di
risorse, e la dittatura come un sistema in cui ciascuno può vincere o perdere tutto. Nelle
democrazie, i cittadini si vedono normalmente garantiti almeno uno standard di vita minimo
perché le risorse sono distribuite in modo ampio. In una dittatura, i cittadini possono
verosimilmente diventare molto ricchi, se fanno parte della cerchia ristretta del dittatore, ma molto
poveri se non ne fanno parte. Una dittatura non è soltanto un mondo di estremi, ma anche un
mondo in cui la probabilità di essere dalla parte della cerchia del dittatore è molto bassa.
Immaginiamo di essere persone ricche che vivono in una democrazia. Come vivremmo in una
dittatura? La probabilità ce faremmo parte della cerchia del dittatore è bassa. Esiste una
possibilità molto elevata che non faremo parte della cerchia del dittatore e che perderemo ogni
cosa e diventeremmo molto poveri. Il passaggio a una dittatura è davvero un azzardo se si è
ricchi. Quindi per questa ragione la maggior parte delle persone ricche preferisce vivere in una
democrazia, e quindi i paesi ricchi tendono a rimanere democratici.
Immaginiamo di essere persone povere che vivono in una democrazia. Come vivremmo in
una dittatura? C’è un’alta probabilità che rimarremmo poveri. Esiste una piccola possibilità che
potremmo diventare ricchi se fossimo parte della cerchia del dittatore. Dato che siamo già poveri e
non abbiamo nulla da perdere, potremmo voler rischiare e passare a una dittatura. Quindi questa è
la ragione per cui le democrazie tendono a essere instabili nei paesi poveri.
La storia della sopravvivenza raccontata da Przeworski guarda alla situazione dal punto di vista
dei decisori che si trovano già in una democrazia. Egli sostiene che il processo attraverso il quale i
paesi diventano democratici potrebbe essere ignoto, ma se gli attori si trovano in una democrazia
a un dato momento storico, allora il livello di ricchezza, per le ragioni sopra indicate, influirà sulla
possibilità che essi rimangano in democrazia. Questo ha portato Przeworski e altri a sostenere che
l’emergere della democrazia potrebbe essere del tutto slegato dal livello di ricchezza di un paese
ma che osserveremmo una relazione duratura tra incremento della ricchezza e democrazia perché
le democrazie ricche sopravvivono più a lungo di quelle povere.
Perché? Immaginiamo che un paese oscilli tra dittatura e democrazia in maniera casuale. Alcune
volte un paese passa alla democrazia quando è ricco. Anche se la ricchezza non è la causa del
passaggio alla democrazia, essa aiuterà il paese a rimanere democratico. Altre volte un paese
passa alla democrazia quando è povero. Poiché il paese è povero, è più probabile che ritorni a
una dittatura. Se questa storia è corretta, ci ritroveremo in un mondo in cui quasi tutti i paesi ricchi
sono democratici ma in cui i paesi poveri continuano a oscillare tra democrazia e dittatura.
La teoria della modernizzazione prevede che la democrazia abbia maggiori probabilità di
emergere e sopravvivere quando i paesi si sviluppano e diventano più ricchi.
La storia della sopravvivenza di Przeworski predice che la democrazia abbia maggiori probabilità
di emergere, quando i paesi si sviluppano e diventano più ricchi.

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Entrambe queste tesi predicono che la democrazia sia più probabile nei paesi ricchi di quanto non
lo sia nei paesi poveri. Per determinare quindi se la teoria della modernizzazione è coerente con il
mondo che osserviamo non possiamo semplicemente andare a vedere se democrazia e ricchezza
vanno assieme.
Quando gli scienziati politici si trovano in questo tipo di situazione, essi devono provare a dedurre
ipotesi aggiuntive dalle loro teorie, nella speranza che queste ipotesi li aiutino a decidere quale
delle teorie concorrenti sia più coerente con il mondo che osserviamo. Tesi alternative avranno
sempre alcune implicazioni in comune ma esse devono differire per altre implicazioni. Dipende
dallo scienziato politico identificare quale tesi corrisponde alla realtà empirica.
Boix e Stokes riassumono le implicazioni della teoria della modernizzazione e della storia della
sopravvivenza tracciando il modo in cui ciascuna delle due tesi prevede che le probabilità di una
transizione alla democrazia e di una transizione alla dittatura varino all’aumentare della ricchezza.
Sia la teoria della modernizzazione, che quella della sopravvivenza predicono che le probabilità di
una transizione alla dittatura diminuiscono all’aumentare della ricchezza. Entrambe le spiegazioni
predicono che la crescita della ricchezza favorisce la sopravvivenza democratica. Cosa possiamo
dire sulle transizioni alla democrazia?
La probabilità che avvenga un qualsiasi tipo di transizione è la somma delle probabilità di una
transizione verso la dittatura e delle probabilità di una transizione verso la democrazia pesate per
la frequenza di ciascun tipo di transizione.
Secondo la storia della sopravvivenza, la probabilità che un paese sperimenti un qualsiasi tipo di
cambiamento di regime diminuisce all’aumentare della ricchezza. Ciò accade perché la storia della
sopravvivenza predice che una crescita della ricchezza aumenti la stabilità democratica, ma che
essa non abbia alcun effetto sulla stabilità delle dittature.
Al contrario, per la teoria della modernizzazione l’effetto dell’aumento della ricchezza sulla
probabilità di qualsiasi tipo di transizione di regime è ambiguo; perché l’aumento della ricchezza
aumenta la stabilità della democrazia, ma riduce la stabilità delle dittature.
Riassumendo quindi la teoria della modernizzazione e la storia della sopravvivenza hanno due
implicazioni in comune e due che le differenziano:
- la democrazia è più comune nei paesi ricchi che in quelli poveri
- le transizioni alla dittatura diventano meno probabili all’aumentare della ricchezza.
Secondo la teoria della modernizzazione:
- le transizioni alla democrazia diventano più probabili all’aumentare della ricchezza
- le transizioni di regime possono o meno diventare meno probabili all’aumentare della ricchezza
Secondo la storia della sopravvivenza:
- le transizioni alla democrazia non sono influenzate dall’aumento della ricchezza
- le transizioni di regime diventano meno probabili all’aumentare della ricchezza.
Le due implicazioni determinanti che ci consentono di distinguere tra teoria della modernizzazione
e storia della sopravvivenza riguardano:
- la frequenza delle transizioni di un regime in generale
- l’effetto dell’aumento di ricchezza sulle transizioni alla democrazia in particolare.
Quello che abbiamo bisogno di fare è guardare come la ricchezza influenzi la probabilità di una
transizione di regime e non semplicemente come influenzi il numero assoluto delle transizioni di
regime.

(esempi pag. 123/24/25)

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UNA VARIANTE DELLA TEORIA DELLA MODERNIZZAZIONE

Una critica avanzata alla teoria classica della modernizzazione è che essa manchi di un
meccanismo causale forte e che si affidi a correlazioni empiriche tra ricchezza e democrazia.
Esaminiamo ora una variante della teoria classica della modernizzazione che identifica in maniera
esplicita un meccanismo causale di collegamento tra sviluppo economico e democrazia.
Esaminiamo una variante della teoria classica della modernizzazione che identifica in maniera
esplicita un meccanismo causale di collegamento tra sviluppo economico e democrazia. Questa
variante sostiene che non è la ricchezza di per sé a favorire la democrazia ma i cambiamenti nella
struttura socioeconomica di un paese che ne accompagnano lo sviluppo economico. La variante
incorpora una visione predatoria dello stato e aiuta a mostrare perché alcuni governanti
condividono il potere o limitano le loro attività di estrazione delle risorse, mentre altri non lo fanno.

Sviluppo economico, risorse naturali e democrazia

Un cambiamento strutturale chiave ha a che vedere con la dimensione relativa dei settori
dell’economia. Tutte le economie possono essere suddivise nello stesso insieme di settori. Come
la dimensione relativa delle parti del corpo umano si modifica quando esse maturano, così si
modificano le dimensioni dei settori economici di una società. Agli stadi iniziali dello sviluppo i
paesi tendono ad avere un ampio settore agricolo ma un settore manifatturiero e dei servizi di
dimensioni ridotte. Quando il processo di modernizzazione genera maggiore efficienza nel settore
agricolo, si liberano risorse che possono essere utilizzate nell’industria e nei servizi.
Molti studiosi hanno sostenuto che questo è ciò che accadde in Europa durante la prima età
moderna. Non appena l’agricoltura divenne più efficiente furono necessari meno contadini per
lavorare la terra; questo condusse la popolazione a migrare dalle aree agricole a quelle urbane.
Questa migrazione ebbe luogo sia al vertice che alla base della piramide sociale. I contadini si
ritrovarono privi delle terre e i piccoli e medi proprietari terrieri si ritrovarono attratti e assorbiti dalle
attività commerciali delle città.
Nel diciassettesimo secolo, il processo di modernizzazione in Inghilterra aveva prodotto un
passaggio del potere economico da un numero relativamente ristretto di elite agrarie tradizionali, a
una classe emergente di produttori di lana, mercanti e intermediari, finanziari, che controllavano
risorse molto più difficili da osservare e quantificare, e per lo stato difficili da tassare. In tutto ciò, i
produttori di lana e la nuova gentry commerciale potevano occultare meglio le loro pecore e i
profitti dei loro affari. Secondo Bates e Lien, l’abilità della gentry nel nascondere le proprie risorse
alla predazione statale modificò l’equilibrio dei poteri tra gruppi sociali modernizzatori e sedi del
potere tradizionale, in particolare la Corona. I re e le regine d’Inghilterra si ritrovarono in una
posizione in cui la predazione non poteva più funzionare. Il risultato fu la supremazia del
Parlamento e l’esaurirsi delle vecchie forme di rappresentanza.
North e Weingast presentano un argomento simile, nel quale sostengono che l’emergere di attori
economici in grado di occultare le proprie risorse portò la Corona a cercare di rendere più credibile
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il suo impegno a rispettare i propri obblighi finanziari nei confronti dell’emergente classe di
finanziatori da cui sperava di ottenere prestiti per finanziare le guerre esterne. Un modo per farlo
era di rafforzare il potere del Parlamento rispetto alla Corona. Es: immaginate un re che ha
bisogno temporaneamente di raccogliere risorse aggiuntive rispetto a quelle garantite dalle tasse.
Il re sta conducendo una costosa guerra esterna contro una potenza rivale. Benché al re potrebbe
far comodo sfruttare i suoi cittadini e confiscare i beni di cui necessita come faceva in passato,
questa opzione è meno realistica ora che la nuova gentry può nascondere le proprie risorse. E’
probabile che il re debba chiedere in prestito il denaro di cui ha bisogno alla gentry, promettendo di
restituirlo in futuro con gli interessi. Il problema è che il re controlla l’uso della violenza entro il suo
territorio. Il risultato è che i detentori di capitali privati temono che il re non pagherà i propri debiti a
guerra finita e che non rivedranno il proprio denaro. Tuttavia non esiste alcuna autorità superare
al re che possa minacciarlo di riscuotere con la forza il denaro preso a prestito quando le acque si
sono fatte tranquille. Il debito sovrano - che si riferisce al debito accumulato dal sovrano, cioè
dal governo, crea ciò che chiamiamo problema dell’impegno credibile - o problema di
incoerenza temporale, che si verifica quando:
- un attore che fa una promessa oggi potrebbe avere un incentivo a rinnegarla nel futuro
- il potere è nelle mani dell’attore che fa la promessa e non di chi si aspetta di beneficiare
della promessa.
Anche se il re volesse impegnarsi in modo credibile di restituire il denaro avuto in prestito dalla
gentry, egli non può farlo perché non c’è nulla che la gentry possa fare per obbligare il re a
ripagare il sui debito una volta che questo sia stato contratto. Sapendo che non potranno forzare il
re a pagare il debito, i finanziatori saranno reticenti a prestare denaro al re.
North e Weingast suggeriscono una soluzione per questo problema: che è quella di rendere i
potenziali finanziatori della Corona più potenti rafforzando il ruolo e l’importanza del Parlamento.
Se il re verrà meno ai suoi impegni, sarà punito dal Parlamento.
Per capire perché torniamo al gioco dell’Uscita, della Voce e della Lealtà. Nell’antefatto del gioco,
la Corona per esigenze di guerra ha confiscato i beni di un segmento di elite rappresentata in
Parlamento, cioè ai parlamentari. Essi hanno a disposizione tre opzioni:
- prendere le risorse che rimangono loro e fare tutto il possibile per mettere al riparo da ulteriori
confische - in parte ritirando il loro patrimonio della produzione o consumandolo (uscita). Se i
parlamentari non investono più, l’economia tenderà alla stagnazione e la Corona disporrà in
futuro di meno beni da tassare o confiscare;
- fare una petizione nei confronti della Corona per chiedere assicurazioni contro confische future
in cambio della promessa di continuare a investire nell’economia il loro patrimonio (voce).
Assumeremo che la petizione richieda alla Corona di accettare di limitare il suo comportamento
predatorio in futuro, garantendo al Parlamento il diritto di veto sui futuri aumenti delle tasse o
istituendo un potere giudiziario in grado di disciplinare il comportamento della Corona;
- i parlamentari continuano a investire le loro risorse come facevano prima della confisca (lealtà).
Se i parlamentari decidono di utilizzare l’opzione voce e portare avanti una richiesta nei confronti
della Corona, la Corona può rispondere in due modi:
- può accettare i nuovi limiti al suo potere di tassare (accettare). Assumiamo che i parlamentari
continueranno a investire le loro risorse e l’economia crescerà.
- può rifiutare i nuovi limiti (rifiutare).
Se la Corona rifiuta i limiti, i parlamentari devono scegliere se continuare a investire come prima
(lealtà) o ritirare quantità cospicue di risorse dal mercato (uscita).

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Nella fig. 6.9 pag 132 risolviamo il gioco. L’equilibrio perfetto di Nash è: chiedere limiti,
disinvestire, accettare limiti.
La Corona decide di accettare i limiti al suo comportamento predatorio perché sa che le proprie
entrate dipendono da parlamentari e sa che i parlamentari disinvestiranno e usciranno se essa
rifiuterà tali limiti. E sapendo questo, i parlamentari utilizzano la voce e chiedono limiti alla Corona.
Bates e Lien sostengono che la modernizzazione del settore agricolo in Francia era a uno stato
meno avanzato e il motore dell’economia continuava a essere una oligarchia tradizionale che
ricavava la sua ricchezza da una produzione agricola basata su processi quasi-feudali, facili da
osservare e tassare.
Cosa succede se la Corona ignora le richieste?
Sapendo che la Corona ignorerà le loro richieste, i parlamentari continuano a investire e pagare le
loro tasse all’inizio del gioco. Questo scenario aiuta a spiegare perché la Corona francese rimase
assolutista in un periodo in cui la monarchia inglese stava accettando limiti al suo comportamento
predatorio.
Fin qui abbiamo assunto che la Corona dipende dai parlamentari per denaro e risorse. Cosa
succede se la Corona è autonoma e non dipende dai parlamentari?
Ci sono due scenari da considerare:
- uno in cui i parlamentari non dispongono di una opzione credibile di uscita
- uno in cui ne dispongono.
Se i parlamentari non possono avvalersi di una minaccia credibile di uscita - non dispongono di
risorse mobili - allora risponderanno alla predazione statale continuando a investire e a pagare le
loro tasse. Si comporteranno così perché sanno che la Corona non dipende in alcun modo da loro
e ignorerà qualsiasi loro richiesta. E il fatto che i parlamentari continuino a investire le loro risorse
significa che l’economia crescerà.
Se possono avvalersi di una credibile minaccia di uscita, sceglieranno di uscire e disinvestire
dall’economia - comprendendo che chiedere alla Corona di limitare il suo comportamento
predatorio non produrrebbe nessun risultato.
Gli esiti sono differenti. Tuttavia ci aspettiamo che la democrazia emerga e sopravviva solo quando
lo stato dipende da elite economiche che dispongono di opzioni di uscita credibili. Il governo
rappresentativo ha maggiori probabilità di emergere e sopravvivere quando i governanti di un
paese dipendono da un segmento della società costituito da un numero elevato di persone che
possiedono beni mobili.
L’argomento presentato ci aiuta ad alleviare alcune delle preoccupazioni che i teorici politici come
Locke nutrivano nei confronti della soluzione proposta da Hobbes per uscire dallo stato di natura.
Sebbene i pensatori come Locke riconoscessero che la creazione del stato poteva risolvere il
problema politico che i cittadini hanno gli uni verso gli altri, essi ritenevano che sorgesse un nuovo
problema tra i cittadini e lo stato. Una volta consegnato allo stato il controllo dell’uso della forza,
cosa avrebbe impedito a quest’ultimo di usare questo potere contro i cittadini? Esistono alcune
condizioni sotto le quali lo stato accetterà volontariamente di limitare il proprio comportamento
predatorio: quando lo stato dipende da segmenti della società che possiedono risorse mobili.
Un concetto centrale è quello di quasi-rendita. Si tratta della differenza tra il valore di un bene e il
suo costo opportunità nel breve periodo. Questo concetto può essere utilizzato per generalizzare
ulteriormente l’argomento presentato riguardo la Gloriosa Rivoluzione in Inghilterra. In tutte le
società esistono attori che derivano la propria ricchezza dal controllo di risorse che producono
enormi quasi-rendite. Questi subiscono gravi perdite quando il prezzo dei beni prodotti dall’utilizzo
migliore delle risorse crolla. Ma esistono anche alcuni attori che derivano la propria ricchezza dal

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controllo di risorse che possono essere riconvertite in risposta al cambio dei prezzi. Questi attori
derivano la propria ricchezza dalla flessibilità delle loro risorse, non dalla quasi-rendita. I membri
del primo gruppo che controllano beni che producono grandi quasi-rendite, è improbabile
dispongano di opzioni credibili di uscita. I membri del secondo gruppo che controllano risorse
liquide, possiedono opzioni di uscita credibili; se lo stato decide di predarle, loro muovono le
proprie risorse altrove, fuori dalla portata dello stato.
Secondo l’analisi del gioco Uscita, Voce, Lealtà, lo stato tenderà a essere sensibile ai bisogni dei
proprietari di beni liquidi - e si tratta cioè di una risorsa che non può essere facilmente
convertita in denaro contante - e tenderà a essere indifferente rispetto ai proprietari di beni fissi.
Questo suggerisce che quando gli stati dipendono dai proprietari di beni liquidi per investimenti e
risorse, essi saranno più propensi ad accettare limiti al proprio comportamento predatorio.
Questa interferenza è supportata da numerosi studi empirici che mostrano come la democrazia
difficilmente emerga e sopravviva in paesi in cui i proprietari di beni fissi sono prevalenti. Molti
studiosi hanno mostrato che la democrazia ha minori probabilità di emergere e sopravvivere
laddove la produzione di petrolio è centrale. Essi hanno parlato di stati redditieri per indicare
l’effetto negativo e pervasivo del petrolio. Si tratta di uno stato che deriva tutte o una parte
sostanziale delle sue entrate dalla rendita assicurata dalla vendita di risorse naturali locali a clienti
esterni.
Altri studi hanno mostrato che la democrazia è meno comune e meno stabile in paesi che fanno
affidamento su altre risorse primarie, come minerali, rame ecc. Questi risultati hanno portato a
parlare di maledizione delle risorse. L’esistenza di dittature ricche in virtù dell’abbondanza di
risorse naturali contraddice la tesi della teoria classica della modernizzazione secondo cui
l’aumento di ricchezza produce democrazia.

Aiuti allo sviluppo, disuguaglianza e performance economica

-AIUTI DI SVILUPPO: la democrazia ha scarse probabilità di emergere quando lo stato è


autonomo, cioè quando esso non dipende in alcun modo da elite economiche o dai suoi cittadini.
Quindi qualsiasi cosa rifui la dipendenza dello stato dai suoi cittadini danneggerà le prospettive
democratiche, e solleva una questione interessante sull’uso degli aiuti di stato.
Ma cosa sono gli aiuti di stato? Si tratta di aiuti, sotto forma di denaro, cibo, assistenza
tecnica, armi e beni simili, che il popolo di un paese fornisce a un altro paese. Questi aiuti
possono provenire da governi nazionali, organizzazioni intergovernative o donazioni
private.
Fornendo aiuti allo sviluppo a uno stato, si riduce la dipendenza di quello stato dai suoi cittadini e
si riduce anche l’incentivo per lo stato a produrre buone performance economiche, rendendo così
la vita del cittadino medio più misera e rendendo ancora più necessari gli siti allo sviluppo in futuro.
Quindi fornire aiuti alle dittature può inibire l’emergere della democrazia. Sebbene possa essere
gravoso vedere i cittadini di un altro paese vivere in condizioni di miseri sotto un pesante regime
dittatoriale, cercare di alleviarne la situazione fornendo aiuti allo sviluppo ai loro governi, può

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risultare un prolungamento delle loro sofferenze. Questa implicazione è coerente con molti studi
che mostrano come gli aiuti stranieri alle dittature danneggino il benessere del cittadino medio di
quei paesi e aiutino i dittatori a mantenersi al potere attraverso la corruzione e lo sfruttamento.
Gli aiuti allo sviluppo sono solo un esempio di politiche che rischiano di compromettere la
democrazia riducendo la dipendenza dello stato dai suoi cittadini. Una storia simile può essere
raccontata sulle politiche di decolonizzazione in Africa. Consegnando il potere direttamente nelle
mani di particolari elite e sostenendone i governi, le potenze coloniali europee ridussero la
dipendenza di queste nuove elite dai cittadini. Un risultato fu che queste elite non si sentirono
obbligate a offrire concessioni democratiche in cambio della possibilità e del diritto di governare.
Questo spiega perché tutte le giovani democrazie che erano state instaurate dalle potenze
coloniali in Africa diventarono dittature.

-DISEGUAGLIANZA: un numero di studi recenti ha sostenuto che le diseguaglianze


economiche compromettono la democrazia. L’affermazione secondo cui la diseguaglianza fa male
alla democrazia, ci riporta a De Tocqueville che sosteneva che l’eguaglianza economica fosse
importante per l’introduzione e la durata delle istituzioni democratiche. L’argomento di fondo è che
l’emergere della democrazia in società disuguali è probabile produca conflitti politici basati sula
ricchezza e sul reddito e grandi pressioni per una redistribuzione economica dai ricci ai poveri. La
possibilità che i poveri provino a espropriare i ricchi attraverso il voto fa apparire la democrazia
molto costosa per le elite. Risultato: l’aspettativa che le elite economiche ostacolino i tentativi di
democratizzazione e capeggino colpi di stato per sovvertire la democratizzazione in società
disuguali.
L’evidenza empirica a sostegno di questa teoria proviene da numero si paesi latino americani, in
cui le elite di destra hanno dato vita a colpi di stato per bloccare la redistribuzione in democrazia.
Questo aiuta a spiegare perché gli estensori della costituzione statunitense assegnarono il
suffragio solo ai maschi proprietari terrieri, in quanto credevano che se i poveri avessero ottenuto il
diritto di voto, avrebbero cercato di espropriare i ricchi.
Boix ritiene che la diseguaglianza economica promuova la sopravvivenza della democrazia, se
teniamo conto del livello di ricchezza di un paese. Altri hanno trovato che la diseguaglianza non ha
un effetto chiaro sulla stabilità della democrazia.
Anche il fatto che la diffusione del suffragio universale nel ventesimo secolo non abbia condotto
alla espropriazione dei ricchi da parte dei poveri sembrerebbe mettere in questione questi
argomenti. Una spiegazione per questi risultati misti e incoerenti ha a che vedere con la scarsità o
cattiva qualità dei dati disponibili sulle disuguaglianze. La logica però offre una spiegazione
alternativa: offre una ragione del perché i poveri non sempre espropriano i ricchi e del perché le
disuguaglianze economiche non sono necessariamente negative per la democrazia. Come
abbiamo visto, le elite economiche che dispongono di opzioni di uscita credibili potrebbero
costringere uno stato dipendente ad accettare limiti al suo comportamento predatorio.
La disuguaglianza economica dovrebbe essere dannosa per la democrazia solo in paesi in cui le
elite economiche non dispongano di opzioni credibili di uscita; dove esse dispongono di queste
opzioni, le elite dovrebbero essere disposte ad accettare la democrazia sapendo che i poveri
avrebbero incentivi a moderare le loro richieste di redistribuzione.

-PERFORMANCE ECONOMICA: le democrazie nel loro insieme dovrebbero essere


caratterizzate da buone performance economiche, e le performance economiche delle dittature
dovrebbero variare in modo considerevole.

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Le dittature in cui i cittadini non dispongono di minacce di uscita credibili dovrebbero mostrare un
andamento economico buono, perché i cittadini hanno poca scelta se non continuare a investire.
Viceversa, le dittature nelle quali i cittadini hanno minacce di uscita credibili offriamo prestazioni
economiche scadenti, poiché i cittadini rispiegheranno i loro beni e risorse altrove per evitare la
predazione da parte dello stato. La previsione per cui le dittature dovrebbero mostrare maggiori
variazioni nelle performance economiche rispetto alle democrazie è coerente con numerosi studi
teorici ed empirici. E’ supportata dall’evidenza tratta da Przeworski che trovano che la deviazione
standard nei tassi di crescita economica tra il 1959 e il 1990 era 7.04 per le dittature e solo 4.85
per le democrazie.
Il fatto che alcune dittature siano supposte aver economie in crescita può aiutare a spiegare
perché tanti economisti e scienziati politici non siano riusciti a trovare una chiara evidenza empirica
del fatto che le democrazia producano migliori performance economiche delle dittature. La variante
della teoria della modernizzazione suggerirebbe che sia inappropriato confrontare le performance
economiche delle democrazie e delle dittature, perché le performance economiche di tutti questi
regimi dipenderebbero dalla presenza/assenza di opzioni credibili di uscita.

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Capitolo 7: le determinati culturali della democrazia

Gli argomenti di matrice culturista sulla democrazia rientrano in due categorie:


- primordialisti o naturalisti: trattano la cultura come qualcosa di oggettivo ed ereditato;
qualcosa che è stato fissato in un periodo primordiale. La cultura è un attributo permanente e
irriducibile dell’individuo. Geerts descrive i legami culturali primordiali che includono fattori come
la consanguineità, la lingua, la razza, la religione e i costumi, come qualcosa che emerge da ciò
che è dato… dall’esistenza sociale. Secondo i primordialisti la cultura esiste prima
dell’interazione politica, e non ne viene alterata. E’ la cultura che influenza il comportamento
politico fornendo le linee guida ideologiche per l’azione collettiva, più di quanto il comportamento
politico forgi la cultura. Quindi istituzioni politiche come la democrazia possono non essere
compatibili con la cultura.
- costruttivisti o situazionisti: trattano la cultura come qualcosa che viene costruito, inventato,
piuttosto che ereditato. La cultura è un processo relazionale di attribuzione dei significati,
attivato in specifici contesti storici e sociali. Come i primordialisti, anche gli argomenti
costruttivisti affermano che la cultura ha un effetto causale e che una cultura democratica è
necessaria per l’emergere e il prosperare della democrazia. I costruttivisti però riconoscono che
le culture sono malleabili, e non sono date una volta per tutte, perché possono cambiare in
risposta ai comportamenti di attori sociali, economici e politici. Quindi le culture non sono
barriere impenetrabili alla democratizzazione. I costruttivisti riconoscono che la rapidità con la
quale le culture possono cambiare può variare da cultura a cultura.

GLI ARGOMENTI CULTURALISTI CLASSICI: MILL E MONTESQUIEU

L’idea per cui le istituzioni politiche come la democrazia o la dittatura sono più adatte ad alcune
culture che ad altre ha una lunga storia.
Il primo a scrivere dell’importanza della cultura per le istituzioni politiche fu Montesquieu nel XVIII
secolo, sostenendo che la monarchia si adatta agli stati europei e il dispotismo all’Oriente, e
che la democrazia sia più adatta al mondo antico. Credeva che il migliore governo per un
determinato paese fosse quello che guida gli uomini seguendo le loro propensioni e
inclinazioni e che si accorda meglio con l’umore e la disposizione delle persone per il bene
delle quali è stato istituito.
Che cosa implica tutto ciò? Egli sosteneva che le istituzioni politiche dovrebbero essere in
relazione al clima di ciascun paese, alla qualità del suo suolo, alla sua situazione e
dimensione, ecc. Per questo, egli arriva a sostenere che può solo essere in virtù del caso che le
istituzioni politiche di un paese possono venire esportate con successo in un altro.
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John Stuart Mill invece, sosteneva che le culture diverse sono adatte a istituzioni politiche
diverse. Egli affermava che nessuno crede che ogni popolo sia capace di far funzionare
qualsiasi tipo di istituzione, e per fare ciò sosteneva che soltanto una potenza straniera
potrebbe indurre una tribù di indiani del Nord America a sottomettersi alle costrizioni di un
governo regolare e civilizzato. Mill credeva che anche quelle persone che riconoscevano i
benefici di un governo civilizzato sarebbero dovute vivere sotto un dispotismo se non avevano le
caratteristiche richieste per supportare un sistema di governo migliore. Tali caratteristiche
includevano abitudini morali, mentali e la volontà di cooperare attivamente con la legge e
con le autorità pubbliche per reprimere chi compie il male. Esse includevano anche sviluppo,
contraddistinto da una stampa che rifletteva l’opinione pubblica e da un sistema di tassazione
sufficiente a supportare la forza necessaria a imporre obbedienza su un ampio territorio.
Mill credeva fermamente che i legislatori nel creare le istituzioni politiche di un paese, dovessero
tenere conto delle abitudini e degli orientamenti preesistenti. Egli è critico verso chi crede che
la cultura impedisca agli attori politici di scegliere le istituzioni che desiderano, poiché crede che le
persone imparano fare cose per loro nuove. La familiarità è di grande aiuto: ma soffermarsi
molto su un’idea la renderà familiare, anche se a prima vista strana.
Mill non considera i particolari tratti culturali come condizioni necessarie per la democrazia,
perché crede che la cultura sia plasmabile e che le persone possono imparare a diventare buoni
democratici. Egli riconosce che la rapidità con la quale una cultura può essere trasformata e
plasmata varia da paese a paese, ma non specula su quali fattori possano influire su questa
velocità di aggiustamento.
Gli argomenti culturalisti sostenuti da Montesquieu e Mill sono stati incorporati da rami della teoria
della modernizzazione culturale, che sostiene che lo sviluppo socio-economico non facilita
direttamente l’emergere della democrazia; mentre lo sviluppo economico produce alcuni
cambiamenti culturali, come l’emergere di una cultura civica, e sono questi cambiamenti culturali
che producono le riforme democratiche.
Gli argomenti dei due autori fanno luce su un complesso di potenziali problemi che caratterizzano
alcuni argomenti culturalisti contemporanei:
-un problema: è che nessuno dei due studiosi dice esattamente cosa vi sia nella cultura che ha
importanza per la democrazia. Entrambi forniscono una serie di fattori che potrebbero influenzare
l’emergere e il sopravvivere della democrazia. Tuttavia, quale morale è compatibile con la
democrazia? Quali costumi sono problematici? Inoltre, entrambi gli studiosi evidenziano numerosi
aspetti non culturali che hanno anch’essi influenza sulla democrazia, come il clima del paese, la
qualità del suolo e l’economia. Il punto chiave però è che gli argomenti culturalisti devono
specificare ciò che di culturale ha importanza per la democrazia; sennò non sarà mai possibile
concludere che la cultura non ha importanza.
-secondo problema: è relativo alle supposte relazioni causali tra fattori culturali, economici e
politici. La cultura è la causa dell’instaurazione e del consolidamento di particolari istituzioni
politiche quali quelle democratiche? E’ la causa anche dello sviluppo economico? O sono le
istituzioni politiche e lo sviluppo economico a influenzare la cultura? Qual è il verso della relazione
causale?
Mill e Montesquieu credevano che sviluppo economico e cultura fossero entrambi rilevanti per la
democrazia. Da ciò che hanno scritto è difficile discernere quale fosse secondo loro l’esatta
relazione causale tra questi fattori.

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LA DEMOCRAZIA RICHIEDE UNA CULTURA CIVICA?

Almond e Verba hanno riaperto il dibattito su cultura e democrazia negli anni Sessanta con i libro
La cultura civica. Essi riconoscono l’importanza dello sviluppo economico per la democrazia, ma
credono anche che solo la cultura possa fornire la base psicologica della democratizzazione e
che senza di essa le prospettive di sopravvivenza democratica siano esigue.
I due studiosi sostenevano che al mondo esistessero tre tipi base di cultura politica:
- provinciale: era compatibile con il sistema politico tradizionale delle tribù africane
- assoggettata: era compatibile con le istituzioni autoritarie e centralizzate come quelle dei paesi
sovietici dell’Europa orientale
- partecipativa: solo questa cultura, detta cultura civica risultava compatibile con la democrazia.
Secondo Almond e Verba la cultura politica è determinata da come gli individui pensano e sentono
rispetto al sistema politico. Questi studiosi ritenevano che possiamo studiare la cultura
conducendo sondaggi e chiedendo alle persone quali sono i loro orientamenti nei confronti delle
istituzioni politiche, dei loro attori e processi; la cultura politica di una nazione è la distribuzione
delle risposte a queste domande del sondaggio. Quindi, la cultura politica riflette un gruppo
coerente di atteggiamenti sociali.
Secondo gli studiosi una cultura partecipativa o civica riflette un gruppo di atteggiamenti che
include:
- la credenza degli individui di poter influenzare le decisioni politiche
- orientamenti positivi nei confronti del sistema politico
- elevati livelli di fiducia interpersonale
- preferenze per un cambiamento graduale della società.
Applicando la loro metodologia allo studio di Germania, Italia, Messico, Stati Uniti e Regno Unito,
Almond e Verba scoprirono che gli Stati Uniti e iil Regno Unito erano le democrazie più stabili nel
loro campione e avevano culture politiche che più assomigliavano all’ideale di cultura civica.
Ma che cos’è la cultura civica? Essa è un insieme condiviso di attitudini che include fattori quali
un elevato livello di fiducia interpersonale, una preferenza per un cambiamento graduale della
società, un elevato livello di sostegno per il sistema politico esistente ed elevati gradi di
soddisfazione di vita.
Inglehart è giunto a una conclusione simile dopo aver studiato le risposte ai sondaggi di
venticinque paesi industrializzati negli anni Ottanta. Egli credeva che società differenti siano
caratterizzate da una specifica combinazione di atteggiamenti politico-culturali, che queste
differenze siano persistenti, ma non immutabili e che esse possano avere conseguenze
politiche importanti, una delle quali è che esse si legano alla praticabilità delle istituzioni
democratiche.
Secondo Inglehart la cultura politica è determinata dai livelli di generale soddisfazione di vita,
fiducia interpersonale e dal sostegno per un cambiamento graduale della società tra gli individui di
una nazione. Egli scoprì che i paesi in cui i livelli di soddisfazione di vita, fiducia interpersonale e
supporto a cambiamento graduale della società erano elevati avevano maggiori probabilità di
essere democrazie stabili, rispetto ai paesi privi di queste caratteristiche.
Gli studi condotti da Inglehart, Almond e Verba rappresentano significativi miglioramenti dal punto
di vista scientifico rispetto agli argomenti culturalisti vaghi sviluppati da Mill e Montesquieu.
Entrambi gli studi cercano di specificare e sottoporre a verifica empirica quali fattori della cultura
siano importanti per la democrazia; in entrambi i casi tali fattori includono le attitudini verso

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cambiamenti sociali rivoluzionari e i livelli di fiducia interpersonale. Permane un po’ di confusione


rispetto all’esatta relazione causale tra cultura, sviluppo economico e democrazia.
Inglehart sostiene che lo sviluppo economico conduce a cambiamenti culturali e che siano tali
cambiamenti a condurre alla democrazia. Egli scrive che: la cultura politica è una variabile
interveniente cruciale tra lo sviluppo economico e democrazia, e che la relazione tra sviluppo
economico e l’instaurazione e la praticabilità di una democrazia di massa… è condizionata
da specifici cambiamenti culturali.
Barry sostiene invece che Almond e Verba abbiano invertito la direzione causale,e che sia
plausibile penare che l’esperienza con la democrazia favorisca l’emergere di una cultura
democratica quanto lo sia sostenere che una cultura civica sia la causa della democrazia.
Muller e Seligson forniscono evidenza empirica a questo proposito in uno studio condotto in
ventisette paesi. Essi dimostrano che un altro elemento della cultura civica di Inglehart, la
soddisfazione di vita, non ha effetti significativi sulla democrazia. L’unico elemento della cultura
civica che Muller e Seligson scoprono essere legato all democrazia è il livello di sostegno al
cambiamento rivoluzionario, quei paesi in cui poche persone propendono per un cambiamento
rivoluzionario hanno più probabilità di essere democratici. Quest’ultimo risultato fornisce poco
sostegno alla tesi secondo cui una cultura civica è necessaria per la democrazia, perché Muller e
Seligson mostrano anche che gli orientamenti verso un cambiamento rivoluzionario non sono
correlati ad altri aspetti della cultura civica. Essi dimostrano che la cultura civica non risulta essere
quell’insieme coerente di atteggiamenti rivendicato da alcuni studiosi. L’evidenza empirica secondo
cui qualche cultura civica è necessaria per la democrazia, non è schiacciante.
Ciononostante, Almond, Verba e Inglehart hanno incoraggiato l’uso dei sondaggi per esaminare la
relazione tra cultura e democrazia. Uno dei più importanti è il World Values Survey
dell’Università del Michigan. Il sondaggio è condotto da un gruppo di scienziati sociali che
lavorano presso le migliori università del mondo. Le interviste sono realizzate su campioni
nazionali rappresentativi di più di ottanta società, su tutti i cinque continenti; è costruito per
esaminare il cambiamento socio-culturale e politico più in generale. Gli studiosi possono
comparare i valori e le credenze di fondo delle persone di diverse nazioni per affrontare questioni
quali come questi valori e queste credenze influenzino la crescita economica e i livelli di
inquinamento ambientale.
Gli studiosi interessati alla relazione tra cultura e democrazia sono spesso attratti dalla seguente
domanda tratta dal World Values Survey: la democrazia può avere dei problemi, ma è migliore
di ogni altra forma di governo. Può dire per favore se lei è molto d’accordo, d’accordo o
molto contrario rispetto a questa affermazione?
Molte persone credono che il sostegno di massa a un particolare sistema di governo forniscano ai
sistemi politici la legittimazione di cui hanno bisogno per operare in modo efficace.
Il sostegno di massa alla democrazia è visto da alcuni come essenziale alla delegittimazione di un
regime dittatoriale e alla legittimazione di un democratico. Quindi un basso sostegno pubblico
riportato in domande come quella appena ripresa dal WVS è letto come un indice di instabilità
democratica.
Sebbene crediamo che sondaggi di questo tipo siano utili per affrontare problemi importanti
concernenti la relazione tra cultura e istituzioni democratiche resta importante riconoscerne i limiti.
Un limite è che i sondaggi possono catturare solo il modo in cui la cultura influenza la stabilità
democratica: non sono adatti ad affrontare il problema del se una certa cultura fornisca l’emergere
della democrazia. Per poterlo fare, tali sondaggi dovrebbero essere condotti fra la popolazione di
regimi autoritari. Un problema è che se ci fosse consentito di condurre un sondaggio in un pese

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caratterizzato da un regime non democratico, non è chiaro se i cittadini in quel paese si


troverebbero nelle condizioni necessarie per rispondere alla domanda liberamente. Infatti i
cittadini delle dittature fanno ricorso alla dissimulazione delle preferenze e non rivelano le loro
vere preferenze in pubblico per paura di essere puniti. Perciò, tutte le inferenze tratte da un
sondaggi condotto in una dittatura dovrebbero essere interpreta con molta cautela.
Un secondo limite è che gli individui possono comprendere la stessa domanda in modi
molto diversi.
Una ragione per la quale misurare la stabilità democratica sulla base degli atteggiamenti o delle
percezioni delle persone nei confronti della democrazia potrebbe essere problematico è che le
persone tendono a concepire la democrazia in modi diversi in paesi diversi. In più, è plausibile
aspettarsi che la storia nazionale influenzi il modo in cui gli individui valutano la democrazia. Essa
in paesi di recente democratizzazione è probabile venga giudicata sulla base di criteri differenti, a
seconda della natura del regime precedente e del processo di transizione. Pensiamo ad individui
che hanno dovuto affrontare una guerra civile, come Sri Lanka, che potrebbero valutare la
democrazia in riferimento al fatto che essa produca o meno la pace.
Il problema è che i confronti tra paesi delle risposte alle domande sulla democrazia potrebbero non
avere alcuna validità, pecche gli individui potrebbero concettualizzare la democrazia in modi molto
diversi.
Esaminiamo le risposte a due domande tratte dal World Values Survey che sono considerate degli
indicatori di stabilità democratica, e chiediamoci se abbiano una qualche validità apparente. La
prima domanda è: la democrazia può avere dei problemi, ma è migliore di ogni altra forma di
governo Può dire se lei è molto d’accordo, d’accordo, contrario o molto contrari rispetto a
questa affermazione?
La tesi è che il regime democratico in paesi con un punteggio basso, in questa domanda dovrebbe
essere più stabile del regime democratico in paesi con un punteggio alto. Ad esempio, il
Bangladesh dovrebbe essere la democrazia più stabile, in questo caso. La democrazia in
Bangladesh, Croazia, Repubblica Dominicana, Nigeria, Argentina e Montenegro dovrebbe essere
più stabile della democrazia negli Stati Uniti. Tuttavia, sospettiamo che pochi individui al mondo
sosterrebbero veramente che gli Stati Uniti siano meno stabili come democrazia di uno qualsiasi di
questi paesi.
La seconda domanda è: ritiene che il modo in cui la nostra società è organizzata dovrebbe
essere radicalmente cambiato da un’azione rivoluzionaria, che la nostra società dovrebbe
essere gradualmente migliorata mediante riforme, o che la nostra società deve essere
valorosamente difesa da tutte le forze sovversive?
Inglehart, Almond e Verba credevano che le preferenze per un cambiamento graduale della
società fossero elementi importanti della cultura civica. Il regime democratico di società con
preferenze per un cambiamento graduale, dovrebbe essere più stabile rispetto al regime di società
con preferenze per un cambiamento rivoluzionario. Infatti, Perù, Venezuela, Corea del Sud,
Taiwan, Bangladesh e Messico dovrebbero essere tutte democrazie più stabili degli Stati Uniti
perché più persone in questi paesi preferiscono un cambiamento graduale della società rispetto
agli Stati Uniti. In termini di una validità apparente, sospettiamo che pochi individui al mondo
sosterrebbero veramente che la democrazia degli Stati Unti sia meno stabile rispetto a quella di
degli questi paesi. I paesi con una forte credenza che la democrazia sia la migliore forma di
governo non sono necessariamente gli stessi paesi con un grado di sostegno a un cambiamento
graduale della società (es. Nigeria).

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RELIGIONE E DEMOCRAZIA

Gli argomenti culturalisti hanno affrontato la questione del se la religione influisca sull’instaurazione
e/o sulla stabilità della democrazia. Huntington ne Lo scontro di civiltà sostiene che le culture
islamica e cionfuciana siano incompatibili con la democrazia.

Alcune religioni sono incompatibili con la democrazia?

Stoicamente gli studiosi sono partiti dal presupposto secondo il quale ci sono stati cattivi
rapporti tra democrazia e Cattolicesimo, Cristianità, Ortodossa, Islam e Confucianesimo;
mentre Protestantesimo e democrazia sono stati collegati in modo positivo.
Max Weber è ritenuto lo studioso che ha fornito il primo argomento sul legame tra Protestantesimo
e democrazia nel suo libro L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Scrive Lipset: è stato suggerito, da Weber tra gli altri, che una concatenazione storicamente
unica di elementi ha prodotto sia la democrazia sia il capitalismo in questa area … l’enfasi
del Protestantesimo sulla responsabilità individuale ha favorito l’emergere di valori
democratici in questi paesi. La storia causale che collega il Protestantesimo alla democrazia è la
seguente: il Protestantesimo ha incoraggiato lo sviluppo economico, che ha creato una borghesia
la cui esistenza è stata un catalizzatore e una condizione necessaria per la democrazia.
Rodney Stark ha criticato l’enfasi weberiana sul Protestantesimo, sottolineando che molti degli
attribuiti del capitalismo moderno erano presenti nelle città-stato italiane prima della riforma
protestante. Il nuovo studio di Stark suggerisce che sia la Cristianità in generale, non il
Protestantesimo in sé, a incoraggiare la crescita di capitalismo e democrazia. Egli sostiene che
poiché la Cristianità è concentrata sull’ortodossia piuttosto che sull’ortoprassi, e poiché essa
celebra un Dio razionale e personale, in paesi a predominanza cristiana ha potuto svilupparsi un
ramo della scienza e della filosofia che ha promosso lo sviluppo dell’autogoverno democratico.
Altri studiosi hanno suggerito che il Protestantesimo sia realmente una determinante chiave dei
livelli contemporanei di democrazia.
Robert Woodberry ha sostenuto che la profondità e l’ampiezza dell’attività missionaria del
Protestantesimo durante il periodo coloniale aiuta a spiegare perché alcuni paesi sono oggi
democrazie e altri no. La ragione ha a che vedere con l’enfasi protestante sull’insegnare alle
persone a leggere le sacre scritture nella propria lingua. Questi sforzi missionari diffusero
l’educazione di massa e la stampa moderna nelle regioni coloniali, che a sua volta liberà molte
forze modernizzatici che incoraggiarono la democrazia.
Diversamente il Cattolicesimo è stato visto come antitetico alla democrazia.
Lipset ha sostenuto che l’enfasi del Cattolicesimo sulla presenza di una sola chiesa e una sola
verità sia incompatibile con il bisogno della democrazia di accettare come legittime varie ideologie
diverse e concorrenti. La gerarchia della Chiesa Cattolica e la distinzione tra clero e laici sono viste
come problematiche per l’accettazioni d’istituzioni socialmente e politicamente più egualitarie come
la democrazia. Coloro che ritengono che la democrazia si sviluppi con difficoltà in paesi cattolici,
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tengono a evidenziare come la Chiesa Cattolica abbia appoggiato dittature in diverse parti del
mondo nel passato (es. l’Italia fascista di Mussolini, la Spagna autoritaria di Franco).
Il Confucianesimo e l’Islam sono arrivati a essere visto come ostacoli più grandi del Cattolicesimo
alla creazione della democrazia.
Huntington sostiene che stiamo assistendo a uno scontro di civiltà e che i concetti occidentali
sono diversi da quelli prevalenti nelle altre civiltà. Le idee occidentali di individualismo,
liberalismo, costituzionalismo, diritti umani, uguaglianza, libertà, stato di diritto,
democrazia, libero mercato, separazione tra stato e chiesa, hanno scarsa risonanza nella
cultura islamica. Egli sostiene che la democrazia cionfuciana è una contraddizione in termini e
che non c’è nessun disaccordo scientifico in merito alla proposizione secondo la quale il
Confucianesimo tradizionale sia non-democratico e anti-democratico.
Il catalizzatore di questo dibattito è stata la Dichiarazione di Bangkok, del 1993 dai leader politici di
Cina, Indonesia, Malesia e Singapore, che affermavano che i valori asiatici giustificano un diverso
modo di intendere diritti umani e democrazia. Lee Kuan Yew ha suggerito che il rispetto del
Confucianesimo per l’autorità e la sua enfasi sulla comunità sono antitetiche alle interpretazioni
occidentali del liberalismo.
Sono state fornite ragioni del perché l’Islam sarebbe incompatibile con la democrazia. Uno
dei primi argomenti risale a Montesquieu che sosteneva che l’Islam si caratterizzava per una vena
violenta tale da predisporre le società mussulmane all’autoritarismo. Montesquieu scrive che la
religione cristiana è estranea al mero potere dispotico. La religione maomettana (Islam) che
si esprime solo attraverso la spada, agisce sugli uomini con lo stesso spirito distruttivo con
cui fu fondata.
Huntington sostiene che una delle ragioni per le quali la democrazia è così difficile da istituire nei
paesi islamici è che i musulmani sono inclini alla violenza politica;
- una seconda ragione riguarda la supposta incapacità dell’Islam di dissociare la sfera religiosa
da quella politica. Il riconoscere che Dio è sovrano ed è il legislatore primo ha condotto alcuni a
sostenere che lo stato Islamico sia nei suoi principi una teocrazia;
- una terza ragione riguarda il disuguale trattamento delle donne. Alcuni credono che il ruolo
repressivo e dominante del padre nella famiglia e degli uomini sulle donne nella cultura islamica
tenda a riprodursi nella società nel suo complesso, creando una cultura adatta all’autoritarismo.
Altri sostengono che la marginalizzazione sociale delle donne nella sfera politica esponga la
società all’autoritarismo perché gli uomini sono portato di atteggiamenti che incoraggiano la
dominazione.
Questo dibattito è stato ripreso anche in Italia, da Giovanni Sartori che scrive: la domanda è se
la storia ci racconti di casi dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici o di una loro
riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politico) in società non
islamiche. La risposta è sconfortante: no… l’Islam non è una religione domestica; è un
invasivo monoteismo teocratico che dopo un lungo ristagno si è risvegliato e si sta vieppiù
infiammando. Illudersi di integrarlo “italianizzandolo” è un rischio da giganteschi
sprovveduti, un rischio da non rischiare.
Perché questi argomenti potrebbero però essere fallaci? Un limite è che potenzialmente tutte le
religioni presentano alcuni elementi dottrinali che possono essere visti come compatibili con la
democrazia, e altri elementi che non possono essere. Questo è vero per il pro-democratico
Protestantesimo. Przeworski, Cheibub e Limongi sostengono che la legittimazione protestante
della disuguaglianza economica e l’etica individuale dell’interesse personale a essa associata
forniscono deboli basi morali per vivere insieme e risolvere i conflitti in modo pacifico.

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E il Confucianesimo e l’Islam?
Molti sostengono che queste religioni includono elementi che potrebbero renderle compatibili con
la democrazia. Alcuni rivendicano che il sistema meritocratico del Confucianesimo e la sua enfasi
sull’importanza dell’educazione e della tolleranza religiosa suggeriscono che esso possa sostenere
la democrazia. Lee Teng Hui rivendica che il Confucianesimo tradizionale prescriva un governo
limitato. Il Confucianesimo riconosce il diritto di ribellione contro i governanti che si discostano
dalla “Via” prescritta; inoltre l’esistenza di una sfera pubblica in Corea durante la dinastia Joseon,
sembrerebbe contraddire quelli che sostengono che il Confucianesimo non può sopportare la
democrazia perché non prevede il concetto di società civile. Nonostante l’affermazione del
contrario da parte di alcuni leader asiatici autoritari, sembra non esserci nulla di esplicito nel
Confucianesimo che in sé implichi come necessario un governo autoritario; molti degli elementi del
Confucianesimo sembrano adatti a una forma di governo democratico. Friedman si spinge al
punto di suggerire che le culture buddista e cionfuciana potrebbero avere più elementi
democratici della cultura greco-cristiana.
Molti studiosi sono in disaccordo con l’affermazione che l’Islam sul piano dottrinale sia
incompatibile con la democrazia. Numerosi hanno trovato una base per la democrazia nell’enfasi
del Corano sulla shura la quale richiede che perfino il messaggero di Allah debba consultare il suo
popolo sulle questioni mondane e che i musulmani debbano consultarsi tra loro nelle loro vicende
secolari. Molti studiosi islamici sono giunti alla conclusione che le elezioni generali e un
parlamento servono in modo appropriato il concetto di consultazione. Altri studiosi hanno
interpretato concetti islamici come ijima (consenso della comunità) e ijtihad (reinterpretazione)
come i principi legali come maslaha (bene pubblico), come basi per forme islamiche di governo
parlamentare, di elezioni rappresentative e di riforma religiosa.
Altri hanno suggerito che quelli che descrivono lo stato di diritto tipico di una democrazia come in
conflitto con la sharia o la legge islamica, postulano l’esistenza di una falsa dicotomia. E’ vero
che la sovranità risiede in luoghi diversi nella democrazia e nell’Islam. Ciononostante, la ragione
per la quale questa distinzione non dovrebbe essere enfatizzata troppo è che è lo stato, e non dio,
che esercita la sovranità nell’Islam.
E’ illuminante ricordare che fino al XVIII secolo la chiesa cristiana si oppose con veemenza sia alla
democrazia, sia al secolarismo, come molti sostenitori dell’Islam oggi. Per decenni, ci furono intesi
contrasti tra la chiesa e i sovrani da un lato e tra cristiani e laici dall’altro. Fu solo durante il XIX
secolo che la democrazia e il secolarismo divennero accettabili all’interno della società cristiana
occidentale.

Qualche evidenza empirica

In tutto ciò, che cosa ci dice l’evidenza empirica?


Essa suggerisce sempre più che le culture sono inventate, costruite e malleabili, piuttosto che
primordiali, ereditate, immutabili; perciò è inopportuno considerare particolari religioni o civiltà
come incompatibili con la democrazia in modo permanente.

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Eickelman e Piscatori mostrano che la dottrina islamica è stata interpretata in vari modi per
giustificare molti diversi tipi di governo.
Per quanto riguarda il Confucianesimo, il fatto che i commenti dell’ex primo ministro di Singapore,
Lee Kuan Yew, sulla relazione tra Confucianesimo e democrazia siano incompatibili con i
commenti dell’ex presidente di Taiwan, Lee Teng Hui, suggerisce che il Confucianesimo può
essere interpretato in modi diversi da persone diverse e può essere adattato per servire scopi
diversi.
Przeworski dice che le culture sono fatte di stoffa, ma il tessuto della cultura prende forme
diverse nelle mani di sarti diversi.
Notevole evidenza empirica supporta la tesi che la posizione di diverse religioni nei confronti delle
istituzioni politiche dipende non tanto dal contenuto della dottrina religiosa, ma dagli interessi dei
leader religiosi. Kalyvas mostra nel suo studio sulla nascita dei partiti di ispirazione cristiana in
Europa che il rapporto tra Cattolicesimo e democrazia dipende:
- dall’effettivo contenuto della fede cattolica
- dalle considerazioni strategiche delle élite interne alla Chiesa Cattolica.
Balmer sostiene una posizione simile rispetto ai protestanti nel suo resoconto sullo sviluppo della
destra religiosa negli Stati Uniti. Egli esamina le motivazioni che hanno reso il fondamentalismo
cattolico compatibile con la creazione della democrazia in Belgio nel XIX secolo e il
fondamentalismo islamico compatibile con essa in Algeria negli anni Novanta. Egli sostiene che le
ragioni per i diversi risultati nei due paesi non hanno tanto a che fare con effettive questioni
dottrinali, ma con le diverse strutture organizzative delle due religioni. Altri studiosi hanno
analogamente sottolineato il ruolo giocato dagli imprenditori culturali nel produrre un
cambiamento culturale, suggerendo che i conflitti sulla cultura tendono a essere una questione di
interessi e strategie, piuttosto che riguardare un primordiale contenuto culturale. Larga parte quindi
dell’evidenza empirica indebolisce la tesi di studiosi come Huntington secondo cui la tendenze
antidemocratiche di certe religioni e civiltà sono date una volta per tutte.
La realtà empirica è che tutte le religioni sono storicamente state compatibili con una varietà di
istituzioni politiche.
Fukuyama sostiene che i tipi di strutture politiche compatibili con il Confucianesimo sono
indeterminate. Il fatto che sia possibile distinguere tra Confucianesimo politico e Confucianesimo
quotidiano aiuta a spiegare perché il sistema imperiale imposto dal Confucianesimo politico
tradizionale poté essere abolito con relativa facilità in Cina con il rovesciamento della dinastia Qing
nel 1911 e sostituito con una verità di forme politico-istituzionali, senza che la società cinese
perdesse la sua essenziale coerenza. L’eredità importante del Confucianesimo tradizionale non è il
suo insegnamento politico, ma l’etica personale che regola gli atteggiamenti individuali verso
famiglia, lavoro ecc.
Anche i paesi islamici hanno una considerevole esperienza con forme diverse di sistemi politici.
Infatti, con l’eccezione dell’Iran e dell’Afghanistan, ci sono stati pochi precedenti storici di controllo
del potere politico da parte di mullah o leader religiosi in paesi islamici. Le élite politiche secolari
hanno avuto il controllo del potere politico nei paesi islamici di circa 1400 anni dalla morte del
profeta Maometto nel 632 d.C. Nonostante l’affermazione che l’Islam sia incompatibile con la
democrazia, è importante ricordare che centinaia di milioni di musulmani vivono oggi in paesi
democratici quali il Canada, la Francia, l’India, i Paesi Bassi, il Regno Unito e gli Stati Uniti. Vari
paesi con una popolazione a maggioranza musulmana, inoltre, sono considerati democrazie.
Chiaramente essere musulmani non preclude la possibilità di vivere una vita pacifica e costruttiva
in una società democratica. Possiamo trovare evidenze empiriche della compatibilità tra Islam e

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democrazia osservando il mondo di oggi, e possiamo anche trovare riscontri di istituzioni e


pratiche semi-democratiche nella storia di alcuni stati islamici. Es1: la Loya Jirga (Grande
Assemblea) in Afganistan, che ha operato fin dal 1709, quando il paese si mosse verso
l’indipendenza, interrompendo il dominio della dinastia persiana safavide. Essa è un consiglio
consultivo nel quale le élite del paese, leader religiosi ecc, prendono decisioni su questioni
rilevanti, risolvono conflitti tribali, attuano norme contingenti e approvano costituzioni.
Es2: è la Costituzione di Medina, del 622 d.C. Dopo essersi spostato da Mecca a Medina, il
profeta Maometto fondò il primo stato islamico. Egli cercò esplicitamente il consenso di tutti quelli
che sarebbero stati soggetti al suo governo, e si basò su un contratto sociale, che ebbe carattere
costituzionale, e i governanti governarono con il consenso esplicito e scritto di tutti i cittadini dello
stato. Esso mostrò l’importanza del consenso e della cooperazione per governare… I principi di
eguaglianza, governo consensuale, e pluralismo sono intessuti nella Costituzione di Medina.
Sebbene le culture tendano a essere malleabili e tutte le religioni siano state compatibili con una
varietà di istituzioni politiche, ci si potrebbe chiedere se certe religioni siano più o meno
compatibili con la democrazia di altre. Vari studi recenti hanno suggerito che l’Islam esercita
un’influenza negativa sulla democrazia.
Karatnycky ha trovato che esisteva un solo paese islamico nel 2001 classificato come libero,
mentre diciotto erano classificati come parzialmente liberi e ventotto come non liberi.
Fish conclude che la ragione per cui l’Islam esercita un’influenza negativa sulla democrazia è a
causa del trattamento che riserva alle donne. Perché? Egli osserva che:
- i paesi islamici tendono a essere caratterizzati da un maggiore divario dei livelli di
alfabetizzazione tra uomini e donne, da un numero inferiore di donne al governo e da misure
meno diffuse per una complessiva emancipazione delle donne.
- tutti i questi indicatori sulla condizione femminile riducono il punteggio Freedom House di un
paese.
Egli conclude quindi che il trattamento delle donne è almeno in parte responsabile della scarsa
performance democratica dei paesi islamici.
Cosa scoprirebbe un ricercatore che esaminasse gli effetti del Cattolicesimo sul livello di
democrazia di un paese nel 1976?
Scoprirebbe che dei quarantasette paesi a maggioranza cattolica, quattordici erano classificati
come liberi e sedici come non liberi; undici dei sedici paesi a maggioranza protestante erano
classificati come liberi e solo uno come non libero. Questa evidenza suggerirebbe che il
Cattolicesimo sia negativo per la democrazia, almeno nel confronto con il Protestantesimo. Se lo
stesso ricercatore esaminasse gli effetti del Cattolicesimo sul livello di un paese nel 2004, le sue
conclusioni sarebbero diverse. Dei cinquantasette paesi a maggioranza cattolica nel 2004,
quaranta erano codificati come liberi e solo tre come non liberi; dei ventitré paesi a maggioranza
protestante, diciassette erano classificati come liberi e uno come non libero. Mentre il
Cattolicesimo sembrava porre ostacoli alla democrazia da una prospettiva del 1976, questo non è
più vero da una prospettiva del 2004. Quindi può essere rischioso trarre conclusioni
definitive.
Emerge quindi che la maggior parte degli argomenti secondo i quali particolari religioni sarebbero
incompatibili con la democrazia, si basa su osservazioni del mondo in un particolare momento. Gli
argomenti che legano il Protestantesimo alla democrazia, e il Cattolicesimo all’autoritarismo si
sono sviluppati quando i paesi protestanti in tutto il mondo erano in prevalenza democratici e i
paesi cattolici erano autoritari. L’aver osservato questa differenza ha incoraggiato studiosi a
cercare le ragioni per cui il Protestantesimo potesse promuovere la democrazia e il Cattolicesimo

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la ostacolasse. La ricerca di una spiegazione inizia con l’osservazione di qualcosa che non
riusciamo a comprendere; ma se la spiegazione non suggerisce implicazioni comprovabili differenti
da quelle che hanno condotto alla spiegazione stessa, chiamiamo questa spiegazione ex posto o
a hoc. Queste spiegazioni violano le norme della scienza perché non favoriscono la falsificazione.
L’argomento secondo cui paesi cattolici siano intrinsecamente antidemocratici ha perso gran parte
della sua forza, perché i paesi cattolici sono oggi in prevalenza democratici. Oggi potremmo
sostenere che il Cattolicesimo aiuti la democratizzazione, visto l’importante ruolo giocato dalla
Chiesa Cattolica nel sostenere la transizione democratica in paesi quali Cile, Paraguay ecc.
Per quanto riguarda, infine, l’evidenza che l’Islam sia particolarmente negativo per la democrazia a
causa del modo in cui tratta le donne, data la decisione dell’autore di utilizzare Freedom House
come misura della democrazia è difficile stabilire se questa evidenza è realmente fondata. Il
punteggio Freedom House complessivo di ciascun paese varia in relazione al trattamento delle
donne in quel paese, semplicemente per il modo in cui è costruito. E’ quindi inappropriato fare un
test per vedere se la misura riferita al trattamento delle donne influisca sul punteggio Freedom
House di un paese. Di conseguenza, la domanda se l’Islam sia deleterio per la democrazia per via
del trattamento riservato alle donne resta aperta.

Alcune religioni sono incompatibili con la democrazia?


Un nuovo test.

Sappiamo che oggi paesi protestanti e cattolici tendono a essere dittature. Questo però non
stabilisce un nesso di casualità tra queste religioni e la democrazia. Quello che vogliamo sapere è
se la democrazia può essere trapiantata in paesi dominati da diverse religioni.
L’evidenza empirica per rispondere non è se in un dato momento un maggior numero di paesi
protestanti sia democratico rispetto ai paesi cattolici o musulmani. Ciò che abbiamo bisogno di
sapere è se la democrazia abbia maggiori o minori probabilità di emergere e sopravvivere in paesi
che sono dominati da protestanti, musulmani o cattolici. Abbiamo bisogno di esaminare l’effetto di
queste religioni sulla democrazia, e di sapere quale effetto ha essere un paese protestante,
cattolico, musulmano su:
- la probabilità di diventare una democrazia
- la probabilità di rimanere una democrazia.
E sottoponiamo a un test empirico le seguenti ipotesi:
- ipotesi cattolica: paesi con una popolazione a maggioranza cattolica hanno minori probabilità
di diventare/rimanere democratici
- ipotesi protestante: paesi con una popolazione a maggioranza protestante hanno maggiori
probabilità di diventare e rimanere democratici
- ipotesi mussulmana: paesi con una popolazione a maggioranza musulmana hanno minori
probabilità di diventare e rimanere democratici.
Ci sono ragioni per pensare che elevati livelli di eterogeneità cultura possano rendere singoli paesi
meno compatibili con la democrazia. Weingast sostiene che la democrazia può essere sostenuta

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solo se i cittadini possono coordinare le loro credenze su quando il governo è venuto meno ai suoi
impegni e quando essi devono prendere provvedimenti a riguardo. Questo coordinamento tra le
credenze potrebbe essere considerato una cultura democratica, qualcosa di necessario
all’emergere e al sopravvivere della democrazia.
Altri hanno argomentato che la diversità etnica sia negativa per la democrazia perché rende
difficile giungere a compromessi e aumenta il rischio di violenza tra le diverse comunità. Potremmo
sospettare che, anche paesi con un gran numero di gruppi religiosi o culturali siano problematici
per la democrazia. Nell’analisi empirica che segue, valutiamo anche le seguenti ipotesi:
- ipotesi del gruppo etnico: paesi con un gran numero di gruppi etnici hanno minori probabilità
di diventare e rimanere democratici;
- ipotesi del gruppo religioso: paesi con un gran numero di gruppi religiosi hanno minori
probabilità di diventare e rimanere democratici;
- ipotesi del gruppo culturale: paesi con un gran numero di gruppi culturali hanno minori
probabilità di diventare e rimanere democratici.
Cominciamo considerando l’instaurazione della democrazia.
I risultati delle nostre analisi sono presentati nella Tabella 7.2. La variabile dipendente è ciò che
vogliamo spiegare; essa è la probabilità che un paese diventi una democrazia, dato il fatto che
nell’anno precedente era una dittatura, e nel nostro caso è l’emergere della democrazia. Le
nostre variabili indipendenti, o esplicative sono i fattori che ipotizziamo possano influire
sull’emergere della democrazia. Accanto a ogni variabile indipendente, c’è un coefficiente e sotto
questo un errore standard. Il coefficiente indica la direzione in cui la variabile indipendente
influenza la probabilità di diventare una democrazia.
L’errore standard sotto il coefficiente ci dice quanta fiducia abbiamo nei nostri risultati.
Propendiamo ad avere più fiducia nei nostri risultati quanto più piccolo è l’errore standard relativo
al coefficiente. Possiamo essere fiduciosi al 95% che il coefficiente sia identificato correttamente
come positivo o negativo se esso è superiore al doppio dell’errore standard. Se è molto superiore
al doppio dell’errore standard, abbiamo ancora più fiducia nei nostri risultati.
Che cosa ci dicono i risultati della Tabella 7.2? Il modello 1 ci dice come il fato di avere una
maggioranza musulmana, cattolica, protestante influisca sulla probabilità che un paese diventi
democratico senza prendere in considerazione alcun altro elemento. Le nostre ipotesi sono che
paesi a maggioranza protestante avranno maggiori probabilità di diventare democrazie, mentre
casi a maggioranza cattolica o musulmana avranno minori probabilità di diventare democrazie.
Che cosa ci dice l’evidenza empirica? Il coefficiente di maggioranza musulmana è negativo e
significativo. Questo significa che paesi a maggioranza musulmana hanno meno probabilità degli
altri paesi di diventare democrazia. Ma non c’è evidenza che paesi a maggioranza protestante
abbiano maggiori probabilità di diventare democrazie rispetto ad altri paesi. Il coefficiente
maggioranza cattolica invece è positivo e significativo. Ciò significa che paesi con una
maggioranza cattolica hanno più probabilità degli altri di diventare democrazie. Così c’è scarsa
evidenza del fatto che il Cattolicesimo rappresenti un ostacolo all’emergere della democrazia,
anche se è l’opposto.
Se guardassimo solo ai risultati del modello 1 dovremmo concludere che paesi a maggioranza
musulmana non favoriscono l’instaurazione della democrazia. Sappiamo che questi paesi tendono
a essere più poveri di gran parte degli altri paesi, e noi sappiamo che i paesi poveri hanno minori
probabilità di diventare democrazie dei paesi ricchi. Quindi, potrebbe darsi che i paesi musulmani
abbiano minori probabilità di diventare democrazia non perché sono musulmani, ma perché sono
poveri.

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Perciò abbiamo incluso nel modello 2 le tre variabili che sono state usate nel capitolo precedente
per esaminare le determinati economiche della democrazia: il redito (PIL) pro capite in dollari
statunitensi a parità di potere d’acquisto al 1996, la crescita del PIL pro capite e se un paese è
produttore di petrolio. Una volta tenuto conto di tali determinanti economiche non esiste più alcuna
evidenza che i paesi a maggioranza musulmana non favoriscano l’emergere della democrazia. Il
coefficiente di maggioranza musulmana nel modello 2 è ancora negativo ma non è significativo.
L’evidenza suggerisce che i paesi musulmani hanno meno probabilità di diventare democrazia non
perché sono musulmani ma perché sono poveri. Se questi paesi potessero diventare più ricchi,
non c’è nessuna ragione per pensare che il fatto di essere a maggioranza musulmana porrà
maggiori ostacoli alla democratizzazione del paese rispetto al fatto di essere a maggioranza
protestante. Risulta quindi ancora che i paesi a maggioranza cattolica hanno probabilità maggiori
di diventare democratici rispetto agli altri.
E le altre ipotesi? I risultati nei modelli 3-5 indiano che non abbiamo ragioni per sospettare che la
diversità etnica, religiosa o culturale inibisca l’emergere della democrazia. Ciò accade perché
nessuno dei coefficienti di queste variabili è vicino a essere statisticamente significativo
Quali conclusioni possiamo trarre dalla nostra analisi dell’emergere della democrazia? Troviamo
che l’aumento di ricchezza rende le transizioni alla democrazia più probabili e che un’elevata
crescita economica rende le transizioni alla democrazia meno probabili. I paesi a maggioranza
cattolica hanno una probabilità maggiore di diventare democrazie rispetto agli altri paesi. La
presenza di una maggioranza protestante o musulmana in un paese non ha un effetto significativo
sulla probabilità che tale paese diventi una democrazia. La diversità etnica, religiosa e culturale
non sembra destabilizzare le dittature o favorire l’emergere della democrazia.
Possiamo investigare ora come i fattori influenzino al sua sopravvivenza. I risultati sono presenti
nella tabella 7.3. La variabile dipendente è la probabilità che un paese rimanga una democrazia
dato il fatto che era una democrazia l’anno precedente. Le variabili indipendenti o esplicative
sono diverse. Il fatto che un coefficiente sia positivo o negativo adesso ci dice se un aumento nelle
nostre variabili aumenti o diminuisca la probabilità di sopravvivenza della democrazia.
Cosa ci dicono i risultati? Il modello 1 ci dice quanto l’avere una maggioranza musulmana
influisca sulla probabilità che un paese democratico rimanga democratico. Emerge che non ci sono
state democrazie a maggioranza protestante che siano mai diventate dittature nei paesi e nel lasso
temporale del nostro campione. Questo indica che avere una maggioranza protestante è
fortemente associato alla sopravvivenza della democrazia; e questo prece il coefficiente di
maggioranza musulmana è negativo e molto significativo. Nel modello 1 sembra non esserci
alcuna evidenza del fatto che il Cattolicesimo sia deleterio per la democrazia.
E’ importante ricordare che paesi a maggioranza musulmana tendono a essere più poveri della
gran parte degli altri paesi. I paesi poveri hanno minori probabilità di sopravvivere come
democrazia rispetto ai paesi ricchi. I paesi musulmani hanno meno probabilità di sopravvivere
come democrazia non perché sono musulmani ma perché sono poveri.
Abbiamo incluso nel modello 2 le tre variabili: reddito, crescita del PIL e se un paese è un
produttore di petrolio. Una volta tenuto conto di tali determinanti economiche non esiste più
alcuna evidenza che avere una maggioranza musulmana sia negativo per il consolidamento della
democrazia. Il coefficiente di maggioranza musulmana nel modello 2 rimane negativo, ma non è
più statisticamente significativo. L’evidenza empirica suggerisce che i paesi musulmani abbiano
minori probabilità di restare democratici non perché sono musulmani, ma perché sono poveri. Se
potessero diventare più ricchi, allora i risultati presentati indicano che non c’è ragione per pensare
che una maggioranza musulmana sarà d’ostacolo alla sopravvivenza della democrazia.

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E le altre ipotesi? I risultati nei modello 3-5 indicano che paesi con un gran numero di gruppi
etnici o culturali hanno minori probabilità di rimanere democratici. Ciò accade perché i coefficienti
di queste variabili sono negativi e significativi. Non c’è alcuna evidenza del fatto che avere molti
gruppi religiosi influisca sulla sopravvivenza della democrazia.
Conclusioni:
- non c’è alcuna evidenza che paesi prevalentemente musulmani abbiano minori probabilità di
diventare o di restare delle democrazie. E’ vero che i paesi musulmani oggi hanno forme di
governo autoritarie. CI sono ragioni per credere, che ciò abbia maggiormente a che vedere con
il fatto che questi paesi tendano a essere poveri, piuttosto che col fatto che siano musulmani.
Così Huntington sembra essersi sbagliato nella sua affermazione che l’Islam ha
inclinazioni antidemocratiche;
- i paesi a maggioranza protestante non sembrano vere maggiori probabilità di diventare
democratici rispetto agli altri paesi. Anche se un paese a maggioranza protestanti diventi
democratico, allora esso rimarrà democratico. Questo è spiegato dal fatto che non ci sono
esempi nel nostro data set di una democrazia a maggioranza protestante che sia mai caduta in
dittatura, ma è difficile stabilire se ciò accada per effetto della religione o della ricchezza;
- i paesi a prevalenza cattolica hanno probabilità maggiori di diventare democrazia rispetto agli
altri paesi. Questo va contro l’argomento tradizionale secondo cui i paesi cattolici sono un
terreno difficile su cui la democrazia possa proliferare. Non è chiaro perché un paese a
maggioranza cattolica possa vedere accrescersi le sue probabilità di una transizione alla
democratica;
- i paesi etnicamente, religiosamente, e culturalmente diversi non sembrano avere minori
probabilità di diventare democrazie rispetto ai paesi relativamente più omogenei. Le diversità di
questo tipo non sembrano destabilizzare le dittature. Anzi, diversità etniche e culturali sembrano
destabilizzare le democrazie. La democrazie ha significative minori probabilità di sopravvivere
in paesi con molti gruppi culturali ed etnici; il numero dei gruppi religiosi non sembra importante.
Un’interpretazione di questi risultati è che la democrazia necessita in un qualche insieme
condiviso di valori e credenze per sopravvivere, mentre questo non è necessario per i regimi
autoritari;
- i fattori economici continuano ad avere un impatto importante sulla democrazia anche quando
teniamo in considerazione vari aspetti di tipo culturale. Paesi più ricchi hanno maggiori
probabilità di diventare e rimanere democratici. La crescita economica è positiva per la
sopravvivenza dei regimi sia democratici sia autoritari in quanto diminuisce la probabilità sia di
una transizione democratica sia di una crisi democratica.

ESPERIMENTI E CULTURA

Gli esperimenti che stiamo per esaminare coinvolgono individui che partecipano a giochi noti come
il gioco dell’ultimatum e il gioco del dittatore.
In un gioco dell’ultimatum: gli individui o soggetti/giocatori si affrontano in coppia. Il primo
giocatore, chiamato il proponente, dispone provvisoriamente di una torta, che sarebbe una

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somma di denaro. Il proponente offre una porzione di questa torta a un secondo giocatore, detto il
rispondente, il quale conoscendo sia l’offerta, sia l’ammontare totale della torta, può accettare o
rifiutare l’offerta del proponente. Se il rispondente accetta, riceve l’ammontare offerto e il
proponente ottiene il resto. Se rifiuta l’offerta, nessuno riceve alcun compenso. Il gioco finisce e i
due giocatori ricevono le loro vincite e lasciano il gioco.
Il gioco del dittatore: è in sostanza come quello dell’ultimatum, eccetto che i rispondenti non
hanno l’opportunità di rifiutare l’offerta; essi ottengono semplicemente qualsiasi cosa il proponente
decida.
Pensiamo ora, perché qualcuno potrebbe fare una buona offerta nel gioco dell’ultimatum? Ci
sono due possibili ragioni:
- il proponente potrebbe fare un’offerta buona spinto dal senso di equità. Il proponente capisce
che egli è stato scelto a caso per ricevere la torta e pensa che sia giusto offrirne un po’ al
rispondente;
- il proponente potrebbe fare una buona offerta per paura di un rifiuto. Il proponente fa un’offerta
buona solo per ridurre il rischio di non ricevere nulla se il rispondente la rifiuta. Nel gioco del
dittatore non esiste la paura di un rifiuto, perché il rispondente non può rifiutare l’offerta del
proponente. Quindi, qualsiasi offerta buona nel gioco del dittatore deve dipendere dal senso di
equità. Così, il gioco del dittatore consente agli analisti di distinguere tra proponenti che fanno
offerte buone spinti dal senso di equità e quelli che fanno offerte buone spinti dalla paura del
rifiuto.
Nel gioco dell’ultimatum, che cosa vi aspettereste che individui puramente interessati a se stessi
facciano se agiscono come proponenti? Ci aspetteremmo che un proponente puramente auto-
interessato offra ⍷ al rispondente, dove ⍷ è solo di poco superiore a zero. Ci aspetteremmo poi
che il rispondente accetti questa offerta perché ricevere ⍷ è chiaramente meglio che non ricevere
niente, che è ciò che entrambi i giocatori ottengono se il rispondente rifiuta.
+ vedi pag 176 libro.

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Capitolo 8: transizioni democratiche.

TRANSIZIONI DEMOCRATICHE DAL BASSO

Germania Est, 1989

Uno dei più importanti esempi di transizione democratica dal basso avvenne in Germania Est -
la Repubblica Democratica Tedesca - nel novembre 1989 quando proteste per le strade di Lipsia e
Berlino costrinsero il governo ad aprire il muro di Berlino e consentire libere elezioni. Il risultato fu
la nascita di una Germania Est democratica e la riunificazione della Germania nel 1990.
Il crollo del comunismo nella Germania Est e nell’Europa fu una sorpresa per gli osservatori del
tempo. Fino al 1989 i regimi comunisti avevano dato prova di notevole stabilità. C’erano state
poche insurrezioni o rivolte significative in Europa orientale nel corso del dopoguerra. Le rivolte
che si verificarono furono repressa mediante l’uso della forza e l’intervento militare diretto
dell’Unione Sovietica, il che scoraggiò ulteriormente l’Europa orientale dall’opporsi pubblicamente
ai governi comunisti. Un ruolo importante giocava la polizia segreta della Germania dell’Est o
STASI, la quale era nota per la sua abilità di monitorare e controllare le vite dei comuni cittadini.
Il collasso che alla fine si verificò ebbe più a che vedere con l’elezione di Gorbachov a segretario
generale del Partito Comunista in Unione Sovietica, l’11 marzo 1985. Egli aveva ereditato
un’Unione Sovietica in crisi. L’economia aveva iniziato a stagnare, e l’invasione sovietica
dell’Afghanistan stava consumando importanti risorse. Nel 1986 il disastro di Chernobyl, in cui un
reattore nucleare esplose e investì di pioggia radioattiva una buona parte dell’Europa, rivelò
brutalmente la natura disfunzionale di uno stato sovietico profondamente sclerotico e segreto.
Come nota William I. Hitchcock, il direttore dell’impianto nucleare di Chernobyl reagì
all’esplosione in uno stile tipicamente sovietico: rassicurò Mosca sul fatto che, nonostante
l’incidente, i livelli delle radiazioni erano normali; poi ordinò che le linee telefoniche
venissero tagliate. Il governo impiegò più di due settimane per intraprendere effettivamente
un’evacuazione dell’area.
Gorbachov rispose a questa crisi con due politiche di riforma chiamate:
- perestrojka: era una politica mirata alla liberalizzazione e rigenerazione dell’economia
sovietica;
- glasnost: era una politica concepita per aumentare l’apertura politica e incoraggiare la libertà di
espressione.
Sappiamo cosa accadde all’Unione Sovietica e Gorbachov era un comunista ardente che credeva
profondamente nel socialismo.
Le sue riforme liberalizzartici introdotte in Unione Sovietica ebbero l’effetto di incoraggiare riformisti
e gruppi di opposizione in altri paesi dell’Europa orientale. A seguito di una grande ondata di
scioperi, il governo polacco convocò una conferenza nel 1988 (Tavola Rotonda), con il principale
gruppo d’opposizione Solidarność (Solidarietà) per raggiungere un accordo su come affrontare i
problemi economici e politici. Il risultato di queste trattative fu la legalizzazione di un sindacato
indipendente ed elezioni a livello nazionale nel 1989 che produssero il primo primo ministro non

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comunista in Europa orientale in quarant’anni. I cambiamenti in Polonia incoraggiarono altri


riformisti in altri paesi comunisti.
Sebbene questi cambiamenti nell’Europa orientale avessero un chiaro significato, andrebbe notato
che le persone al tempo non li lessero come segnali dell’imminente collasso del controllo
comunista.
Le cose cominciarono a cambiare nella Germania orientale quando l’Ungheria decise di aprire il
suo confine con l’Austria nell’agosto del 1989, rompendo per la prima volta la cortina di ferro che
divideva l’Europa occidentale e l’Europa orientale. Sebbene i tedeschi dell’est siano stati sempre
relativamente liberi di viaggiare verso gli altri paesi comunisti in Europa orientale, non era
possibile ottenere il permesso di viaggiare verso l’ovest. Nel settembre del 1989, 13.000 tedeschi
dell’est fuggirono verso ovest attraverso il confine ungherese, ora aperto.
Sebbene però migliaia di tedeschi dell’est lasciarono il paese, emerse in Germania Est un gruppo
nascente d’opposizione, denominato Neues Forum, che chiedeva riforme. Fu l’emergere di
oppositori che chiedevano riforme e rifiutavano di andarsene che si rivelò essere la vera minaccia
alla tenuta del potere da parte del governo tedesco orientale. Le prime proteste erano piccole, ma
cominciarono presto a crescere quando l’incapacità del governo della Germania orientale a
intimidire e intraprendere misure severe contro i primi dimostranti incoraggiò un numero maggiore
di persone a partecipare.
Nonostante le proteste, il governo della Germania Est continuò le celebrazioni del 7 ottobre per
commemorare il quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Democratica
Tedesca. Queste celebrazioni includevano stravaganti parate militari, manifestazione pilotate a
favore del regime e una visita di Gorbachov. Tra l’imbarazzo generale della dirigenza della
Germania orientale, la folla alle parate, molta della quale era stata selezionata dagli ufficiali del
Partito Comunista, cominciò a chiedere aiuto a Gorbachov. Ignorando l’ammonimento di
quest’ultimo secondo cui la vita punisce i ritardatari, il leader oltranzista della Germania
Orientale, Honecker, reagì pochi giorni dopo la partenza di Gorbachov siglando l’ordine di sparare
per dare una soluzione cinese alle proteste.
Nonostante l’introduzione di piccole riforme, le proteste di massa continuarono e trovarono nuovo
impulso quando, durante un viaggio in Finlandia, Gorbachov annunciò che l’Unione Sovietica non
sarebbe intervenuta militarmente in Europa orientale a sostegno dei governi comunisti. Il 4
novembre, più di un milione di tedeschi dell’est riempirono le strade di Berlino est. Nel tentativo
estremo di bloccare le proteste sempre più diffuse, il governo della Germania Est, accettò il 9
novembre di rimuovere le restrizioni di viaggio verso l’ovest. L’annuncio di questa decisione
condusse decine di migliaia di berlinesi dell’est a precipitarsi al muro di Berlino, dove guardie di
confine stupite li lasciarono passare. Nelle seguenti settimane, l’intero sistema socialista in
Germania Est si dissolse.
La transizione verso la democrazia che ebbe luogo in Germani orientale nel 1989 non rappresenta
l’unico caso di transizione dal basso, in cui una mobilitazione popolare ha portato al rovesciamento
di un regime autoritario; ci sono stati altri casi (es. Cecoslovacchia, Romania, Filippine).
In quanto scienziati politici, occorre chiederci come possiamo spiegare questo tipo di transizioni dal
basso, e cominceremo esaminando la teoria dell’azione collettiva.

Teoria dell’azione collettiva

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L’azione collettiva si riferisce al perseguimento di un qualche obiettivo da parte di un


gruppo d’individui.
Essa si concentra su quelle forme di azione di massa o azione collettiva, come le proteste della
Germania orientale. Altri esempi di azione collettiva includono le rivoluzioni, le attività dei gruppi
d’interesse, gli scioperi, le elezioni, le raccolte di fondi organizzate dalla televisione pubblica, i
gruppi studenteschi e così via. Tipicamente, l’azione collettiva riguarda il perseguimento di beni
pubblici.
Un bene pubblico ha due caratteristiche:
- non escludibilità: ovvero è non escludibile se non potete impedirne la fruizione a quelle
persone nel gruppo che non hanno contribuito alla sua fornitura;
- non rivalità: ovvero se il suo consumo, da parte di un individuo, non riduce l’ammontare di bene
disponibile per il consumo da parte di altri individui del gruppo.
Un esempio: l’aria pulita.
Per gli scopi di questo capitolo, possiamo pensare alla democrazia come a un bene pubblico:
- è non escludibile nel senso che chiunque viva in una democrazia si avvantaggia del vivere sotto
regole democratiche, a prescindere dal fatto che abbia contribuito all’istituzione della
democrazia;
- è non rivale perché il godimento o il consumo della democrazia da parte di una persona non
riduce la disponibilità di democrazia che altri possono consumare.
Molti ammetteranno che la natura dei beni pubblici li rende molto desiderabili. Potreste aspettarvi
che gruppi d’individui con interessi comuni agiscano collettivamente per realizzare questi interessi.
Sebbene un famoso economista, Olson ha mostrato che ci sono ragioni molto valide per dubitare
del fatto che gli individui contribuiranno effettivamente alla fornitura dei beni pubblici o
intraprenderanno azioni collettive per realizzare i loro interessi comuni. La difficoltà che i gruppi
d’individui hanno nella fornitura di beni pubblici, che tutti i membri del gruppo desiderano, è nota
come il problema dell’azione collettiva o problema del free-rider: si riferisce al fatto che i
singoli membri di un gruppo spesso sono poco incentivati a contribuire alla fornitura di un
bene pubblico che andrà a beneficio di tutti membri del gruppo. Esso offre una spiegazione
del perché le proposte erano così rare in Europa orientale prima del 1989 e del perché i regimi
comunisti in quella parte del mondo sono sembrati stabili per molto tempo.
Iniziamo. Chiedetevi se partecipereste a una protesta a favore della democrazia come i
cittadini della Germania Est nel 1989 o stareste a casa. E’ importante riconoscere che la vostra
decisione individuale di contribuire al bene pubblico o di partecipare alle proteste a favore della
democrazia è improbabile che sia decisiva nel determinare se il bene pubblico verra fornito e se la
protesta avrà successo. E’ importante valutare i costi: e quelli di partecipazione includono
tempo, probabilmente spese, e forse, anche la perdita della vita.
Tutto sommato, la decisione di non partecipare alla protesta a favore della democrazia è
molto attraente:
- se il raduno per la democrazia fallisce, non avrete pagato alcun costo o corso il rischio di subire
l’ira del regime autoritario;
- se il raduno per la democrazia ha successo, potrete approfittare (free ride) della partecipazione
di altri, perché tutti possono beneficiare dell’instaurazione della democrazia sia che abbiano
partecipato alla protesta o meno.
Questa è la logica alla base del problema dell’azione collettiva. Essa aiuta a spiegare perché i
partiti politici cercano di convincere i loro sostenitori che tutti i loro voti sono cruciali per il loro
successo elettorale, anche se non è vero.

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Perché la dimensione del gruppo è importante? Perché influenzano l’abilità dei membri di un
gruppo di monitorare e punire la non partecipazione. Quanto più grande è il gruppo, tanto più
difficile è monitorare, identificare e punire quelli che non partecipano alla protesta. Risultato:
gruppi grandi tendono a essere caratterizzati da alti livelli di non partecipazione e da una bassa
probabilità che l’azione collettiva abbia successo.
La relazione tra dimensione del gruppo e successo dell’azione collettiva ha alcune
implicazioni importanti e controintuitive. La più importante è che gruppi piccoli possono essere più
potenti di gruppi grandi in virtù della maggiore abilità del piccolo gruppo di risolvere il problema
della non partecipazione. La relazione che abbiamo evidenziato quindi contraddice il problema
comunemente discusso nella teoria democratica, secondo cui la maggioranza può tiranneggiare e
sfruttare la minoranza. Potrebbe verificarsi anche il contrario. Il risultato presentato, ad esempio,
riguardo la dimensione del gruppo aiuta a spiegare perché gruppi economici piccoli sembrano
avere maggiore influenza sulle politiche rispetto a gruppi di consumatori o di lavoratori grandi.
Aiuta a spiegare perché gruppi di elettori piccoli come i fondamentalisti religiosi possono avere
un’influenza significativa sui risultati politici se confrontati con gruppi molto maggiori composti di
religiosi moderati e laici. Il problema del free-rider tende a danneggiare in misura maggiore l’abilità
di condurre forme di azione collettiva di un gruppo più grande rispetto a quella di un gruppo
piccolo.
La teoria dell’azione collettiva fornisce una possibile spiegazione dell’apparente stabilità del
comunismo nella Germania Est del dopoguerra e del motivo per cui dimostrazioni pubbliche di
opposizione al regime sono così rare nelle dittature. La teoria dell’azione collettiva ci ricorda che il
fatto che molti tedeschi dell’est condividessero un interesse comune nel rovesciamento del regime
comunista e nell’azione della democrazia non si traduceva automaticamente in una loro azione
collettiva per ottenere questo risultato. La natura di un bene pubblico ha creato un incentivo per i
tedeschi dell’est a evitare i costi potenziali della partecipazione in manifestazioni a favore della
democrazia e ad approfittare della partecipazione degli altri.

Modelli di ribaltamento

La teoria dell’azione collettiva, però, non può spiegare le proteste di massa che alla fine misero in
ginocchio il comunismo nel 1989-1990. La partecipazione diventa adesso l’enigma che deve
essere spiegato, e questa spiegazione può essere trovata in ciò che gli scienziati politici chiamano
modelli di ribaltamento o soglia.
Iniziamo con un individuo che deve scegliere se appoggiare od opporsi pubblicamente alla
dittatura. L’individuo ha una preferenza privata e una preferenza pubblica. La sua preferenza
privata è il suo vero atteggiamento verso la dittatura, e la sua preferenza pubblica è
l’atteggiamento verso la dittatura che rivela al mondo esterno. Dati i pericoli che possono
conseguire dal rivelare pubblicamente la propria opposizione a una dittatura, gli individui che si
oppongono al regime dittatoriale mascherano le proprie preferenze in pubblico; invece di opporsi
alla dittatura la sostengono. In Germania Est, come altrove, la gente ripetutamente applaudiva

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relatori il cui messaggio non condivideva, s’iscriveva a organizzazioni alla cui missione si
opponeva e firmava lettere diffamatorie nei confronti di persone che ammirava.
Una conseguenza della dissimulazione delle preferenze è che gli individui non conoscono il vero
livello di opposizione al regime in una dittatura perché pubblicamente tutti sembrano sopportarlo.
La percezione è che la società sia pubblicamente a sostegno della dittatura e che sia inutile
opporsi a essa. La dissimulazione delle preferenze fornisce una spiegazione della relativa stabilità
dell’Europa orientale nel dopoguerra alternativa, ma complementare, a quella della teoria
dell’azione collettiva. Suggerisce che anche se l’azione collettiva potesse essere organizzata, gli
individui potranno comunque scegliere di non protestare perché non sanno se gli altri sono contrari
al regime oppure no.
Vi è tuttavia un livello di protesta raggiunto il quale sarebbero disposti a rilevare pubblicamente le
proprie vere preferenze. Essi potrebbero non voler fare parte di una protesta di poche centinaia di
persone, ma potrebbero essere disposti a partecipare a una protesta di decine di migliaia o
centinaia di migliaia di persone. E così denominiamo il livello di protesta a cui un singolo individui è
disposto a partecipare con la sua soglia rivoluzionaria. L’intuizione che sta dietro la nozione è
abbastanza chiara: più la protesta diventa grande, più diventa difficile per le dittature identificare e
punire gli individui che partecipano. Quindi, il costo della partecipazione diminuisce in maniera
proporzionale al numero dei protestatari. Es: negli Stati Uniti opera l’Organizzazione Nazionale per
la Riforma delle Leggi sulla Marijuana che ha come obiettivo l’abrogazione delle sanzioni penali sul
processo privato e uso responsabile della marijuana da parte di adulti. Il fatto che molte persone
siano disposte a fumare marijuana in pubblico agli annali smoke-ins che vedono organizzati è un
classico esempi della logica sottesa alla nozione di soglie rivoluzionarie.
Gli individui hanno diverse soglie rivoluzionarie. Alcune persone sono coraggiose e sono
disposte a opporsi alle regole dittatoriali a dispetto di ciò che fanno gli altri. Queste persone sono
comunemente indicate come dissidenti politici e spesso sono accademici, scrittori o figure
religiose.
vedi es. pag 198
Quello che possiamo dire è che i fattori strutturali possono rendere le rivoluzioni più probabili
riducendo le soglie individuali, ma non rendendo le rivoluzioni inevitabili. La dissimulazione delle
preferenze implica che la distribuzione delle soglie rivoluzionarie di una società non è nota alle
persone in quella società. Ciascun individuo conosce la propria soglia rivoluzionaria, ma non quella
degli altri; perciò una società può arrivare alla soglia di una rivoluzione senza che nessuno lo
possa mai sapere. Le persone potrebbero essere pronte a partecipare a una rivolta se una sola
persona in più protesta pubblicamente, tuttavia, se quella persona in più non protesta, non si
verifica alcuna rivoluzione e la dittatura appare del tutto stabile. Anche se le persone fossero certe
che ci sia una dissimulazione delle preferenze, esse non potrebbero sapere se si trovano in una
società di tipo A o del tipo B. Ciò significa che è spesso impossible per gli osservatori distinguere
tra dittature molto stabili o molto fragili. La nostra incapacità di osservare le preferenze private e le
soglie rivoluzionarie, non ci permette di individuare potenziali cascate rivoluzionarie e rende le
rivoluzioni impossibili da prevedere. Le rivoluzioni ci coglieranno sempre di sorpresa, ed è per
questa ragione parliamo di prevedibilità dell’imprevedibilità.
Durante gli anni 1980, una serie di cambiamenti strutturali abbassò le soglie rivoluzionarie in
Europa orientale al punto da innescare una cascata rivoluzionaria entro i paesi e tra i paesi. La
nomina di Gorbachov e le sue politiche ridussero la percezione del rischio legato al cambiamento
dello status quo, riducendo quindi le soglie rivoluzionarie delle persone. Le soglie rivoluzionarie si
erano abbassate anche per effetto della pessima performance economica di molti paesi

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dell’Europa orientale a partire dagli anni 1980 e della dichiarazione di Gorbachov nel 1989
secondo cui l’Unione Sovietica non sarebbe intervenuta militarmente per sostenere i regimi
comunisti dell’Europa orientale. Il risultato: fu una cascata rivoluzionaria tra i paesi piuttosto che
tra gli individui. La cascata democratica che si verificò in Europa orientale è ben sintetizzata da
uno striscione di protesta visto a una manifestazione a favore della democrazia a Praga nel 1989.Il
messaggio dello striscione era che una transizione democratica aveva avuto luogo circa dieci anni
dopo la nascita di Solidarność in Polonia, dieci mesi dopo l’introduzione delle riforme in Ungheria,
dieci settimane dall’inizio delle proteste di massa in Germania Est e dieci giorni dopo l’inizio delle
manifestazioni a favore della democrazia in Cecoslovacchia.
Il crollo del comunismo in Europa è apparso a molti inevitabile. Storici, sociologi, scienziati
politici osservano che si era accumulato un enorme bacino di opposizione al regime comunista che
era destinato a esplodere a un certo punto. Quasi tutti gli intervistati affermano di aver contrastato
il regime comunista e di averne voluto la fine. Mentre la cascata rivoluzionaria inizia a dare vita a
una maggioranza schiacciante, diventa imprudente per voi restare dalla parte del governo.
Potreste perfino sentirvi obbligati ad aderire alle proteste a favore della democrazia, anche se
preferireste il loro fallimento. Questo comportamento si può anche chiamare salire sul carrozzone
rivoluzionario, per distinguerlo dalla cascata rivoluzionaria. Proprio come i sostenitori della
democrazia dissimulano le loro preferenze, sotto la dittatura per evitare sanzioni, i sostenitori della
dittatura dissimulano le loro preferenze in una democrazia, per ragioni analoghe. I sostenitori
dell’ex regime comunista tenderanno a mentire sulle loro vere preferenze e a far intendere che si
opponevano da lungo tempo al regime crollato. L’evidenza raccolta da quelle persone fa apparire
l’ex dittatura molto più instabile e meno amata di quanto non fosse.
In altre parole, le rivoluzioni appariranno sempre inevitabili col senno di poi, anche se, nel
momento pre-rivoluzionario, l’inevitabilità era alquanto lungi dal caso.

TRANSIZIONI DEMOCRATICHE DALL’ALTO

Le transizioni democratiche sono il risultato di una politica di liberalizzazione da parte delle stesse
élite autoritarie. Questa politica di liberalizzazione ha lo scopo di rafforzare la dittatura, ma a volte
porta inavvertitamente alla democrazia. Es: in Brasile, tra il 1982 e il 1985; Uruguay tra il 1983 e
1984 e Cile.

Un modello di teoria dei giochi delle transizioni dall’alto.


La storia:
Le transizioni dall’alto verso la democrazia spesso emergono da una divisione tra riformisti e
conservatori in un regime autoritario. Il regime è oggetto di una qualche forma di pressione a
causa di un peggioramento delle condizioni economiche e i riformisti sono saliti alla ribalta. Mentre
i conservatori tendono a essere soddisfatti dello status quo, i riformisti possono preferire la
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liberalizzazione e l’ampliamento della base sociale della dittatura nel tentativo di guadagnare
alleati e di rafforzare la loro posizione nei confronti dei conservatori. I riformisti devono compiere
una scelta: devono aprire il regime politico attraverso un processo di liberalizzazione o
devono mantenere lo status quo?
Una politica di liberalizzazione comporta un’apertura controllata dello spazio politico che
potrebbe includere la formazione di partiti politici, l’indizione di elezioni,, la stesura di una
costituzione, l’istituzione di un sistema giudiziario o di un legislativo e così via. L’obiettivo di
qualsiasi “apertura” per i riformisti non è l’istituzione della democrazia, ma l’inclusione di vari gruppi
di opposizione nelle istituzioni autoritarie. Il processo di liberalizzazione è tipicamente un tentativo
da parte delle élite autoritarie di cooptare o di dividere e dominare i gruppi di opposizione.
L’obiettivo designato non è la democrazia ma quella che potremmo chiamare una dittatura
allargata.
Lust-Okar utilizza l’evidenza tratta da Egitto, Giordania e Marocco per mostrare come le élite
autoritarie hanno utilizzato periodi di liberalizzazione e istituzionalizzazione per dividere e
controllare i gruppi di opposizione. La studiosa mostra come i dittatori in questi paesi siano stati in
grado di influenzare il momento in cui gli oppositori si sono uniti e si sono divisi, così come il
momento in cui sono emersi e si sono dissolti, creando regole e istituzioni che consentono ad
alcuni gruppi, ma non ad altri di partecipare alla sfera politica formale.
Occorre inoltre notare che le dittature allargate caratterizzate da istituzioni apparentemente
democratiche, come le elezioni, i partiti e le legislature, sono sempre più diffuse nel mondo.
L’implicazione è che il processo di liberalizzazione condurrà dal fine alla transizione verso una
democrazia piena. Questa credenza spesso incoraggia alcuni studiosi a chiamare questi regimi
misti, ibridi o democrazie parziali o parzialmente libere, come se si trattasse di regimi a metà
strada tra democrazie e dittature. Tuttavia, appare che le dittature allargate non siano
necessariamente regimi che stanno intraprendendo una lunga tradizione democratica. In realtà, la
liberalizzazione e l’istituzionalizzazione possono migliorare in modo significativo la stabilità del
regime dittatoriale.
Molti studiosi hanno dimostrato che particolari istituzioni potrebbero esser usate dalle élite
autoritarie per cooptare o controllare gruppi di opposizione, al fine di rafforzare il proprio potere:
-Geddes sostiene che le elezioni possono essere usate per mostrare la forza schiacciante della
dittatura a potenziali gruppi di opposizione che pensassero di sfidarla;
-Lust-Okar suggerisce che le elezioni possono essere una forza stabilizzatrice perché forniscono
un’arena per la distribuzione di favori particolaristici e un mezzo per reclutare e ricompensare l’élite
politica;
-Milton Obote propagandò le potenzialità stabilizzanti delle elezioni quando stabilì che le elezioni
erano per lui un modo per controllare la gente piuttosto che un mezzo attraverso cui la gente
poteva controllare lui;
-Gershenson e Grossman sottolineano come i partiti politici possono aiutare le dittature a
mobilizzare i sostenitori, pervadere la società e controllare l’opposizione anche a livello locale;
-Schwedler suggerisce che un legislativo può avere l’effetto benefico di consentire a gruppi di
opposizione di esprimere le proprie richieste senza dover contrastare pubblicamente il regime
autoritario;
-Brown sostiene che le costituzioni scritte possono rendere le dittature più stabili ed efficaci.
Anche se le costituzioni nelle dittature raramente pongono limiti al potere dei governanti, come
accade di solito nelle democrazie, esse possono servire a delineare le strutture di base e le catene
di comando. In effetti, organizzando il potere, pur senza limitarlo, le costituzioni dittatoriali quali

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quella introdotta in Cile nel 1980 da Pinochet aiutano a rendere gli stati autoritari più organizzati ed
efficienti.
Date queste potenzialità benefiche, potreste domandarvi perché le élite autoritarie non premano
sempre per la liberalizzazione. Il problema è che i riformisti non possono garantire la
liberalizzazione. Il problema è che i riformisti non possono garantire che la liberalizzazione riuscirà
a produrre una dittatura allargata. Il processo di liberalizzazione è infatti instabile. Se i riformisti
liberalizzano, allora l’opposizione democratica ha due opzioni:
- può accettare le concessioni offerte ed entrare nelle istituzioni di una dittatura allargata. In
questo caso, l’opposizione democratica accetta di mantenere le regole del gioco autoritarie in
cambio dell’accesso al potere politico formale. I riformisti vedrebbero questo come un successo;
- l’opposizione può decidere di trarre vantaggio dalle nuove libertà per organizzarsi e mobilitarsi
ulteriormente contro il regime. Es: il partito comunista polacco accettò di concedere la
formazione di un sindacato indipendente, Solidarność, nel settembre 1980. Nell’argo di due
settimane, esso aveva già tre milioni di membri e divenne rapidamente una minaccia diretta al
regime comunista in vigore.
Se l’opposizione continua a mobilitarsi, questa è la prova che l’apertura controllata da parte dei
riformisti è fallita - la loro opposizione rischia di essere compromessa all’interno del regime. Di
conseguenza, la posizione dei riformisti tenderà a essere minacciata. Le élite autoritarie, allora
hanno due scelte:
- usare la forza nel tentativo di reprimere la mobilitazione popolare e restaurare l’ordine. Se
la repressione ha successo, allora il risultato sarà una dittatura più ristretta nella quale i riformisti
pagheranno le conseguenze di avere introdotto una fallimentare politica di liberalizzazione e
saranno soppiantati dai conservatori;
- accettare le sue richieste e consentire l’emergere di istituzioni realmente democratiche.
Questo è quello che avvenne in Corea del Sud quando le manifestazioni a favore della
democrazia negli anni 1980 alla fine trasformarono i riformisti del regime da liberalizzato a
democratizzato; libere elezioni furono indette nel 1987.
Tutto ciò quindi suggerisce che le liberalizzazioni (fallite) sono invertite, conducendo a un
triste periodo chiamato normalizzazione, oppure continuano verso la democratizzazione.

+ vedi gioco pag. 203

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Capitolo 11: democrazie parlamentari, presidenziali e miste. La formazione e


la dissoluzione dei governi.

CLASSIFICARE LE DEMOCRAZIE IN PARLAMENTARI PRESIDENZIALI E MISTE

Che una democrazia sia parlamentare, presidenziale o mista dipende dal rapporto tra:
- governo, che comprende il capo politico dell’esecutivo e i primi ministri che dirigono i vari
dipartimenti del governo
- il legislatore
- il presidente.
Distinguere tra i tre tipi di democrazia richiede di individuare quali attori possono destituire il
governo dal suo incarico:
- le democrazie nelle quali il legislatore non può destituire il governo sono presidenziali;
- le democrazie nelle quali solo il legislativo può destituire il governo sono parlamentari;
- le democrazie nelle quali sia il legislativo, sia il presidente possono destituire il governo sono
miste.

Il governo è responsabile di fronte a un legislativo eletto?

La responsabilità legislativa: implica che una maggioranza legislativa abbia il potere


costituzionale di destituire il governo dal suo incarico senza giusta causa.
Nelle democrazie in cui vige la responsabilità legislativa, il meccanismo al quale il legislativo può
ricorrere per destituire un governo è chiamato:
- voto di sfiducia: che comporta un voto all’interno del legislativo sull’opportunità che il
governo rimanga in carica o meno. Se una maggioranza di legislatori va contro il governo,
allora quest’ultimo deve rassegnare le dimissioni.
- Alcuni paesi, come Belgio, Germania, Israele e Spagna adottano una versione diversa di
questa procedura, chiamata voto di sfiducia costruttivo: che richiede che quelli che si
pongono al governo indichino anche chi dovrebbe sostituire il governo, se quello in
carica perde. Se ha successo, un voto di fiducia costruttivo destituisce il governo dal suo
incarico e lo sostituisce con un altro in un unico passaggio. Uno dei motivi per adottare un voto
di sfiducia costruttivo è che questa procedura tende a ridurre l’instabilità di governo. Durante il
periodo tra le due guerre mondiali, nella Germania di Weimar, era facile costruire maggioranze
legislative che si opponessero al governo in carica. Era difficile però costruire e mantenere una
maggioranza a favore di una particolare alternativa, e di conseguenza i governi tendevano a

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essere brevi. Fu in risposta a ciò che la costituzione tedesca del dopoguerra adottò il voto di
sfiducia costruttivo.
- Alcuni paesi dispongono del cosiddetto voto di fiducia: è simile al voto di sfiducia, in quanto i
governi che non ottengono una maggioranza legislativa devono rassegnare le dimissioni. La
differenza è che i voti di fiducia sono proposti dal governo, mentre quelli di sfiducia sono
proposti dal legislativo. E allora, perché un governo dovrebbe richiedere un voto di fiducia
verso se stesso? C’è una serie di ragioni: una ha a che fare con il fatto che in molti paesi, i voti
di fiducia possono essere legati a leggi specifiche. Se un governo è incerto circa la propria
capacità di ottenere un adeguato sostegno legislativo per far approvare una qualche legge, può
decidere di trasformare il voto su questa legge in un voto sulla sopravvivenza del governo
stesso. I legislatori, che non gradiscono quella particolare legge che il governo sta cercando di
far approvare, scelgono di votare a favore in queste circostanze, perché in realtà non vogliono
far cadere il governo su simili questioni.
In sintesi: nelle democrazie in cui vige la responsabilità legislativa, i legislativi possono destituire i
governi con un voto di sfiducia o votando contro un voto di fiducia proposto dal governo.

C’è un presidente eletto in modo indipendente?

Eletto in modo indipendente: si riferisce all’indipendenza del presidente rispetto al legislativo - il


presidente è eletto per restare in carica un tempo prefissato e non può essere destituito dal
legislativo. I presidenti possono essere eletti:
- direttamente: se gli elettori votano per il candidato che desiderano eleggere (es. Benin,
Messico, Corea del Sud);
- indirettamente: se gli elettori votano per eleggere un’assemblea il cui compito consiste
nell’eleggere un presidente (es. Repubblica Ceca, Italia, Stati Uniti).
La presenza o assenza di un attore politico eletto in modo indipendente con il titolo di presidente
non è né condizione necessaria né sufficiente a qualificare una democrazia come parlamentare,
presidenziale o mista. La caratteristica distintiva di un regime presidenziale non è che ci sia un
presidente eletto in modo indipendente, ma è che non viga la responsabilità legislativa. Infatti, i
presidenti eletti in modo indipendente possono esistere in tutti i tre tipi di democrazia. Es.
presidenti eletti direttamente esistono nelle democrazie presidenziali, nelle democrazia
parlamentari e nelle miste. Allo stesso modo per quelli eletti indirettamente.
Anche se la presenza di un presidente eletto in modo indipendente non è né condizione
necessaria né condizione sufficiente per distinguere tra i tre tipi di democrazia, possiamo
concludere che qualunque democrazia preveda la responsabilità legislativa, ma non un presidente
eletto in modo indipendente, è parlamentare.

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Il governo è responsabile di fronte al presidente?

I governi sono responsabili di fronte a un presidente:


- in modo diretto, se il presidente può sciogliere, in modo unilaterale, il governo nella sua
interezza o destituire un ministro alla volta;
- in modo indiretto, se il presidente può destituire il governo sciogliendo il legislativo.
Le democrazie in cui il governo è responsabile sia di fronte al legislativo, sia di fronte a un
presidente eletto in modo indipendente sono miste. Quelle in cui il governo è responsabile solo di
fronte al legislativo sono parlamentari.
Nelle democrazie parlamentari in cui c’è un presidente eletto in modo indipendente, il presidente
può essere il capo di stato, ma non il capo di governo. Invece, il primo ministro è capo di
governo e le mansioni del presidente sono limitate ai compiti perlopiù cerimoniali del capo di
stato. In una democrazia parlamentare, il capo di stato non è presidente, di solito è un monarca
che ha compiti cerimoniali.
Possiamo classificare tre tipi di democrazia nel modo seguente:
- democrazia presidenziale: è una democrazia in cui la sopravvivenza del governo non dipende
da una maggioranza legislativa;
- democrazia parlamentare: è una democrazia in cui la sopravvivenza del governo dipende solo
da una maggioranza legislativa;
- democrazia mista: è una democrazia in cui la sopravvivenza del governo dipende sia da una
maggioranza legislativa sia da un presidente eletto in modo indipendente.

FORMAZIONE E DISSOLUZIONE DEI GOVERNI: LE DEMOCRAZIE PARLAMENTARI.

Il governo

Il governo in una democrazia parlamentare è costituito da:


- primo ministro: (PM) è il capo politico dell’esecutivo e il leader del governo. La posizione del
primo ministro è indicata con titoli diversi nei vari paesi: primo ministro nel Regno Unito,
cancelliere in Austria e Germania, Taoiseach in Irlanda, premier in Italia ecc.;
- gabinetto: è equivalente al consiglio di amministrazione di un paese. Esso è composto dai
ministri, il cui compito consiste nel partecipare al gabinetto stesso e nel dirigere uno dei vari
dipartimenti del governo, quali l’Istruzione, l’Economia, gli Esteri e le Politiche Sociali. Il
dipartimento del quale il ministro è capo è spesso deficit come il portafoglio del ministro. Ogni
ministro è direttamente responsabile nei confronti del governo per ciò che accade nel suo
dipartimento. Se c’è un problema relativo a un determinato dipartimento, si suppone che il
relativo ministro sia responsabile. Questa pratica è nota come responsabilità ministeriale.
Come membro del gabinetto, un ministro fa parte di un’entità collettiva che ha la responsabilità
di prendere le più importanti decisioni sulla direzione della politica governativa. I ministri di
gabinetto sono vincolati alla dottrina della responsabilità collettiva del gabinetto, in base alla
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quale i ministri possono esprimere liberamente le divergenze politiche nelle riunioni del
gabinetto, ma una volta che il gabinetto ha preso una decisione, ogni ministro deve difendere in
pubblico la politica del governo. I mostri di gabinetto che ritengono di non poterlo fare devono
rassegnare le dimissioni

Il processo di formazione del governo

Nelle democrazie parlamentari, i cittadini eleggono solo i membri del legislativo. Ma come si
formano i governi e come entrano in carica?
Quando si pensa al processo di formazione del governo, è importante tenere presente che ogni
governo proposto deve godere della fiducia del legislativo, sia per arrivare al potere sia per
rimanere al potere. In alcuni paesi, può essere richiesto che un potenziale governo dimostri di
disporre di tale sostegno prima di entrare in carica, attraverso il cosiddetto voto di investitura: si
tratta di un voto formale all’interno del legislativo per determinare se un governo proposto
possa entrare in carica. Se il governo proposto non ottiene una maggioranza in questo voto,
non può assumere la carica. In una democrazia parlamentare, un potenziale governo deve
comunque e in ogni momento godere del sostegno implicito di una maggioranza legislativa. Il
legislativo ha la possibilità di invocare un voto di sfiducia nei confronti del governo in qualsiasi
momento. Se il governo è sconfitto in un simile voto, allora deve rassegnare le dimissioni. Inoltre,
un governo parlamentare può essere destituito dal proprio incarico quando una maggioranza dei
legislatori decide che questo è ciò che deve accadere.
Se un unico partito controllare la maggioranza dei seggi legislativi, allora ci si potrebbe aspettare
che questo partito formi un governo di maggioranza a partito unico. Quest’aspettativa trova
forte sostegno dai dati del progetto Constitutional Change and Parlimentary Democracy. Questi
dati mostrano che un partito che controlla la maggioranza dei seggi legislativi forma un governo
solo.
Ma cosa succede quando nessun partito controlla da solo una maggioranza legislativa? Si
tratta di una situazione normale nella maggior parte delle democrazie parlamentari. Come
vedremo, l’uso frequente di sistemi elettorali proporzionali permette di spiegare perché così pochi
partiti ottengono una maggioranza dei voti o dei seggi. Solo i paesi che, utilizzano regole elettorali
non proporzionali, per esempio i sistemi maggioritari uninominali a turno unico, producono
regolarmente partiti che controllano da soli una maggioranza legislativa.
Qualsiasi governo potenziale deve controllare implicitamente una maggioranza legislativa prima di
entrare in carica. Non ci sono regole rispetto a chi dovrebbe far parte di questa maggioranza
legislativa. Qualsiasi legislatore potrebbe far parte della maggioranza che sostiene il governo e
svolgere un ruolo nella nomina del governo, in teoria. In pratica, la rigida disciplina dei partiti
politici in molti paesi implica che l’effettiva attività di formare un governo tenda a essere svolta da
un piccolo gruppo di dirigenti politici di ogni partito.
Dopo le elezioni o la caduta di un governo precedente, questi leader di partito contrattano gli uni
con gli altri e un governo si forma non appena i leader di partito si impegnano a garantire a esso il
loro sostegno, assicurandogli così il controllo di una maggioranza legislativa.

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Ma parliamo effettivamente, del processo di formazione del governo.


Il capo di stato, di solito un monarca o un presidente, presiede il processo di formazione del
governo, ed è lui che investe un governo con l’autorità costituzionale per entrare in carica. La
misura in cui il capo di stato è attivamente coinvolto nell’effettiva contrattazione varia da paese a
paese:
-in alcuni paesi, il capo di stato si limita a far prestare giuramento al governo proposto dalle
dirigenze di partito. Se c’è un voto di investitura, il governo proposto deve dimostrare di disporre di
una maggioranza legislativa. Una volta fatto questo, il capo di stato si limita a nominare il governo.
Questo governo rimarrà al potere fino alle elezioni successive, fino a che non è sconfitto in un voto
di sfiducia o fino a che non rassegna le dimissioni;
-in altri paesi, il capo di stato svolte un ruolo più attivo scegliendo un particolare politico per
avviare il processo di formazione del governo. Questo politico è noto come il formatore: spetta a
lui costituire un governo.
-in alcuni paesi la costituzione unica in modo esplicito chi sarà il formatore. Es. la costituzione
greca stabilisce che il capo di stato deve nominare come formatore il leader del partito più grande.
Se questa persona non riesce a formare un governo, allora il capo di stato consente al leader del
secondo partito più grande di cercare di costituire un governo, nominandolo come nuovo
formatore. Questo processo continua fino a che un formatore forma con successo un governo.
-in altri paesi, il formatore è determinato in base alla tradizione. Es. nel Regno Unito, c’è
un’implicita consuetudine in base alla quale il primo ministro uscente ottiene per primo la possibilità
di formare il governo. Solo se il primo ministro uscente non riesce a formare un governo, uno dei
suoi rivali ottiene questa opportunità. Anche se il primo ministro uscente perde sostegno alle urne,
ottiene di essere il primo formatore. Se il primo ministro uscente perde una quota significativa del
proprio sostegno elettorale, non sarà in grado di formare un governo, e il suo diritto ad avere per
primo la possibilità di formare un governo è poco più che una formalità; in pratica, un primo
ministro sconfitto ammette la sconfitta la notte delle elezioni. Ci sono state alcune eccezioni.
Es. dopo aver perso le elezioni legislative del febbraio 1974 nel Regno Unito, il primo ministro
uscente Edward Heath rimase in carica alcuni giorni, prima di ammettere che non sarebbe riuscito
a formare un governo. In paesi come il Regno Unito, il capo di stato gode di poca discrezionalità
nella nomina del formatore.
-diversamente da questi paesi, ce ne sono altri in cui il capo di stato è meno vincolato e può
scegliere il formatore in modo più incisivo. Scegliere il formatore è uno dei compiti più importanti
del capo di stato in paesi come Islanda e Repubblica Ceca. La prerogativa del presidente irlandese
di scegliere il formatore è stata fondamentale nella formazione di una coalizione tra il Partito Social
Democratico e il Partito dell’Indipendenza che ha governato dal 1959 al 1971.
-in altri paesi, il coinvolgimento diretto del capo di stato nella politica di partito è considerato
inappropriato. Questi paesi hanno litigato il potere del capo di stato alla nomina di un
informatore: si tratta di qualcuno che si suppone non abbia ambizioni politiche personali e il cui
compito consiste nell’individuare coalizioni politicamente fattibili e nel raccomandare persone che
sarebbero buoni formatori. Nei Paesi Bassi, il monarca sceglie un informatore, che a sua volta
sceglie un formatore. L’esistenza di un informatore implica che il capo di stato sia un passo indietro
rispetto alla natura partitica del processo di formazione del governo.
Nonostante il potere discrezionale di cui godono alcuni capo di stato, il formatore è quasi sempre il
leader del partito più grande del legislativo. Nella maggior parte dei casi, il formatore è anche il
primo ministro designato. Tutto ciò è prevedibile, dato che il leader del maggior partito spesso può
minacciare in modo credibile di opporsi a qualsiasi proposta da parte di altri possibili formatori.

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La possibilità di nominare i membri del gabinetto è uno dei poteri più importanti del primo ministro.
Nei gabinetti formati da un unico partito di maggioranza, il primo ministro ha un potere
discrezionale enorme rispetto a chi nominare come metro del gabinetto. I politici possono essere
ricompensati con nomine a ministro, perché hanno dimostrato lealtà al partito o al primo ministro,
perché rappresentano una fazione ideologica all’interno di un partito o perché possiedono utili
competenze amministrative.
Nei gabinetti di coalizione, il potere discrezionale del PM rispetto alle nomine dei membri del
gabinetto è più limitato. I leader dei partiti coinvolgi nel governo proposto nominano i particolari
ministri per il sottoinsieme di portafogli che sono stati assegnati al loro partito durante le fasi iniziali
del processo di formazione del governo. E’ raro vedere il PM o i leader di partito porre un veto a
una nomina avanzata da un altro leader di partito. Questo sembrerebbe suggerire che i leader di
ogni partito di governo sono generalmente liberi di scegliere le persone che preferiscono per i
“loro” portafogli.
Data la notevole influenza che i membri del gabinetto hanno sulle politiche di competenza dei loro
rispettivi portafogli, prima di decidere se sostenere il governo proposto, i leader di partito
contrattano su quanti ministri otterranno e su chi dovrebbe essere nominato a queste cariche.
Una volta che si è formato un governo, il sostegno di una maggioranza legislativa può essere o
non essere dimostrato attraverso un voto formale di investitura:
- se il voto di investitura fallisce, allora il processo di formazione del governo ricomincia da capo;
e può esserci, o non esserci, una nuova elezione prima che questo accada;
- se il voto di investitura da esito positivo, allora il capo di stato nomina il gabinetto proposto dal
formatore.
A questo punto, il governo è libero di governare fino a quando è sconfitto in un voto di sfiducia o
fino a quando è necessaria una nuova elezione. Se una delle seguenti ipotesi si avvera, allora il
governo al potere resta in carica per amministrare il paese come governo ad interim o
provvisorio. Questo governo di transizione rimane in carica fino a quando il processo di
formazione del governo successivo si conclude e un nuovo governo è pronto a prendere il suo
posto.

Un semplice modello di formazione del governo

Gli scienziati politici dividono i politici in due categorie:


- quelli che sono a caccia di cariche: è interessato ai benefici intrinseci alla carica; vuole
più cariche possibili
- quelli che sono interessati alle politiche: mira soltanto a influenzare le politiche.
Al momento di formare un governo, un politico a caccia di cariche vuole ottenere il maggior
numero possibile di portafogli ministeriali. Dopo la posizione di primo ministro, le posizioni
all’interno del gabinetto rappresentano le più alte cariche politiche in un regime parlamentare.
Approdare a un portafoglio ministeriale è spesso segno di una brillante carriera politica, ed è un
premio cui molti politici ambiscono. Essere nel gabinetto comporta potere e fama.

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-Immaginiamo adesso un mondo di soli politici a caccia di cariche: che governo


proporreste? Sapete che per controllare una maggioranza legislativa, dovete tenere il sostegno
degli altri leader del partito, in quanto il vostro partito controlla solo una minoranza di seggi
legislativi. Dato che vivete in un mondo dove ci sono solo politici a caccia di cariche, potete
ottenere il loro sostegno soltanto dando loro delle cariche. Un’evidenza empirica dimostra che un
primo ministro deve assegnare portafogli agli altri partiti in modo proporzionale rispetto al numero
di seggi che ogni partito apporta alla maggioranza legislativa del governo. Questa regolarità
empirica è nota come legge di Gamson.
Una delle implicazioni della logica della caccia alle cariche è che non vorrete includere nel governo
più partiti di quanti siano strettamente necessari per ottenere una maggioranza legislativa. Così,
vorrete formare un particolare tipo di coalizione di governo chiamata coalizione minima vincente
(CMV): si tratta di una coalizione in cui ci sono solo i partiti sufficienti per controllare una
maggioranza legislativa.
Una seconda implicazione della logica della caccia alle cariche è che sceglierete la CMV più
piccola, o la coalizione minima vincente: ovvero quella con il minor numero di seggi in
eccesso. Volete la CMV minore, perché non volete “comprare” più seggi legislativi in eccesso
rispetto a quelli strettamente necessari. Questo porta a ipotizzare che, se il mondo fosse formato
solo da politici a caccia di cariche, dovremmo osservare molte coalizioni minime vincenti.

-Imaginiamo un mondo di soli politici interessati alle politiche. Potete ottenere il loro
sostegno garantendo loro delle concessioni in termini di politiche. Il che significa che invece di
poter implementare una politica corrispondente al vostro punto ideale, dovrete implementare una
politica di coalizione, che si trova da qualche parte tra i punti ideali di tutti i partner della coalizione.
E’ probabile che dovrete fare un maggior numero di concessioni per ottenere il sostegno di un
leader di partito che controlla molti seggi rispetto a quante dovrete farne per ottenere il sostegno di
un leader di partito che controlla pochi seggi. Rispetto ai partiti piccoli, quindi, i grandi partiti
tendono ad aver maggior successo nello spostare le politiche pubbliche verso il loro punto ideale.
Una delle implicazioni di questa logica è che vorrete formare governi con i partiti che si trovano
vicino a voi nello spazio politico. Gli scienziati politici fanno riferimento a questo tipo di coalizione
come a una coalizione “compatta” o a una coalizione connessa: ovvero una coalizione in cui
tutti i membri della coalizione si trovano uno accanto all’altro nello spazio politico.
Una seconda implicazione della logica dell’interesse per le politiche è che sceglierete una
coalizione minima vincente connessa minore, perché non volete comprare, a suon di concessioni
politiche, più seggi legislativi rispetto a quelli strettamente necessari. Questo porta a ipotizzare
che, se il mondo fosse formato da politici interessati alle politiche, dovremmo osservare molte
coalizioni minime vincenti connesse minori.

Il bilanciamento tra cariche e politiche

Il governo formato da Helmut Kohl nel 1987 si fondava su una coalizione tra CDU/CSU e FDP. Ciò
significa che in Germania, l’interesse per le politiche è dominante rispetto all’interesse per le

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cariche? In scienza politica, c’è un’ampia letteratura ce cerca di rispondere empiricamente a


questo tipo di domande.
In pratica riteniamo probabile che i politici siano interessati sia alle cariche sia alle politiche e che
facciano continuamente dei bilanciamenti. Si chiedono continuamente a quante cariche in più
dovrebbero rinunciare per ottenere una politica pubblica più vicina al loro punto ideale e a quante
concessioni politiche debbano fare per ottenere qualche carica in più. Se è così, allora è probabile
che sia poco sensato catalogare i politici del mondo reale come interessati solo alle politiche o
come interessati solo alle cariche.
Anche se i politici fossero interessati solo alle cariche o solo alle politiche, crediamo che la realtà
della competizione politica li costringerebbe ad agire come se si preoccupassero sia delle
politiche sia delle cariche.

Diversi tipi di governo

Sappiamo che, in una democrazia parlamentare, un governo deve controllare un’implicita


maggioranza legislativa per salire al potere e rimanere in carica. Abbiamo assunto che i governi
debbano comprendere un numero sufficiente di partiti in modo tale da controllare esplicitamente
una maggioranza di seggi legislativi.
-Governi di minoranza: è un governo in cui il marito o partiti al potere non dispongono
esplicitamente di una minoranza di seggi legislativi. I governi di minoranza possono essere
governi di minoranza a partito unico o coalizioni di minoranza. Vi state domandando come, in
una democrazia parlamentare, un governo di minoranza possa arrivare al potere e perché possa
rimanervi. Dopotutto, l’opposizione in parlamento controlla un numero sufficiente di seggi per poter
destituire il governo attraverso un voto di sfiducia ogni volta che decide di farlo. Un governo di
minoranza può esistere solo finché l’opposizione decide di non farlo cadere. Quando
osserviamo un governo di minoranza, sappiamo che ci deve essere una maggioranza implicita nel
legislativo che lo sostiene. Ogni giorno in cui non è sconfitto in un voto di sfiducia, un governo
gode implicitamente del sostegno di una maggioranza legislativa.
In alcuni paesi, sappiamo che chi compone questa maggioranza implicita, perché uno o più partiti
non governativi dichiarano pubblicamente che, pur non volendo far parte del governo, sosterranno
il governo contro i voti che mirano a rovesciarlo. In cambio, il governo accetta di consultare questi
partiti che offrono un appoggio esterno su varie questioni politiche. Es: Gran Bretagna, Nuova
Zelanda.
In altri paesi, il governo non si fonda su specifici partiti che l’appoggiano dall’esterno, ma si fonda
su maggioranze legislative ad hoc. In effetti, il governo costruisce diverse maggioranze per ogni
legge che vuole far approvare. Es: in Francia. In questi paesi, non è sempre facile capire
esattamente chi, all’interno del legislativo, permetta al governo di minoranza di rimanere al potere;
tutto ciò che sappiamo è che, almeno uno dei partiti non governativi lo sta aiutando. Di
conseguenza, per gli elettori diventa complicato capire chi sia responsabile per le politiche adottate
e fare in modo che i responsabili rispondano delle proprie decisioni.

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Per molto tempo, i governi di minoranza furono considerati un’anomalia antidemocratica e


infelice. Erano considerati come qualcosa che dovrebbe verificarsi solo di rado e che, una volta
verificatasi, dovrebbe essere di breve durata. Strøm fu uno dei primi scienziati politici a contestare
questa opinione generalizzata. Egli sostenne che, nei regimi parlamentari, i governi di minoranza
dovrebbero essere considerati un esito normale e democratico della competizione partitica. Egli
mise in luce la frequenza con cui i governi di minoranza si formano nelle democrazie dell’Europa
occidentale e la relativa stabilità che caratterizzava questi gabinetti.
Sono state poi proposte numerose teorie per spiegare l’apparente enigma del perché esistano
governi di minoranza. Tutte queste teorie sottolineano l’importanza delle politiche nel processo di
formazione del governo. Se i politici si preoccupassero solo delle cariche, sarebbe difficile capire
perché mai un partito non governativo dovrebbe scegliere di non far parte del gabinetto, quando ha
il potere di imporre la propria partecipazione al gabinetto stesso. Tuttavia, se i politici sono
interessati alle politiche, allora possiamo pensare a situazioni in cui un partito potrebbe ritenere di
poter realizzare al meglio i propri obiettivi politici rimanendo al di fuori del gabinetto. Strøm sosti
che i governi di minoranza siano più probabili nei paesi in cui i partiti non governativi possono
esercitare una forte influenza sulle politiche. In ogni paese, la forza dell’opposizione dipende dalla
struttura del sistema delle commissioni legislative. Tutti i legislativi hanno sistemi di commissioni
che li aiutano a svolgere il loro lavoro. In alcuni paesi, l’opposizione ha poca influenza sulle
politiche, perché le commissioni accettano nella maggior parte dei casi qualsiasi cosa il governo
proponga. L’opposizione si trova in una posizione molto più forte nei paesi in cui il sistema delle
commissioni è progettato con il preciso intento di facilitare la dispersione dell’influenza sul
processo politico decisionale tra molti gruppi, compresi i partiti non governativi. La misura in cui le
politiche sono stabilite dalle commissioni parlamentari e il grado in cui i partiti di opposizione
possono influenzare queste commissioni varia. Strøm ipotizza che, in un paese, quanto più è
potete il sistema delle commissioni, tanto maggiore è l’influenza dell’opposizione e tanto minore è
l’incentivo per i partiti di opposizione di entrare nel governo, perché possono influenzare le
politiche senza essere effettivamente nel gabinetto. In questi paesi, dovremmo aspettarci di vedere
un maggior numero di governi di minoranza. Questo conduce alla seguente ipotesi:
Ipotesi della forza dell’opposizione: i governi di minoranza sono più probabili quando
l’influenza dell’opposizione è forte.
Perché un partito sceglierebbe di influenzare la politica rimanendo fuori dal governo, piuttosto che
al suo interno? Ci sono numerose ragioni per cui un partito dovrebbe scegliere di non far parte
del gabinetto, malgrado la perdita in termini di benefici legati alle cariche e malgrado la minore
capacità di influenzare le politiche:
- i partiti possono essere riluttanti ad assumersi la responsabilità per le politiche che saranno
implementate. E’ più probabile che siano i partiti di governo a essere ritenuti responsabili per le
politiche che non quelli di opposizione;
- un partito può aver promesso, in fase pre-elettorale, di non andare al governo con alcuni partiti.
Infrangere questa promessa potrebbe essere un suicidio elettorale alle elezioni successive;
- i partiti di opposizione godono di una maggiore flessibilità nella scelta delle loro future strategie
elettorali, perché non sono vincolati dal loro passato di governo.
Luebbert fornisce una spiegazione connessa, ma leggermente diversa. Egli sostiene che i
governi di minoranza siano più probabili nei paesi in cui i partiti non governativi possono esercitare
una forte influenza sulle politiche. Però ritiene che la capacità dei gruppi di opposizione di
influenzare le politiche dipenda dal fatto che, in un paese, le relazioni tra gruppi di interesse
siano:

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- corporative: si tratta di un paese in cui i principali attori sociali ed economici hanno un ruolo
istituzionale formale nel processo di formazione delle politiche.
- pluraliste: si tratta di un paese in cui i gruppi di interesse competono nel mercato politico al di
fuori del processo formale di formazione delle politiche.
In questi paesi i gruppi di interesse sono organizzati in associazioni nazionali, specializzate,
gerarchica e monopolistiche che contrattano tra loro e con il governo per elaborare politiche
pubbliche. Luebbert osserva che il corporativismo permette, anzi garantisce, l’accesso al
processo di formazione delle politiche a una varietà di gruppi.
Pertanto, nei paesi corporativi, il gabinetto è solo uno dei luoghi nei quali si prendono le decisioni
fondamentali di carattere sociale ed economico. I gruppi di interesse, e i partiti politici che li
rappresentano, dispongono di una più ampia gamma di alternative per esprimere le loro istanze. Di
conseguenza, dovremmo aspettarci di vedere un maggior numero di governi di minoranza nei
paesi corporativi, dato che, in questi paesi, i partiti di opposizione hanno minori incentivi per
entrare al governo. Questo conduce alla seguente ipotesi:
Ipotesi corporativa: i governi di minoranza sono più probabili nei paesi corporativi.
Strøm ha sostenuto che i governi di minoranza sono meno probabili nei paesi che richiedono un
voto formale di investitura, perché i potenziali governi di minoranza incontro un ostacolo maggiore
per ottenere l’incarico rispetto a quanto accade nei paesi in cui non è richiesto alcun voto di
investitura. Se è necessario un voto formale di investitura, i partiti di opposizione devono decidere
di sostenere apertamente un governo di minoranza. Alcuni partiti, potrebbero ritenere accettabile
dare tacitamente il loro sostegno a un governo, se non è richiesto un voto di investitura.
Bergman distingue tra regole:
- positive: (quando è richiesto un voto di investitura) spetta al governo dimostrare che gode
del sostegno di una maggioranza legislativa;
- negative: (quando non è richiesto alcun voto di investitura) spetta al parlamento dimostrare
che il governo non è tollerato.
Questa distinzione suggerisce che i voti di investitura potrebbero porre particolari difficoltà per i
governi di minoranza.
Ipotesi dell’investitura: i governi di minoranza sono meno probabili quando è necessario un
voto di investitura formale.
Un governo di minoranza è in grado di sopravvivere di essere stabile, se i partiti di opposizione
non riescono a raggiungere un accordo su chi dovrebbe sostituirlo. Una situazione simile si verificò
con i social democratici in Svezia e con i cristianodemocratici in Italia. Questi partiti riuscirono
ripetutamente a formare governi di minoranza, essendo partiti relativamente grandi situati al centro
dello spettro ideologico, con partiti di opposizione su entrambi i lati. Questi partiti erano definiti
forti, e rivendicarono per sé la possibilità di governare da soli, perché i loro avversari non
riuscirono a mettersi d’accordo su un governo alternativo che li rimpiazzasse.
Ciò ha portato Laver e Shepsle a ipotizzare che i governi di minoranza dovrebbero essere più
probabili quando c’è un partito forte:
Ipotesi del partito forte: i governi di minoranza sono più probabili quando c’è un partito
forte.
La forza dell’opposizione varia da 1 (bassa) a 9 (elevata) ed è ricavata da un’indagine condotta tra
gli esperti di alcuni paesi, ai quali è stato chiesto di dare un voto al loro paese, rispetto al
potenziale impatto che l’opposizione ha sulle politiche. Il corporativismo varia da 0 (basso) a 5
(alto), e misura sia la percentuale di lavori sindacalizzati all’interno della forza lavoro, sia il numero

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complessivo di sindacati - un paese è più corporativo quando ha pochi sindacati ma ha


un’alta percentuale di lavori sindacalizzati.
L’investitura misura la presenza o meno di un voto formale di investitura. Il partito forte indica se
esiste un partito meramente forte o molte forte. In base alla teoria, l’esistenza di un partito forte
dovrebbe rendere la formazione di un governo di minoranza più probabile. E questo si verifica
meglio se il partito è molto forte piuttosto che meramente forte.
In sintesi: l’evidenza empirica mostra che i governi di minoranza sono più probabili nei paesi in
cui:
- i partiti di opposizione sono in grado di esercitare una forte influenza sulle politiche;
- le relazioni tra gruppi di interesse sono organizzate in termini corporativi
- non è richiesto un voto i investitura formale.
-Governi a maggioranza soprannumeraria: si tratta di un governo in cui il gabinetto contiene
più partiti di quanti siano strettamente necessari per controllare una maggioranza legislativa. I
gabinetti a maggioranza soprannumeraria sono stati spesso considerati forme di governo
particolari e poco comuni nelle democrazie parlamentari.
In effetti, i governi a maggioranza soprannumeraria costituiscono quasi la metà dei governi in Italia.
Questi ultimi sono stati al potere per periodi di tempo ragionevolmente lunghi.
Sono stati proposti numerosi argomenti per spiegare l’apparente enigma relativo al motivo per cui
si formano governi a maggioranza soprannumeraria. Questi argomenti sottolineano l’importanza
delle politiche nel processo di formazione del governo. Se i politici fossero esclusivamente
interessati alle cariche, allora sarebbe difficile capire perché mai dovrebbero formarsi governi a
maggioranza soprannumeraria, dato che richiedono agli attori politici di rinunciare alle cariche
quando non è necessario. Ciò implica che l’esistenza stesa dei governi a maggioranza
soprannumeraria non può essere un segnale che le politiche contano.
I governi a maggioranza soprannumeraria si sono spesso formati in periodi di crisi politica,
economica o militare. Questi governi di crisi sono a volte indicati come governi di unità nazionale.
Es: in Finlandia, in Francia, in Germania, in Italia, in Lussemburgo e nei Paesi Bassi subito dopo la
seconda guerra mondiale.
L’idea è che solo mettendo insieme i partiti che coprono tutto lo spettro ideologico e dando loro un
motivo per essere coinvolti nel sistema politico esistente sia possibile superare una crisi, di
qualunque natura, che affligga il paese. L’obiettivo consiste nel mettere da parte la natura partitica,
etnica o religiosa della politica per il futuro bene del paese. Anche se i governi di unità nazionale
godono di un forte sostegno popolare, questo tipo di governo a maggioranza soprannumeraria
tende a essere di breve durata. I partiti politici che non sono tenuti a sostenere una maggioranza
legislativa sono spesso rapidamente spinti verso l’opposizione. Il motivo è che il desiderio dei
politici di godere del maggior numero possibile di cariche e di influenzare il più possibile le politiche
prevale sul desiderio degli elettori che i partiti lavorino insieme per salvare un paese da qualunque
cosa lo minacci.
In alcuni casi, la formazione di un governo a maggioranza soprannumeraria potrebbe essere
necessaria per far approvare alcune leggi.
Un paese che produce questo tipo di governo a maggioranza soprannumeraria è il Belgio. La
costituzione belga esige che le leggi riguardanti la relazione tra i diversi gruppi linguistici del paese
godano del sostegno di due terzi dei legislatori e di una maggioranza di ciascun gruppo linguistico.
Ciò ha portato alla formazione di numerosi governi a maggioranza soprannumeraria in Belgio.
Un’altra spiegazione si concentra sull’interazione strategica tra i partner della coalizione o tra gli
attori all’interno dei partiti. Se una coalizione minima vincente entra in carica, qualunque partito nel

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gabinetto, non importa quanto piccolo, può far cadere il governo semplicemente rassegnando le
dimissioni. Questa situazione comporta la possibilità di ricatto da parte di un singolo partito
insoddisfatto. In particolare, consente a un piccolo partito di ottenere concessioni politiche
significative dai suoi partner di coalizione in modo ampiamente sproporzionato rispetto alle sue
dimensioni, perché i suoi voti sono essenziali per la sopravvivenza del governo. Per avvenire ciò, i
partiti maggiori della coalizione possono decidere di formare una coalizione a maggioranza
soprannumeraria, in modo tale che il governo non cada se un singolo partito decide di rassegnare
le dimissioni. In effetti, i partiti non possono garantire che i loro legislatori voteranno sempre in
conformità con la linea del partito e potrebbero accettare di condividere cariche e influenza sulle
politiche con altri partiti, in cambio del sostegno legislativo necessario per rimanere in carica.

Coalizioni pre-elettorali

Finora abbiamo assunto che, nelle democrazie parlamentari, i partiti aspettino fino a dopo le
elezioni prima di pensare a quale governo formare.
Non è sempre così. Il fatto che singoli partiti non siano in grado di controllare il sostegno di una
maggioranza legislativa, significa che nella maggior parte delle democrazie, i partiti che desiderano
essere al governo devono formare una qualche coalizione. I partiti possono formare una
coalizione pre-elettorale con un altro partito nella speranza di governare insieme in caso di
successo alle urne, o possono competere in modo indipendente e sperare di formare una
coalizione di governo.
Golder, in un’analisi condotta dimostra non solo che le coalizioni pre-elettorali sono comuni, ma
anche che esse influenzano i risultati delle elezioni, hanno un forte impatto sul processo di
formazione del governo e hanno implicazioni normative e politiche significative.
Una coalizione pre-elettorale è un insieme di partiti che non competono in modo
indipendente durante le elezioni, perché accettano pubblicamente di coordinare le loro
campagne, di proporre candidati o liste comuni o di entrare insieme nel governo dopo le
elezioni. Ci sono vari tipi di coalizioni pre-elettorali che si differenziano per il grado in cui i partiti
coordinano le loro strategie elettorali:
- accordo sulle nomine
- liste comuni
- istruzioni per il doppio voto
- istruzioni per il trasferimento del voto
- impegno pubblico a governare insieme.
Gli accordi tra partiti sulle candidature rappresentano un livello alto di coordinazione elettorale,
perché i partiti concordano di presentare un candidato di coalizione, in ogni collegio, piuttosto che
un candidato per ogni partito. Gli accordi sulle candidature sono una tipica forma di coordinazione
elettorale nei paesi con collegi uninominali, come la Francia.
Un livello più basso di coordinazione elettorale si verifica spesso in paesi in cui gli elettori possono
esprimere due voti a diversi livelli elettorali. In questi paesi, le coalizioni elettorali spesso prendono
la forma di indicazioni fornite dai leader di partito ai propri sostenitori, indicazioni in base alle quali i

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sostenitori sono invitati a esprimere un voto per il loro partito e il secondo voto per il loro partner di
coalizione. Es. in Germania.
Dichiarare pubblicamente l’intenzione di governare insieme in caso di successo alle urne
rappresenta il livello più basso di coordinazione elettorale. Questo tipo di coalizione elettorale si
verifica in molti paesi, come la Germania, i Paesi Bassi e la Nuova Zelanda. In quest’ultima
l’Alleanza e il Partito Laburista formarono una blanda coalizione elettorale nel 1999, affermando
che, se avessero vinto le elezioni, avrebbero governato insieme.
Le coalizioni pre-elettorali sono abbastanza comuni. Solo il Canada e Malta non hanno alcuna
esperienza di coalizioni pre-elettorali a livello nazionale.
Questi dati servono a dimostrare che, in un’ampia gamma di paesi, le contrattazioni all’interno
della coalizione spesso avvengono prima delle elezioni e che una gran parte delle coalizioni di
governo che alla fine si formano si fondano su accordi pre-elettorali.
Golder riscontra che è 123 volte più probabile che le potenziali coalizioni di governo formino il
governo se si basano su un patto pre-elettorale, piuttosto che se non sono basate su un simile
patto.
L’emergere di coalizioni pre-elettorali è il risultato di un processo di contrattazione tra i leader di
partito; di questi, quelli che vogliono formare una coalizione pre-elettorale devono mettersi
d’accordo su una strategia elettorale comune e sulla distribuzione dei benefici connessi alle
cariche che potrebbero ottenere. Ciò può richiedere di delineare una piattaforma comune alla
coalizione, di decidere quale partito controllerà i posti ministeriali più influenti, di scegliere quali
candidati dei partiti dovranno dimettersi a favore dei candidati dei loro partner di coalizione in
particolari circoscrizioni o di determinare quale leader diventerà primo ministro. Il processo di
contrattazione all’interno di una coalizione pre-elettorale comporta lo stesso insieme di spinosi
problemi distributivi e ideologici che si riscontrano nel processo di contrattazione post-elettorale nei
governi di coalizione. C’è una differenza tra il processo di formazione di una coalizione pre-
elettorale e il processo di formazione della coalizione di governo: ci sono vantaggi elettorali
derivanti dal concorrere alle elezioni come coalizione che non sono più rilevanti nel contesto post-
elezioni.
Diversamente dalle coalizioni di governo, le coalizioni elettorali possono influenzare la probabilità
di vittoria elettorale. E’ per questo motivo che i partiti politici a volte scelgono di formare una
coalizione prima delle elezioni, piuttosto che aspettare fino a dopo le elezioni
Questo ci ha portato a prevedere che dovremmo osservare coalizioni connesse. Ci sono buone
ragioni per credere che i governi basati su coalizioni pre-elettorali risulteranno ancora più
omogenei dal punto di vista ideologico rispetto a coalizioni di governo che non si basano su patti
elettorali. Il motivo è che è probabile che il vincolo di compatibilità ideologica con il quale si
confrontano le potenziali coalizioni sia più forte prima delle elezioni piuttosto che dopo, perché gli
elettori potrebbero non essere disposti a votare a favore di coalizioni elettorali costituite da partiti
con preferenze poetiche eterogenee e incoerenti; dopo le elezioni, i partiti hanno un margine di
manovra più ampio per entrare in questi tipi di coalizioni di governo, perché gli elettori non
costituiscono più un vincolo tanto immediato sull’operato dei politici. In una certa misura, i partiti si
sentono vincolati nelle loro scelte di coalizione anche dopo le elezioni, perché gli elettori
potrebbero punire i governi ideologicamente eterogenei alle elezioni successive.
Se i leader di partito ritengono probabile che una particolare coalizione eterogenea sarà efficace,
una volta in carica, possono puntare sul fatto che gli elettori non li puniranno nelle elezioni
successive. I leader di partito possono anche preferire ottenere oggi i benefici connessi alle
cariche e la capacità di implementare certe politiche, pur sapendo che saranno puniti in futuro.

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Golder mostra che i governi basati su coalizioni pre-elettorali sono ideologicamente più omogenei
rispetto a coalizioni di governo che non si basano su patti elettorali. Mette in luce che questi
governi hanno anche una probabilità maggiore di dare vita a coalizioni connesse. Una delle
implicazioni della sua analisi è che è probabile che la posizione programmatica di un governo
basato su un patto elettorale sia più coerente con le preferenze del suo elettorato, rispetto alla
posizione programmatica di governi che non sono vincolati da un accordo pre-elettorale.
Le coalizioni pre-elettorali possono avere effetti molto significativi sui risultati delle elezioni e sulle
politiche di governo.
Le coalizioni pre-elettorali hanno anche importanti implicazioni normative. Quando le elezioni non
producono un governo di maggioranza a partito unico, oppure quando i partiti cominciano il
processo di formazione del governo solo dopo le elezioni, il governo si forma al di fuori del
controllo degli elettori. Nei paesi che utilizzano regole elettorali proporzionali, le elezioni spesso
servono, in primo luogo, come meccanismi per eleggere agenti rappresentanti nella
contrattazione post-elettorale, piuttosto che come meccanismi per la scelta di un esecutivo
specifico.
Gli elettori finiscono per votare un singolo partito, che compete da solo, non sapendo a quale
governo si unirà, sempre che decida di unirsi a qualche governo. In questi paesi, una simile
mancanza di collegamento tra gli elettori e il processo di formazione del governo è un problema,
in quanto non è sempre chiaro se la coalizione che alla fine entrerà in carica abbia il sostegno
degli elettori in qualche senso significativo. Le coalizioni pre-elettorali possono contribuire ad
alleviare questo problema, aiutando gli elettori a identificare le alternative di governo e a esprimere
il loro sostegno per una di esse.

La durata dei governi: formazione e sopravvivenza

Una volta deciso di andare al governo insieme, i partiti devono contrattare su chi otterrà quale
portafoglio e su quali dovrebbero essere le politiche del governo. Questo processo di
contrattazione a volte può durare a lungo.
Nei paesi in cui molti partiti ottengono rappresentanza legislativa, ci può volere molto più tempo
per formare un governo, perché non è sempre ovvio quale combinazione di partiti sarà in grado di
costituire il governo, come questi partiti divideranno i loro portafogli e su quali politiche della
coalizione. In alcuni paesi in cui non ci sono maggioranze formate da un unico partito, non è raro
per un formatore non riuscire a formare una coalizione al primo o anche al secondo tentativo.
I ritardi nel processo di formazione del governo possono avere importanti implicazioni per la pratica
di governo. I governi ad interim, che amministrano gli affari di stato mentre i negoziati procedono,
non hanno in genere l’autorità per prendere iniziative politiche di rilievo. Ciò significa che i ritardi
nel processo di formazione del governo possono essere abbastanza problematici, soprattutto se il
governo precedente è caduto a causa di un qualche tipo di crisi. Finché un gabinetto si forma,
l’identità dei partiti di governo, l’assegnazione dei portafogli di particolari politici e il contenuto dei
compromessi politici tra i partner della coalizione sono in fase di determinazione. L’incertezza che

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circonda il futuro orientamento della politica di governo può avere gravi conseguenze sul
comportamento degli attori economici e politici, sia nazionali sia internazionali.
Diermeier e van Roozendaal sostengono che i ritardi sono causati dal clima di incertezza relativa
alle preferenze dei soggetti coinvolti nel processo di formazione del governo. Ci può volere del
tempo per individuare la migliore offerta, in termini di politiche e di ripartizione dei portafogli, che
risulterebbe accettabile per i leader dei partiti coinvolti nei negoziati di coalizione - tanto è
maggiore l’incertezza relativa ai parametri rilevanti per la contrattazione, tanto è maggiore il tempo
necessario per la formazione del governo.
Martin e Vanberg ritengono che i ritardi sono causati dalla complessità del contesto di
contrattazione. Più complessa è la situazione nella quale si svolge la contrattazione, più la
contrattazione si prolunga.
Golder ha sostenuto che sia l’incertezza sia la complessità della contrattazione sono rilevanti. Egli
mostra che ci vuole più tempo affinché si formi un governo subito dopo le elezioni, rispetto a
quanto ce ne voglia durante i periodi intra-elettorali, e quando ci sono molti partiti ideologicamente
diversi nel legislativo. Dopo un’elezione, cambia la composizione pratica del legislativo, i partiti
possono avere nuove piattaforme e possono esserci avvicendamenti all’interno dei partiti. E’
probabile che i leader di partito apprendano, attraverso i negoziati quotidiani sulle proposte
legislative, quali politiche sono fattibili per i potenziali gabinetti di governo e quali potrebbero
causare una frattura all’interno del governo. I leader politici saranno quindi più incerti su quali
potenziali gabinetti siano accettabili per una maggioranza legislativa subito dopo un’elezione,
piuttosto che dopo un lungo periodo di interazione legislativa. Questa incertezza dopo le elezioni
comporta ritardi nel processo di formazione del governo. La presenza di molti partiti diversi dal
punto di vista ideologico aumenta la complessità del contesto di contrattazione con il quale i
formatori si confrontano. E’ probabile che, se ci sono molti partiti, il formatore debba negoziare con
molti potenziali partner di coalizione e avanzare molte offerte e controfferte. Se i partiti all’interno
del legislativo sono anche diversi dal punto di vista ideologico, è probabile che il formatore debba
contrattare con almeno un partito che ha posizioni differenti su numerose politiche pubbliche. In
effetti, la complessità della contrattazione comporta ritardi nella formazione dei governi, in quanto
rende difficile per il formatore raccogliere le informazioni rispetto alle quali è incerto, cioè le
informazioni sulle caratteristiche della migliore offerta che possa risultare accettabile per i
potenziali partner di governo.
Gli studiosi misurano la durata del governo in molti modi diversi. Sono tutti d’accordo nel ritenere
che un governo finisca se la composizione partitica del gabinetto cambia, perché un partito lascia
la coalizione o perché un nuovo partito si unisce al governo. Ma questo è tutto ciò su cui
concordano.
Qual è il problema? I dati definiscono un governo quando:
- c’è un cambiamento nell’insieme di partiti che fanno parte del gabinetto
- c’è un cambiamento nell’identità del primo ministro
- c’è stata una elezione generale.
I governi finiscono per motivi:
- tecnici: essi sfuggono al controllo del governo. Per esempio, un governo potrebbe finire perché
il primo ministro muore o da le dimissioni per motivi di salute o perché c’è un’elezione prevista
dalla costituzione;
- discrezionali: sono atti politici da parte del governo o dell’opposizione. Per esempio, un
governo potrebbe finire perché il governo scioglie il parlamento e indice elezioni anticipate,

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perché l’opposizione sconfigge il governo in un voto di fiducia, o perché i conflitti tra i partiti della
coalizione o all’interno dei partiti stessi costringono il governo a rassegnare le dimissioni.
Nel corso degli ultimi decenni, ci sono stati numerosi studi sulla durata del governo. Queste analisi
hanno esaminato come le varie caratteristiche del governo, del legislativo e del paese influenzino
la sopravvivenza dei governo. Per quanto riguarda le caratteristiche del governo, si è scoperto che
i gabinetti durano più a lungo se sono governi di maggioranza (piuttosto che governi di
minoranza), se sono governi a partito unico (piuttosto che governi di coalizione) e se il governo
presenta una limitata dispersione ideologica tra i partiti che lo compongono. Per quanto riguarda le
caratteristiche del legislativo, si è costatato che la presenza di un maggior numero di partiti nel
legislativo comporta una riduzione della durata del governo. Per quanto riguarda le caratteristiche
del paese, alcuni hanno riscontrato che la richiesta di un voto di investitura per il governo ne
diminuisce la durata media.
In che senso e perché è importante che un governo sopravviva o meno per molto tempo?
Forse è una reazione naturale pensare che l’instabilità di governo sia una caratteristica negativa,
ma perché dovrebbe essere così? Potreste pensare che i governi che non sopravvivono a lungo
generino instabilità politica e producano ministri privi di esperienza di portafoglio e di esperienza
politica. E’ noto da tempo che l’instabilità del gabinetto non implica instabilità ministeriale.
Allum constatò che, durante il periodo di massima instabilità di governo in Italia, un gruppo di
politici rimase in carica quasi ininterrottamente per vent’anni.
Huber e Martinez-Gallardo mostrano che l’instabilità di gabinetto non comporta necessariamente
elevati livelli di avvicendamento all’interno del gabinetto stesso. Essi hanno misurato la durata del
gabinetto, l’esperienza ministeriale (o di portafoglio) e l’esperienza politica in diciannove
democrazie tra il ’45 e il ’99. L’esperienza del portafoglio è misurata come la quantità media di
esperienza, in termini di giorni, che i ministri mostrano nell’ambito dello specifico portafoglio che
detengono. Quella politica è misurata come la quantità media di esperienza, in termini di giorni,
che i ministri maturano nell’ambito di qualunque portafoglio ministeriale significativo.

FORMAZIONE E DISSOLUZIONE DEI GOVERNI: LE DEMOCRAZIE PRESIDENZIALI

Il processo di formazione del governo.

Il governo in una democrazia presidenziale è composto da:


- presidente
- il suo gabinetto.
In un sistema presidenziale, il presidente è il capo politico dell’esecutivo e il leader del governo;
egli è anche il capo di stato.
Il processo di formazione del governo nelle democrazie presidenziali è diverso rispetto a quello
delle democrazie parlamentari:

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- primo: la responsabilità legislativa non esiste. Di conseguenza i governi non devono mantenere
il sostegno della maggioranza legislativa;
- secondo: nelle democrazie presidenziali, non c’è alcuna incertezza circa l’identità del
formatore; il presidente è sempre il formatore, a prescindere dal fatto che il suo partito abbia
successo o meno nelle elezioni legislative;
- terzo: il fatto che il presidente è sempre il formatore significa che il partito del presidente deve
essere incluso in ogni gabinetto, a prescindere dalla sua dimensione nel legislativo. Questo non
implica che il gabinetto escluderà tutti gli altri partiti, ma solo che il gabinetto deve includere il
partito del presidente.
Il punto di reversione del processo di formazione del governo nelle democrazie presidenziali è
diverso da quello delle democrazie parlamentari. Un punto di reversione si riferisce qui a ciò che
accade quando un formatore di un partito di minoranza non riesce a formare una coalizione:
- in un sistema parlamentare, il fatto che un primo ministro di minoranza non riesca a ottenere
una maggioranza legislativa implicita comporta elezioni anticipate, un nuovo ciclo di
contrattazioni e un governo ad interim;
- in un sistema presidenziale, il fatto che un presidente di minoranza non riesca a ottenere il
sostegno dei partiti di opposizione comporta semplicemente che il partito del presidente governi
da solo.
Di conseguenza, i membri della delegazione legislativa di un partito di governo possono spesso
votare contro le leggi promosse dal gabinetto senza il timore di andare a nuove elezioni. Nelle
democrazie presidenziali una coalizione di portafoglio (e cioè quella composta da quei
legislatori che appartengono ai partiti rappresentati nel gabinetto) non implica una coalizione
legislativa (ovvero un blocco di legislatori che, in una votazione, sostengono una
particolare legge).

Le dimensioni dei gabinetti presidenziali.

In un sistema parlamentare, il primo ministro deve nominare un governo che goda di una
maggioranza legislativa implicita. I presidenti formano gabinetti di maggioranza quando il loro
partito controlla una maggioranza dei seggi legislativi. Ma cosa succede quando il partito del
presidente non è un partito di maggioranza? I presidenti non hanno alcun obbligo costituzionale
a formare gabinetti di maggioranza - sono liberi di formare, se lo desiderano, un gabinetto di
minoranza. Alcuni di questi governi presidenziali di minoranza governeranno con il sostegno di una
maggioranza legislativa implicita, proprio come i governi di minoranza nei sistemi parlamentari;
cioè uno o più partiti di opposizione nel legislativo sosterranno il governo senza ricevere incarichi
nel gabinetto.
Altri governi presidenziali di minoranza governeranno senza questo tipo di sostegno. In un sistema
parlamentare, questo secondo tipo di governo di minoranza non è possibile, a causa
dell’esistenza della responsabilità legislativa. Questa differenza suggerisce che i governi di
minoranza saranno più frequenti nei sistemi presidenziali piuttosto che nei sistemi parlamentari.

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Il fatto che i presidenti possano designare chi vogliono nel gabinetto potrebbe indurvi a pensare
che governi di coalizione si formino raramente.
Linz sostiene che, nelle democrazie presidenziali, i governi di coalizione siano eccezionali. I
governi di coalizione sarebbero inaspettati se gli attori politici vivessero in un mondo di soli politici
a caccia di cariche - perché potrebbero formare una coalizione e rinunciare alle cariche nel
gabinetto, se non vi fossero costretti? E’ probabile che gli attori politici siano interessati in una
certa misura alle politiche o che agiscano come se lo fossero. Se è così, allora è facile capire
perché i presidenti potrebbero avere un incentivo a formare governi di coalizione. La misura in cui
tale incentivo è avvertito dipenderà dai poteri legislativi del presidente.
Tutti i presidenti hanno il potere di emettere un decreto: un atto presidenziale che ha forza di
legge. La portata e la forza di questi decreti variano da paese a paese. Es: negli Stati Uniti, i
decreti consentono al presidente solo di dare attuazione e interpretare le leggi già emanate del
legislativo e di organizzare la pubblica amministrazione; il presidente non può emanare nuove
leggi.
In altri paesi, i presidenti possono emettere decreti-legge che hanno immediata forza di legge,
anche quando hanno a che fare con un legislativo ostile. I presidenti che hanno un potere
decretato relativamente debole e il cui partito non controlla una maggioranza dei seggi legislativi
hanno bisogno del sostegno di alti partiti se vogliono raggiungere uno qualsiasi dei loro obiettivi
politici. Questi presidenti avranno un incentivo a cercare di formare coalizioni. La questione sta nel
fatto che i governi di coalizione non dovrebbero essere eccezionali nei sistemi presidenziali.
L’evidenza empirica suggerisce che i governi di coalizione sono frequenti nelle democrazie
presidenziali.
La frequenza con la quale si formano governi di coalizione nei sistemi presidenziali ha indotto
studiosi a concludere che non è vero che gli incentivi per la formazione di coalizioni sono
diversi nelle democrazie presidenziali e in quelle parlamentari. Questa è però una conclusione
prematura. Perché? Molto dipende dal punto di reversione citato in precedenza. Se, in un
regime presidenziale, i negoziati sulla formazione di un governo di coalizione si interrompono, il
risultato è che il partito del presidente finisce per governare da solo. Questo implica che il
presidente ha l’ultima parola sulle politiche, in un modo diverso rispetto a un primo ministro.
Abbiamo visto che, in un sistema parlamentare, il rimo ministro può essere costretto a concedere
il controllo di particolari ministeri ai propri partner di gabinetto per poter formare un governo. In un
sistema presidenziale, il presidente ha la stessa necessità di fare concessioni politiche. Anche se il
presidente fa delle concessioni politiche per ottenere che i partiti di opposizione si uniscano al suo
gabinetto, queste promesse politiche sono prive di credibilità, perché il presidente ha il diritto di
ignorare questi partiti quando lo ritiene opportuno, senza perdere la propria carica. La possibilità di
alcuni presidenti di utilizzare i decreti e l’incapacità dei partiti di opposizione di far cadere il governo
riducono i benefici attesi dei partiti di opposizione che potrebbero pensare di entrare nel governo.
D’altra parte, anche i costi di appartenere a una coalizione possono essere inferiori, perché i
legislatori appartenenti ai partiti della coalizione possono votare contro le leggi promosse dal
governo senza correre il rischio di provocare la caduta del governo. In pratica, anche se i
presidenti possono decidere di formare governi di coalizione, non è detto che trovino sempre dei
partner disposti a far parte della coalizione; e se li trovano, è probabile che questi ultimi siano
meno affidabili.
Vi sono due conseguenze:
- primo: anche se, nelle democrazie presidenziali, i governi di coalizione non dovrebbero essere
eccezionali, dovrebbero essere meno frequenti che in quelle parlamentari;

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- seconda: nei sistemi presidenziali i governi di coalizione possono essere più instabili e
sopravvivere per periodi di tempo più brevi, a parità di condizioni, rispetto ai governi di
coalizione nei paesi parlamentari. Oppure, nei regimi presidenziali, le coalizioni possono
sopravvivere tanto a lungo quanto le coalizioni nei regimi parlamentari, ma non possono
governare in modo altrettanto efficace, perché è possibile che una coalizione di portafoglio
sopravviva più a lungo della coalizione legislativa che sottosta a tale coalizione.

La composizione dei gabinetti presidenziali

Le democrazie presidenziali tendono a essere caratterizzate da un maggior numero di governi di


minoranza e da un minor numero di governi di coalizione. Anche la composizione dei gabinetti
presidenziali è sistematicamente diversa rispetto a quella dei gabinetti parlamentari. I presidenti
nominano i gabinetti che contengono una percentuale maggiore di ministri indipendenti. Un
ministro indipendente è un ministro che non proviene dal legislativo; potrebbe essere un
tecnocrate, un collaboratore stretto o un rappresentante di un gruppo di interesse.
I partiti politici esercitano un’influenza relativamente forte delle cariche ministeriali nei sistemi
parlamentari, ma non è necessariamente così nelle democrazie presidenziali. I primi ministri
nominano quasi sempre ministri partitici persone appartenenti ai partiti politici nel legislativo, in
modo da costruire la maggioranza legislativa della quale hanno bisogno per rimanere al potere. E’
per questa ragione che i primi ministri tendono a ripartire le cariche ministeriali in modo
proporzionale rispetto ai seggi che ogni partito apporta alla coalizione di governo. Dato che, per
rimanere in carica i presidenti non dipendono da una maggioranza legislativa, non devono
negoziare con i partiti politici quanto i primi ministri. Di conseguenza, sono molto già liberi di
variare sia la composizione partitica, sia il grado di proporzionalità dei loro gabinetti.
Le democrazie presidenziali avranno meno ministri partitici e un minor grado di proporzionalità del
gabinetto rispetto a quelle parlamentari. Alcuni gabinetti presidenziali saranno più simili a quelli
parlamentari di altri. Ciò è dovuto alla variabilità nei poteri legislativi dei presidenti, i quali possono
scegliere di realizzare i propri obiettivi politici attraverso leggi o decreti. E’ probabile che i presidenti
che hanno un potere di decretazione relativamente debole, i cui partiti nel legislativo sono piuttosto
piccoli e presentano bassi livelli di disciplina, nominino gabinetti più simili a quelli delle democrazie
parlamentari - con un maggior numero di ministri partitici e con una ripartizione proporzionale dei
portafogli ministeriali - perché dipendono dal sostegno dei partiti di opposizione per far approvare
le loro politiche.

FORMAZIONE E DISSOLUZIONE DEI GOVERNI: LE DEMOCRAZIE MISTE.

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Una democrazia mista è una democrazia in cui il governo dipende sia dal legislativo sia dal
presidente per rimanere al potere.
Vi è stato un numero crescente di paesi che negli ultimi anni sono diventati democrazie miste: ad
esempio, l’Armenia, la Croazia, la Lituania, la Moldavia, la Polonia, la Romania, la Russia,
l’Ucraina, hanno tutte adottato forme miste di democrazia fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni
Novanta, in seguito alla loro tradizione verso la democrazia.
Il governo in una democrazia mista comprende:
- un primo minstro
- un gabinetto
come in una democrazia parlamentare.
Tuttavia, mentre in quella parlamentare il ramo esecutivo e il governo sono la stessa cosa, non è
così in una democrazia mista. In essa, infatti, il ramo esecutivo comprende il governo e un
presidente - il presidente fa parte del ramo esecutivo, ma non fa parte del governo. Sia il
presidente, sia il primo ministro sono coinvolti nella quotidiana amministrazione dello stato. Il modo
specifico in cui il potere esecutivo è diviso tra il presidente e il primo ministro varia da una
democrazia mista all’altra. Di solito, il presidente ha più influenza in materia di politica estera,
mentre il primo ministro ne ha di più in materia di politica interna.
Nelle democrazie miste, non c’è nulla che garantisca che il presidente e il primo ministro
provengano dallo stesso partito politico. I periodi in cui politici di diversi partiti o blocchi politici
detengono le posizioni di presidente e di primo ministro, sono definiti come periodi di
coabitazione. Dato che, nelle democrazie miste, spetta quasi sempre al presidente nominare il
primo ministro, perché mai il presidente dovrebbe nominare un primo ministro du un partito politico
avversario? La risposta ha a che fare con il fatto che il governo deve godere del sostegno di una
maggioranza legislativa per restare in carica. Così, può essere necessario che un presidente
nomini un primo ministro di un partito di opposizione, quando il partito o il blocco politico del
presidente non controlla una maggioranza dei seggi legislativi.
Tuttavia, la coabitazione non è una caratteristica di queste democrazie. Il motivo è che un
presidente in un sistema presidenziale è libero di nominare chi preferisce al gabinetto, anche se
non il suo partito non ha la maggioranza del legislativo. Ciò non è possibile nelle democrazie
miste.
Per concludere, possiamo dire che pochissimi studi hanno esaminato la composizione dei governi
nelle democrazie miste. Lo studio più recente è stato proposto da Amorim Neto e Strøm. Essi
sostengono che, sebbene il processo di formazione del governo vari da una democrazia mista
all’altra, è opportuno pensare che sia il presidente sia il primo ministro abbiano il potere di veto
sulle nomine ministeriali. Così, il presidente non è tanto forte quanto lo sarebbe in un regime
presidenziale e il primo ministro non è tanto forte quanto lo sarebbe in un regime parlamentare.
Questo suggerisce che potremmo aspettarci che, quando si tratta della composizione dei gabinetti,
le democrazie miste presentino sia caratteristiche proprie delle democrazie parlamentari che di
quelle presidenziali. Questo implica che, nelle democrazie miste, i gabinetti dovrebbero essere
caratterizzati da un minor numero di ministri partitici e da una minore proporzionalità nella
ripartizione dei portafogli rispetto a quanto accade nei regimi parlamentari, ma da un maggior
numero di ministri partitici e da più proporzionalità nella ripartizione dei portafogli rispetto ai regimi
presidenziali.
Questo è ciò che Amorim Neto e Strøm riscontrano nel loro studio relativo a dodici democrazie
parlamentari e dodici democrazie miste in Europa.

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Infine possiamo dire che, quando il presidente si trova a confrontarsi con un legislativo dominato
da un partito di opposizione dovremmo aspettarci che i gabinetti di una democrazia mista siano più
simili a quelli comunemente presenti in una democrazia parlamentare. L’esperienza storica del
processo di formazione del governo in Francia sembra confermare tutto questo.

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Capitolo 12: elezioni e sistemi elettorali.

Il sistema elettorale è un insieme di leggi e regolamenti che governano la competizione elettorale


tra candidati e/o partiti. Queste leggi e regolamenti includono tutta una serie di elementi:
- formula elettorale: il meccanismo attraverso il quale i voti si traducono in seggi
- struttura del voto: il fatto che un individuo voti per dei candidati e/o dei partiti, o che esprima un
voto singolo o una serie di preferenze
- l’ampiezza/magnitudine del distretto: il numero dei rappresentanti eletti in un distretto.
Le stesse leggi includono anche varie regole amministrative relative ad aspetti come la nomina dei
candidati, la registrazione dei votanti e la distribuzione dei seggi elettorali.
La maggior parte degli scienziati politici classificano i sistemi elettorali in tre macrocategorie in
base alla formula elettorale che impiegano per tradurre i voti in seggi parlamentari:
- maggioritario
- proporzionale
- misto.

ELEZIONI: UNA PANORAMICA GENERALE

Tutte le democrazie moderne, per la loro stessa natura, indicono elezioni a scadenze periodiche.
Ciò non significa che le elezioni avvengano esclusivamente nelle democrazie.
Le elezioni nelle dittature variano grandemente, sia per livello di competitività, sia per incisività.
Alcune elezioni sono poco più che referendum in cui gli elettori possono esprimere solo un sì o
solo un no. Per contro, alcune dittature consentono elezioni in cui i votanti possono scegliere tra
più candidati di un unico partito.
Nella maggior parte dei regimi non democratici, le elezioni hanno un esito scontato, ossia la vittoria
del partito di governo o di qualche altro candidato sostenuto dall’élite dominante. In definitiva, nelle
dittature, gli elettori hanno poca o nessuna voce in capitolo. L’esito scontato delle votazioni è
spesso il risultato della coercizione esercitata sugli elettori, della manipolazione del voto o di un
calcolo arbitrario dei risultati.
Questo esito scontato delle elezioni che si tengono nei regimi dittatoriali ha indotto qualcuno a
definirle elezioni farsa. Ma è una definizione un po’ fuorviante, perché allude a una messa in
scena del tutto priva di conseguenze politiche. Se così fosse, perché tante dittature si
prenderebbero la briga di indire delle elezioni?
Anche se nelle dittature le elezioni non danno quasi mai ai cittadini la possibilità di cambiare il
gruppo dirigente al potere, come avviene nelle democrazie, gli scienziati politici sono sempre più
convinti che queste forme di consultazione del corpo elettorale abbiano conseguenze significative.
In linea generale, le dittature indicono elezioni perché pensano che sia nel loro interesse. Alcuni
regimi chiamano i cittadini alle urne perché hanno ricevuto pressioni in tal senso dagli Stati Uniti e
da istituzioni finanziarie internazionali come il Fondo Monetario Internazionale. In effetti, il ricorso
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alle urne è un tentativo di mantenere in questi paesi la parvenza di una competizione democratica
e di assicurarsi la tolleranza e i flussi di finanziamento della comunità internazionale.
Nei regimi autoritari, le elezioni possono costituire, in svariati modi, una fonte di stabilità. Possono
essere un meccanismo per risolvere i conflitti tra le élites, un’arena per la distribuzione clientelare
degli incarichi e uno strumento a disposizione dei leader per ottenere informazioni sulla
performance dei funzionari locali. Le elezioni possono contribuire a istituzionalizzare il predominio
di un singolo partito e creare un meccanismo relativamente stabile per la successione all’interno
del regime. Possono fornire al regime utili informazioni sulla forza relativa dei sostenitori e degli
oppositori. Elezioni a senso unico possono minare la volontà dei gruppi di opposizione di
contestare il regime, perché questi gruppi non hanno modo di conoscere il vero livello di
opposizione che esiste nelle società; tutti i dati a disposizione indicano un fortissimo appoggio alla
dittatura. Inoltre, è provato che le elezioni danno modo alle dittature di cooptare gruppi di
opposizione, o quantomeno di dividerli e controllarli.
Le elezioni nelle dittature offrono ai cittadini la possibilità di manifestare la propria insoddisfazione
per il regime in carica. Come osserva Blaydes, l’astensione o l’annullamento della scheda
possono segnalare lo scontento e il volere degli elettori. Studi effettuati sulle consultazioni elettorali
che si tenevano nell’ex Unione Sovietica suggeriscono che l’astensionismo si può considerare, e
all’epoca veniva considerato, una forma di protesta attraverso la quale soggetti relativamente
istruiti decidevano di ignorare le leggi elettorali e di disperdere il proprio voto. Dando ai cittadini
questa limitata possibilità di manifestare il proprio scontento, le dittature tentano di incanalare
l’insoddisfazione per il regime nel processo elettorale, anziché in altre attività più destabilizzanti. Le
elezioni possono rappresentare nei regimi autoritari un’importante strategia di sopravvivenza.
Pur svolgendo un ruolo significativo, le elezioni non costituiscono una caratteristica specifica dei
regimi autoritari. Sono centrali per la natura stessa del regime democratico contemporaneo. Nelle
democrazie, le elezioni assolvono una funzione:
- pratica: sono il mezzo principale attraverso il quale i cittadini scelgono i propri rappresentanti.
Danno ai cittadini la possibilità di influenzare il processo di formazione del governo, di premiare
o punire i politici per come hanno gestito il potere e di plasmare l’indirizzo delle politiche future;
- simbolica: la legittimazione di un governo democratico deriva dal fatto che è stato scelto
attraverso un processo elettorale. I cittadini hanno ciascuno un’eguale opportunità di
partecipare, a un costo basso, alla selezione delle persone che li governano e alle politiche che
dovrebbero essere implementate.
Nelle democrazie, in sostanza, si riconosce che l’autorità dei governi deriva unicamente dal
consenso dei governati. Le elezioni rappresentano il meccanismo principale mediante il quale
questo contesto si traduce nel potere di governare.
Le elezioni comportano sempre l’attribuzione di voti a candidati e/o partiti politici, ma le regole
specifiche utilizzate dai vai sistemi elettorali viaggiano moltissimo fra loro. Benché tutte le
democrazie contemporanee consentano il suffragio universale, (il diritto di voto non è
condizionato dalla razza, dal genere, dalle convinzioni, o dalla condizione sociale), esse
pongono ancora varie restrizioni, di un tipo o dell’altra, all’esercizio di tale diritto. Le democrazie
variano fra loro rispetto al conferimento del diritto di voto ai condannati, ai non cittadini, ai malati di
mente, ai non residenti e così via.
I sistemi elettorali variano sotto molti altri aspetti. Alcuni consentono ai cittadini di votare per
candidati, altri consentono loro di votare unicamente per partiti; alcuni permettono ai candidati di
dare un solo voto, altri permettono loro di dare più voti; alcuni prevedono un solo turno elettorale,
altri ne prevedono due o più, ecc.

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Nonostante i tanti e diversi criteri che si potrebbero utilizzare per tentare di distinguere fra i sistemi
elettorali in vigore nel mondo, la maggior parte degli scienziati politici classificano i sistemi elettorali
nelle tre macro categorie menzionate:
- maggioritario
- proporzionale
- misto.
Perché? Non c’è una risposta veramente soddisfacente. Si tratta di una convenzione. La risposta
più accettabile è che secondo gli scienziati politici la formula elettorale influenza la proporzionalità
del sistema elettorale e il tipo di governo destinato a formarsi. Per esempio:
- i sistemi elettorali maggioritari tendono a produrre una traduzione meno proporzionale dei voti in
seggi, e ad aumentare la probabilità che si formino governi maggioritari monocolore;
- i sistemi elettorali proporzionali tendono a produrre risultati int termini di seggi più proporzionali.
Poiché la maggior parte degli scienziati politici ritengono che la proporzionalità di un sistema
elettorale e il tipo di governo che si viene a formare siano importanti, non è sorprendente che in
genere distinguano le famiglie di sistemi elettorali in base alla formula elettorale.

UNA PANORAMICA DEI SISTEMI ELETTORALI UTILIZZATI NEL MONDO

Dei 188 paesi indipendenti nel 2004, 11 non avevano ancora tenuto elezioni, oppure erano in fase
di transizione, per cui si doveva adottare un sistema elettorale.
In uno dei pochi studi sulla scelta del regime elettorale nelle autocrazie, Lust-Okar e Jamal
affermano che diversi tipi di dittatura scelgono diversi tipi di sistemi elettorali. Essi sostengono che
i sistemi maggioritari sono più utilizzati dalle dittature monopartitiche, mentre i sistemi proporzionali
sono più utilizzati dalle democrazie assolute tradizionali. L’idea è che i leader di questi due tipi di
dittatura abbiano preferenze divergenti. I monarchi sono arbitri politici; la loro legittimità deriva da
elementi come l’appartenenza alla famiglia reale, l’autorità religiosa o la tradizione storica anziché
il consenso popolare. La stabilità del monarca risiede nella divisione e nella contrapposizione
politica all’interno della società, anziché nell’unità. I re non hanno alcun interesse a creare
un singolo contendente che potrebbe lottare contro di loro per il potere.
Di conseguenza, i monarchi preferiscono sistemi proporzionali che consentono la rappresentanza
di partiti politici in competizione tra loro, riservandosi il ruolo di arbitro assoluto. Per contro, i leader
degli stati dominati da un singolo partito sono costretti a scendere nell’arena politica per mantenere
il proprio potere. Vogliono sistemi maggioritari che favoriscano proporzionalmente il loro (grande)
partiti politico. Questa linea di pensiero politico viene supportata da evidenze empiriche relative al
Medio Oriente. Ovviamente bisogna condurre ulteriori ricerche sulle ragioni per cui determinate
dittature adottano determinati sistemi elettorali e su come tali decisioni influenzano la stabilità e
altri aspetti del governo autoritario.
La letteratura sulla scelta del sistema elettorale nel democrazie è nuova ma in rapida crescita.
Varie spiegazioni sono state proposte del perché i paesi hanno i sistemi elettorali che hanno. Tali
spiegazioni si concentrano su aspetti come l’interesse dei partiti politici, le preoccupazioni di
carattere generale, i precedenti storici, le pressioni esterne ed eventi specifici. Le spiegazioni

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incentrate sull’interesse tendono a focalizzarsi sulle preferenze dei partiti politici per i diversi
sistemi elettorali. Poiché i sistemi elettorali sono meccanismi distributivi che premiano un partito a
spese di un altro, i partiti tendono ad avere nei confronti delle regole elettorali preferenze
confliggenti. L’adozione di un sistema elettorale è l’esito di una lotta tra partiti politici con interessi
contrapposti. In questa lotta, si presume che i partiti badino alle politiche o alle cariche. Nelle
ricostruzioni che attribuiscono un ruolo centrale alle politiche, i leader si preoccupano di come le
diverse alternative elettorali incidono sui tipi di politiche che è probabile vengano adottate in
parlamento.
Nelle spiegazioni basate sul perseguimento delle cariche, i leader si preoccupano di come le
diverse regole elettorali influenzano la loro quota di seggi e la probabilità di far parte del governo.
Boix usa un approccio basato sul perseguimento delle cariche per spiegare la diffusione dei
sistemi elettorali proporzionali in tutto il mondo all’inizio del XX secolo. Egli afferma che le élite
dominanti elette storicamente con un sistema maggioritario decisero di adottare sistemi
proporzionali quando il diritto di voto fu esteso ai poveri e il consenso politico dei partiti socialisti
cominciò a crescere. L’incentivo ad adottare un sistema proporzionale era forte nei paesi in cui i
partiti conservatori della destra erano frammentati e la presenza di forti partiti socialisti poneva una
minaccia alla prosecuzione del loro predominio. Box afferma che all’inizio del XX secolo i partiti
conservatori scelsero di adottare sistemi proporzionali come strategia preventiva per garantirsi una
solida rappresentanza in parlamento, ance se questo comportava che restassero divisi.
Anziché sostenere che i sistemi elettorali vengano adottati perché rispondono agli interessi di
determinati partiti, altri studiosi ritengono che vengano scelti perché rispondono a un interesse
generale quale promuovere la legittimità, la correttezza, la tolleranza etnica, la partecipazione, la
responsabilizzazione e l’espressione di preferenze sincere.
Qualcuno ha affermato che i gruppi dirigenti chiamati a scegliere le istituzioni elettorali in Europa
orientale dopo il tracollo del comunismo fossero animati dal desiderio di massimizzare la legittimità
e l’imparzialità attraverso la promozione della proporzionalità e lo sviluppo dei partiti politici.
Occorre non dimenticare che nei paesi che hanno appena conquistato la democrazia ci possono
essere elevati livelli di incertezza su come voteranno i cittadini. Di conseguenza, diventa più
difficile per i partiti politici sapere quale sistema elettorale corrisponderà al loro interesse. E’ anche
per questo che secondo Birch, i leader dell’Europa orientale hanno scelto spesso sistemi elettorali
più per preoccupazioni di carattere generale e per massimizzare i rischi, che per massimizzare la
propria quota di seggi parlamentari.

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Capitolo 13: fratture sociali e sistemi di partito.

Oltre a classificare le democrazie secondo il tipo di governo che hanno o al tipo di sistema
elettorale che impiegano, a volte gli scienziati politici le categorizzano secondo il sistema di partito
che esibiscono. Essi si concentrano sul numero e sulla dimensione dei partiti che operano in un
paese. Vedrete gli studiosi distinguere tra democrazie che hanno:
- un sistema bipartitico, come gli Stati Uniti
- un sistema multipartitico, come l’Olanda.
Mentre il tipo di governo e di sistema elettorale di un paese è quasi sempre definito dalla
costituzione o da qualche altro documento legale, ciò non accade per il sistema di partito. I partiti
assumono la forma che assumono in base alla natura evolutiva della competizione politica in
ciascun paese.
La struttura del sistema di partito di un paese non viene progettata intenzionalmente da determinati
soggetti; emerge dalla complessa interazione delle decisioni prese da attori come i leader di partito
e gli elettori.

I PARTITI POLITICI: CHE COSA SONO E CHE COSA FANNO?

Il partito politico è un gruppo di funzionari e aspiranti funzionari che sono legati a un


gruppo consistente di cittadini tramite un’organizzazione; uno degli obbiettivi principali di
questa organizzazione è fare in modo che i suoi funzionari conquistino il potere e lo
conservino.
Come suggerisce questa definizione, un partito politico è composto da un vasto insieme di attori
che possono andare dai funzionari già al potere agli elettori abituali del partito, a coloro che
sostengono le campagne elettorali con elargizioni e volontariato.
Il partito politico si può concepire quindi come un gruppo di persone che include i titolari di cariche
pubbliche e coloro che li aiutano a ottenerle e mantenerle. Uno degli obiettivi principali è
conquistare il potere. Diversamente, i gruppi di interesse (es. Greenpeace) sono organizzazioni
che tentano d’influenzare la politica ma senza assumere il potere.
Una cosa da osservare è che i partiti politici non sono confinati alle democrazie e all’attività
elettorale. Essi assolvono importanti funzioni che sono molto cruciali per l’operatività dei sistemi
politici moderni, sia nelle democrazie, sia nelle dittature.

I partiti politici strutturano il mondo politico

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I partiti politici contribuiscono a strutturare il mondo politico sia per le élite sia per le masse. Alle
élite forniscono un approccio organico alla formulazione delle politiche.
Immaginate un mondo in cui non ci siano partiti politici. Immaginate un mondo in cui ogni
parlamentare sia privo di qualunque legame istituzionalizzato con gli altri parlamentari. Poiché i
legislatori devono prendere decisioni politiche in numerose aree problematiche e ci sarà un
dissenso su quali siano le politiche più appropriate, l’esito del processo di formazione delle
politiche in questo tipo di ambiente sarà caotico e instabile.
I partiti politici contribuiscono a superare alcuni di questi problemi coordinando le azioni dei singoli
legislatori e semplificando lo spazio politico. Aldrich afferma che l’esigenza di coordinare i voti su
molte questioni tra parlamentari che hanno preferenze simili ma non identiche spiega perché si
formarono dei partiti politici negli Stati Uniti nel XVIII secolo.
Come per le élite, i partiti politici strutturano anche il mondo politico a beneficio degli elettori.
Possono farlo fornendo scorciatoie informative agli elettori. Questi ultimi non hanno quasi mai la
possibilità, il tempo, l’energia o il desiderio di raccogliere informazioni su determinati problemi
politici. Per questi elettori, privi d’informazioni, i nomi dei partiti e l’affiliazione ai partiti possono
costituire delle scorciatoie informative, nel senso che queste cose dicono ai votanti come porsi di
fronte a determinate questioni. Gli elettori potrebbero decidere che sono contro un determinato
progetto di legge, non perché lo abbiano letto da cima a fondo e si siano resi conto che non era in
linea con i loro interessi, ma perché non piace al partito in cui si riconoscono. Sotto molti aspetti,
l’identità politica del singolo cittadino coincide spesso con la sua identificazione di partito.
Campbell e altri lo notano quando definiscono la identificazione di partito come l’affiliazione a
un partito che aiuta il cittadino a posizionare sé stesso e altri nel panorama politico.

Reclutamento e selezione dell’élite politica

Oltre a strutturare il mondo politico, i partiti giocano un ruolo importante nel reclutamento e nella
selezione dell’élite politica. In molti paesi è difficile farsi eleggere da indipendenti. Essere
selezionati come candidati di un partito è spesso una condizione necessaria per concorrere con
successo a una carica parlamentare. I ruoli di governo sono riservati ai massimi dirigenti di un
partito politico. In effetti, accedere al potere politico presuppone l’essere accettati da un pario e di
solito anche l’esercitarvi un ruolo da leadership. I partiti svolgono un ruolo di socializzazione nei
confronti dell’élite politica; la maggior parte dei ministri hanno trascorso anni in seno a un partito,
lavorando con altri membri del partito e imparando a vedere il mondo politico nell’ottica del partito.
Entro certi limiti, il ruolo giocato dai partiti nel reclutamento e nella selezione dell’élite politica è più
importante nelle democrazie parlamentari che nelle democrazie presidenziali. Nelle democrazie
presidenziali la maggior parte dell’élite politica è arrivata dov’è arrivata attraverso l’apparato di un
partito politico, ma i partiti non sono i guardiani monopolistici del potere che vediamo
frequentemente nei sistemi parlamentari. Il presidente ha meno bisogno di negoziare con i partiti
politici presenti in parlamento sulla composizione del gabinetto perché il voto di sfiducia non esiste
nei sistemi presidenziali. I regimi presidenziali che consentono le primarie, come gli Stati Uniti,
indeboliscono ulteriormente il ruolo che giocano i partiti politici nel reclutamento e nella selezione

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dell’élite politica. Consentendo ai candidati di rivolgersi direttamente agli elettori anziché ai leader
di partito, le primarie possono dare modo a candidati che hanno scarsa esperienza politica o
partitica di vincere le elezioni. Nelle democrazie presidenziali può addirittura accadere che la
presidenza vada a persone totalmente estranee alla politica. E’ ciò che è accaduto quando lo
studioso e commentatore televisivo Alberto Fujimori ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali del
Perù nel 1990. L’elezione di un candidato simile a una posizione equivalente a quella di primo
ministro in una democrazia parlamentare è impensabile. Il fatto che i partiti politici non esercitino lo
stesso grado di controllo sul reclutamento e sulla socializzazione dell’élite politica nei diversi tipi di
democrazia fa pensare che la direzione politica dei leader nelle democrazie presidenziali sia meno
stabile e più imprevedibile di quella dei leader politici delle democrazie parlamentari.
I partiti politici possono, inoltre, svolgere una funzione analoga nelle dittature. Pensate al ruolo
che ha avuto il partito comunista (PCUS) nell’Unione Sovietica. L’appartenenza al PCUS era una
condizione necessaria e imprescindibile per entrare a far parte della classe dominante politica,
economica e accademica. Voslensky scrive: mentre il processo di una tessera del partito non
garantisce ovviamente il successo, il mancato possesso della tessera garantisce
l’impossibilità di fare qualunque carriera. Il potere e l’autorità aumentavano man mano che si
cresceva nella gerarchia del partito di pari passo con i benefit monetari ed extramonetari.

Mobilitazione delle masse

I partiti politici sono anche strumenti di primaria importanza per la mobilitazione delle masse. Ciò è
importante in fase elettorale, quando i comuni cittadini vanno incoraggiati a recarsi alle urne. Una
vasta letteratura in scienza politica dimostra che i cittadini non sono naturalmente inclini a votare,
perché presentarsi ai seggi è costoso, ci vuole tempo, hanno altro da fare, magari piove e così via,
e la probabilità che un singolo voto possa determinare l’esito della consultazione elettorale è
infinitesimale. Ne consegue che le organizzazioni come i partiti politici hanno un ruolo significativo
da giocare nel portare gli elettori ai seggi. I partiti politici sono in condizione di esercitare questo
ruolo perché tendono ad avere una presenza capillare e una struttura organizzativa radicata sul
territorio. Hanno un forte incentivo specifico a fare andare le persone a votare, vogliono vincere le
elezioni.
In una dittatura monopartitica come l’Unione Sovietica, il PCUS non aveva ovviamente alcun
bisogno di mobilitare l’elettorato per vincere le elezioni: aveva la vittoria assicurata. Faceva molte
delle cose che fanno i partiti politici nelle democrazie per favorire l’afflusso alle urne, perché voleva
dare una buona impressione e consolidare la legittimazione del regime. Vale la pena osservare
che nelle democrazie i partiti politici svolgono frequentemente anche questo ruolo - promuovono
l’afflusso generale dei votanti nel tentativo di creare supporto per il regime democratico nel suo
complesso.
La capacità dei partiti politici di mobilitare le masse può essere importante anche quando non si
tengono le elezioni. Es: il presidente francese Charles de Gaulle usò il partito gollista per
mobilitare i sostenitori contro le proteste degli studenti e degli operai.

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Il legame tra governanti e governati

I partiti politici creano un collegamento tra i governanti e i governati. Per la maggior parte degli
studiosi della teoria democratica, i governi democratici dovrebbero riflettere le preferenze dei loro
cittadini.
I partiti politici rappresentano anche lo strumento principale tramite il quale si possono rendere le
democrazie rispondenti a tali interessi. Alcuni affermano che i partiti politici hanno creato la
democrazia… la democrazia moderna è impensabile senza i partiti. In una democrazia, i
cittadini dovrebbero poter responsabilizzare i leader per le decisioni che prendono quando
ricoprono cariche pubbliche. Il problema è che la politica del governo viene determinata
frequentemente dall’azione collettiva di molti soggetti. In quanto gruppi collettivo, il partito politico
costituisce il mezzo principale mediante il quale gli elettori possono responsabilizzare i
rappresentanti eletti su ciò che fanno collettivamente. Fiorita scrive: l’unico modo in cui è mai
esistita, e può esistere, la responsabilità collettiva… è attraverso la mediazione del partito
unico.
E’ importante riconoscere che il legame creato dai partiti tra funzionari di governo e cittadini è
bidirezionale. Abbiamo definito il partito politico un’organizzazione che i cittadini possono usare
per controllare le azioni dei funzionari pubblici e per responsabilizzarli su ciò che fanno, ma
dovremmo riconoscere che i partiti politici possono anche aiutare i governanti a esercitare un
controllo su altri soggetti politici e sui cittadini. I leader di partito hanno a disposizione molteplici
incentivi e sanzioni per ottenere l’obbedienza dei legislatori al momento del voto. I leader di partito
possono usare a promozione interna al partito, la promessa di risorse elettorali, la minaccia
dell’esplosione ecc., per indurre i parlamentari a votare nel modo giusto su determinati progetti di
legge.
In quasi tutti i partiti politici, opera un personaggio denominato whip (coordinatore) il cui compito
è fare in modo che i membri del partito partecipino alle sessioni parlamentari e votino come
desidera il gruppo dirigente. Gli whip figurano frequentemente tra gli attori politici più importanti
di un paese. La loro importanza sfugge spesso al pubblico, perché questi attori appaiono
raramente nei media, perlomeno nel ruolo di coordinatori.
I partiti politici si possono usare anche per controllare il comportamento dei cittadini. Ciò avviene
molto più comunemente nelle dittature che nelle democrazie.
Osservano Friedrich e Brzezinski: il ruolo del partito è fornire un seguito al dittatore. I regimi
autoritari monopartitici usano l’organizzazione del partito come mezzo per controllare la
cittadinanza. In cambio di benefici, privilegi e possibilità di carriera, i membri del partito accettano
di mobilitare l’appoggio popolare e di supervisionare il comportamento di coloro che non sono
disposti a identificarsi nel dittatore.
Gershenson e Grossman spiegano come il partito comunista dell’Unione Sovietica abbia usato i
suoi membri per cooptare e reprimere vari segmenti della società. Sottolineano come il PCUS
allentasse e irrigidisse le restrizioni a carico di coloro che potevano entrare a far parte del partito
per limitare una potenziale opposizione.
Hough afferma che il governo sovietico è stato particolarmente abile a legare il destino di
molti cittadini al destino del regime. Ammettendo nei ranghi del partito una parte così vasta
della popolazione istruita, ha fornito occasioni di mobilità sociale in ascesa a coloro che
evitano la dissidenza, dando a tutti i componenti della classe manageriale valide ragioni di
domandarsi quale sarebbe stato, su di loro, l’impatto di una rivoluzione anticomunista.

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SISTEMI DI PARTITO

Gli scienziati politici classificano le democrazie in base al sistema di partito che esibiscono.
Distinguono tra i sistemi di partito in base al numero e alla dimensione del partiti che contengono.
Identifichiamo, dunque, cinque diversi tipi di sistema di partito:
- democrazia apartitica: è una democrazia in cui non esistono partiti politici ufficiali;
- sistema a partito unico: è quello in cui un solo partito è legalmente autorizzato a detenere il
potere;
- sistema dominato da un solo partito: è quello in cui potrebbero operare legalmente più partiti,
ma solo un determinato partito ha realistiche probabilità di salire al potere;
- sistema bipartitico: è quello in cui solo due grandi partiti politici hanno una realistica probabilità
di detenere il potere;
- sistema multipartitico: è quello in cui più di due partiti hanno una realistica probabilità di
detenere il potere.
I sistemi monopartitici esistono solo nei regimi autoritari e i sistemi di partito dominato da un solo
partito sono rari nelle democrazie. Per questo gli scienziati politici distinguono tra democrazie
bipartitiche e multipartitiche.
L’esistenza di partiti politici si considera spesso una condizione necessaria per l’esistenza della
democrazia moderna. Alcuni studiosi hanno affermato che i partiti sono l’istituzione
fondamentale della politica democratica, che la democrazia è impensabile senza i partiti e
che la democrazia moderna è una democrazia basata sui partiti.
Nonostante queste affermazioni, si scopre che alcune democrazie, in cui numero è limitato, si
possono considerare apartitiche, ossia prive di partiti politici ufficiali. L’assenza di partiti politici
potrebbe dipendere dal fatto che una legge ne proibisce l’esistenza o che devono ancora
costituirsi.
Oggi le uniche democrazie che si possono considerare apartitiche sono le piccole isole Kiribati, le
isole Marshall ecc.
Nei sistemi monopartitici, un solo partito politico è legalmente autorizzato a detenere il potere. La
Liberia si considera il primo stato monopartitico del mondo. Gli stati monopartitici oggi includono la
Cina, Cuba, l’Eritrea, la Corea del Nord ecc.
Benché questi sistemi di partito prendano il nome di sistemi monopartitici, a volte è consentita
l’esistenza di partiti minori. Questi sono sempre tenuto per legge ad accettare la leadership del
partito dominante. Tutti i sistemi monopartitici si trovano nei regimi autoritari.
In alcuni paesi sono legalmente ammessi più partiti, ma solo uno di essi ha realistiche probabilità
di conquistare il potere. Gli stati in cui si verifica questa condizione hanno dei sistemi dominati da
un solo partito. Molti di questi sistemi si ritrovano nelle dittature. In questi paesi, il regime potrebbe
consentire a certi partiti di opposizione di operare alla luce del sole, ma impedire loro in vari modi
di arrivare al potere. Es: partito nazionaldemocratico (PND) di Hosni Mubarak in Egitto.
Tuttavia, non tutti i sistemi dominati da un solo partito sono autoritari. Ci sono vari casi di
democrazie in cui un singolo partito predomina a lungo. Tale predominio viene attribuito a fattori
come una costante popolarità, un’opposizione divisa, l’uso efficiente dei sistemi clientelari e anche
le frodi elettorali. Es: l’African National Congress in Sudafrica.
Anche se il sistema dominato da un solo partito è simile al sistema monopartitico, la presenza di
altri partiti attivi garantisce che vi sia una dialettica relativamente aperta, e consente anche
una certa flessibilità di lungo termine e una certa adattabilità del sistema.

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Il sistema bipartitico è quello in cui solo due grandi partiti politici hanno una possibilità realistica di
detenere il potere. In una democrazia caratterizzata da questo tipo di sistema di partito, quasi tutte
le cariche elettive sono coperte da candidati di uno dei due maggiori partiti: il successo elettorale
sotto l’egida di un terzo partito è improbabile. Es: Giamaica, Regno Unito.
Il sistema multipartitico è quello in cui più di due partiti hanno una possibilità realistica di detenere il
potere, separatamente o nell’ambito di una coalizione. La maggior parte delle democrazie hanno
sistemi multipartitici. Es: Francia, Italia, Israele, Olanda.
Gli scienziati politici distinguono fra le democrazie in base al numero e alla dimensione dei partiti
che esistono al loro interno. In genere tendono a distinguere tra:
- democrazie bipartitiche
- democrazie multipartitiche.
Invece di limitarsi a suddividere le democrazie in due sole categorie, potrebbe essere interessante
vedere quanti partiti ci sono in ciascun paese. Ciò richiede una riflessione sui criteri con cui
conteggiamo i partiti politici.
Potreste decidere di conteggiare tutti i partiti che partecipano alle elezioni nazionali. IN questo
caso in molti paesi il numero dei partiti sarebbe estremamente alto e includerebbe anche dei partiti
un po’ “burla”.
Per tenere conto di questo fatto, gli scienziati politici hanno usato un indicatore denominato
numero effettivo di partiti per conteggiare i partiti politici. Questo indicatore conteggia tutti i partiti
che ottengono voti o seggi, ma attribuisce a ciascun partito un peso che riflette la sua percentuale
di voti o di seggi.
Il “numero effettivo dei partiti” è un indicatore utile se pensiamo che questa seconda situazione sia
più simile a un sistema bipartitico che a un sistema quadripartitico.
-Se usiamo la “percentuale dei voti” dei partiti politici per soppesarne ciascuno, stiamo misurando
quello che gli scienziati politici chiamano numero effettivo dei partiti elettorali: questo
indicatore vi dà un’idea di quanti partiti hanno ottenuto i voti e di come i voti dell’elettorato
sono stati distribuiti tra i partiti.
-Se usiamo la “percentuale di seggi” dei partiti politici per soppesare ciascun partito, misuriamo
quello che gli scienziati politici chiamano numero effettivo dei partiti legislativi: questo
indicatore ci da un’idea di quanti partiti hanno conquistato dei seggi al parlamento e di
come questi seggi sono stati distribuiti fra i partiti.
Entrambi gli indicatori del numero effettivo dei partiti tengono conto non solo del numero, ma
anche della dimensione dei partiti che operano in un paese. Possiamo usare il numero effettivo dei
partiti esistenti in un determinato paese per classificare le democrazie in bipartitiche e
multipartitiche. Un modo comune di effettuare questa operazione è considerare le democrazie:
- bipartitiche se il numero effettivo dei partiti è inferiore a tre
- multipartitiche se il numero effettivo dei partiti è uguale o superiore a tre.

DA DOVE VENGONO I PARTITI?

Gli scienziati politici hanno due prospettive:

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- primordiale: vede nei partiti i rappresentanti naturali di persone che hanno interessi comuni.
Questa prospettiva dà per scontata l’esistenza di divisioni naturali all’interno della società. Con
il formarsi di gruppi intorno a queste fratture, i partiti politici emergono e si evolvono per
rappresentare questi interessi. E’ il cosiddetto approccio dal basso (bottom up) della
formazione dei partiti.
- strumentale: questa visione li considera squadre di persone interessate a ottenere cariche
pubbliche e si focalizza sul ruolo delle élite politiche e degli imprenditori politici. Stando a questo
approccio dall’alto (top down) i partiti politici verrebbero creati da persone che, forse a causa
di certi vantaggi informativi e del processo di risorse aggiuntive, sono in grado di discernere la
possibilità di rappresentare gli interessi non ancora rappresentati. L’approccio strumentale
riconosce che gli imprenditori politici potrebbero aiutare i cittadini a prendere coscienza di un
siffatto interesse: essi possono “creare” divisioni all’interno della società.
Queste due prospettive della formazione dei partiti ricordano da vicino quelli che gli economisti
chiamerebbero fattori della domanda e fattori dell’offerta:
- la prospettiva primordiale dà per scontata la domanda sociale di rappresentazione di
determinati interessi e spiega l’esistenza dei partiti politici come risposta a quelle istanze;
- la prospettiva strumentale afferma che l’offerta crea una sua domanda. Così come il marketing
e la pubblicità possono influenzare i gusti dei consumatori, gli imprenditori politici avveduti
potrebbero contribuire a creare la domanda di determinate ideologie.
Si scopre quindi che capire le origini dei partiti politici significa riconoscere l’interazione delle forze
primordiali e delle forze strumentali. Sono le domande sociali di rappresentazione a ispirare la
formazione dei partiti politici. Queste domande vengono incanalate con modalità efficaci e
significative da istituzioni politiche che strutturano l’ambiente degli aspiranti imprenditori politici e
degli elettori.

TIPI DI PARTITI: FRATTURE SOCIALI E FORMAZIONE DELL’IDENTITÀ POLITICA

La funzione principale del partito politico in una democrazia è quella di rappresentare, formulare,
promuovere gli interessi e le cause dei suoi appartenenti. Questi interessi e queste cause
vengono condivisi per loro stessa natura, solo da una parte della popolazione complessiva. I partiti
politici nascono quando dei funzionari o degli aspiranti tali mirano ad assumere una carica pubblica
per perseguire degli obiettivi condivisi unicamente da una parte della società.

Origini del sistema di partito britannico

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Il sistema di partito britannico è nato nel XVII secolo da un conflitto parlamentare sulla relazione
più appropriata tra la chiesa e lo stato. Nel 1679 il primo conte di Shaftesbury presentò al
parlamento una “Proposta di Legge sull’Esclusione” con l’obiettivo di impedire al fratello cattolico re
Carlo II, Giacomo duca di York, di succedergli. I sostenitori dell’Exclusion Bill venivano chiamati
Whigs, mentre gli oppositori Tories. Benché questi nomi avessero in origine un significato
insultante, i leader parlamentari li adottarono probabilmente perché gli insulti creavano un senso di
offesa comune che si poteva sfruttare per promuovere la lealtà di gruppo.
Queste identità di gruppo sopravvissero anche dopo la soluzione della crisi dell’Exclusion Bill.
Rispetto ai partiti politici più moderni, i Tories e gli Whigs avevano una compattezza molto minore.
Nati in epoca rivoluzionaria, i Tories venivano associati allo status quo e gli Whigs al cambiamento
o al “progresso”. Es: i Tories provenivano dall’élite terriera, mentre gli Whigs provenivano dall’élite
commerciale in ascesa. Torse e Whigs differivano anche negli atteggiamenti verso la relazione tra
stato e chiesa.
Come potete notare, i partiti embrionali che si formarono tra la fine del XVII secolo e l’inizio del
XVIII tendevano a suddividere i membri del parlamento in due campi separati che si
contrapponevano su varie dimensioni.

Fratture sociali

Come abbiamo osservato, alcune dimensioni del conflitto politico tra Tories e Whigs avevano
rilevanza anche in altri sistemi politici. Queste fratture sono state usate dagli scienziati politici per
analizzare la struttura dei sistemi di partito nel mondo. Conviene elencare alcune delle fratture che
si creano più comunemente e descrivere l’evoluzione della loro rilevanza nel tempo:

-La frattura tra società urbana e società rurale.


Il conflitto tra interessi rurali e interessi urbani è uno dei più antichi che esistano al mondo ed è
presente in molti paesi. Esso ebbe una dimensione:
- economica: in cui gli abitanti delle campagne venivano tipicamente associati alla produzione
agricola e gli abitanti delle città all’artigianato e al commercio. Il punto di conflitto più importante
tra interessi rurali e urbani concerneva il prezzo delle derrate alimentari. Gli abitanti delle città
erano consumatori, non produttori, di risorse alimentari e vedevano migliorare il proprio tenore
di vita quando il prezzo degli alimenti diminuiva. La vita rurale si imperniava su una logica del
baratto che si estendeva ai beni e ai servizi. La reputazione aveva un ruolo molto importante nel
rendere “credibile” la rete d’impegni che circondava quegli scambi e si basava su vincoli di
parentela. Per contro, lo scambio economico che avveniva nelle città tendeva a essere
monetizzato e a svolgersi tra attori anonimi. Di conseguenza, i problemi dell’economia urbana
riguardavano spesso la credibilità della moneta usata per acquistare le merci o i pesi e le misure
con cui si ripartivano. Per questo lo sviluppo della normativa sui contratti ebbe una priorità
maggiore nelle città;
- culturale: gli attori rurali tendevano ad apprezzare la tradizione, mentre gli abitanti delle città
favorivano il cambiamento.
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-La frattura confessionale.


Un altro conflitto s’incerta su divergenze confessionali o religiose. Il conflitto sule divergenze
religiose emerse nei paesi europei durante la riforma protestante all’inizio del XVI secolo.
L’autorità della Chiesa Cattolica Romana fu messa in discussione dall’ascesa del Protestantesimo
e di uomini come Martin Lutero in Germania e Giovanni Calvino a Ginevra. L’Europa fu messa a
ferro e fuoco mentre gli scontri tra protestanti e cattolici, in quella che fu poi chiamata guerra di
religione laceravano paesi. Quando mise fine sia alla guerra dei trent’anni, sia alla guerra degli
ottant’anni, la pace di Westfalia (1648) rilanciò anche la norma della cuius regio, eius religio.
Questa espressione latina significa chi domina una religione, impone la propria religione e
viene usata per giustificare il fatto che il leader di un paese, di una città-stato o di un principato ha
diritto di scegliere la religione per i suoi sudditi. La pace di Westfalia fece ben poco per risolvere i
conflitti religiosi interni agli stati. Consentendo ai leader di dichiarare una religione di stato, non
fece che imporre l’intolleranza religiosa. Conseguenza: chi confessava di credere in una
determinata forma di cristianesimo si ritrovava in conflitto con i devoti di altre congregazioni.
Le modalità di questo conflitto religioso variavano da un contesto all’altro. La Gran Bretagna, era
religiosamente divisa su almeno due fronti:
- da una parte nacquero conflitti religiosi tra i sostenitori della Chiesa d’Inghilterra e i non
conformisti, come i congregazionalisti (detti anche puritani), i presbiteriani e i quaccheri. Questo
conflitto fu acceso durante la guerra civile inglese del 1642.
- dall’altra parte insorsero dei conflitti religiosi anche tra i sostenitori della Chiesa d’Inghilterra e i
giacobini cattolici.
La divisione tra protestanti e cattolici è stata importate anche in altri paesi. La sua rilevanza
dipende dal fatto che l’altra parte sia riuscita o meno a imporre il suo predominio. In alcune
religioni, la frattura religiosa ha fatto nascere due paesi separati. Es: la guerra degli ottant’anni
divise i Paesi Bassi nella repubblica olandese dominata dai protestanti e nell’Olanda meridionale
dominata dai cattolici. In Germania, cattolici e protestanti arrivarono alla fine a stipulare una tregua
instabile; la Svezia (luterana) o la Francia (cattolica). Vale la pena ricordare che in alcuni paesi
come l’Italia e la Spagna, la riforma protestante non ebbe mai effetti significativi.
Le divisioni confessionali continuano a pesare anche in molti paesi extraeuropei. Es: il conflitto tra
indù e musulmani portò nel 1947 alla separazione tra India dominata dagli indù e Pakistan
dominato dai musulmani.
E questo conflitto continua ancora, in questa regione.

-La frattura tra laici e clericali


Negli ultimi due secoli, la competizione politica su temi religiosi nelle democrazie europee si è
svolta sull’asse chiesa-stato. Il conflitto “tra uno stato in crescita, che aspirava al predominio e la
chiesa, che tentava di mantenere i suoi diritti storici” è andato progressivamente inasprendosi.
Questo conflitto era pronunciato in Francia, dove la stretta cooperazione tra la nobiltà e il clero
cattolico aveva contribuito a mantenere al potere la monarchia Borbone. La Chiesa Cattolica
Romana era la maggiore proprietaria terriera di Francia e aveva il diritto di riscuotere una tassa del
10% su tutti i prodotti agricoli. Quelle imposte suscitarono il risentimento di molti francesi, anche
perché il gettito delle decime, che in origine avrebbe dovuto finanziare le parrocchie locali, veniva
requisito dalla gerarchia ecclesiastica per sostenere monasteri e vescovi remoti. Nel 1789, quando
scoppiò la rivoluzione contro Luigi XVI, l’ira popolare si indirizzò sulla chiesa oltre che sulla
monarchia. La normativa approvata nel 1790, trasformava i sacerdoti in dipendenti dello stato,

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subordinando così la Chiesa Cattolica Romana al governo francese e sottraendola all’autorità del
Papa.
Tuttavia, nel 1799, Napoleone Bonaparte raggiunse un accordo con la Chiesa Cattolica Romana (il
Concordato del 1801) che le restituiva un po’ del suo antico potere.
L’anticlericalismo francese, cioè l’opposizione al potere istituzionale religioso e all’influenza
della chiesa sulla vita pubblica e politica, tornò a infiammarsi verso la fine del XIX secolo.
Nel 1800 le figure religiose cominciarono a essere espulse dalle scuole pubbliche e le leggi di
Jules Ferry imposero allo stato francese di fornire ai cittadini un’educazione laica. In quel periodo
scoppiarono numerosi conflitti tra i sostenitori della Chiesa Cattolica e i sostenitori di uno stato
laico. Uno di essi era il celebre Affare Dreyfus. Fu uno scandalo politico incentrato sull’iniqua
condanna per tradimento del capitano ebreo Affare Dreyfus. Lo scandalo concerneva molti aspetti,
incluso il diffuso antisemitismo della società francese, ma divise il paesi in sostenitori di Dreyfus e
oppositori. L’Affare Dreyfus divise la Francia tra i gruppi che appoggiavano le idee ispiratrici della
rivoluzione francese e quelli che vi si opponevano.
Nel 1905 la Francia approvò una legge che imponeva la totale separazione tra stato e chiesa.
Questa legge sanciva il secolarismo dello stato ed è l’asse portante di laicità che ispira tuttora la
costituzione francese. La laicità designa la distinzione tra vita privata, cui appartiene la religione, e
vita pubblica, con cui la religione non ha niente a che fare. Questo principio si fonda sulla
convinzione che i cittadini andrebbero trattati equamente nella sfera pubblica e che aspetti come la
religione, che potrebbero giustificare distinzioni tra individui e favorire un trattamento ineguale da
parte dello stato, andrebbero ignorati. La laicità si distingue dall’anticlericalismo in quanto non
implica una ostilità da parte dello stato nei confronti della religione; è l’idea che uno stato e le
questioni politiche dovrebbero restare separati dalle organizzazioni religiose e dalle questioni
religiose.
Es: a partire dagli anni Novanta, la religione ha indotto un conflitto che ha preso il nome di
dibattito sul velo. Questo dibattito riguardava principalmente il fatto che le ragazze musulmane
che andavano a scuola con il velo in testa violavano il principio di laicità indossando un simbolo
religioso in una istituzione finanziata dallo stato. Dopo svariati anni di vuoto legislativo, nel 2005
l’Assemblea Nazionale francese ha approvato con larghissima maggioranza una legge che vietava
agli alunni di indossare simboli religiosi evidenti o ostentati.
Le élite modernizzate di tutto il mondo hanno affermato persuasivamente che stato e chiesa
dovrebbero essere separati. L’attrattiva di questa argomentazione derivava in gran parte della
frequente associazione della chiesa all’impopolare ancien régime.
Gli esponenti della chiesa e fedeli si sono opposti alla separazione tra chiesa e stato affermando
che i valori cristiani di carità nei confronti del popolo, tutela della famiglia e simili andavano protetti
da quelli che considerano effetti corrosivi del secolarismo.

-La frattura di classe


Lipset e Rokkan definiscono le fratture citate in precedenza fratture pre-industriali. Questa
definizione si pone in netto contrasto con la frattura di classe, che avrebbe assunto rilevanza
durante la rivoluzione industriale alla fine del XIX secolo. La frattura di classe contrappone gli attori
sociali in base a interessi economici e confliggenti, implica dei conflitti verticali all’interno dei
settori, tra attori che si guadagnano da vivere con il proprio lavoro e attori che si guadagnano da
vivere attraverso lo sfruttamento della proprietà o del capitale.
Il conflitto di classe nasce fondamentalmente tra operai e capitalisti nei settori industriali
dell’economia, ma ha origine negli scontri tra contadini e grossi proprietari terrieri. Il conflitto di

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classe comporta dei tentativi di utilizzare lo stato per la redistribuzione della ricchezza dai ricchi ai
poveri. I capitalisti tendono a favorire il libero mercato, la scarsa ingerenza del governo e un
suffragio elettorale limitato. Per contro, i lavoratori chiedono un maggior intervento dello stato
nell’economia e l’estensione del diritto di voto.
La frattura di classe ha assunto una sempre maggiore rilevanza nei paesi europei durante il XIX
secolo al crescere della domanda di diritti, specie da parte del proletariato. All’inizio del XIX secolo,
il diritto di voto era generalmente limitato ai cittadini adulti di sesso maschile che detenevano
grosse proprietà. La Legge sulla Riforma del 1867 ampliò il diritto di voto fino a includervi tutti i
maschi adulti della classe lavoratrice. Con questa riforma e riforme analoghe introdotte in altri stati
europei, i lavoratori hanno assunto un peso decisivo nelle elezioni e lo stato è diventato oggetto di
una competizione su vasta scala tra partiti che affermavano di rappresentare il proletariato
industriale e i partiti che rappresentavano le élite economiche.
Per tutto il secolo successivo, la politica europea si è imperniata sulla divisione tra destra e
sinistra. I termini vennero usati per la prima volta nel 1791, per descrivere la collocazione dei
seggi nelle due fazioni opposte all’Assemblea Nazionale. Questa collocazione dei seggi fu
riprodotta in altri parlamentari continentali; i difensori degli interessi aristocratici e clericali
sedevano a destra e i riformatori della classe media sedevano a sinistra.
Alla fine la sinistra fu rappresentata dai partiti comunista e socialdemocratico, e la destra dai
partiti cristiano-democratico e liberale.
Nel XIX secolo, molti socialisti erano a favore della democrazia e della trasformazione della società
in senso socialista. La teoria marxista prevedeva l’espansione della classe lavoratrice industriale
con l’espansione del capitalismo.
Nel suo libro La povertà della filosofia, Karl Marx distingue tra:
- classe in sé: gli individui ne fanno parte, in virtù della relazione obiettiva che intrattengono
con i mezzi di produzione. In altre parole, coloro che vendono la propria manodopera in
cambio di un salario sono lavoratori; coloro che incassano un profitto sono capitalisti;
- classe per sé: gli individui vi appartengono solo se sono effettivamente consci della propria
appartenenza a quella classe. Il progetto socialista si poteva considerare un processo di
formazione di una classe.
L’obiettivo era fare in modo che i lavoratori si rendessero conto di essere tali e trasformare il
proletariato da classe in sé e classe per sé. Benché l’ortodossia marxista considerasse questo
processo di formazione di una classe una inevitabilità storica, i singoli marxisti differivano nel
valutare i tempi di accelerazione o ritardo di questo processo attraverso le pratiche strategico-
organizzative dei leader del proletariato e della borghesia. Comunque, i processi con cui furono
radicalizzati i lavoratori durarono più a lungo di quando non si aspettassero i teorici del marxismo,
spingendo gli studiosi a definire il costante appoggio di alcuni lavoratori a partiti e istituzioni
borghesi “una falsa consapevolezza”.
Quale che sia la spiegazione, ossia che i lavoratori percepissero i propri interessi diversamente da
come suggerivano i teorici del marxismo o che fossero portatori di una “falsa consapevolezza”,
rimane il fatto, comune a una vasta gamma di paesi e di periodi storici, che una quota non
secondaria di operai votava contro i partiti di sinistra e una quota rilevante di manager e
professionisti votava per i partiti di sinistra.
In secondo luogo, gli operai non furono mai, e non sarebbero mai diventati, una maggioranza
numerica nelle loro rispettive società. Di conseguenza, i partiti socialisti hanno dovuto cercare
di attrarre lavoratori salariati e altri membri della borghesia, o governare in coalizione con i partiti
borghesi.

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Infine, anche dove i partiti socialisti hanno vinto le elezioni, c’erano dei fattori strutturali che
limitavano la possibilità di attuare una trasformazione socialista.
Robert Michels osservava che in teoria il fine principale dei partiti sociali e democratici è la
lotta contro l’oligarchia in tutte le sue forme. Sorge l’interrogativo di come possiamo
spiegare lo sviluppo in questi partiti delle stesse tendenze alle quali hanno dichiarato
guerra. Michels rispondeva a questo interrogativo affermando che in tutte le organizzazioni
sufficientemente complesse, inclusi i partiti politici, deve emergere una divisione del lavoro tra i
membri operativi e i manager professionali. Poiché i leader dell’organizzazione sviluppano stili di
vita, competenze e interessi diversi da quelli della base, l’organizzazione inizierà a perseguire
obiettivi diversi da quelli che intendeva perseguire in origine. Nel caso dei sindacati e dei partiti
socialisti, benché la leadership possa esistere per rappresentare i governati, essa viene
trasformata in una componente della classe dominante grazie alla posizione che occupa al vertice
dell’organizzazione. Questa idea che il gruppo dirigente di un’organizzazione finisca per sviluppare
obiettivi distinti e separati da quelli della base e che grazie al suo ruolo di leadership quegli obiettivi
debbano diventare predominanti, prende il nome di legge ferrea dell’oligarchia di Michels. Essa
è stata usata per spiegare le dinamiche organizzative che si rilevano in molti contesti sociali
diversi, dai sindacati ai partiti politici, alle congregazioni religiose, alle aziende e agli enti no-profit.

-La frattura tra valori materiali e post-materiali.


Lipset e Rokkan hanno osservato che i sistemi di partito europei sono rimasti stabili per gran
parte del XX secolo e che le fratture citate erano emerse tutte in un periodo in cui nuovi gruppi si
stavano mobilitando sul piano politico. Es: la frattura tra società urbana e società rurale, e le varie
fratture religiose, assunsero rilevanza nel momento in cui nuove élite entravano sulla scena politica
nazionale in competizione con le élite tradizionali. La frattura di classe ha assunto rilevanza
quando il diritto di voto si è esteso ai lavoratori e poi alle donne. Con queste fratture, si potevano
formare nuovi partiti per coinvolgere segmenti della popolazione che in precedenza non
partecipavano alla vita politica elettorale. Lipset e Rokkan hanno affermato che il sistema partito
europeo fu “congelato” con l’introduzione del suffragi universale negli anni Venti. Le strutture
sociali potevano modificarsi, ma non c’era più nessuna base elettorale non sfruttata da mobilitare
in nuovi partiti. A partire dagli anni Venti, le barriere all’ingresso per i nuovi partiti che cercavano di
rappresentare interessi emergenti sono diventate troppo alte. Quindi, le posizioni politiche
associate a nuove fratture non sarebbero state rappresentate, o i partiti esistenti avrebbero
modificato le proprie posizioni.
La celebre ipotesi del congelamento di Lipset e Rokkan è stata usata per spiegare perché le
dimensioni ideologiche di quasi tutti i sistemi di partito europei erano tanto simili. Questa ipotesi è
stata usata anche per spiegare perché i partiti politici che dominavano le elezioni negli anni
Sessanta erano gli stessi partiti che avevano dominato le elezioni decenni prima, negli anni Venti e
Trenta.
A partire dagli anni Sessanta sono emerse in Europa due contraddizioni all’ipotesi del
congelamento di Lipset e Rokkan:
- l’affermazione, negli anni Sessanta e Settanta, di nuovi partiti politici che Kitschelt definisce
partiti della sinistra libertaria. Questi partiti differiscono dalla vecchia sinistra in quanto sono
meno strettamente legati al proletariato industriale e tendono a privilegiare tempi come
l’ambientalismo, l’immigrazione, che si possono ritenere in contrasto con gli interessi della
classe lavoratrice. Inglehart afferma che questi nuovi partiti rispondono a un sostanziale
mutamento di valori nelle democrazie industriali avanzate, che passano da valori materialisti a

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valori post-materialisti. Essi costituirebbero una risposta al relativo declino nella rilevanza di
fratture più tradizionali e all’emergere di una nuova frattura post materialista. Essendo cresciute
in un ambiente di benessere in cui la sicurezza esistenziale era data per scontata, le nuove
generazioni di elettori danno la priorità all’espansione della libertà umana. La nuova
generazione di elettori si preoccupa più di multiculturalismo, eguaglianza di genere e di razza,
scelte riproduttive e libertà sessuale che dei problemi tradizionali di cui si occupava la sinistra
nei decenni precedenti. Kitschelt dimostra che c’è una forte correlazione tra il livello di
sviluppo di un paese e il successo elettorale di partiti della sinistra libertaria come i Verdi.
Egli ipotizza che questi partiti conquistino in maniera sproporzionata elettori nei ranghi
della classe media più giovane e istruita; questi elettori lavorano prevalentemente nei
servizi, hanno convinzioni politiche di sinistra, condividono valori “post materialisti” e
simpatizzano con i movimenti ambientalisti femministi e pacifisti.
- questa seconda contraddizione, viene dal successo che ha ottenuto l’estrema destra in alcuni
paesi europei, negli anni Ottanta e Novanta. Diversi studiosi hanno collegato l’affermazione di
questi partiti alla frattura tra valori pre e post materialisti che avrebbe fatto nascere i partiti della
sinistra libertaria. Questi studiosi considerano il successo dei partiti populisti di estrema destra
una relazione diretta al programma post materialista della sinistra libertaria. Diversamente, i
partiti populisti dell’estrema destra tendono a enfatizzare valori tradizionali e ad accusare
l’immigrazione di minacciare non solo l’identità e la cultura nazionale, ma anche i posti di lavoro
e il benessere economico dei lavoratori indigeni. Es: Jean-Marie Le Pen, il leader del Fronte
Nazionale francese, ha utilizzato lo slogan “Due milioni di immigrati hanno fatto perdere il
posto di lavoro a due milioni di francesi” alle elezioni europee del 1984 e i repubblicani
tedeschi hanno usato uno slogan analogo: “Eliminate la disoccupazione: bloccate
l’immigrazione.” I partiti populisti sono riusciti a sfruttare anche il passaggio dall’economia
industriale all’economia post industriale, in cui alcuni segmenti della popolazione, come i non
scolarizzati, si sentono alienati e incapaci di competere e di prosperare.

-Fratture etniche e linguistiche.


In vari paesi del mondo, le fratture etniche e/o linguistiche rappresentano un’altra fonte importante
del conflitto. Il significato di frattura etnica non è scontato. Una caratteristica comune alle
definizioni di gruppo etnico è l’enfasi sul ruolo della discendenza. I membri dei gruppi etnici
hanno qualche caratteristica in comune e tale caratteristica è ereditata dai genitori. Il punto su cui
tendono a differire gli studiosi è quale sia la caratteristica specifica condivisa dai membri del
gruppo etnico.
Chandra osserva che le caratteristiche di discendenza condivise dai membri di un gruppo etnico
si possono acquisire geneticamente, attraverso l’eredità culturale e storica, o nel corso della
vita come indicatori di quella linea ereditaria.
L’eleggibilità a un gruppo etnico non coincide con l’appartenenza sl gruppo. C’è una tensione
naturale tra gruppi etnici in sé e gruppi etnici per sé. Da una parte, ci sono situazioni in cui gli
individui possono scegliere il grado d’identificazione in un gruppo etnico. Dall’altra, ci sono
situazioni in cui gli individui potrebbero essere classificati da altri soggetti, quali i selezionatori o i
funzionari del governo, come appartenenti o meno a un determinato gruppo etnico. Inoltre non
sempre l’identità etnica di un individuo può essere identificata facilmente da altri soggetti, neppure
da altri membri del suo gruppo etnico.

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I sociologi si trovano in disaccordo tra di loro sulla misura in cui l’appartenenza a un gruppo etnico
si baserebbe su caratteristiche oggettive e soggettive. Gli studiosi che enfatizzano la natura
oggettiva dell’identificazione etnica sono stati definiti:
- primordialisti: essi sono convinti che l’attaccamento etnico si trasmetta automaticamente e che
la composizione del gruppo sia determinata naturalmente ed esternamente.
- mentre quelli che enfatizzano la natura soggettiva sono stati definiti costruttivisti/
strumentalisti: essi sono convinti che l’attaccamento al gruppo sia un costrutto sociale.
Pensano che le identità di gruppo di oggi siano il prodotto di scelte effettuate in passato dagli
attori sociali; i gruppi sociali non cadono dal cielo, né emergono da un brodo primordiale. Lo
strumentassimo si potrebbe considerare una sottocategoria del costruttivismo: gli strumentalisti
pensano che l’attaccamento al gruppo derivi da atti intenzionali di attori sociali secondo i quali
l’attaccamento al gruppo derivi da atti intenzionali di attori sociali secondo i quali l’attaccamento
al gruppo risponderebbe a qualche altro scopo.
In molti paesi esistono dei partiti etnici.
Il partito etnico è quello che si presenta agli elettori come difensore degli interessi di una
categoria etnica o di una serie di categorie etniche a esclusione di altre, e pone questa
attrattiva al centro della sua strategia di mobilitazione. L’aspetto principale di questa
definizione è l’esclusione. Il partito etnico potrebbe promuovere gli interessi di più
categorie etniche, ma solo attraverso l’identificazione del nemico etnico comune da
escludere.
I primi partiti etnici furono i partiti ebraici negli imperi russo e austro-ungarico e il partito svedese in
Finlandia.

Una teorizzazione sulle fratture politicizzate.

Finora abbiamo identificato una serie di fratture sociali rilevanti che definiscono il conflitto politico
nei sistemi di partito di tutto il mondo. Ma che cosa ci spiega perché abbiamo le tipologie di
partiti che abbiamo?
La premessa fondamentale di queste nuove ricerche è che gli individui sono polisfaccettati e
hanno tutta una serie di attributi, come la religione, la lingua, la classe sociale, il genere, il colore
della pelle ecc., che li rende eleggibili per l’appartenenza a qualche categoria d’identità o gruppo
sociale. Gli attributi degli individui possono assumere valori diversi.
Chandra e Boulet danno per scontati, manifesti e persistenti gli attributi di un individuo. Assumo
che le categorie d’identità vengano costruite socialmente. Il fatto ce le categorie o i gruppi sociali
si formino intorno a tutti i lavoratori ecc., non è qualcosa di naturale o di obiettivo, ma qualcosa che
viene determinato dalle scelte effettuate nel tempo dagli attori sociali. Dando per scontati gli
attributi, Chandra e Boulet adottano un approccio sottilmente costruttivista alla formazione
dell’identità politica.
L’assegnazione a una categoria d’identità o a un gruppo sociale, presuppone una comprensione
comune delle modalità con cui il possesso di determinati attributi corrisponde all’appartenenza di
determinati gruppi.

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In qualche misura, la mappatura degli attributi sulle categorie d’identità dipende dalla distribuzione
e dalla correlazione di quegli attributi. Se gli attributi sono privi di correlazione tra di loro e sono
distribuiti equamente nella popolazione, ciascuna combinazione di questi attributi si potrebbe
considerare un gruppo d’identità e si potrebbe attivare come tale. In queso scenario, il nostro
ipotetico paese avrebbe degli attributi trasversali.
Supponiamo invece che gli attributi esistenti nel nostro ipotetico paese siano altamente correlati. Di
un paese che presenta questo, si dice che ha attributi rinforzanti.
Bisogna però riconoscere che nel mondo esistono molte divisioni e che la loro rilevanza aumenta e
diminuisce in diversi periodi e in diversi luoghi. Questa variabilità della rilevanza indica che
dovremmo ricercare altri fattori in grado d’influenzare l’attivazione di certe categorie d’identità.
Diverse regole elettorali possono portare all’attivazione di diverse categorie d’identità in paesi che
hanno identiche distribuzioni di attributi.
Ciò che si desume, infine, è che le fratture politicizzate tendono a risultare da un’interazione tra
fratture sociali lenti e istituzioni elettorali. In altre parole, ogni paese ha un certo numero di fratture
sociali latenti, che viene determinato dalla distruzione di attributi individuali. La selezione delle
fratture sociali latenti che verranno politicizzate sarà influenzata dalle istituzioni elettorali che
vigono in quel paese.

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Capitolo 14: attori istituzionali con potere di veto

FEDERALISMO

Gli scienziati politici distinguono tra:


- stati unitari
- stati federali.
Resta un’incertezza sulle caratteristiche specifiche di uno stato federale. In letteratura ci sono
parecchie definizioni vaghe di federalismo.
La fonte di questa confusione si può far risalire all’idea che un paese debba essere federale nella
struttura (de jure) e federale nella pratica (de facto) per considerarsi veramente tale. Noi
crediamo che sia utile mantenere una distinzione concettuale tra federalismo de jure e federalismo
de facto. Solo facendo questa distinzione gli scienziati politici possono capire come mai alcuni stati
federali sulla carta si comportano federalmente, e altri no.

Federalismo: federalismo nella struttura.

Per essere considerato federale, un paese deve soddisfare tre criteri strutturali:
- divisione geopolitica: il paese dev’essere suddiviso in governi regionali reciprocamente esclusi
che sono legittimati dalla costituzione e non possono essere aboliti unilateralmente dal governo
nazionale o centrale.
- indipendenza: i governi regionali e il governo nazionale devono avere basi indipendenti di
autorità. Tale indipendenza viene stabilita a livello costituzionale, facendo in modo che i governi
regionali e il governo nazionale vengano eletti indipendentemente gli uni dall’altro.
- governance diretta: l’autorità dev’essere condivisa tra i governi regionali e il governo
nazionale: ognuno di essi governa direttamente i propri cittadini, per cui ogni cittadino è
governato da almeno due autorità. Ogni livello di governo deve avere l’autorità necessaria per
agire, indipendentemente dall’altro almeno in un ambito di politica pubblica; questa sovranità
politica dev’essere sancita dalla costituzione.
Nell’insieme, i tre criteri indicano che lo stato federale è quello in cui la sovranità viene ripartita
costituzionalmente tra almeno due livelli territoriali, di modo che le unità governative indipendenti
operanti a ciascun livello abbiano l’autorità finale in almeno un ambito di politica pubblica.
In linea generale, i paesi federali tendono a essere grandi, come l’Australia, il Brasile, gli Stati Uniti
e a suo tempo l’Unione Sovietica.
A livello federale, il potere esecutivo è nelle mani del presidente. A livello statale, ci sono 26 stati
che si basano su confini storici sviluppatisi nei secoli a un “distretto federale”.

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A livello statale, il potere esecutivo si trova nelle mani dei governatori. A livello municipale, ci sono
5560 amministrazioni municipali con un loro consiglio legislativo; il potere esecutivo sta nelle mani
dei sindaci. Ogni municipalità ha una sua “piccola costituzione” denominata “legge organica”.
Quando devono distinguere tra diverse forme di federalismo, gli scienziati politici spesso cercano
di capire se un sistema federale sia:
- congruente: il federalismo congruente si determina quando le unità territoriali di uno stato
federale hanno una composizione demografica simile. In uno stato federale perfettamente
congruente, ognuna delle unità territoriale rifletterebbe in miniatura il paese nella sua totalità.
Es: vi sono gli Stati Uniti, il Brasile. In entrambi i paesi, la composizione demografica delle unità
territoriali non varia significativamente sul piano etnico, linguistico, culturale, o religioso.
- incongruente: il federalismo incongruente si determina quando la composizione demografica
delle unità territoriali differisce da un’unità all’altra e dal paese nella sua totalità. Es: Svizzera, il
Belgio. In entrambi i paesi, le unità territoriali differiscono l’una dall’altra sul piano linguistico.
Un possibile approccio allo studio del federalismo congruente e incongruente si basa sulla
sovrapposizione tra i confini politici delle unità territoriali e i confini geografici dei gruppi etnici,
linguistici, culturali o religiosi di un paese. In uno stato federale incongruente i confini politici
tendono ad allinearsi con i confini geografici di questi gruppi sociali, mentre nei sistemi federali
congruenti tendono a tagliarli trasversalmente. Uno dei vantaggi del federalismo incongruente è
che può trasformare dei paesi altamente diversificati ed eterogenei che ospitano gruppi sociali
geograficamente concentrati in una federazione di unità territoriali relativamente omogenee.
- simmetrico: il federalismo simmetrico esiste quando le unità territoriali di uno stato federale
hanno gli stessi poteri rispetto al governo centrale. E’ il caso degli Stati Uniti: la costituzione
attribuisce a ogni stato lo stesso potere nei confronti del governo centrale.
- asimmetrico: il federalismo asimmetrico esiste quando alcune unità territoriali di uno stato
federale hanno più potere di altre nei confronti del governo centrale. Le asimmetrie nella
divisione del potere dovrebbero soddisfare i diversi bisogni e le diverse istanze che emergono
dalle differenze etniche, linguistiche, demografiche, o culturali tra le varie unità subnazionali. Es:
Belgio, Canada, Svizzera.

Decentralizzazione: federalismo nella pratica.

La decentralizzazione indica la misura in cui il potere effettivo di determinare le politiche


pubbliche risiede nel governo centrale o nei governi regionali di un paese. La maggior parte
degli scienziati politici considerano la decentralizzazione una questione fiscale: maggiore è
la quota del gettito fiscale complessivo che va al governo centrale, meno decentralizzato è
lo stato.
Si può fare una distinzione concettuale tra federalismo nella struttura e federalismo nella
pratica. La configurazione federale o unitaria di uno stato è un problema costituzionale. Dipende
dal fatto che abbia determinate caratteristiche strutturali nella sua costituzione. La natura federale
o unitaria di un paese dice pochissimo su dov si fanno concretamente le politiche pubbliche.

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Il semplice fatto di sapere che uno stato è federale non implica che i governi regionali abbiano un
potere rilevante nel determinare le politiche pubbliche. E il fatto di sapere che uno stato è unitario
non implica che tutto il potere sia concentrato nelle mani del governo centrale.
La misura in cui il potere effettivo di determinare le politiche sta nelle mani del governo centrale o
dei governi regionali, determina la misura in cui gli scienziati politici considerano questi stati
centralizzati o decentralizzati.
Stabilire in che misura uno stato è centralizzato o decentralizzato può essere molto difficile.
Considerate gli stati federali. Il più delle volte la costituzione di uno stato federale definisce gli
ambiti politici in cui possono operare il governo centrale o i governi regionali. Si deve tener
presente che avere l’autorità di agire in un ambito di politica pubblica può essere diverso da
avere la capacità pratica di agire in quell’area.
Gli scienziati politici usano la percentuale del gettito fiscale complessivo raccolto dal governo
centrale come indicatore del grado di centralizzazione dello stato. Si parla di decentralizzazione
fiscale. L’assunto principale su cui si fonda questa misura è che il governo abbia bisogno di
entrate fiscali per implementare le sue politiche. L’ampiezza delle politiche esercitate a un livello di
governo dipenderà dalla quota di entrate tributarie che raccoglie. Più elevata è la quota del gettito
complessivo attribuita al governo centrale, più centralizzato è lo stato; viceversa, più bassa è la
quota, già decentralizzato è lo stato.
Il federalismo si può distinguere su due dimensioni:
- federalismo nella struttura (stato federale vs. stato unitario): in questo caso è una dicotomia,
ovvero un paese è federale o unitario;
- federalismo nella pratica (stato decentralizzato vs. stato centralizzato): in questo caso, la
decentralizzazione si può concepire come un continuum, lungo, il quale alcuni stati sono più
decentralizzati di altri.

Perché il federalismo?

Perché alcuni stati adottano una struttura federale? Gli scienziati politici distinguono tra:
- federalismo associativo (coming-togheter federalism): è il prodotto di un processo di
negoziazione dal basso in cui gli stati in precedenza sovrani si uniscono e concordano
volontariamente di rinunciare a una parte della propria sovranità per mettere insieme le loro
risorse in modo da rafforzare la sicurezza collettiva e conseguire altri obiettivi economici. Es:
Svizzera, Australia, Stati Uniti. Le federazione associative sono caratterizzate da una forma
simmetrica di federalismo.
- federalismo dissociativo (holding-togheter federalism): è il prodotto di un processo dall’alto
in cui il governo centrale di uno stato decide di decentralizzare il proprio processo dall’alto in cui
il governo centrale di uno stato decide di decentralizzare il proprio potere a dei governi
subnazionali. Questo processo si verifica in stati multietnici nei quali il governo centrale teme
che l’esistenza stessa dello stato sia minacciato da un gruppo o più gruppi “etnici” a base
territoriale che aspirano alla secessione. Per rabbonire questi gruppi secessionisti e tenere
insieme il paese, il governo centrale decentralizza il potere a delle unità subnazionali in cui

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predomina il gruppo etnico secessionista rendendolo più incline a vivere in uno stato unificato.
Es: Belgio, Spagna, Regno Unito. Le federazioni dissociative sono caratterizzate sia da un
federalismo incongruente sia da un federalismo asimmetrico. Queste federazioni sono
incongruenti perché la loro intera ragion d’essere è decentralizzare il potere a gruppi etnici
radicati sul territorio; tendono a essere asimmetriche perché tentano di soddisfare i diversi
bisogni e le diverse preferenze dei vari gruppi etnici presenti nel paese.
Nel corso degli anni i sostenitori del federalismo hanno cercato di mettere in luce i vantaggi. Alcuni
studiosi hanno affermato che le forme decentralizzate di governo sono le più idonee a soddisfare
le preferenze popolari nei paesi democratici in cui gli individui hanno preferenze eterogenee.
Complessivamente, sembra ragionevole aspettarsi che meno cittadini siano insoddisfatti della
politica pubblica in uno stato federale di quanti ne siano in uno stato unitario.
Un altro vantaggio del federalismo è che avvicinerebbe il “governo” ai cittadini. Alcuni
commentatori hanno affermato che questo assetto statuale fa aumentare la quantità di
informazioni a disposizione sia dei cittadini sia del governo. Essendo più vicini al popolo, i governi
subnazionali dei sistemi federali dovrebbero avere informazioni più precise su ciò che vogliono
esattamente i loro cittadini. Ciò significa che saranno in grado di consegne politiche pubbliche più
vicine ai loro bisogni specifici. Essendo più vicini al governo, i cittadini dei sistemi federali
dovrebbero avere informazioni più precise su ciò che sta facendo il governo. Ciò significa che
saranno già in condizione di responsabilizzarlo. Il federalismo viene associato a una maggior
responsabilizzazione del governo, e a una maggior reattività del governo alle preferenze dei
cittadini.
Il federalismo dovrebbe anche incoraggiare la partecipazione politica e accrescere la percezione di
legittimità del processo democratico. Come osserva Alexander Hamilton i cittadini manterranno
più affetto, più stima e più rispetto per il loro governo subnazionale grazie alla sua visibilità
pubblica nella amministrazione [quotidiana] della giustizia penale.
Se le strutture federali si combinano con la capacità di cittadini e investitori a trasferirsi da una
regione all’altra, i governi avranno anche tutto l’interesse a fare bene, perché una performance
inadeguata indurrebbe cittadini e investitori a spostarsi in regioni meglio amministrate, portando
con sé le loro risorse economiche e finanziarie. E’ quello che un modo di dire inglese definisce
votare con i piedi, ossia esprimere il proprio giudizio politico attraverso il trasferimento in
un’altra regione.
La competizione tra governi subnazionali per gli investimenti e per i cittadini che viene ingenerata
dal federalismo dovrebbe produrre un governo più snello, efficiente e meno corrotto. Questa
competizione sta alla base delle argomentazioni secondo cui il federalismo rafforzerebbe le
economie di mercato e indurrebbe una crescita economica più elevata.
I sostenitori del federalismo ne sottolineano la capacità di incoraggiare la sperimentazione e
l’innovazione di politiche pubbliche.
Fin dai tempi di Montesquieu, numerosi individui hanno visto nel federalismo anche un baluardo
contro la tirannia.
James Madison scriveva che una sollevazione per il credito facile, per l’abolizione dei debiti,
per una divisione paritaria della proprietà o per qualunque progetto improprio o insano,
avrà meno probabilità di perdere l’intero corpo dell’Unione che un suo membro specifico.
Secondo altri studiosi, il federalismo permette di evitare che gruppi radicati sul territorio, le cui
preferenze divergono da quelle della popolazione maggioritaria, vengono assoggettati a decisioni
della maggioranza che vanno contro le loro preferenze.

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Vari studiosi hanno iniziato a metterne in discussione i pretesi benefici. Secondo i critici, anziché
portare a una forma più efficiente di governo come affermano i sostenitori del federalismo, i diversi
livelli della struttura federale possono causare la duplicazione non necessaria del governo e la
sovrapposizione inefficiente di politiche contraddittorie. I critici sostengono che il federalismo
esaspera i problemi di azione collettiva nella formulazione e implementazione di politiche
economiche di altro tipo.
Rodden e Wibbles dicono che il federalismo rafforza i politici regionali che hanno interesse a
sabotare la gestione macroeconomica, le riforme del mercato e altre politiche che hanno
caratteristiche di beni pubblici nazionali. Le élite regionali fanno ciò attuando politiche
autonome sviluppate a livello locale, o attraverso la loro capacità di bloccare il processo di
formazione delle politiche al centro.
Mentre i sostenitori citano i benefici che derivano dalla competizione tra diversi governi
subnazionali, i critici mettono in luce le conseguenze deleterie che potrebbe avere una
competizione di questo tipo. Nel tentativo di attrarre investimenti o trattenere i cittadini, la
competizione tra governi subnazionali potrebbe portare a una armonizzazione, o corsa, al
ribasso in cui i livelli di regolamentazione, protezione sociale e di imposizione fiscale e le barriere
al commercio si abbasserebbero in continuazione. Una conseguenza è che diventa difficile
implementare dei sistemi fiscali ridistribuivi a livello locale perché i ricchi si trasferirebbero nelle
regioni che offrono le aliquote più basse. Un’altra conseguenza è l’incremento della povertà,
perché i poveri migrerebbero nelle regioni che mantengono ancora qualche forma di protezione
sociale; queste regioni si troveranno costrette a ridurre la protezione sociale per effetto del maggior
fabbisogno fiscale dovuto all’arrivo di immigrati poveri da altre regioni.
La competizione nelle federazioni asimmetriche potrebbe portare all’amplificazione di
diseguaglianze che già esistono mi popolazione, ricchezza e potere politico. Se i governi regionali
favoriti possono trarre vantaggio dalla loro maggiore autorità per attrarre residenti e ampliare la
propria base tributaria, staranno meglio di altri governi regionali. La prospettiva di una maggiore
diseguaglianza tende a creare conflitto e instabilità politica, nel senso che le comunità
avvantaggiate pretenderanno maggiore autonomia e le comunità svantaggiate tenteranno di
invertire le asimmetrie che si sono determinate nella distribuzione regionale del potere.
Anziché accrescere a responsabilizzazione, secondo i critici il federalismo tenderebbe a ridurla.
Aggiungendo livelli di governo e ampliando le aree di responsabilità comune, il federalismo
favorisce lo scaricabile e la tendenza a prendersi i meriti; e questo perché il federalismo può
rendere difficile per i cittadini capire quale livello di governo è responsabile dei successi politici e
quale degli insuccessi.

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Capitolo 15: varietà di democrazie ed esiti politici

COMBINARE LE ISTITUZIONI: DEMOCRAZIA MAGGIORITARIA O BASATA SUL


CONSENSO?

Come si desume dal Teorema di Arrow, nella progettazione delle istituzioni c’è una tensione
fondamentale tra il desiderio di garantire che un gruppo di individui sia in grado di effettuare scelte
stabili e coerenti e la capacità di garantire a questi individui la libertà di sviluppare delle preferenze
personali e di fare in modo che quelle preferenze influenzino le decisioni di gruppo.
I costituenti si trovano di fronte a un trilemma istituzionale in quanto possono progettare delle
istituzioni che soddisfano al massimo die di queste tre caratteristiche desiderabili:
- transitivi di gruppo
- ammissibilità universale
- non dittatorialità.
Anche se i costituenti potrebbero effettuare diversi bilanciamenti per ogni istituzione individuale
che creano, essi effettuano frequentemente un bilanciamento specifico per il sistema di governo
nella sua totalità. I costituenti hanno risposto al trilemma istituzionale di Arrow in due modi
alternativi:
- creando istituzioni che distribuiscono il potere: e in questo caso abbiamo democrazie
consensuali;
- creando istituzioni che lo concentrano: in questo caso abbiamo democrazie maggioritarie.

Visione maggioritaria e visione consensuale della democrazia

Nelle democrazie contemporanee le decisioni politiche non vengono prese direttamente dai
cittadini, ma dai loro rappresentanti eletti. Se per democrazia si intende un sistema in cui i
cittadini dovrebbero essere in grado di influenzare le decisioni politiche, ne deriva che in
qualunque democrazia le elezioni devono avere un ruolo importante; anzi in quanto consentono
ai cittadini di partecipare al processo di formazione delle politiche, le elezioni si possono
considerare il principale strumento di democrazia.
L’influenza che la cittadinanza dovrebbe poter esercitare sulle decisioni politiche prese dai suoi
rappresentanti eletti si può considerare sotto due prospettive, che si possono assimilare a due
visioni diverse di come dovrebbe funzionare la democrazia:

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- visione maggioritaria: le elezioni sono eventi nei quali i cittadini hanno la possibilità di
scegliere tra due squadre alternative che competono tra di loro per formare il governo. La
squadra che conquista la maggioranza elettorale può formare il governo e dovrebbe
implementare le politiche che ha promesso nella campagna elettorale. In questa concezione
maggioritaria, i cittadini sanno che lo schieramento a cui viene demandato l’incarico di formare il
governo è responsabile delle politiche implementate durante il suo mandato. Possono usare le
proprie valutazioni della performance politica per decidere se premiare o punire i governanti
nelle elezioni successive. Se vogliono premiare il governo per quello che ha fatto durante il suo
mandato, lo rieleggono nella consultazione successiva; se vogliono punire il governo, votano
per l’opposizione. I cittadini possono esercitare la propria influenza sulle decisioni politiche solo
al momento delle elezioni. Essi scelgono uno schieramento attraverso la consultazione
elettorale affinché implementi le politiche propugnate nella campagna elettorale. Solo alle
elezioni successive, i cittadini hanno un’altra possibilità di esercitare la propria influenza sul
processo di formazione delle politiche, e decidono se il governo in carica dovrebbe continuare a
portare avanti la propria linea politica o passare il testimone all’opposizione. Una delle idee
fondamentali su cui si regge la visione maggioritaria della democrazia, è che la politica
dovrebbe essere determinata da ciò che desidera la maggioranza dei cittadini; i cittadini quindi
che hanno preferenze minoritarie non dovrebbero influenzare minimamente il processo di
formazione delle politiche. Tocqueville disse che l’essenza stessa del governo democratico
consiste nella sovranità assoluta della maggioranza. Per garantire il governo della
maggioranza, questa visione della democrazia richiede che l’intero potere di determinazione
delle politiche sia concentrato nelle mani di un governo maggioritario. Il potere non va distribuito
tra i vari attori politici o tra varie istituzioni, perché una situazione di questo tipo comporterebbe il
coinvolgimento di membri dell’opposizione nel processo di formazione delle politiche, ed è un
fenomeno che si considera illegittimo. Nella concezione maggioritaria la capacità dei cittadini di
controllare i propri rappresentanti eletti attraverso il processo elettorale presuppone una
concentrazione del potere nelle mani di un singolo schieramento maggioritario.
- visione consensuale: le elezioni sono eventi in cui i cittadini scelgono i propri rappresentanti da
una gamma il più possibile vasta di gruppi sociali, dopodiché i rappresentanti negoziano
all’interno del parlamento. In questa visione, le elezioni non sono una sorta di referendum sulle
politiche implementate dal governo, esse danno ai cittadini la possibilità di scegliere dei
rappresentanti che ritengono possano difendere i loro interessi nei negoziati politici che iniziano
all’indomani delle elezioni. Uno dei principali obiettivi delle elezioni è produrre un parlamento
che rifletta in miniatura la società nel suo complesso. Nella visione consensuale i rappresentanti
non vengono eletti per attuare una serie di politiche precisamente identificate; vengono eletti
per negoziare tra di loro in parlamento sulle politiche da implementare. Ciò comporta il
determinarsi di maggioranze parlamentari mutevoli, perché gli attori politici costruiscono diverse
coalizioni legislative in base alla politica specifica in esame. Si desume, quindi, che la visione
consensuale della democrazia differisce da quella maggioritaria per quanto riguarda la
possibilità di cittadini di influenzare il processo di formazione delle politiche. Infatti, mentre in
quella maggioritaria la capacità dei cittadini di influenzare le decisioni politiche inizia e finisce
con le elezioni, nella visione consensuale i cittadini possono continuare a esercitare la propria
influenza sul processo di formazione delle politiche anche tra un’elezione e l’altra, attraverso la
negoziazione messa in atto dai loro rappresentanti eletti. La visione consensuale predente che
le decisioni politiche rispondano costantemente alle mutate preferenze dei cittadini. Una delle
idee su cui si fonda, è che la politica dovrebbe essere determinata dal maggior numero

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possibile di cittadini. Diversamente da quella maggioritaria, i cittadini che hanno preferenze


maggioritarie non viene accordata una condizione di privilegio nel processo di formazione delle
politiche; tutti i gruppi di cittadini, incluse le minoranze, dovrebbero avere la possibilità di
influenzare le decisioni politiche in misura direttamente proporzionale al loro peso elettorale. Un
obiettivo della visione consensuale della democrazia è impedire alla maggioranza di ignorare
le preferenze della minoranza. Il miglior modo per garantire ciò è distribuire il potere in modo
che la minoranza abbia una significativa influenza politica con cui difendere i suoi interessi. Se il
potere diventa troppo concentrato, c’è il rischio che la maggioranza lo utilizzi contro la
minoranza; è un approccio che si considera illegittimo.
Mueller sintetizza le differenze tra visione maggioritaria e consensuale della democrazia: ci sono
due alternative:
- i cittadini possono eleggere un governo, ossia scegliere il partito le cui politiche sono più in
linea con le loro preferenze, il partito a cui intendono affidare il potere esecutivo;
- i cittadini possono eleggere un vero corpo rappresentativo, ossia un gruppo di rappresentanti
che voteranno come avrebbero votato i cittadini stessi se avessero preso parte a un’ideale
assemblea che include la totalità dell’elettorato.
Lijphart afferma che le due visioni della democrazia si possono definire essenzialmente in base
alla risposta che danno queste domande: chi governerà? E di quali interessi specifici
dovrebbe essere chiamato a rispondere il governo?
- Visione maggioritaria: la risposta è la maggioranza dei cittadini. Questa visione richiede che
il potere politico venga concentrato nelle mani della maggioranza.
- Visione consensuale: la risposta è il maggior numero possibile di cittadini. Questa visione
richiede che sia disperso tra il maggior numero possibile di attori.
Dal punto di vista pratico una democrazia ha bisogno di regole stabili, perciò le istituzioni
principali non possono essere ristrutturate in base al fatto che i problemi più importanti d risolvere
siano semplici o complessi. Bisogna scegliere quindi tra una democrazia maggioritaria e
consensuale e questa scelta è tendenzialmente duratura.

Istituzioni maggioritarie e consensuali

Ogni democrazia ha una serie di regole che specificano come si estrinseca il gioco politico e chi è
legittimato a esercitarlo. Molte di queste regole sono scritte esplicitamente nella costituzione di un
paese. Se la costituzione incoraggia l’elezione di maggioranze parlamentari monopartitiche che
possono controllare l’esecutivo e concentrare il potere nelle mani di un governo monocolore, si può
considerare di natura maggioritaria. Se essa incoraggia l’equa rappresentazione di più partiti e la
dispersione del potere decisionale, allora si può considerare di natura consensuale. Si possono
concepire le due visioni della democrazia come i due estremi opposti di una dimensione
maggioritaria-consensuale che descrive il grado di dispersione del potere.
Le decisioni di adottare istituzioni maggioritarie o consensuali non sono totalmente indipendenti
l’una dall’altra. Decidere di adottare certe istituzioni maggioritarie implica la necessità di convivere
con altre istituzioni maggioritarie. Adottare certe istituzioni consensuali significa dover convivere

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con altre istituzioni consensuali. Questo perché la maggior parte delle predette istituzioni sono
casualmente collegate. L’interdipendenza causale tra le istituzioni aiuta a spiegare perché i
costituenti non cambiano alla meno peggio le istituzioni e perché le democrazie, nonostante la
grande varietà istituzionale, tendono a rientrare in due macro categorie: maggioritaria o
consensuale.
E’ facile capire come si integrano i sistemi elettorali nella dimensione maggioritaria-consensuale:
- i sistemi elettorali maggioritari tendono a concentrare il potere perché vincono solo i candidati o
i partiti che ottengono la maggioranza dei voti; in quasi tutti i sistemi maggioritari vince solo un
candidato;
- i sistemi elettorali proporzionali tendono a disperdere il potere tra candidati e tra partiti in
proporzione alla quota di consenso elettorale che ottengono. Anche i candidati che ottengono
l’appoggio della minoranza conquistano una quota di potere. Più proporzionale è il sistema
elettorale, più distribuisce il potere e più concretizza la visione consensuale della democrazia.
Anche la dimensione del sistema di partito si può concettualizzare agevolmente lungo il continuum
maggioritario-consensuale. Anche il tipo di governo che regge un paese si integra bene nel
concetto di continuum dal maggioritario al consensuale.
Queste tre istituzioni, il sistema elettorale, il sistema di partito, e il tipo di governo, sono legate da
una relazione causale.
La scelta dei costituenti di adottare un determinato tipo di sistema elettorale - maggioritario o
proporzionale - implica l’adozione di un determinato tipo di sistema di partito e di governo.
Ilf federalismo, il bicameralismo e il costituzionalismo sono altre tre istituzioni che si possono
concettualizzare facilmente sulla dimensione maggioritario-consensuale. Gli stati federali
distribuiscono il potere tra almeno due livelli di governo; gli stati unitari concentrano il potere nel
governo nazionale. Gli stati bicamerali distribuiscono il potere su due assemblee parlamentari. Le
costituzioni basate sul principio della legge sovraordinata distribuiscono il potere conferendo a
certe istituzioni l’autorità di invalidare atti di governo.
Come si desume, la scelta di adottare una forma parlamentare o presidenziale di democrazia si
può anche concepire come un continuum che va dal maggioritario al consensuale. I sistemi
presidenziali si collocano all’estremo consensuale dello spettro perché il potere è distribuito tra
l’esecutivo e il parlamento. I sistemi presidenziali vengono definiti sistemi basati sulla
separazione dei potere proprio per questa ragione. I sistemi parlamentari si collocano all’estremo
maggioritario dello spettro perché il potere è concentrato nelle mani di un esecutivo che ha
l’appoggio di una maggioranza parlamentare.
Infine, anche il modo in cui sono organizzate le relazioni tra i gruppi d’interesse si può
concettualizzare in termini di continuum dal maggioritario al consensuale. Includendo i gruppi
d’interesse nel processo formale di determinazione delle politiche, il corporativismo disperde il
potere. Escludendo i gruppi d’interesse dal processo formale di determinazione delle politiche, il
pluralismo lo concentra. La struttura delle relazioni che esistono tra i gruppi d’interesse in un paese
è collegata al tipo di governo che dovrebbe formarsi. Il corporativismo tende a incoraggiare la
formazione di governi minoritari - un’altra istituzione che si posiziona all’estremo consensuale dello
spettro.
Storicamente, il prototipo delle democrazie maggioritarie è stato il Regno Unito. Le democrazie
maggioritarie si chiamano anche democrazie Westminster perché la Camera dei Comuni
britannica si riunisce nel palazzo di Westminster, nel cuore di Londra. Secondo Lijphart il paese
che più si accosta al tipo ideale di democrazia maggioritaria nel periodo esaminato è la Nuova
Zelanda, perché due grandi partiti dominano il parlamento e uno dei due ha sempre avuto una

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maggioranza parlamentare. Diversamente dal Regno unito, gli altri partiti stentavano a ottenere
una rappresentanza al parlamento neozelandese. La Nuova Zelanda è anche unitaria e
bicamerale. Le istituzioni neozelandesi dal 1945 al 1996 erano maggioritarie. Tuttavia, la Nuova
Zelanda ha adottato recentemente delle istituzioni più orientate al consenso e non è più l’esempio
paradigmatico di democrazia maggioritaria.
Neppure il Regno Unito è più il modello di democrazia maggioritaria del passato se si tiene conto
del recente rafforzamento delle istituzioni subnazionali e del rafforzamento dei partiti terzi. Oggi, le
democrazie più maggioritarie del mondo si trovano nei Caraibi.
Il prototipo delle democrazie consensuali è il Belgio. Questo paese è federale, bicamerale e
prevede il controllo di costituzionalità. Il suo sistema elettorale PR incoraggia un sistema di
partito grande, che genera governi di coalizioni multipartitici. I governi belgi devono avere per
legge lo stesso numero di ministri di lingua francese e fiamminga. I partiti sono divisi per area
linguistica, e il vincolo di parità linguistica ha l’effetto di aumentare il numero dei partiti che
compongono un tipico governo belga.
L’aspetto positivo di questa situazione è che i politici devono costruire ampie coalizioni. Ciò
comporta la ricerca di un compromesso con vari attori politici e il recepimento delle istanze
minoritarie. L’aspetto negativo è rappresentato dalle difficoltà che incontrano gli attori politici belgi
nel trovare un accordo sulle riforme legislative.

Valutare la visione maggioritaria e la visione consensuale della democrazia.

Responsabilizzazione e mandati di governo.

La responsabilizzazione (accountability) indica la misura in cui gli elettori possono premiare o


punire i partiti per le politiche che attuano mentre sono al governo. Essa descrive quanto è facile
per i cittadini mandare a casa gli incapaci. Molti considerano la responsabilizzazione importante,
perché induce i governanti a perseguire delle politiche che soddisfino gli elettori. Essa infatti
comporta che i cittadini valutino il comportamento tenuto in passato da un partito per decidere se
premiarlo o punirlo alle prossime elezioni. Questo comportamento prende il nome di voto
retrospettivo: se decidono che un partito al potere ha fatto bene, i cittadini lo premiano
votandolo; se decidono che non ha fatto abbastanza bene, lo puniranno votando per un
altro partito.
Se la responsabilizzazione funziona bene i partiti di governo che fanno il loro dovere vengono
rieletti, mentre quelli che deludono vengono destituiti.
La misura in cui i cittadini possono responsabilizzare i governi attraverso le elezioni varia a un
paese all’altro. Le democrazie consensuali tendono ad avere livelli bassi di responsabilizzazione, e
ciò si deve al fatto che in questi paesi gli elettori non scelgono quasi mai direttamente il governo. E’
raro che un singolo partito ottenga la maggioranza parlamentare quando ci sono tanti partiti. Di
conseguenza, nelle democrazie consensuali le elezioni non determinano quasi mai l’identità del
governo; danno l’avvio a periodi di negoziazione in cui i leader dei partiti trattano sull’identità del
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futuro governo. Le scelte di queste leader di partito non rifletto le preferenze dei cittadini. Un’altra
ragione è che i cittadini potrebbero votare contro un determinato partito di governo al momento
delle elezioni per poi scoprire che quel partito rientra nel nuovo governo di coalizione in quanto gli
altri partiti non potrebbero formare un governo senza il suo contributo. Es: la Svizzera.
Nelle democrazie maggioritarie, caratterizzate da governi di maggioranza monopartitici e da
sistemi bipartiti è più facile mandare a casa gli incapaci. Se in una democrazia maggioritaria i
cittadini sono insoddisfatti della performance del partito al potere, si limitano a votare per
l’opposizione in modo da sostituirlo.
Un concetto legato alla responsabilizzazione è quello di chiarezza della responsabilità: fa
riferimento alla capacità dei cittadini di identificare chi è responsabile delle politiche che
vengono implementate. E’ una condizione necessaria affinché i cittadini possano chiamare il
governo a rispondere del suo operato. Se i cittadini non sono in grado di identificare il responsabile
delle politiche che vengono implementate, non potranno premiare o punire i partiti per il
comportamento che hanno tenuto al governo.
Anche la chiarezza della responsabilità varia da un paese all’altro. Più è concentrato il potere,
maggiore è la chiarezza della responsabilità. Un fattore che incide è il tipo di governo che esiste in
un paese. La chiarezza della responsabilità è molto alta nei paesi in cui il potere è concentrato
nelle mani di un governo di maggioranza monopartitico, poiché i cittadini sanno esattamente con
chi prendersela (il partito al potere) al momento delle elezioni. La chiarezza della responsabilità è
meno alta nei paesi in cui il potere è distribuito tra i vari partiti che compongono un governo di
coalizione, perché non è sempre chiaro quale partito della coalizione sia responsabile delle
politiche che vengono implementate. La chiarezza della responsabilità è ancora più bassa nei
governi di minoranza, in cui i cittadini potrebbero non sapere chi tiene il governo al potere e chi è
responsabile delle politiche che vengono implementate.
Altri fattori possono influenzare la chiarezza della responsabilità. Uno di essi è la durata in carica
del governo. Gli elettori possono ritrovarsi alle urne per giudicare un governo che non è stato al
potere a lungo. Se dalle ultime elezioni si sono succeduti vari governi, chi è responsabile delle
politiche in atto e dei risultati elettorali? Questa instabilità governativa è più probabile quando ci
sono molti partiti in parlamento e quando questi partiti riflettono un’ampia varietà di opinioni
pubbliche; il che accade più frequentemente nelle democrazie consensuali che nelle democrazie
maggioritarie. Nei sistemi fondati sul consenso, in cui l’opposizione ha un ruolo più pesante
all’interno del parlamento, i confini tra governo e opposizione possono attenuarsi, rendendo più
difficile la valutazione dei meriti e dei demeriti.
Nelle dittature la chiarezza della responsabilità è molto alta perché tutti sanno che il dittatore è
responsabile di tutte le politiche che vengono implementate. La responsabilizzazione è invece
inesistente perché i cittadini non possono mandare a casa il dittatore per via elettorale.
Le democrazie maggioritarie tendono a produrre elevati livelli di responsabilizzazione e chiarezza
della responsabilità. Oltre a facilitare l’identificazione degli attori responsabili delle politiche che
vengono implementate, le istituzioni maggioritarie aiutano gli elettori a premiare o a punire questi
attori per la loro performance di governo. Disperdendo il potere, le democrazie consensuali
tendono a produrre livelli bassi di responsabilizzazione e chiarezza della responsabilità. Le
istituzioni consensuali rendono difficile per gli elettori capire quali attori siano responsabili delle
politiche messe in atto da un governo. Inoltre, le istituzioni consensuali non li aiutano a premiare o
a punire questi attori per la loro performance di governo.
La responsabilizzazione è fondamentale nella visione maggioritaria della democrazia e sarebbe un
grave limite se le democrazie maggioritarie non potessero garantirla. Essa non è importante nella

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visione consensuale della democrazia. Tuttavia, non è detto che le democrazie consensuali non
facciano il loro dovere se non consentono ai cittadini di responsabilizzare il governo. L’implicito di
questo ragionamento è che dovremmo usare criteri diversi per valutare le democrazie
maggioritarie e consensuali, perché le loro visioni democratiche e i loro obiettivi non sono gli
stessi.
Come la responsabilizzazione, anche i mandati di governo sono importanti nella visione
maggioritaria, ma non in quella consensuale. Il mandato è una politica, o un insieme di
politiche pubbliche che il governo è sia autorizzato sia obbligato a implementare quando è
al potere.
Nella visione maggioritaria i partiti che si impegno ad adottare determinate politiche in campagna
elettorale sono autorizzati, e obbligati, ad attuarle quando vanno al potere. Nelle democrazie
maggioritarie le elezioni non servono solo a mandare a casa gli incapaci in base alla performance
pregressa; servono anche a conferire al governo successivo il mandato di implementare le
politiche che hanno promesso in campagna elettorale. Nelle democrazie maggioritarie le elezioni
non servono solo a mandare a casa gli incapaci in base alla performance pregressa; servono
anche a conferire al governo successivo il mandato di implementare politiche che hanno promosso
in campagna elettorale. Nelle democrazie maggioritarie gli elettori esercitano un voto prospettico
che si determina quando gli elettori valutano ciò che i partiti promettono di fare quando saliranno al
governo.
Nella visione consensuale i mandati non sono altrettanto importanti. Anzi, la visione consensuale
della democrazia non apprezza i mandati perché rispettarli significa ignorare le preferenze della
minoranza che non è al potere.
Che cosa occorre perché un governo abbia un mandato?
Il governo dovrebbe poter dichiarare di aver un mandato solo se si può dire che gli elettori lo hanno
votato. Ciò presuppone che gli elettori possano identificare le diverse alternative di governo al
momento del voto. Gli scienziati politici chiamano identificabilità del governo la misura in cui gli
elettori sono in grado di identificare le alternative di governo per cui votano alle elezioni.
Un fattore che incide è lo scenario atteso riguardo alla formazione del governo. L’identificabilità del
governo è massima nei paesi in cui ci si aspetta che si formi un governo maggioritario
monopartitico. Es: Grecia, Spagna, Regno Unito. Quando vanno alle urne per votare un
determinato partito, gli elettori sanno per quel governo votano.
L’identificabilità del governo è più bassa nei paesi in cui si dovrebbe formare un governo di
coalizione. Es: Belgio, Finlandia dove il processo di formazione del governo inizia solo dopo le
elezioni, mentre è un po’ più alta nei paesi in cui i partiti formano regolarmente coalizioni
preelettorali o in cui gli elettori hanno un’idea precisa di quali saranno le probabili coalizioni. In
Australia, Francia, Germania è comune che i partiti formino coalizioni preelettorali, che indicano
quale sarà il governo se vinceranno le elezioni. Gli elettori di questi paesi hanno una percezione
chiara di come il loro voto influenzerà il governo che andrà a costituirsi.
L’identificabilità del governo è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per i mandati di
governo. Se un governo afferma di avere un mandato all’attuazione delle proprie politiche, significa
che dovrebbe ottenere come minimo la maggioranza dei voti. Come può un governo dichiarare
di avere un mandato se la maggioranza dell’elettorato non ne ha approvato le politiche? Il
problema è che nonostante l’elevata identificabilità del governo che caratterizza le democrazie
maggioritarie, è raro che un singolo partito ottenga più del 50% dei voti. Questi governi ottengono
quasi sempre solo le cosiddette maggioranze costruite che si determinano quando un partito che
non ottiene la maggioranza dei voti riesce ad avere una maggioranza parlamentare grazie al

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meccanismo proporzionale con cui i sistemi elettorali maggioritari traducono i voti in seggi. In una
democrazia maggioritaria, qualunque governo che stia per insediarsi ha tutto l’interesse a
dichiarare di avere un mandato.
Un altro aspetto da considerar qui è se il governo abbia la capacità di implementare un mandato,
anche se può legittimamente affermare di averlo ricevuto. Se il potere è disperso (es. nelle
democrazie consensuali) probabilmente sarà difficile per il governo adempiere al suo mandato.
Nelle democrazie maggioritarie, l’identificabilità del governo tende a essere elevata se i mandati
sono facili da implementare. Un problema è che nelle democrazie maggioritarie i governi non
ottengono quasi mai l’appoggio della maggioranza assoluta degli elettori. Se qualcuno vuole
affermare che nelle democrazie maggioritarie i governi hanno dei mandati, deve affermare che i
mandati sono accettabili anche quando i governi ottengono solo una maggioranza relativa. Nelle
democrazie consensuali l’identificabilità dei governi tende a essere bassa. I governi che vogliono
implementare un mandato incontreranno delle difficoltà per la presenza di attori con potere di veto.

Rappresentanza

Vediamo gli obiettivi delle due visioni di democrazia con riferimento alla rappresentanza e quanto
si avvicinano a questi obiettivi le democrazie maggioritarie e consensuali.
La rappresentanza si può concettualizzare in:
- reattività, o rappresentanza dinamica: indica con quanta efficacia i rappresentanti eletti
rispondono ai cambiamenti che si determinano nelle preferenze dell’elettorato. Molti scienziati
politici guardano alla reattività in termini di efficacia con cui le politiche dei rappresentanti eletti
rispondono ai cambiamenti che intervengono nelle preferenze dell’elettorato.
- congruenza, o rappresentanza statica: definisce l’efficacia con cui i rappresentanti eletti
riflettono le preferenze (statiche) dell’elettorato.
Partiamo dalla reattività.
E’ un obiettivo importante sia per la visione maggioritaria, sia per la visione consensuale della
democrazia. Il modo in cui viene concettualizzata la reattività differisce tra le due visioni della
democrazia.
Nella visione maggioritaria il potere va concentrato nelle mani della maggioranza. Ciò implica che
un partito non dovrebbe acquisire il controllo sul potere di determinazione delle politiche pubbliche
finché non ottiene il 50% dei voti. Un partito che riceve meno del 50% dei voti non dovrebbe avere
alcun potere di determinazione delle politiche, mentre uno che riceve più del 50% dovrebbe avere
tutto il potere di determinazione delle politiche. Nella visione consensuale il potere andrebbe
disperso tra il maggior numero possibile di attori politici, e andrebbe distribuito tra gli attori politici in
proporzione diretta alla loro forza elettorale. Nella visione consensuale della democrazia quindi ci
dovrebbe essere uno stretto collegamento tra percentuale di voti che riceve un partito e la
percentuale di potere politico che ottiene.
Quanto si avvicinano concretamente le democrazie maggioritarie e proporzionali ai
rispettivi ideali di reattività democratica? In linea con la visione maggioritaria di reattività
democratica, quasi tutti i governi delle democrazie maggioritarie sono governi di maggioranza

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monopartitici che dominano il processo di determinazione delle politiche pubbliche. Il problema è


che molti di questi governi di maggioranza monopartitici non ottengono la maggioranza dei voti.
Nelle democrazie maggioritarie, il partito più votato riesce sempre a formare il governo e a
controllare le leve del potere.
Le democrazie maggioritarie sono pienamente reattive quando il partito che ha la maggioranza
assoluta dei voti controlla il governo, e solo parzialmente reattive quando il partito che ha la
maggioranza assoluta dei voti controlla il governo, e solo parzialmente reattive quando il partito
che ha la maggioranza relativa dei voti controlla il governo.
Le democrazie consensuali si avvicinano ai loro ideali di reattività per alcuni aspetti, ma non par
altri. Da una parte, il fatto che le democrazie consensuali impegnino regole elettorali proporzionali
favorisce una stretta connessione tra la percentuale di voti che ottiene un partito alle elezioni e la
percentuale di seggi parlamentari che conquista. Dall’altra parte, la natura complicata del processo
di formazione del governo fa sì che vi sia un legame debole tra la percentuale dei voti che riceve
un partito e la sua quota di potere governativo.
Occorre ricordare che le democrazie consensuali non concentrano il potere interamente nelle mani
del governo; lo disperdono tra partiti governativi e non governativi.
Powell rileva che le democrazie consensuali soddisfano i propri ideali di reattività se si considera il
potere reale dei partiti politici, anziché limitarsi a vedere se fanno o non fanno parte del governo.
Sia le democrazie maggioritarie, sia le democrazie consensuali si avvicinano ai propri ideali di
reattività democratica, ma senza realizzarli appieno.
La reattività è una misura dinamica della rappresentanza, la congruenza è una misura statica.
La congruenza è una caratteristica importante da incoraggiare - i governi e i parlamenti
democratici dovrebbero riflettere le preferenze dei propri cittadini. Il modo più semplice per
concettualizzare la congruenza è immaginare il rapporto tra un singolo cittadino e un singolo
rappresentante elettivo. La congruenza non è altro che la prossimità o la distanza assoluta tra le
posizioni ideologiche del cittadino e del rappresentante. Più vicino è il rappresentante alla
posizione ideologica del cittadino, più alto è il livello di congruenza. Nella maggior parte dei casi, gli
studiosi concettualizzano la congruenza facendo riferimento alla distanza ideologica tra il governo
e il cittadino mediano.
Un modo diverso di affrontare il problema della congruenza è spostare l’attenzione dal governo al
parlamento e domandarsi fino a che punto il parlamento come entità collettiva rifletta le posizioni
ideologiche dei cittadini.
In linea con la visione consensuale della democrazia, uno studio di Golder e Stramski rivela che i
parlamentari dei paesi che utilizzano regole elettorali proporzionali tendono a riflettere più
accuratamente l’eterogeneità delle opinioni ideologiche presenti nella società, rispetto ai
parlamenti dei paesi che utilizzano regole elettorali maggioritarie.
Le democrazie caratterizzate da istituzioni maggioritarie sono più idonee a promuovere i mandati
di governo, la responsabilizzazione, l’identificabilità del governo e la chiarezza della responsabilità,
mentre le democrazie costituite da istituzioni consensuali sono più idonee a disperdere il potere, a
consentire la scelta e a generare congruenza ideologica tra i cittadini e i loro rappresentanti.
Questa opzione afferma che i costituenti devono effettuare un bilanciamento esplicito quando
scelgono tra istituzioni maggioritarie e consensuali.
Ci siamo concentrati finora sui tipi ideali di democrazia maggioritaria e di democrazia consensuale.
Alcuni paesi impiegano una combinazione di istituzioni maggioritarie e consensuali. Il distacco
istituzionale più comune dai modelli puri di democrazia consensuale e maggioritaria comporta una
scelta tra parlamentarismo e presidenzialismo. Alcune democrazie che hanno istituzioni

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prevalentemente maggioritarie sono presidenziali. Però il Belgio dimostra che vale anche
l’inverso. Non è insolito che dei paesi caratterizzati da istituzioni consensuali siano parlamentari
anziché presidenziali, anche se il parlamentarismo è il più maggioritario dei due tipi di regime. Es:
Stati Uniti, l’esempio più noto di un ibrido.

LEGGI ELETTORALI, FEDERALISMO E CONFLITTO ETNICO

Eterogeneità etnica e conflitto

Anche se un conflitto etnico o religioso su vasta scala può essere devastante, un conflitto di questo
tipo è l’eccezione e che la pace interetnica è la regola.
Ci sono due problemi nella semplice enumerazione dei conflitti etnici:
- esso tende a ignorare l’elenco più numeroso dei non-eventi, casi in cui gruppi di persone che
hanno divergenze etniche o religiose coesistono relativamente in pace;
- queste enumerazioni non rispondono mai all’interrogativo rispetto a cosa?.
Se diciamo che i gruppi etnici sono inclini al conflitto, sosteniamo implicitamente che le relazioni
interetniche sono più inclini al conflitto rispetto a quelle intraetniche o a quelle non-etniche.
James Fearon e David Laitin affermano che, una volta affrontate queste problematiche, il
conflitto etnico si può considerare un evento relativamente raro. I due hanno svolto un’analisi dei
dati relativi a 36 paesi dell’Africa sub sahariana, una regione che si considera incline alla violenza
etnica. Fearon e Laitin attingono ai dati di uno studio di Morrison, Mitchell e Paden che esamina
quattro diverse forme di quella che si potrebbe considerare violenza etnica:
- violenza etnica vera e propria: evento di breve durata… in cui due identificabili gruppi
comunitari si confrontano con violenza per realizzare un obiettivo di breve termine
- irredentismo: il fenomeno che si determina quando un gruppo comunitario tenta di affrancarsi
dal governo della unità territoriale in cui risiede per passare sotto un governo le cui autorità
condividono la logica di identificazione comunitaria del gruppo irredentista
- ribellione: l’uso della violenza da parte di un gruppo comunitario, nel tentativo di ottenere
maggiore autonomia dalle autorità statali;
- guerra civile: l’uso della violenza da parte di un gruppo comunitario, nel tentativo di formare un
nuovo sistema politico basato sui confini della comunità etnica.
Per capire se i conflitti etnici sono più comuni di altre forme di conflitto, basta chiedersi se
l’eterogeneità etnica accresca la probabilità di una guerra civile. Fearon e Laitin hanno scoperto
che, tenuto conto del livello di ricchezza e di tutta una serie di variabili, i paesi che sperimentano
guerre civili non sono più eterogenei, dal punto di vista etnico e religioso, dei paesi che non le
sperimentano. Ciò che conta di più per lo sviluppo della guerra civile, sono dei fattori che
favoriscono l’insurrezione, come la povertà, la dipendenza strutturale dall’esportazione del petrolio,
l’instabilità politica e l’irregolarità del territorio. Questi fattori accrescono la probabilità di una guerra
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civile attraverso la creazione di stati burocraticamente deboli e la creazione di ambienti favorevoli


al reclutamento dei ribelli.
Vari economisti hanno affermato che l’eterogeneità etnica ha un effetto deleterio sulla crescita
economica. Se è vero, l’eterogeneità etnica potrebbe contribuire al rischio di guerra civile facendo
persistere la povertà. Un’analisi effettuata sugli stessi dati utilizzati di Fearon e Laitin dimostra che:
- l’eterogeneità etnica si associa positivamente alla guerra civile quando la ricchezza viene
esclusa dal modello statistico
- c’è un’associazione negativa tra eterogeneità etnica e ricchezza.
Questi risultati suggeriscono che l’eterogeneità etnica non ha un effetto diretto sulla guerra civile,
mentre ha un effetto indiretto in quanto riduce la ricchezza, il che accresce a sua volta la
probabilità di una guerra civile.
Alcuni economisti sostengono che l’eterogeneità etnica e la crescita economica non siano legate
da una relazione causale. Anche quella che riconoscono una relazione causale sono in disaccordo
sul processo causale specifico attraverso il quale l’eterogeneità etnica inibisce la crescita
economica.
Easterly e Levine dimostrano che i paesi africani etnicamente eterogenei presentano tassi di
crescita economica inferiori a quelli dei paesi africani etnicamente omogenei. Lo spiegano con il
fatto che, nei paesi etnicamente eterogenei, i governi sono politicamente instabili e tendono a
scegliere politiche che producono bassi livelli di scolarità, sistemi finanziari sottosviluppati, mercati
finanziari distorti e infrastrutture insufficienti. Essi ipotizzano che, quando i diversi gruppi etnici di
un paese hanno preferenze diverse, potrebbero derivare meno soddisfazioni dalla fornitura di beni
pubblici di quanto non accadrebbe in una società più omogenea. Easterly osserva che quelle che
gli economisti definiscono buone istituzioni (ovvero quelle che riducono i tempi burocratici,
garantiscono l’applicazione dei contratti, riducono il rischio di nazionalizzazione, o mettono a
disposizione valide infrastrutture) possono contribuire ad alleviare gli effetti negativi
dell’eterogeneità etnica sulla crescita economica. Se le istituzioni di un paese sono di una qualità
elevata, l’eterogeneità etnica potrebbe non avere effetti di sorta sulla fornitura di beni pubblici o sul
conflitto.
Gli studiosi hanno iniziato ad affermare che non è tanto il numero dei gruppi etnici a favorire di per
sé il conflitto, quanto la distribuzione dei gruppi etnici. Alcuni studi hanno ipotizzato che sia la
polarizzazione etnica e non l’eterogeneità ad accrescere la probabilità di eventi come le guerre
civili. Questo filone di letteratura indica che il rischio di guerra civile è più elevato quando ci sono
pochi grandi gruppi etnici con interessi contrapposti che quando ci sono tanti piccoli gruppi etnici.
Chandra e Boulet affermano che la stabilità democratica non viene messa a rischio
dall’eterogeneità etnica, ma dall’esistenza di una minoranza etnica permanentemente esclusa. Il
loro ragionamento è che una minoranza etnica che non ha a disposizione dei mezzi democratici
per conquistare il potere è più incline a voltare le spalle alla democrazia di una minoranza etnica
che potrebbe andare al potere di tanto in tanto tramite il processo elettorale. Essi aggiungono che
la presenza in un paese di un gran numero di gruppi etnici delle stesse dimensioni può contribuire
a stabilizzare la democrazia rendendo possibile una varietà di coalizioni mobili e riducendo la
probabilità che determinati gruppi etnici vengano esclusi in permanenza del potere.
Collier e Hoefler dimostrano che il rischio di guerra civile è massimo quando un gruppo etnico
include una percentuale della popolazione compresa tra il 45 e il 90%. Dimostrano che la guerra
civile è più probabile quando un singolo gruppo etnico è in condizione di agire da maggioranza
permanente.

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Le argomentazioni relative all’effetto delle leggi elettorali sul conflitto etnico sono legate alle
argomentazioni sull’esistenza di minoranze etniche permanenti. Il pinto più contrastato è se queste
minoranze debbano vere una garanzia di rappresentanza permanente o vadano incoraggiate a
formare coalizioni con altri gruppi e evitare di ritrovarsi permanentemente all’opposizione. Prima
occorre specificare che altri fattori influenzano la reattività degli elettori alle sollecitazioni etniche da
parte dei politici e la probabilità che si crei un conflitto interetnico.
Varshney afferma che la struttura dei legami sociali tra i cittadini è un favore importante per la
probabilità di un conflitto interetnico. Egli specifica che la pace viene favorita quando i cittadini
creano dei legami sociali interetnici. L’impegno sociale interetnico promuove la pace e la sua
assenza e debolezza crea spazio per le violenze etniche. Non tutte le forme di impegno sociale
interetnico sono ugualmente efficaci per la promozione della pace. Varshney afferma che la
partecipazione ad associazioni informali è più efficace nel promuovere la pace etnica di contatti
interetnici più quotidiani.
Entrambe le forme di impegno sociale interetnico promuovono la pace, e Varshney rileva che la
forma associativa è più pregnante del contatto quotidiano, specie quando i politici tentano di
polarizzare la gente sul piano etico. Ciò indica che una vita associativa vigorosa, se ha un aspetto
interetnico, pone un limite significativo alla capacità dei politici di mobilitare gli elettori sul fronte
etnico, anche quando la polarizzazione etica corrisponde al loro interesse politico. Più le reti
associative tagliano trasversalmente i confini etnici, più è difficile per i politici ottenere una
polarizzazione di questo tipo.
La maggior parte degli studi sulla politica etnica danno per scontato le identità etniche e il modo in
cui si manifestano nella vita associativa. Chandra afferma che una ragione per cui molti studi
rilevano una tensione intrinseca tra eterogeneità etnica e aspetti come la stabilità democratica è
che danno per scontata l’identità etnica, anziché considerarla un contratto sociale. Chandra
presenta un modello di competizione elettorale che impiega un sistema maggioritario uninominale
a turno unico in cui i leader di partito sono liberi di definire strategicamente i gruppi etnici. I risultati
del modello dimostrano che esistono delle condizioni in cui i leader di partito decideranno di
ridefinire l’identità di gruppo per attrarre elettori trasversali ai confini etnici. Non sempre i leader di
partito, quindi, decideranno di mobilitare gli elettori sul piano etnico. E’ un risultato importante
perché suggerisce che il conflitto e l’estremismo previsti dai modelli tradizionali di outbidding
etnico sono la conseguenza dell’assunto che le identità etniche siano fisse, anziché basarsi sulla
mera presenza di differenze etniche.
Stando ai modelli basati sull’outbidding etnico, nel momento in cui emerge un singolo partito
etnico, esso infetta il sistema politico perché genera un partito etnico nuovo e più estremista che si
oppone al primo. Ciò induce il primo partito etnico a diventare più estremista, producendo una
spirale negativa in cui la politica competitiva a base non etnica viene totalmente azzerata. Questo
processo di outbidding etnico non è detto che si sviluppi se le identità etniche non sono fisse. Lo
studio di Chandra ipotizza che l’eterogeneità etnica potrebbe promuovere la stabilità democratica
aumentando il numero delle dimensioni su cui si possono formare alleanze interetniche. Le
maggioranze che vengono costruite su una sola dimensione non sono quasi mai permanenti e
pericolose in presenza di una eterogeneità etnica, perché i politici nei gruppi che includono una
minoranza su quella dimensione possono tentare di mobilitare gli elettori su un’altra dimensione.
Dovremmo osservare che Chandra ha analizzato queste dinamiche in un solo tipo di sistema
elettorale: il sistema maggioritario uninominale a turno unico.

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L’effetto ipotizzato delle leggi elettorali sul conflitto etnico.

Le leggi elettorali PR consentono di tradurre direttamente le divisioni sociali nel sistema di partito.
Prevedendo l’effetto delle regole elettorali, i membri dei gruppi etnici tendono a effettuare quello
che Chandra definisce un conteggio etnico. Si guarderanno attorno per capire se il loro gruppo
etnico è numeroso, alla luce delle regole elettorali in vigore, da consentire una campagna
plausibile per la conquista di un seggio parlamentare. Se il numero è sufficiente, gli elettori
verranno incoraggiati ad appoggiare un partito che si rivolge prevalentemente al loro gruppo etnico
specifico. Se la soglia elettorale percepita eccede la valutazione soggettiva della dimensione del
gruppi etnico, essi appoggeranno un partito dalla base più ampia.
In questo gli imprenditori politici hanno un ruolo importante: potrebbero tentare di influenzare le
percezioni degli elettori. Ma saranno anche consapevoli di come le soglie elettorali interagiscono
con la dimensione del gruppo per determinare la probabilità che quelle strategie abbiano
successo. Poiché sono influenzate direttamente dalle leggi elettorali, la propensione dell’élite a
rivolgersi a etnie specifiche o creare alleanze interetniche, e la probabilità che gli elettori
rispondano favorevolmente a quegli appelli o li ignorino e appoggino partiti che hanno una base
più ampia, sarà funzione dell’interazione tra la dimensione del gruppo e le leggi elettorali.
Gli studiosi che desiderano influenzare l’assetto costituzionale di società caratterizzate da
eterogeneità etnica non dissentono sul ruolo delle istituzioni elettorali. Riconoscono che, in
presenza di alti livelli di eterogenei sociale, la scelta delle leggi elettorali avrà un ruolo importante
per stabilire se si formeranno molti partiti etnicamente omogenei da più gruppi etnici. Il dibattito
riguarda il fatto che la stabilità democratica sia meglio garantita dando per scontati i gruppi etnici e
facendo in modo che le minoranze abbiano una rappresentanza adeguata o assumendo che le
identità di gruppo siano malleabili e si possano incanalare con successo in comportamenti
favorevoli al regime, anziché contrari.
Lijphart è il sostenitore dell’idea che dovremmo dare per scontati i gruppi etnici e fare in modo che
le minoranze abbiano una rappresentanza adeguata. Il suo approccio alla gestione politica
dell’eterogeneità etnica prende il nome di consociativismo: in base al quale le minoranze etniche
pongono un grave pericolo alla stabilità democratica quando vengono escluse dalla partecipazione
a istituzioni politiche formali. Se le minoranze etniche possono accedere alle istituzioni formali e
quelle istituzioni sono strutturate in modo da riflettere gli interessi di un campione il più possibile
rappresentativo della popolazione, queste minoranze avranno interesse alla sopravvivenza del
sistema democratico. E’ importante che vi siano anche controlli plurimi sul potere del governo, in
modo da minimizzare la probabilità che l’autorità statale si possa usare per violare i diritti delle
minoranze. Il consociativismo è legato quindi alla visione consensuale della democrazia. Esso è
una strategia specifica per implementare la visione consensuale della democrazia, e comporta la
adozione di istituzioni in grado di garantire la rappresentanza dei gruppi minoritari. Es: nel Libano,
dove i cristiani maroniti, i mussulmani sunniti e i mussulmani sciiti vedono garantita la propria
rappresentanza dalla costituzione scritta nel 1943. Il confessionalismo libanese, come si
definisce il consociativismo quando si applica ai gruppi religiosi, sembrava inizialmente una
formula di successo.
L’obiettivo del consociativismo corrisponde al tipo di politica che Chandra contesta in quanto
tenderebbe a imporre una fissità artificiosa alle identità etniche.
Ci concentriamo sull’effetto di due scelte elettorali che fanno parte dei modelli consociativi.
Esaminiamo l’effetto delle leggi elettorali sulle divisioni etniche e sul conflitto etnico.

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Lijphart afferma che la scelta più importante che si pone ai costituenti è quella del sistema
elettorale. E aggiunge che per le società divise, assicurare l’elezione di un parlamento
ampiamente rappresentativo dovrebbe essere la considerazione più importante e che il
sistema PR è indubbiamente la soluzione ottimale a questo fine. Per dimostrare ciò, egli
spiega che c’è un ampio consenso tra gli studiosi contro l’uso di leggi maggioritarie nelle società
profondamente divise, perché queste leggi possono portare all’esclusione indefinita di gruppi
sociali significativi.
Come già visto, i sistemi elettorali misti combinano elementi maggioritari e proporzionali. La misura
in cui questi sistemi consentono la rappresentanza delle minoranze tende a dipendere da quanto è
compensativa la quota proporzionale. Se la componente PR non è compensativa, i risultati
saranno necessariamente meno che proporzionali, e la rappresentanza delle minoranze
sarà meno accurata e meno sicura. Se la componente proporzionale eccede quella
maggioritaria questi sistemi misti diventano di fatto proporzionali e offrono gli stessi benefici dei
sistemi PR veri e propri. Es: Colombia, Croazia, Pakistan.
Per Lijphart la rappresentanza garantita delle minoranze è inferiore al semplice utilizzo di regole
elettorali PR, perché impone ai governi di affrontare la questione di quali minoranze richiedano
apposite garanzie di rappresentanza e quali no. Il sistema PR mette su un piano di assoluta partita
tutti i gruppi e produce la rappresentanza desiderata delle minoranze.
Gli assunti su cui si fonda la tesi di Lijphart sono che i conflitti etnici e sociali si possono mitigare se
tutte le parti in causa hanno un’adeguata rappresentanza parlamentare, e che le regole elettorali
proporzionali costituiscono la soluzione ottimale per garantire questa rappresentanza. Alcuni
obiettano che i sistemi PR facilitano l’elezione di piccoli partiti antisistema che scatenano cicli di
conflitto legislativo, che possono degenerare in un violento conflitto sociale. Es: Germania di
Weimar.
Altri osservano che i sistemi PR finiscono per attribuire ai piccoli partiti un’influenza sproporzionata
sul processo di formazione del governo.
Alcuni studiosi sono convinti che la rappresentanza di gruppi specifici non sia necessaria, né
sufficiente, ad assicurare la pace interetnica. Horowitz afferma che i sistemi altamente
proporzionali garantiscono ai piccoli partiti una rappresentanza parlamentare, ciò non significa che
gli interessi della minoranza riceveranno attenzione nel processo legislativo. Se esistono dei
conflitti nelle società divise, ci si potrebbe chieder perché il semplice utilizzo di sistemi PR, per
replicare in parlamento le divisioni sociali che hanno causato questi conflitti, possa essere d’aiuto
se non ci sono incentivi alla cooperazione e al compromesso tra partiti. Secondo questi critici
occorre un meccanismo istituzionale che promuova il compromesso e la moderazione. Molti di loro
ritengono che le leggi elettorali maggioritarie mettano a disposizione un meccanismo di questo
tipo.
Horowitz presenta l’alternativa più nota e apprezzata al sistema PR per le società divise: il voto
alternativo. Diversamente da quanto accade nei sistemi MUTU, gli elettori hanno poco interesse a
votare strategicamente perché sanno che il loro voto non andrà sprecato se il candidato preferito
ha poche probabilità di vittoria; il loro voto viene trasferito sul candidato di seconda scelta. Significa
che gli elettori motivati dall’identità etnica indicheranno un membro dello stesso gruppo etnico
come prima preferenza, e il candidato meno sgradevole di un gruppi etnico alternativo come
seconda preferenza. Nei collegi ad alta eterogeneità, i candidati si rendono conto che il loro
successo elettorale dipenderà dal trasferimento di seconde preferenze da altri gruppi etnici. Di
conseguenza, i candidati vincenti saranno quasi sempre quelli che propongono una linea centrista

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in grado di attraversare i confini etnici. E’ per questo che il voto alternativo promuoverebbe la
moderazione e il compromesso tra gruppi etnici. Es: Australia.
Potete considerare la scelta tra il sistema PR e il voto alternativo una scelta tra la replica delle
divisioni etniche in parlamento nella speranza che i leader politici decidano di cooperare dopo le
elezioni e la creazione di incentivi istituzionali finalizzati a indebolire o a trascendere la rilevanza
politica dell’eticità.
Alcuni studi confermano la tesi secondo la quale i sistemi PR riducono la probabilità di un conflitto
violento. Ci sono ragioni per essere cauti su questi risultati. Anzitutto, questi studi non fanno un
confronto diretto tra democrazie proporzionali e maggioritarie. Le democrazie proporzionali
vengono confrontate con una combinazione eterogenea di democrazie maggioritarie e dittature. Lo
studio di Reynal-Querol confronta democrazie parlamentari che utilizzano regole elettorali
proporzionali o maggioritarie con democrazie presidenziali e miste, oltre che con dittature.
Vari studi hanno esaminato l’associazione tra sistema PR e conflitto, e nessuno ha cercato di
capire se i sistemi PR modificano il modo in cui l’eterogeneità etnica influenza la probabilità di
conflitto.
Infine, si dovrebbe osservare che nessuno di questi studi distingue tra vari studi maggioritari in
essere.

L’effetto ipotizzato del federalismo

Gli studiosi di politica comparata hanno considerato il federalismo incongruente e asimmetrico una
forma di governo attrattiva per i paesi in cui le preferenze politiche differiscono tra gruppi etnici
concentrati geograficamente. Il federalismo incongruente e asimmetrico dovrebbe ridurre il conflitto
etnico e frenare le tendenze secessioniste, stabilizzando la democrazia. In effetti esso aiuta i
gruppi etnici a proteggere i propri interessi e valori a livello regionale. Dando maggiore autonomia
ai governi regionali, esso trasferisce il potere alle minoranze, rendendole più soddisfatte di vivere
in uno stato unitario pur essendo minoranze permanenti nell’elettorato nazionale. Questi presunti
vantaggi hanno indotto studiosi a vedere nel federalismo il mezzo più promettente per tenere
insieme paesi eterogenei e potenzialmente conflittuali.
Benché il federalismo sia stato sempre considerato utile per raffreddare il conflitto etnico e il
secessionismo, vari studi hanno messo in discussione questa tesi. Alcuni di essi arrivano al punto
di ipotizzare che il federalismo possa intensificare, anziché ridurre, il conflitto etnico. Un modo in
cui potrebbe farlo è rinforzare le identità etniche a base regionale. Il federalismo crea incentivi alla
politicizzazione delle identità etniche riconoscendo determinati gruppi etnici e dando loro un senso
di legittimazione.
Un altro modo è dare accesso a risorse politiche ed economiche che i leader etnici possono poi
usare per fare pressione sullo stato. La decentralizzazione del potere a livello regionale attraverso
l’istituzione di una forma federale di governo potrebbe avere la conseguenza negativa di fornire ai
gruppi le risorse necessarie per impegnarsi più efficacemente nel conflitto etnico e nel
secessionismo.

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Recenti studi supportano questa linea di ragionamento e mostrano che il federalismo potrebbe non
essere quella panacea per il conflitto etnico nelle società divise che è stato considerato. Alcuni
studi rilevano che pur tendendo a prevenire la ribellione vera e propria, il federalismo promuove gli
atteggiamenti protestatari tra le minoranze.
Gli studiosi hanno considerato l’impatto del federalismo sul conflitto etnico in termini di
contrapposizione. In realtà secondo noi la maggior parte degli scienziati politici potrebbe
riconoscere che la decentralizzazione politica a contribuito a frenare il conflitto etnico e il
secessionismo in alcuni paesi come Belgio e India.
Brancati offre una possibile risposta a questa domanda. Egli suggerisce che dipende molto dalla
forza dei partiti regionali che operano in un paese. Afferma che la decentralizzazione politica riduce
il conflitto etnico quando entrambi i partiti regionali sono deboli, ma può intensificarlo quando i
partiti sono forti. In base alla sua teoria, egli ritiene che la decentralizzazione politica riduca il
conflitto etnico avvicinando il governo alla gente, accrescendo le opportunità di partecipare al
governo e lasciando ai gruppi etnici una notevole discrezionalità nella gestione dei propri affari
politici; e afferma che la decentralizzazione politica intensifica il conflitto etnico rafforzando i partiti
regionali basati sull’identità di gruppo.
Infine, Brancati afferma che l’utilità o meno del federalismo per ridurre il conflitto etnico dipende
della misura in cui la decentralizzazione porta al rafforzamento dei partiti etnici. Se ha ragione,
allora i politici interessati a ridurre il conflitto etnico e stabilizzare la democrazia devono combinare
il federalismo incongruente e asimmetrico con altre caratteristiche istituzionali che riducono la
probabilità di formazione e successo dei partiti regionali.

PRESIDENZIALISMO E SOPRAVVIVENZA DELLA DEMOCRAZIA

Perché alcuni paesi sono democratici e altri no?


Siamo in condizione di valutare una terza serie di spiegazioni riguardi alla sopravvivenza della
democrazia: le spiegazioni istituzionali. L’approccio istituzionalista alla democrazia pone il
seguente interrogativo: se emerge la democrazia, vi sono istituzioni, o combinazioni di
istituzioni, che ne rendono più o meno probabile la sopravvivenza? Molte scelte istituzionali si
ritengono in grado di influenzare le prospettive di sopravvivenza democratica, e quella che ha
generato una vasta letteratura nella politica comparata contrappone l’adozione di una democrazia
presidenziale all’adozione di una democrazia parlamentare.
Molta evidenza storia indica che la democrazia è meno stabile nei regimi presidenziali che nei
regimi parlamentari. Przeworski et al. presentano dati i quali mostrano che la vita attesa della
democrazia nel presidenzialismo (21 anni) è da 3 volte a 5 volte più breve che nel
parlamentarismo. Questa constatazione ha indotto alcuni commentatori a parlare dei pericoli del
presidenzialismo. Per molti anni, si sono chiesti se la fragilità della democrazia nei regimi
presidenziali sia dovuta o meno a qualche elemento strutturale del presidenzialismo e se sì, quale
sia.

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I pericoli del presidenzialismo

Quali sono le conseguenze del presidenzialismo e del parlamentarismo sul modo in cui il potere
esecutivo e il potere legislativo adottano le politiche pubbliche?
La prima cosa è che i presidenti hanno un ruolo e un peso diverso rispetto ai primi ministri, in
quanto fondono le caratteristiche simboliche del capo di stato con i poteri pragmatici del capo di
governo. Ciò crea un’aura, una percezione di se stessi e una serie di aspettative più ampie
che sono completamente diverse da quelle che si associano al primo ministro, per popolare
che possa essere. I sostenitori della democrazia presidenziale affermano che i presidenti
rappresentano un contrappeso importante al legislativo, che non esiste nelle democrazie
parlamentari. Mentre i presidenti rispondono alla nazione nella sua totalità, i parlamentari vengono
eletti quasi sempre da un sottoinsieme dell’elettorato e hanno interessi particolaristici che
potrebbero contrastare con gli interessi complessivi della nazione. La presenza istituzionale di un
presidente contribuirebbe a migliorare e a disciplinare le tendenze particolaristiche dei legislatori.
Shively sintetizza cinque conseguenze principali del presidenzialismo:
- primo: il presidenzialismo porta a una situazione in cui il potere politico è concentrato
nelle mani del presidente. Questa affermazione potrebbe apparire sorprendente, perché il
presidenzialismo si considera tipicamente un meccanismo per la separazione dei poteri tra
esecutivo e legislativo. Ma il presidente può esercitare un potere indisponibile nella maggior
parte dei primi ministri che sono solo primi inter pares nel parlamento;
- secondo: si ritiene che il presidenzialismo renda problematica per i cittadini
l’identificazione di chi è responsabile per le politiche pubbliche, ossia produce un basso
livello di chiarezza della responsabilità. La separazione dei poteri tra l’esecutivo e il legislativo
nelle democrazie presidenziali consente a ciascuno dei due di dare la colpa all’altro quando i
risultati sono negativi e di rivendicare i meriti quando sono positivi;
- terzo: si ritiene che il presidenzialismo rallenti l’adozione di politiche pubbliche. Nelle
democrazie presidenziali, nuove normative che rispondono a cambiamenti sogni determinatisi
nell’ambiente socio-economico di un paese devono passare al vaglio del legislativo e ottenere
l’approvazione del presidente prima di essere applicate. Questi negoziati si protraggono perché
il governo presidenziale può ritrovarsi alle prese con un legislativo che non appoggia gli obiettivi
legislativi;
- quarto: si ritiene che il presidenzialismo produca un sistema di reclutamento
dell’esecutivo diverso da quello che si trova nel parlamentarismo. In molte democrazie
parlamentari, i primi ministri vengono selezionati dalla leadership della delegazione
parlamentare di un partito. Per contro, i candidati alla presidenza sono spesso degli esterni che
si considerano liberi dai vincoli di sottomissione dell’élite del partito. Ciò significa che i candidati
presidenziali sono privi di esperienza legislativa o di politiche pubbliche;
- quinto: il presidenzialismo viene accusato di ostacolare la produzione di politiche
esaurienti. Nelle democrazie presidenziali il processo di formazione delle politiche comporta
una complessa negoziazione tra il potere esecutivo e il potere legislativo. Il risultato è che nei
sistemi presidenziali alcune politiche sono adottate solo perché consentono di ottenere
l’acquiescenza di un altro ramo del governo su una questione di tutt’altra natura. Siccome nella
democrazia parlamentare il governo ha la fiducia del parlamento, si ritiene che i governi
parlamentari siano più in grado di mettere insieme programmi legislativi esaurienti e razionali.

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Bisogna riconoscere che molte di queste conseguenze non sono specifiche del presidenzialismo
poiché si determinano anche in alcuni sistemi parlamentari. Es: le democrazie parlamentari che
hanno governi di coalizione che faticano anche a:
- adottare rapidamente le politiche
- identificare la responsabilità delle politiche
- produrre politiche esaurienti.
Anziché parlare di pericoli del presidenzialismo, alcuni studiosi si concentrano sui problemi del
parlamentarismo. Questi problemi sono illustrati al meglio dalla Quarta Repubblica francese,
che era caratterizzata da alti livelli di immobilismo [una situazione nelle democrazie
parlamentari i cui le coalizioni di governo sono così deboli e instabili da non essere in
grado di raggiungere un accordo sulle nuove politiche] e di instabilità governativa.
Altri sistemi parlamentari hanno sperimentato la stessa instabilità governativa e lo stesso
immobilismo, come ad esempio l’Italia postbellica.
Dovemmo ricordare che la focalizzazione sull’instabilità del governo può indurci a sopravvalutare
l’entità effettiva dell’instabilità politica di un paese. L’instabilità governativa non implica una carenza
di esperienza politica o ministeriale da parte dei ministri.
Secondo P.A. Allum, nell’Italia postbellica, dietro la facciata delle continue crisi di governo,
c’era una significativa continuità di partiti, persone e incarichi. Gli analisti della politica
francese hanno detto la stessa cosa riguardo all’instabilità governativa che caratterizzava la
Quarta Repubblica francese. Bisogna ricordare che l’instabilità governativa delle democrazie
parlamentari non implica instabilità ministeriale, e soprattutto l’instabilità del gabinetto, non implica
anche l’instabilità democratica.
Che cosa posiamo desumere?
Ci concentriamo su un’analisi più sistematica di come il presidenzialismo e il parlamentarismo
influenzano la sopravvivenza democratica.
Secondo Stepan e Skach, le prospettive di sopravvivenza democratica sono peggiori nel
presidenzialismo che nel parlamentarismo. Essi affermano che la ragione di questo fenomeno si
può attribuire al fatto che l’essenza del parlamentarismo è la dipendenza reciproca, mentre
l’essenza del presidenzialismo è l’indipendenza reciproca:
- in una democrazia parlamentare, il potere legislativo e il potere esecutivo sono dipendenti. Da
una parte, il governo ha bisogno del supporto di una maggioranza parlamentare per rimanere in
carica, dall’altra, il governo può sciogliere il parlamento indicendo nuove elezioni. In una
democrazia parlamentare, il governo e il parlamento non possono continuare a esistere senza
l’appoggio reciproco.
- in una democrazia presidenziale, il potere esecutivo e il potere legislativo sono reciprocamente
indipendenti. Sia il legislativo sia il presidente hanno una fonte indipendente di legittimazione e
un mandato elettorale fisso. Il legislativo non può esautorare il presidente, e il presidente non
può esautorare il legislativo.
Stepan e Skach affermano che la dipendenza reciproca del parlamentarismo incoraggia la
riconciliazione tra il potere esecutivo e il potere legislativo, mentre l’indipendenza reciproca del
presidenzialismo ne incoraggia l’antagonismo. Nelle democrazie presidenziali, questo
antagonismo, che nasce quando il presidente deve confrontarsi con un legislativo dominato dai
partiti di opposizione, può portare a uno stallo legislativo. In assenza di un meccanismo
costituzionale, i politici e i cittadini delle democrazie presidenziali potrebbero rivolgersi alle forze
armate. Se lo stallo coinvolge il potere esecutivo e il potere legislativo in una democrazia
parlamentare, esistono dei mezzi costituzionali per risolvere la crisi. Il parlamento può provare un

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voto di sfiducia e far cadere il governo, oppure il primo ministro può sciogliere il parlamento e indire
nuove elezioni. E’ l’esistenza di questi mezzi costituzionali, previsti nelle democrazie che si
considera alla base della maggiore stabilità democratica delle democrazie parlamentari.
Stepan e Skach affermano che il presidenzialismo tende maggiormente a creare quello stallo tra
l’esecutivo e il legislativo che apre la porta ad azioni anticostituzionali. Un’implicazione osservabile
della loro teoria è che i colpi di stato militari dovrebbero essere più comuni nelle democrazie
presidenziali che parlamentari.
Tuttavia, è probabile che alcuni dei fattori che portano alla caduta delle democrazie si associno
anche alla scelta originaria di adottare il parlamentarismo e il presidenzialismo. La mancata
considerazione di questi altri fattori potrebbe indurci a sopravvalutare il vero effetto del tipo di
regime sulla sopravvivenza democratica. Stepan e Skach tentano di superarla attingendo
all’opera di Tatu Vanhanen, uno scienziato politico olandese.
Vanhanen ha costruito:
- un indice di democratizzazione, che misura il livello di democrazia di un paese;
- e quello che definisce un indice delle risorse di potere, che misura il livello di sviluppo sociale di
un paese.
Se la teoria della modernizzazione è corretta, i paesi che hanno un punteggio elevato sull’indice
delle risorse di potere dovrebbero avere anche un punteggio elevato sull’indice di
democratizzazione. E’ ciò che rileva Vanhanen. Anche se riscontra un’associazione tra l’indice
delle risorse di potere e quello di democratizzazione, la corrispondenza è imperfetta. Alcuni paesi
hanno un punteggio più elevato sull’indice di democratizzazione di quanto farebbe supporre il
livello di modernizzazione, così come risulta dall’indice delle risorse di potere. Alcuni paesi hanno
un punteggio più basso sull’indice di democratizzazione di quanto suggerirebbe il loro livello di
modernizzazione. Stepan e Skach definiscono:
- sovrademocratizzati i paesi che hanno un punteggio sorprendentemente alto sull’indice di
democratizzazione;
- sottodemocratizzati i paesi che hanno un punteggio sorprendentemente basso sull’indice di
democratizzazione.
Essi inoltre interpretano la comparazione tra paesi sovrademocratizzati e sottodemocratizzati nel
senso che, tenuto conto di una serie di variabili di modernizzazione che dovrebbero influenzare la
sopravvivenza democratica, i sistemi parlamentari hanno cinque volte più probabilità di essere
sovrademocratizzati che di essere sottodemocratizzati; per contro, i sistemi presidenziali hanno più
probabilità di essere sottodemocratizzati che sovrademocratizzati.
Presentiamo una nuova evidenza statistica che supporta ulteriormente questa conclusione. Come
ricorderete, i coefficienti indicano la direzione in cui le variabili esplicative influenzano la probabilità
che una democrazia rimanga tale. Un coefficiente positivo indica che un incremento nella variabile
esplicativa in questione accresce la probabilità di sopravvivenza democratica, mentre un
coefficiente negativo indica che un incremento della variabile riduce la probabilità di sopravvivenza
democratica.
Allora che cosa ci dicono i risultati? In linea con i dati di Stepan e Skach, il coefficiente sul
presidenzialismo è negativo e significativo. Significa che le democrazie a regime presidenziale
hanno meno probabilità di rimanere democratiche delle democrazie a regime parlamentare. Ciò
accade anche se teniamo conto dei fattori economici incidenti sulla sopravvivenza democratica.

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La combinazione difficile: presidenzialismo e multipartitismo

Se nei momenti di crisi si adotta il presidenzialismo, i regimi presidenziali potrebbero fallire più
frequentemente dei regimi parlamentari, non perché ci sia qualcosa di problematico nel
presidenzialismo, ma perché il presidenzialismo tende a essere adottato nei momenti difficili.
L’approccio con cui affrontare questo problema, è trovare un indicatore di cattiva salute e
includerlo come variabile di controllo in un’analisi della relazione tra mortalità e ricovero in
ospedale. Con una sola eccezione, non ci risultano analisi empiriche che abbiano adottato questo
approccio all’analisi della relazione tra presidenzialismo e sopravvivenza democratica. Ciò
potrebbe dipendere dal fatto che il problema analitico con cui ci confrontiamo è più complicato di
quello suggerito.
Tuttavia, può darsi che alcuni fattori pericolosi per la democrazia siano tali solo nei regimi
parlamentari o solo in quelli presidenziali. Se è vero, e i regimi parlamentari e presidenziali sono
organismi differenti che processano fattori come la frammentazione legislativa con modalità
radicalmente diverse, potrebbe essere quanto mai difficile misurare la salute di un regime
indipendentemente dalla sua natura presidenziale o parlamentare.
L’opera di Scott Mainwaring indica che le democrazie presidenziali e parlamentari processano
veramente i fattori politici in due modi diversi. Egli ipotizza che processino diversamente la
frammentazione legislativa. Mentre la frammentazione legislativa accresce la probabilità di
instabilità, l’instabilità che si produce nelle democrazie parlamentari è diversa da quella che si
produce in quelle presidenziali. La frammentazione legislativa accresce la probabilità di instabilità
governativa nei sistemi parlamentari, mentre accresce la probabilità di instabilità democratica
nei sistemi presidenziali. L’opera di Mainwaring suggerisce che la frammentazione legislativa si
considera una patologia politica nelle democrazie parlamentari, il presidenzialismo potrebbe
essere davvero una medicina peggiore della malattia.
Perché la frammentazione legislativa tende a produrre risultati così diversi nelle democrazie
parlamentari e nelle democrazie presidenziali? Una ragione è che la frammentazione
parlamentare tende maggiormente a causare uno stallo legislativo in un regime presidenziale che
in un regime parlamentare. In una democrazia presidenziale, lo stallo legislativo si determina
quando la maggioranza parlamentare, che si oppone, è abbastanza cospicua da approvare i
disegni di legge, ma non abbastanza da superare il veto presidenziale. La frammentazione
parlamentare accresce le probabilità che il partito del presidente non ottenga una maggioranza
legislativa, e le probabilità che si crei uno stallo legislativo. Ma perché la frammentazione
parlamentare ha più probabilità di causare uno stallo legislativo nei sistemi presidenziali
che nei sistemi parlamentari? La risposta è che in una democrazia parlamentare, il capo del
governo, il primo ministro, è subordinato alla fiducia del parlamento e quindi è obbligato a formare
un gabinetto di coalizione che ottenga la maggioranza legislativa.
I presidenti formano valori delle coalizioni, ma la differenza principale tra democrazie parlamentari
e presidenziali è che quando i legislatori votano in numero sufficiente contro le iniziative del
presidente, l’attività legislativa si blocca, ma quando votano contro le iniziative del primo ministro,
ci sono buone probabilità che cada il governo. Il governo di coalizione in una democrazia
parlamentare presuppone una coalizione legislativa, mentre questa presunzione non esiste nelle
democrazie presidenziali. Una conseguenza è che la frammentazione legislativa ha molte più
probabilità di produrre uno stallo in una democrazia presidenziale che di produrre immobilismo in
una democrazia parlamentare.

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Il problema dello stallo legislativo creato dalla frammentazione parlamentare tende a venire
esacerbato dal modo in cui vengono selezionati i presidenti. I candidati alla presidenza sono
spesso persone esterne alla politica che hanno una conoscenza limitata del processo di
formazione delle politiche pubbliche o un’esperienza limitata nei rapporti con il legislativo. Una
delle ragioni di questo fenomeno è che i presidenti non hanno quasi mai le competenze o
l’esperienza che occorrono per costruire coalizioni legislative al fine di risolvere le situazioni di
stallo che si creano. Anche quando riescono a costituire una coalizione, si ritiene che i partner di
coalizione nei regimi presidenziali hanno tutto l’interesse a prendere le distanze dagli obiettivi
politici del presidente, perché si aspettano di correre contro il presidente alle prossime elezioni e
vogliono poterne criticare le politiche. Per contro, i primi ministri sono persone che hanno fatto
parte del parlamento per molti anni, hanno acquisito notevoli competenze di politiche pubbliche e
hanno imparato l’arte di costruire delle coalizioni. Una conseguenza è che i primi ministri sono più
in condizione dei presidenti di costruire coalizioni parlamentari per risolvere le situazioni di stallo.
Secondo Mainwaring, le democrazie presidenziali, oltre che più inclini delle democrazie
parlamentari ad avere un esecutivo i cui programmi politici verranno bloccati costantemente dal
legislativo, sono più inclini ad avere membri dell’esecutivo meno in grado di affrontare tali problemi
quando emergono.
Quando si crea uno stallo legislativo, è più probabile che porti all’instabilità democratica nelle
elezioni presidenziali che nelle democrazie parlamentari. Se lo stallo legislativo si crea tra governo
e il parlamento in un regime parlamentare, ci sono dei mezzi costituzionali per risolvere la crisi. Il
parlamento può approvare un voto di sfiducia e far cadere il governo, oppure il primo ministro può
sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni. Come osserva Mainwaring, nelle democrazie
presidenziali non ci sono mezzi per sostituire un presidente che è enormemente impopolare
nella società e ha perso gran parte dell’appoggio nel legislativo. L’assenza di un voto di
sfiducia potrebbe assicurare la stabilità del capo del governo nei regimi presidenziali, ma introduce
una rigidità che può minacciare la stabilità democratica incoraggiando élite o masse frustrate a
chiedere la rimozione del presidente o lo scioglimento del parlamento, come mezzo per superare
lo stallo. In certi casi gli attori possono ottenere questo risultato restando nei limiti di alcune
costituzioni presidenziali, ma il superamento di uno stallo legislativo tende a produrre instabilità
democratica nelle democrazie presidenziali che nelle democrazie parlamentari; se e quando si
determina nelle democrazie parlamentari, l’immobilismo tende maggiormente a produrre instabilità
di governo.
Abbiamo presentato evidenza da cui risultava che la democrazia era più fragile nei regimi
presidenziali che nei regimi parlamentari. Un’implicazione della tesi di Mainwaring è che la
democrazia dovrebbe essere più fragile in alcuni regimi presidenziali che in altri. La sua tesi
implica che la democrazia dovrebbe essere fragile (solo) nelle democrazie presidenziali
caratterizzate da alti livelli di frammentazione legislativa che in quelle caratterizzate da bassi livelli
di frammentazione legislativa, perché la frammentazione legislativa accresce la probabilità di
stallo, il che accresce a sua volta la probabilità di instabilità democratica. Quando la
frammentazione legislativa è bassa, sarà bassa anche la probabilità di stallo e l’instabilità
democratica.
Per verificare ciò, Mainwaring esamina tutti i paesi che hanno avuto una democrazia ininterrotta
nei venticinque anni compresi tra il 1967 e il 1992. Ventiquattro regimi parlamentari sono riusciti a
rimanere democratici, contro appena quattro regimi presidenziali: Colombia, Costa Rica, Stati
Uniti, Venezuela. Mainwaring voleva capire che cosa differenziava questi regimi dagli altri regimi

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presidenziali. E nel 1993 egli affermava che solo un regime presidenziale multipartitico era riuscito
a conservare la democrazia per un venticinquennio: il Cile.
I dati presentati sembrano supportare la tesi di Mainwaring che non sarebbe il presidenzialismo in
sé a mettere a rischio la democrazia, ma il presidenzialismo combinato con il multipartitismo.
Esistono un paio di ragioni per dubitare dell’approccio:
- primo: i lavori accademici esaminati hanno utilizzato alcuni criteri per l’analisi dei dati piuttosto
arbitrari;
- secondo: non abbiamo tentato per nulla di tener conto di altri fattori che si potrebbero associare
alla democrazia, al tipo di regime e alla dimensione del sistema di partito.
L’ipotesi di Mainwaring è che il presidenzialismo ha un effetto negativo più forte sulla
sopravvivenza della democrazia quando il sistema di partito è grande. Poiché la nostra è un’ipotesi
condizionale, l’interpretazione dei nostri risultati empirica è un po’ più complicata; e ci dice che
l’effetto del presidenzialismo sulla sopravvivenza democratica è sempre negativo e che questo
effetto negativo diventa più forte, ossia è sempre negativo, all’aumentare del numero effettivo di
partiti legislativi.
Abbiamo esaminato una tesi secondo la quale le costituzioni presidenziali renderebbero più difficile
il consolidamento democratico rispetto alle costituzioni parlamentari, specie quando il legislativo è
altamente frammentato. La principale debolezza del presidenzialismo sembra essere la sua
incapacità a trovare soluzioni legali che permettano di superare un possibile stallo tra legislativo ed
esecutivo, un problema che si verifica più frequentemente quando il legislativo è altamente
frammentato. In precedenza, si è affermato che, a un incremento nel numero degli attori con
potere di veto dovrebbe rendere più difficile cambiare lo status quo di una politica pubblica. Ciò
vale in particolare se tali attori hanno preferenze politiche eterogenee. Quella che abbiamo definito
una stabilità delle politiche indotta dagli attori con potere di veto equivale a quello che abbiamo
definito stallo o immobilismo.
George Tsebelis ha ipotizzato che, se un gran numero di tali attori con preferenze eterogenee può
incoraggiare la stabilità delle politiche pubbliche, potrebbe incoraggiare anche l’instabilità politica.
L’affermazione di Mainwaring secondo cui il multipartitismo e il presidenzialismo formano una
combinazione difficile per il consolidamento democratico, si può interpretare alla luce della terra
degli attori con veto. Se Tsebelis è nel giusto quando afferma che un maggior numero di tali attori
crea stabilità delle politiche pubbliche, che nella sua forma estrema degenera in stallo, allora
dovremmo aspettarci che il presidenzialismo e il parlamentarismo influenzino il tipo di instabilità
politica che ne deriva.
Una pluralità di attori con veto genera stabilità delle politiche pubbliche (stallo), ma la forma di
instabilità politica che ne deriva dipende dalla costituzione di un paese:
- se la costituzione è presidenziale, la stabilità delle politiche o dello stallo tende a incoraggiare
un colpo di stato o qualche altra forma di instabilità democratica;
- se è parlamentare, la stabilità delle politiche dell’immobilismo tende a produrre un voto di
sfiducia, un rimpasto governativo o una consultazione elettorale che porta alla formazione di un
nuovo gabinetto, e produce instabilità governativa.
Un’ultima sottigliezza: Przeworski et al. affermano che la ricchezza è una condizione sufficiente
per la sopravvivenza democratica. I paesi che superano una certa soglia di ricchezza tendono a
rimanere democratici per sempre se, per qualunque ragione, lo diventano. L’affermazione che la
ricchezza è sufficiente ad assicurare il consolidamento democratico porta a un risultato
sorprendente - la scelta delle istituzioni politiche come la combinazione tra multipartitismo e
presidenzialismo, tende ad avere un effetto maggiore sulle probabilità di sopravvivenza della

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democrazia nei paesi poveri piuttosto che in quelli ricchi. Questo perché la democrazia ha buone
probabilità di sopravvivere nei paesi ricchi indipendentemente dal fatto che abbiamo scelto o meno
le istituzioni più efficaci. La scelta istituzionale conta molto di più nei paesi poveri che nei paesi
ricchi, quantomeno per quanto concerne il consolidamento democratico. Questo risultato è
sorprendente perché gli approcci utilizzati in quest’area prevedono che le istituzioni formali siano
più importanti nei paesi ricchi che nei paesi poveri.
Infine, mentre la scelta tra presidenzialismo e parlamentarismo viene affrontata in maniera esplicita
dagli estensori della costituzione, la dimensione del sistema di partito non è sottoposta interamente
al loro controllo diretto. Tuttavia, gli studiosi di politica comparata sanno un bel po’ di cose sulle
ragioni per cui alcuni paesi hanno molti partiti, mentre altri ne hanno pochi. Possiamo aspettarci
che un paese caratterizzato da alti livelli di eterogeneità sociale produca un parlamento altamente
frammentato, a meno che non vengano adottate specifiche istituzioni elettorali con l’obiettivo di
ridurre il numero dei partiti. I risultati presentati in questo paragrafo indicano che, se si sceglie una
costituzione presidenziale, l’adozione di leggi elettorali permissive è probabile che crei problemi.
In presenza di eterogeneità sociale, ci si può aspettare che delle eleggi elettorali permissive
producano il multipartitismo che, combinato con il presidenzialismo tende inibire il consolidamento
democratico.
La scoperta di Przeworski et al. sull’apparente sufficienza della ricchezza potrebbe suggerire che i
paesi relativamente ricchi abbiano un margine di errore più ampio nella scelta delle proprie
istituzioni, rispetto ai paesi poveri. Ciò potrebbe spiegare perché alcuni regimi multipartitici
dell’America Latina sono riusciti a restare democratici sin dall’ondata di democratizzazione che
ebbe inizio in quell’area a metà anni Ottanta. Molti di questi hanno superato la soglia magica di
ricchezza indicata a Przeworski et al. sopra la quale la democrazia è immune da crolli.

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