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RELAZIONI INTERNAZIONALI II RIASSUNTO

CAPITOLO 1 - STATO E RELAZIONI INTERNAZIONALI


1. I CONFINI DELLA DISCIPLINA
Le relazioni internazionali designano contemporaneamente la disciplina e la
realt da essa studiata, ma tre le due non c' assoluta coincidenza.Le relazioni
internazionali possono apparire a prima vista storicamente onnipresenti, anche
se la loro natura cambia a seconda della natura delle unit politiche
protagoniste (poleis, imperi, stati ecc). Tuttavia l'esistenza di relazioni
internazionali presuppone che esse si svolgano tra unit politiche in grado di
distinguere tra sfera interna ed esterna; non esistono propriamente quindi in un
contesto come quello del Medioevo, con la sua combinazione tra universalismo
e particolarismo: solo dopo il suo passaggio le relazioni internazionali
assumono la forma che ora conosciamo. Come disciplina, invece, le relazioni
internazionali piuttosto recente; si sviluppa a partire dal 1919 in UK dove
viene istituita la prima cattedra di International Politics. La teoria delle Relazioni
internazionali si sempre rivola al secolo a cui appartenuta, in particolare al
secolo della guerra fredda; per questo spesso si perdere la consapevolezza che
la politica internazionale come la conosciamo solo un determinato modello di
politica delimitato storicamente e geograficamente.
2. IL SISTEMA POLITICO INTERNAZIONALE MODERNO
Il presunto dato di fatto della politica internazionale come politica interstatale
su scala planetario (in cui appunto gli attori principali sono stati che operano in
un mondo che un sistema politico, economico, giuridico unitario) costituisce
in realt il risultato di un processo storico relativamente recente. Ancora alla
fine del '400 il mondo era diviso in diversi sistemi internazionali pre-globali privi
di rapporti; il mondo cominci ad essere percepito come un'unit solo per
effetto dell'espansione europea del XVI-XVIII secolo. Durante poi la seconda
met dell'800, con il consolidamento del sistema capitalistico mondiale e
l'integrazione delle diverse aree regionali in un unico teatro politico-strategico
(colonizzazione), il sistema e la societ internazionale subiscono un'effettiva
unificazione.
Politica internazionale e politica interstatale ai giorni nostri sembrano ormai
potersi equiparare: questo perch il passaggio dall'era Medievale e quella
moderna avviene proprio in connessione con l'affermarsi dello stato
(caratteristiche: piena sovranit, non riconoscimento di autorit superiori a s,
pretesa di fedelt esclusiva da parte della popolazione, esistenza di confini ben
precisi). Nel 1648, con la pace di Vestfalia, abbiamo l'atto di nascita definitivo
del sistema internazionale moderno, con la confluenza dell'insieme di processi
che hanno condotto alla nascita di un nuovo ordine politico e giuridico
moderno, con il fallimento dell'ultimo tentativo di riunificazione del continente
europeo sotto lo scettro imperiale e la fine della guerre civili e religiose.
2.1 Anarchia, insicurezza e guerra
Il primo contrassegno del sistema politico internazionale moderno la
mancanza di governo, e in questo la differenza tra politica interna e politica
internazionale. Questa condizione in cui in mancanza di un governo mondiale
ogni soggetto costretto a prendersi cura di se stesso viene definito anarchia

internazionale. Tuttavia la mancanza di governo del sistema non lo rende


disordinato, anzi una delle questioni principali delle Relazioni internazionali
proprio come ottenere l'ordine malgrado l'anarchia.
Trovarsi in un ambiente privo di governo comporta il trovarsi all'interno di
quello che Hobbes definiva 'stato di natura': la mancanza di un'autorit
condanna ciascuno a preoccuparsi delle intenzioni degli altri, che possono
apparire sospette o essere del tutto fraintese. Infatti anche quando nessuno tra
gli stati ha intenzione di attaccare gli altri, essi possono continuare a temere
che le rispettive intenzioni siano minacciose e possono sentirsi costretti ad
accumulare in anticipo potenza per la difesa (dilemma della sicurezza);
tuttavia l'accumulo di potenza provoca un comportamento corrispondente
anche da parte degli altri stati, in una 'corsa agli armamenti'. La mancanza di
un'agenzia centrale che possieda il monopolio esclusivo della violenza legittima
(come all'interno di uno stato), legittima l'uso della forza da parte dei singoli
stati, quantomeno in nome del principio di autodifesa.
Le grandi tradizioni di pensiero che hanno accompagnato la riflessione sul
sistema internazionale moderno in questo contesto sono tre:
1. Tradizione hobbesiana: si fonda sull'analogia tra qualunque forma di
anarchia e quella internazionale. Tuttavia l'anarchia non condanna ad
un'onnipresenza della violenza, poich ognuno provvede da s alla
sicurezza in mancanza di una forza politica unitaria.
2. Tradizione groziana: nessun contesto sociale pu sopravvivere senza
soddisfare gli obiettivi primari di qualunque convivenza (secondo H. Bull:
limitazione della violenza, mantenimento delle promesse, stabilizzazione
del possesso) e quindi anche il sistema internazionale ha sviluppato le
proprie istituzioni per mantenere l'ordine, per esempio le conferenze
internazionali e il diritto internazionale moderno. La guerra viene quindi a
sua volta vincolata entro precisi limiti di legittimit e svolge un ruolo
essenziale nel mantenimento dell'ordine internazionale.
3. Tradizione kantiana: tenta di liberarsi del tutto della guerra con il
superamento della condizione di anarchia, attraverso la creazione di
istituzioni, organizzazioni, governi internazionali.
2.2 Anarchia o anarchie? La politica internazionale come politica
interstatale
L'analogia tra stato di natura hobbesiano e anarchia internazionale solo
apparente.
La prima differenza tra loro appartiene alla dimensione del potere. Lo stato di
natura hobbesiano infatti presuppone una mancanza di governo e la capacit
dei soggetti di nuocersi in maniera uguale; l'anarchia internazionale, invece,
non ha questa particolarit. Nel contesto internazionale proprio questa
diseguaglianza di potere pu essere vista come surrogato di un governo
centrale, cio il motivo per il quale il sistema internazionale non vive in una
condizione di guerra perenne (es: nessun attore o coalizione pu in questo
momento mettere in discussione legemonia globale degli USA). Inoltre si pu
dire che sistema abbia una natura oligopolistica [Aron, Waltz]: malgrado la
progressiva crescita in numero degli stati negli ultimi decenni, lineguaglianza
di potere ha fatto s che il numero di giocatori competitivi sia stato di fatto
sempre pi piccolo.

La seconda differenza tra lanarchia internazionale e le altre forme di anarchia


sta nel fatto che gli attori possono avere relazioni pi o meno continue tra loro
(alleanze, rapporti diplomatici); nello stato di natura hobbesiano invece gli
uomini sono sempre essenzialmente isolati. In questo sta appunto il significato
del termine sistema internazionale.
La terza e decisiva differenza che al posto della guerra contro tutti dello
stato hobbesiano, nellanarchia internazionale moderna non tutti i soggetti
sono ammessi alluniverso della pace e della guerra, perch per farlo
legittimamente sono tenuti ad assumere una forma determinata, e cio
diventare degli stati e rispettare le procedure della societ e del diritto
interstatale: il principio della sovranit si imposto come principio normativo
fondamentale o costituzionale della politica internazionale, e gli stati sono gli
unici soggetti autorizzati a creare norme, amministrarle, interpretarle,
legittimarle, mutarle ecc. e ancora oggi i popoli e le nazioni vedono nella
costituzione di un proprio stato il proprio riconoscimento.
3. IL SISTEMA INTERSTATALE COME ECCEZIONE STORICA
Lequiparazione tra politica internazionale e politica interstatale dunque
continua a dominare il nostro modo di percepire le relazioni internazionali,
tanto che quando si parla di assetto del sistema si parla ancora di unipolarismo
e multipolarismo, e che nella condanna al terrorismo internazionale si da per
scontato che certi soggetti non sono legittimati allutilizzo della violenza e agli
s. Tuttavia necessario ricordare che oltre ad essere recente, questa visione
uneccezione storica che nata a partire dal XVI secolo ma che era stata
preceduta da qualcosa di diverso [Wight]. Infatti nella maggior parte
dellesperienza storica europea hanno convissuto molteplici forme di omaggio,
dipendenza e semidipendenza (es: feudalesimo) ora inesistenti; al posto
dellidea moderna di confine, il potere di ogni unit politica degradava a poco a
poco fino ad intrecciarsi con quello delle altre; la convivenza internazionale
prevedeva soggetti diversissimi tra loro quali imperi, citt-stato ecc. Al di l dei
modelli di sistemi che hanno delle comunanze con quello odierno (grecoellenistico, quello cinese dei regni combattenti, quello italiano del 1450
[Watson, Wight]), la sua particolarit risiede nellavere un sistema diplomatico
altamente istituzionalizzato, una classe formalmente riconosciuta di grandi
potenze e un diritto internazionale.
3.1 Il carattere circoscritto e parziale della politica interstatale
Laspetto interstatale delle relazioni internazionali ha sempre costituito uno
spazio chiuso e circoscritto, attorno al quale ha sempre continuato a fiorire una
societ transnazionale fatta di scambi commerciali, migrazioni, credenze
comuni, istituzioni, e composta da altri soggetti oltre agli stati quali le
compagnie commerciali, le chiese, le imprese multinazionali: le relazioni
interstatali non esauriscono le relazioni internazionali. Tuttavia lequilibrio tra
relazioni interstatali e relazioni internazionali non-statali sembra aver raggiunto
una soglia critica nel corso dellultimo secolo: durante la guerra fredda da una
parte nel blocco ovest si sono andate a creare delle relazioni commerciali ed
economiche tali da creare un interdipendenza complessa fatta da attori
sempre pi vari: non solo stati ma organizzazioni internazionali,
intergovernative, non-governative ecc.; dallaltra si sono fatte pi pressanti
questioni come quella ambientale che prescindono la geometria politica e

giuridica degli stati e anche lintervento di un solo stato senza il concorso di


tutti gli altri.
3.2 Verso la crisi del sistema interstatale?
Ormai ad essere scossa dalle fondamenta appare larchitettura stessa della
politica internazionale come politica interstatale, sfidata non solo dal terreno
economico-commerciale o dalle emergenze ambientali, ma anche dal
riemergere di soggetti non-statali tanto competitivi militarmente da violare la
sicurezza degli stati (vedi 11 settembre 2001).
Nella crisi dello stato nelle relazioni internazionali convergono due processi
opposti: il primo sta nel fatto che a differenza del sistema regionale europeo e
americano, tutti i sistemi interstatali regionali che compongono lattuale
contesto sono sorti nellultimo secolo sulle rovine di precedenti sintesi
imperiali, creando in molti casi dei quasi-stati falliti (perch riconosciuti ma non
in possesso di uneffettiva statualit empirica, o viceversa) che non distinguono
tra politica interna e internazionale, tra guerra civile e guerra tra stati e che
sono sfidati da legami di fedelt subnazionali o sovranazionali. Il secondo
processo sta nel logoramento stesso dellimportanza dello stato nelle relazioni
internazionali, che avvenuto sia sul piano delleffettivit (a causa dei processi
di interdipendenza e della globalizzazione che hanno portato gli stati a cedere
parte delle proprie prerogative, come ad esempio successo con la creazione
dellUE, anche se lo stato continua a mantenere il monopolio sulla violenza
legittima) che della legittimit (la sfida consiste nellemergere di una visione
fondata non pi sul particolarismo della societ degli stati ma sul
cosmopolitismo di una societ globale i cui soggetti non sono pi gli stati ma gli
individui).
4.
LA
DISCIPLINA
CONTEMPORANEA
DELLE
RELAZIONI
INTERNAZIONALI
La particolarit della disciplina sta nellessersi sempre mossa in una prospettiva
storicamente e geograficamente ristretta. La maggior parte della letteratura
contemporanea ha assunto lanarchia e la centralit degli stati come punto di
partenza: questo vale soprattutto per la tradizione realista [Morgenthau] e
neorealista [Waltz, Giplin, Mearsheimer], ma anche per le tradizioni ad essa
opposte, come quella della pace democratica. Inoltre le Relazioni internazionali
hanno sempre finito per privilegiare sempre le vicende ad essa contemporanee
del sistema bipolare prima e del sistema unipolare poi, e sulle sue istituzioni
(ONU, FMI, WTO ecc).
4.1 Una scienza americana?
Ad aggravare il rischio di una distorsione prospettica della disciplina concorre
anche una terza particolarit, e cio il fatto che da sessantanni a questa parte
il centro di tutti i maggiori dibattiti a riguardo siano universit, riviste, centri di
ricerca statunitensi. Questa disciplina accademica le relazioni internazionali
sono rimaste una disciplina americana; una scontata conseguenza di ci la
costante centralit dei problemi posti dallopinione pubblica e dalla comunit
scientifica statunitense.
Una prima conseguenza che solo dopo gli anni 70, con la diffusione della
psicosi del declino americano, la disciplina si occupata del tema del

mutamento internazionale, sempre per declinato in termini di ascesa e declino


delle grandi potenze egemoniche [Giplin].
La seconda conseguenza riguarda il fatto che la prospettiva delle Relazioni
internazionali ha ricalcato sempre quella del paese che ascendeva a creatore e
garante dellordine internazionale (gli USA appunto) fondata su unimmagine
progressiva e ottimistica con il superamento della vecchia politica
internazionale grazie a principi valori ed istituzioni nuove, quasi sempre create
dagli Stati Uniti stessi.
La terza conseguenza riguarda il fatto che la riflessione contemporanea ha
finito per ignorare o marginalizzare temi comunque centrali: la fine della
centralit europea, ad esempio. La distorsione prospettica principale per
risiede nel fatto che la disciplina adotta il punto di vista di un paese con
caratteristiche di eccezionalit: un paese forte e in grado di isolarsi dalla
competizione politica e militare altrui, che assume quindi prospettive del tutto
diverse da quelle delle potenze europee e non-europee sugli stessi problemi.
4.2 Le relazioni internazionali e i traumi storici del Novecento
Tuttavia ad ispirare la riflessione contemporanea non stato solo il punto di
vista americano, ma lo svolgimento travagliato dello stesso 900. proprio in
questo secolo che la disciplina nasce grazie al clima culturale positivistico e di
volta in volta la selezione dei problemi e dei metodi per affrontarli sono stati
influenzati da ci che veniva richiesto dal pubblico e dai decisori politici. La
prima cattedra di International Politics nasce nel 1919 in Galles, e il problema
principale che essa si poneva era proprio quello della guerra come patologia
sociale alla luce della guerra del 14-18.
Il primo approccio contemporaneo infatti denominato Idealismo, che si
programmava di liberare la politica internazionale da quelle che fino ad allora
erano considerate caratteristiche ineliminabili: guerra e anarchia, le cui cause
vengono identificate in:
1. La frammentazione delle relazioni politiche internazionali in opposizione
allinfittirsi delle interdipendenze economiche e commerciali con attori
sempre pi vari
2. La struttura anarchica della politica internazionale e la visione della
sicurezza nazionale come gioco a somma zero (equilibrio di potenza,
diplomazia segreta vs nuovi meccanismi di sicurezza collettiva)
3. La natura belligerante di tutti gli stati e la necessaria trasformazione di
essi in senso democratico e liberale.
Il fallimento di questa corrente, sanzionato dalla 2GM, port alla nascita della
corrente del Realismo, che rifiuta la fiducia dellIdealismo di cambiare alla
radice la natura della politica internazionale, ma si fonda sulla sua immutabilit
basata su una visione pessimistica della natura umana [Morgenthau] o sulle
condizioni di costrizione che gravano su tutti gli individui a causa dellanarchia
internazionale [Waltz]: la guerra assume cos il compito di garantire la pace o di
prevenire guerre peggiori. Si recuperano cos il concetto di sicurezza nazionale
e di alleanze, mettendo laccendo sul potere come unica garanzia nei confronti
delle strategie di pace o di guerra.
Allepoca della guerra fredda legemonia culturale del realismo venne sfidata
dal processo di riorganizzazione dei processi culturali ed economici tra
Occidente e mondo (vedi decolonizzazione), dalla diffusione di programmi di
trasformazione della vita internazionale (vedi Conferenza di Bandung) e dalla

consapevolezza che la fine del dominio politico non avrebbe spezzato i legami
economici tra stati: su questa prospettiva si basa il Neomarxismo, che
individua nelle relazioni economiche la chiave dellordine internazionale. Non
erano tanto le relazioni tra stati il luogo per eccellenza di gerarchia e conflitto,
ma la logica stessa delleconomia capitalistica mondiale e i suoi legami di
dominio. Lapproccio neomarxista offr tre contributi alla disciplina: il
riorientamento delle dinamiche politico-economiche globali dallasse Est-Ovest
allasse Nord-Sud articolato in centro/periferia/semiperiferia; la riscoperta del
lungo periodo cio di un arco temporale che va dal 500 ad oggi per
comprendere la formazione del capitalismo; la nuova importanza data ai settori
sociali il cui potere interno dipendeva dalla divisione del lavoro internazionale.
Tuttavia leccentricit della teoria la port a rimanere nellombra a causa anche
del crollo dellURSS e dello sviluppo delle tigri asiatiche.
Destino opposto ebbe lIstituzionalismo liberale, teoria nata dalla
constatazione che dopo le grandi guerre una parte sempre maggiore delle
relazioni internazionali riguardasse temi economici e ambientali che non
avevano pi a che fare con la preoccupazione realista della sicurezza militare.
Gli istituzionalisti e il loro principale apporto teorico, la teoria dei regimi
internazionali, posero laccento sul fatto che le istituzioni che si erano create
tra le democrazie occidentali durante la guerra fredda e che comprendevano
un numero sempre crescente di questioni e attori fossero in grado di sostenere
per conto proprio la cooperazione tra gli stati, abbassando i costi di transazione
legati al raggiungimento di accordi internazionali, riducendo lincertezza e
fornendo info sulle preferenze e le intenzioni altrui, diminuendo inoltre la
propensione allinganno.
Neorealismo e liberismo, tuttavia, rimangono in accordo nelle premesse: che gli
stati sono gli attori principali, che sono egoisti razionali, che la loro identit sia
indipendente da fattori ideazionali e di apprendimento. Proprio contro queste
premesse nasce lapproccio del Costruttivismo, che pone laccento proprio su
fattori ideazionali (norme, idee condivise) che possono ridefinire lidentit e gli
interessi degli attori, superando cos il paradigma statocentrico. Questa
corrente trov forza nel declino e nella fine della guerra fredda, che pose il
problema del ripensamento dellordine internazionale guidato dal richiamo alle
idee democratiche e liberali uscite vincitrici. Da qui nasce la fiducia del
costruttivismo nelle istituzioni, e a essere messa in discussione fu la natura
stessa dellanarchia internazionale e la presunta propensione alla sfiducia e al
conflitto.
Tuttavia, soprattutto dopo il trauma dell11 settembre 2001, gli USA e tutti i
principali attori hanno cercato di recuperare concezioni e pratiche della
sicurezza di impianto tradizionale. Quello che pi caratterizza lattuale ordine
internazionale la diffusione di soggetti non-statali e la rilevanza di valori e
fattori ideazionali declinati per non pi come elemento di unificazione ma
come terreno per una prossima stagione di conflitti tra civilt.

CAPITOLO 2 EQUILIBRIO DI POTENZA


1. LA TEORIA DELLEQUILIBRIO DI POTENZA
1.1 Definizione di equilibrio di potenza
Lidea di equilibrio di potenza nata con lorigine stessa della pratica della
politica internazionale. Si pu considerare il balance of power come un modello
basato sulla sovranit e lassenza di un governo mondiale, cio proprio le
caratteristiche del sistema europeo dopo la pace di Vestfalia del 1648 [Claude].
Tuttavia questo concetto stato ripreso in circostanze cos diverse da rischiare
di perdere la propria specificit; ha assunto ben 9 significati; :
1. Unuguale distribuzione di potenza
2. Il principio secondo cui la potenza dovrebbe essere ugualmente
distribuita
3. La distribuzione di potenza esistente, di qualsiasi tipo
4. Il principio secondo cui le grandi potenze si rafforzano ugualmente a
spese di quelle deboli
5. Il principio secondo cui bisognerebbe avere un margine di forza
sufficiente a prevenire il pericolo di una distribuzione ineguale di potenza
6. Preponderanza
7. Una tendenza della politica internazionale a produrre unuguale
distribuzione di potenza e quando seguita dal verbo mantenere, si
intente mantenere
8. Un ruolo speciale nel conservare unuguale distribuzione di potenza
9. Un vantaggio speciale nellattuale distribuzione di potenza
La migliore definizione invece si riferisce a una condizione del sistema
internazionale nella quale nessun attore o coalizione pu dominare tutti gli
altri. Questa situazione richiede due condizioni: che la distribuzione di
potenza sia diffusa in modo che lattore pi forte non sia in grado di
sconfiggere tutti gli altri insieme, e che gli attori abbiano una
tendenza alla politica di bilanciamento (balancing) e non a quella di
squilibrio (bandwagoning). Gli effetti di una condizione di equilibrio sono
molti: il sistema rimane plurale e anarchico poich non esiste una gerarchia; gli
attori principali sopravvivono anche quando poco potenti perch facilitati nel
trovare alleati per una comune difesa; ci saranno meno guerre poich si genera
una situazione di mutua deterrenza. Infatti la teoria dellequilibrio non una
teoria della fine della guerra, ma una teoria della continuazione dello
stato di tregua.
1.2 Equilibrio di potenza e realismo
Questa teoria fortemente influenzata dalla tradizione realista per tre motivi:
entrambi hanno una visione ciclica della storia, poich nella politica
internazionale ci sono delle leggi eterne ed immutabili; la teoria si basa sugli
stessi assunti del realismo (stato come attore principale, la condizione
anarchica del sistema, lenfasi sulla questione della sicurezza: il
comportamento degli stati dovuto alla loro posizione nella gerarchia del
sistema e non a fattori ideazionali); lequilibrio si basa su fattori oggettivi e
sullinteresse individuale degli stati, in linea con il realismo.

Tuttavia allinterno della tradizione realista ci sono due punti di vista sul
funzionamento dellequilibrio: il realismo classico ritiene che esso emerga
volontariamente, mentre il neorealismo ritiene che si verifichi
spontaneamente a causa dei logiche sistemiche, e si tratta di un
effetto derivante dalla volont degli stati di accumulare sicurezza. Un
esempio di teoria dellequilibrio di primo tipo afferma che per il suo
funzionamento sia necessario rispettare tre principi: gli stati dovrebbero
cercare di aumentare le proprie capacit pacificamente se possibile, con la
forza se necessario; gli stati dovrebbero opporsi a qualsiasi stato o coalizione
che cerchi di assumere il predominio; gli stati in guerra dovrebbero fermarsi
prima di eliminare lo stato avversario che deve essere poi reintegrato nel
sistema.
Un discorso a parte merita invece la posizione della Scuola inglese, a met tra
liberismo e realismo: per essa lanarchia non costituisce uno stato di natura
hobbesiano privo di regole, ma anzi tali regole sono presenti e consentirebbero
il mantenimento dellordine internazionale e il perseguimento di alcuni obiettivi
primari (mantenimento dellindipendenza degli stati e della societ
internazionale).
Lequilibrio sarebbe quindi una norma generalizzata di condotta propria del
sistema qualora gli stati riconoscano le stesse norme e facciano parte di una
stessa societ, in assenza delle quali si mirerebbe invece alla reciproca
eliminazione.
2. FUNZIONAMENTO DELLEQUILIBRIO
2.1 Lequilibrio di potenza come teoria sistemica
La versione attualmente pi influente dellequilibrio di potenza quella
appartenente al neorealismo. Per Waltz, suo fondatore, il sistema
internazionale composto da unit, gli stati, e dalla struttura nella quale esse
operano, che composta da tre elementi: il principio ordinatore (anarchico
o gerarchico), la differenziazione funzionale tra le unit, la
distribuzione delle capacit tra le unit. Nel contesto internazionale il
principio ordinatore anarchico, dunque non vi differenziazione funzionale
(ogni stato provvede a se stesso secondo il principio del self-help) e lunica
variabile rilevante la distribuzione di potenza.
Tuttavia c naturale tendenza allequilibrio, poich il principio del self-help
induce gli stati a schierarsi con il pi debole contro il pi forte (balancing) e non
viceversa (bandwagoning), per evitare di ritrovarsi prima o poi alla merc dello
stato pi minaccioso e espansionista; in questo modo inoltre uno stato pu
massimizzare la propria influenza sullo stato pi debole con il quale si allea.
Questo punto di vista denominato dagli stessi neorealisti sistemico poich a
differenza delle teorie precedenti, considerate riduzioniste, questa dipende
dalla natura anarchica del sistema a prescindere dalle singole intenzioni.La
politica internazionale ha quindi delle caratteristiche omeostatiche: quanto
pi forte lo shock che minaccia lequilibrio tanto pi forte lincentivo a
contrastarlo.
Opposta alla teoria dellequilibrio di potenza quella del dominio, che si basa
sul bandwagoning e sullo stravolgimento del sistema anche a fronte di piccoli
cambiamenti.
2.2 La flessibilit degli allineamenti

In entrambe le sue versioni, la teoria dellequilibrio sottintende che gli stati si


alleino in base a condizioni esterne e non in base alle loro preferenze
ideologiche o caratteristiche intrinseche, dalla loro identit. Gli allineamenti
variano quindi in base ai cambiamenti di potere relativo degli stati; le relazioni
tra gli stati sono quindi decifrabili solo in riferimento ad un terzo contro il quale
lalleanza si formata non in base alla sua identit ma in base alla sua
potenza. Infatti i teorici dellequilibrio sottolineano come le alleanze tendano a
non sopravvivere una volta sconfitta la minaccia contro la quale si erano create
(la NATO si dovrebbe quindi sciogliere o allentare prima o poi). Lalleanza URSSUSA contro la minaccia nazista una prova empirica di quanto detto.
3. TIPI E FORME DI EQUILIBRIO
3.1 Bipolarismo e multipolarismo
Un dibattito sorto riguardo la propensione allequilibrio di vari tipi di sistemi
internazionali. Il realismo classico ha sostenuto la sua preferenza per il
multipolarismo: se le risorse sono divise tra un numero di stati maggiore di due
sar possibile mobilitarsi contro qualunque stato manifesti propensioni
espansionistiche con risorse certamente superiori alle sue, e lavversario
disperder tra tutti gli stati la sua attenzione. Inoltre la presenza di pi attori
principali rende possibile una risposta diplomatica al riarmo di un potenziale
avversario, evitando la corsa agli armamenti (internal balancing) e ricorrendo
ad alleanze (external balancing).
La critica pi radicale alla stabilit del multipolarismo viene dai sostenitori del
bipolarismo appartenenti al neorealismo. Per loro le superpotenze di un sistema
bipolare sono pi grandi ed autosufficienti di quelle di uno multipolare perch
possono contare sulla met circa delle risorse globali, e in quanto pi semplici i
sistemi bipolari possiedono una maggiore stabilit.
La consapevolezza che la minaccia effettiva pu provenire solo dallaltra
superpotenza diminuisce la possibilit di disperdere risorse verso questioni
secondarie; inoltre dal momento che nessun altro stato a parte le due
superpotenze possiede le risorse necessarie per resistere ad un attacco di una
delle due, solo laltra pu farsi effettivamente carico di rispondere alla
minaccia, e non vi rischio che gli stati scarichino il barile (buckpassing):
lazione di una superpotenza provocher necessariamente la reazione
dellaltra. Un altro elemento negativo di cui i sistemi bipolari sarebbero privi
la sindrome del chainganging, ovvero dellinclinazione a incatenarsi ai propri
alleati rischiando di venire coinvolti in crisi locali (un esempio empirico di ci
il periodo prima della IGM); in un sistema bipolare le superpotenze non si
faranno invece smuovere da cambiamenti minori negli allineamenti diplomatici.
Il rischio di buckpassing e chaingainging producono il dilemma della sicurezza
delle alleanze: gli stati temono di essere abbandonati dai propri alleati ma
anche di rimanere intrappolati da essi a perseguire obiettivi altrui.
Tuttavia il bipolarismo accentua lostilit politica tra le parti perch le due
superpotenze sono completamente concentrate luna sullaltra: la stabilit della
guerra fredda sarebbe quindi dovuta alle armi nucleati e alla reciproca
deterrenza.
3.2 Equilibrio della minaccia
Un altro dibattito riguarda la natura delle variabili che influenzano il
comportamento di bilanciamento e lequilibrio stesso. La teoria ortodossa
presuppone che la variabile critica sia la potenza di uno stato, allapparenza

semplice grazie alla teorica facilit con cui si pu calcolare la potenza di uno
stato; tuttavia questa in realt molto difficile da calcolare in precedenza,
tanto che ci sono diversi episodi empirici dove essa sembra non funzionare
(es.: dopo la IIGM, moltissimi stati si sono alleati con gli USA malgrado lURSS
fosse dotata oggettivamente di capacit inferiori). Per questo Waltz introduce
una teoria pi complessa basata non sulla potenza ma sulla minaccia: gli

stati non creano alleanze contro quello pi potente, ma


contro quello percepito come pi minaccioso.

La minaccia a sua volta composta da quattro variabili:


potenza aggregata (la capacit a disposizione di uno stato),
tecnologia militare,
geografia (in generale, le potenze continentali sono percepite come pi
minacciose di quelle marittime, secondo le massime il mio vicino mio
nemico e il vicino del mio vicino mio amico),
intenzioni (a parit di capacit, uno stato con intenzioni aggressive
percepito come molto pi pericoloso).
Il principale pregio dellequilibrio della minaccia consiste in una maggiore
accuratezza descrittiva, poich in grado di spiegare alleanze inspiegabili
altrimenti; tuttavia ogni mancato comportamento di bilanciamento rischia di
essere ascritto semplicemente ad una diversa percezione delle intenzioni altrui.
3.3 Equilibrio di potenza e preferenze degli stati
Lultima questione riguarda il rapporto tra balance of power e preferenze
originate dalla natura interna degli stati. In questo senso, tradizionalmente si
distingue tra potenze conservatrici e potenze revisioniste, contro le quali si
innescano i meccanismi di bilanciamento.
Riferendosi a quella che appunto la natura interna degli stati, Aron classifica i
sistemi internazionali in omogenei (nei quali le potenze sono caratterizzate da
visioni di politica e ideologie conservatrici e compatibili tra loro) ed eterogenei
(in cui una o pi potenze hanno visioni radicalmente diverse). I sistemi
eterogenei sono intrinsicamente meno stabili a causa dellagenda
rivoluzionaria degli stati che li compongono, e i conflitti saranno molto
pi sanguinosi poich coinvolgono lidentit stessa dei regimi che li
combattono.
Secondo il realismo difensivo, il meccanismo dellequilibrio di potenza tende ad
essere un sufficiente deterrente per la maggior parte degli stati perch questi
cercano sicurezza e si accontentano quando ne raggiungono un ragionevole
livello; solo pochi stati, per ragioni attribuibili alla politica interna appunto,
vogliono anche massimizzare il proprio potere e lequilibrio fallisce perch una
efficace deterrenza contro stati di questo genere molto difficile.
Snyder,
esponente
del
neoclassicismo,
studia
il
fenomeno
della
sovraespansione (over-expansion), ovvero la tendenza di alcuni stati a politiche
aggressive che generano reazioni tali da portare alla loro totale sconfitta.
Snyder distingue tra industrializzatori precoci con un sistema democratico e
industrializzatori tardivi con un sistema pi chiuso e un assetto economico
corporativo. I primi hanno politiche meno aggressive, i secondi invece possono
cadere preda di coalizioni tra gruppi dinteresse specialistici che possono

imporre una politica estera espansionistica scaricandone i costi sulla


popolazione.
Schweller considera importanti le intenzioni degli stati per il funzionamento
dellequilibrio di potenza, poich stati revisionisti e conservatori raramente si
alleeranno tra loro. Vi sono quattro tipi di stati: quelli orientati alla difesa dello
status quo (i leoni, come lUK), quelli interessati allo status quo ma pi deboli
(gli agnelli, come lEuropa dellest), quelli orientati al revisionismo (i lupi, come
la Germania) e quelli che sperano di guadagnare vantaggi opportunistici da un
cambiamento degli assetti internazionali (gli sciacalli, come lItalia): la stabilit
dipender anche dalla presenza sufficiente di leoni e agnelli in
contrapposizione a lupi e sciacalli. Schweller introduce unaltra variabile, che
la capacit estrattiva: uno stato che intenda contrastare una minaccia
deve infatti poter mobilitare le risorse a sua disposizione, e la
strategia migliore dipender dal grado di consenso tra le sue elite
politiche, dal grado di coesione sociale e politica e dalla forza delle
sue istituzioni. Se queste variabili assumono valori bassi. Invece del
balancing si tender allunderbalancing (es.: bandwagoning).
A queste posizioni il neorealismo risponde con una visione offensiva per la
quale la natura anarchica costringe gli stati a massimizzare sempre e
comunque il proprio potere: qualunque stato cercher una posizione
egemonica e di dominio in quanto modo migliore per garantire la propria
sicurezza [Mearsheimer].
Riassumendo, per il realismo offensivo sufficiente che stati in
condizione anarchica vogliano sopravvivere perch si manifestino
politiche di bilanciamento; per il realismo classico anche necessario
che le grandi potenze vogliano e possano mantenere lequilibrio; per il
realismo eterodosso importante anche labilit diplomatica e
lideologia; per i realisti difensivi e neoclassici la capacit e la volont
di mantenere lequilibrio dipendono dalla politica interna.
4. RISCONTRI STORICI DELLEQUILIBRIO DI POTENZA
4.1 Equilibrio di potenza, guerra e stabilit
La letteratura ha cercato di verificare le aspettative empiriche dellequilibrio di
potenza, distinguendo tra esiti sistemici secondo cui un sistema in cui la
potenza distribuita in modo equilibrato tende ad essere stabile, e
comportamenti dei singoli attori del sistema, che tendono ad avere
comportamenti di bilanciamento di fronte ad un attore minaccioso.
Considerando la variabile indipendente dellanalisi, e cio la potenza, si
cercato di individuare le risorse che rendono potenti gli stati costruendo degli
indicatori di potenza. Il Correlates of War Project aggrega nel suo indice diverse
dimensioni della capacit degli stati: peso demografico, peso economico e peso
militare.
Tuttavia questapproccio sufficiente solo nei rapporti diadici; per studiare il
sistema nel suo complesso invece sono stati creati degli indici di
concentrazione che partendo dalle capacit dei singoli stati calcolano il grado
in cui sono diversamente dotati di risorse per distinguere in sistemi in cui la
potenza concentrata da quelli in cui diffusa.
Per quanto riguarda la variabile dipendente, e cio la guerra, abbiamo due
ipotesi: quella massimalista, che considera la guerra di per s, e secondo la

quale una distribuzione equilibrata di potenza porta alla riduzione della guerra
in generale, e quella minimalista, secondo la quale la distribuzione equilibrata
della potenza aumenta la stabilit del sistema: la guerra infatti produce sempre
una qualche forma di instabilit, ma bisogna distinguere secondo questa
ipotesi tra la guerra che riguarda la distribuzione delle risorse tra gli attori e
quella che mette in gioco la sopravvivenza stessa: la guerra essa stessa uno
strumento attraverso cui si cercato di mantenere lequilibrio. Per testare
questa ipotesi sono stati considerati sia i rapporti diadici, per verificare se attori
simili per potenza sono effettivamente dissuasi dal guerreggiare, che una
prospettiva sistemica, per capire quale grado di concentrazione di potenza nel
sistema sia associato alla stabilit o instabilit.
Secondo questo ultimo tipo di studi la teoria dellequilibrio di potenza
parzialmente confermata, poich nel XX secolo la magnitudine della guerra
sembra diminuire al crescere della concentrazione della potenza e della sua
stabilit, mentre nel XIX secolo essa sembra diminuire al crescere della
diffusione della potenza [Singer, Bremer, Stuckey].
4.2 Le aspettative empiriche alternative circa la stabilit
Le evidenze che confermano le aspettative empiriche dellequilibrio di potenza
spesso riguardano periodi circoscritti della storia internazionale; inoltre per
quanto riguarda i rapporti diadici ci sono delle critiche riguardo lidea per cui la
distribuzione equilibrata di potenza rafforzi i meccanismi di deterrenza. La
parit di potenza sarebbe proprio la condizione che rende pi probabile la
guerra. Questipotesi stata confermata da numerose ricerche; non per questo
tuttavia si pu concludere che lequilibrio di potenzia sia infondato, in quanto
dimostrare che la parit di potenza a livello diadico non favorisce la deterrenza
non equivale a dimostrare che nel sistema internazionale ci sia lo stesso limite.
Tuttavia alcune critiche hanno colpito lequilibrio di potenza proprio a livello
sistemico: infatti la guerra stata indagata nei sui attributi specifici,
chiedendosi quanta guerra si verifica e con quali caratteristiche. Per alcuni
autori questa prospettiva sarebbe incongruente con la teoria che deve
guardare, a loro avviso, al verificarsi della guerra e non alle sue caratteristiche.
Secondo Mansfield in realt per il rapporto tra distribuzione delle capacit
degli attori e loccorrenza della guerra cambierebbe: quando la potenza
diffusa la probabilit di guerra bassa, al crescere invece della sua
concentrazione la guerra sarebbe pi frequente, ma superata una certa soglia il
conflitto diminuirebbe nuovamente.
4.3 Equilibrio di potenza e politiche di bilanciamento
La tradizione dellequilibrio di potenza prevede che quando una attore cerca di
massimizzare la propria potenza e conquistare una posizione egemonica, la
risposta degli altri attori sar di opporre una quantit di potenza sufficiente a
riequilibrare i rapporti di forza. Il bilanciamento pu comunque avvenire in
diverse forme: lautorestrinzione dellegemone; con la presenza di politiche di
bilanciamento diplomatico; con la formazione di uno schieramento di
bilanciamento in una guerra generale.
Niou, Ordeshook e Rose costruiscono un modello della politica di alleanze che
parte dalla capacit delle grandi potenze assumendo che esse muovano guerra
senza minacciare la stabilit del sistema (e cio la sopravvivenza di un attore).
Analizzano il periodo tra il 1871 e il 1914 hanno trovato che le aspettative della

teoria dellequilibrio sono effettivamente attese: le alleanze sono state create


per bilanciare la coalizione pi forte. Doyle invece trova conferme regolari solo
in un periodo molto circoscritto di tempo, il XVIII secolo. Il bilanciamento
sarebbe quindi solo una delle risposte alle sfide al sistema. Schroeder sostiene
che tra il 1648 e il 1945 gli attori hanno perseguito strategie diverse, come il
sottrarsi dal conflitto (hiding), risolverlo attraverso un accorgimento
istituzionale (trascending), il bandwagoning; il bilanciamento sarebbe stata
invece una strategia rara e di ripiego.
4.4 Lequilibrio di potenza e il sistema internazionale contemporaneo
Non sono mancate critiche alla teoria dellequilibrio, che Cobden ritiene una
pura illusione, incompleta ed inefficace poich non contempla alcuno
strumento per limitare o annullare laumento della potenza relativa degli stati
che derivi da mezzi pacifici (commercio, produzione). Alcune critiche
sostengono come lequilibrio di potenza sia ormai obsoleto nel sistema
contemporaneo, dove cambiamenti tecnologici (che rendono sempre pi
difficile calcolare limpatto delle risorse degli stati) e di politica interna come al
massificazione della politica (che costringe gli stati a giustificare al pubblico le
proprie scelte, impedendo la flessibilit degli allineamenti per questioni
ideologiche) hanno inibito alcuni dei suoi meccanismi.
Ikenberry segnala tre possibili tipi di ordine nella politica internazionale:
quello dellequilibrio (spontaneo),
quello costituzionale (negoziato),
quello egemonico (imposto).
verso gli ultimi due che si spostata lattenzione negli ultimi decenni. A
questo riguardo dopo la IGM stato introdotto il concetto di sicurezza
collettiva, che introduce lobbligo legale a sostenere le vittime di un attacco
promettendo a tutti gli stati la protezione della comunit internazionale:
questo un sistema del tutto nuovo rispetto al balancing.
Nonostante le organizzazioni di sicurezza collettiva non abbiano avuto risultati
decisivi nel ridurre il fenomeno della guerra, al momento comunque
prevalente la volont di un loro miglioramento piuttosto che tornare
allincertezza dellequilibrio. Diversamente stato ipotizzato un mantenimento
della stabilit attraverso una chiara gerarchia di potenza con un attore
egemone (come nel caso degli USA).

CAPITOLO 3 EGEMONIA
1. LA TEORIA DELLEGEMONIA
1.1 Definizione di egemonia
Il termine egemonia applicato al sistema internazionale definisce la supremazia
di uno stato che ha una preminenza sulle altre unit statuali, preminenza che
pu variare dalla leadership al dominio e pu riguardare lintero sistema o solo
un sottosistema regionale. possibile descrivere la politica internazionale
come una successione di ordini imposti dalla potenza egemone di turno, che si
afferma generalmente attraverso una guerra di ampia portata [Giplin].
1.2 Il tema dellordine internazionale
Si possono suddividere le teorie dellegemonia fra olistiche (che riguardano il
sistema internazionale) e riduzioniste (che analizzano lo stato e le relazioni tra
di essi). Tutte sono per accomunate dallidea che la stabilit del sistema
dipenda da una concentrazione di potenza, cio da una sua
distribuzione diseguale ma ottimale allinterno del sistema ( lipotesi
opposta alle teorie dellequilibrio): tanto pi la disparit evidente, meno
sar probabile il ricorso alla guerra. Queste teorie muovono dalla
tradizione realista, allinterno della quale si incontrano entrambi i tipi di
approccio.
I teorici dellegemonia accettano la premessa della natura anarchica del
sistema, ma ritengono che la fonte massima di instabilit sia legata al declino
della potenza dominante che concede spazio alle aspirazioni degli sfidanti: per
ritardare questo momento legemone crea delle strutture politiche ed
economiche che innalzino la stabilit e la propria sicurezza [Giplin, Kennedy,
Organski, Kugler].
Lipotesi di fondo che lordine sia stabilito dallesito di una guerra
costituente che si conclude con la creazione del massimo ordine internazionale
possibile, la cui fase culminante corrisponde al momento immediatamente
successivo alla guerra; la solidit di ciascun sistema dipende dalla guerra che
lha generato e ci si chiede se la fragilit dellegemonia americana non dipenda
proprio dal tipo di conflitto che lha generata, la guerra fredda. La stabilit
dipende anche dalla quantit e la natura delle risorse dellegemone, dagli
impegni cui esso deve e vuole rispondere, dalla configurazione del sistema in
cui opera, dal tipo della sua egemonia (coercitiva, benevola, costituzionale),
dallattitudine comportamentale degli altri attori.
1.3 Egemonia tra impero e leadership
Il fatto che il sistema sia anarchico non significa che tutte le relazioni al suo
interno lo siano; in effetti esse possono essere e spesso sono di carattere
autoritativo. Lautorit non solo dipende da fonti di carattere giuridico-formale,
ma anche da quelle che vanno dalla religione allideologia. Abbiamo inoltre due
varianti di egemonia: quella fondata sul modello della leadership benevolente
(in cui solamente il leader fornisce il bene collettivo della sicurezza) e quella
basata sulla leadership coercitiva (in cui legemone usa il suo differenziale di
potenza per imporre la partecipazione allordine e la condivisione dei costi del
bene collettivo attraverso una tassazione de facto), in cui la seconda ha un
grado di legittimit minore ed pi esposta al rischio di sfide [Snidal]. La

particolarit dellegemonia che si caratterizza come un intermedio tra


influenza (esercizio benevolo di un potere persuasivo) e impero (esercizio
coercitivo di un potere coattivo). Aron infatti individua la pace dellegemonia
come un intermedio tra pace dequilibrio e pace dellimpero, anche se in realt
i primi due tipi possono coesistere: nel corso dell800 la UK traeva dal suo ruolo
di egemone globale risorse per agire come riequilibratore nel sottosistema
europeo, e anche nel corso della guerra fredda abbiamo avuto una pace
egemonica intra-occidentale e una pace dequilibrio tra USA-URSS, con logiche
e istituzioni differenti.
Gli stati in posizione egemonica hanno sempre cercato una legittimazione alla
propria supremazia, ma questa esigenza stata modificata recentemente a
causa dellemergere di un concetto di ordine internazionale pi solidaristico e
normativamente ambizioso (per effetto della progressiva istituzionalizzazione
del sistema politico internazionale), e per via della globalizzazione, che implica
la creazione di regole e istituzioni intrusive. Il caso del USA considerando i
rapporti con gli alleati, la condivisione di valori, la rilevanza del consenso e la
sua istituzionalizzazione non ha precedenti storici.
Ikenberry considera anche le ragion del perch alcuni stati optano per
lobbedienza alle potenze egemoni legittimando la loro supremazia, e basa la
propria argomentazione su tre tesi:
1. La natura dellordine successivo alle guerre generali cambiata e si
fonda su logiche istituzionali della gestione delle diseguaglianze in campo
di potenza
2. La capacit degli stati egemoni di utilizzare le istituzioni come
meccanismi di controllo dipende dalla rilevanza delle diseguaglianze e da
gap di potere con gli altri stati partecipanti
3. La logica istituzionale contribuisce a spiegare la stabilit dellordine post1945 tra le democrazie industrializzate
Su queste premesse vengono individuati tre tipi ideali di ordine internazionale:
lequilibrio di potenza, legemonia e il costituzionalismo. Legemonia diventa
quindi una delle modalit di realizzazione dellordine, in particolare se essa
realizzata attraverso istituzioni vincolanti (egemonia costituzionale) che
tutelano i pi deboli e consentono allegemone di esercitare il proprio potere
senza sprecare risorse politico-militari.
Ikenberry individua anche unegemonia nella quale sono assenti gli aspetti pi
coercitivi di dominio, come quella americana, possibile grazie alla natura
liberale dei suoi valori politici caratterizzati dal liberal internationalism (che sta
ormai venendo meno) e che si basa proprio sulla loro diffusione.
2. IL TEMA DE CAMBIAMENTO E IL RUOLO DEL CONFLITTO
Giplin spiega come i sistemi politici internazionali cambiano e che ruolo ha in
ci la guerra. Per Giplin il cambiamento articolato su tre livelli:
il mutamento dei sistemi (ad esempio da un sistema imperiale ad uno
statale),
il mutamento sistemico (che avviene per una frattura tra il sistema
sociale esistente e la ridistribuzione del potere nei confronti di quegli
attori che trarrebbero pi vantaggi da un cambiamento del sistema),

il mutamento di interazione.

Per Giplin solo la presenza di un egemone pu garantire la stabilit, ma questa


resa difficile dalla diseguale distribuzione del progresso economico e
tecnologico; inoltre con tempo si verifica un differenziale tra il prestigio degli
stati e il poter che sono in grado di dispiegare. Su questo gap insiste anche la
teoria della transizione di potere, secondo la quale i mutamenti di potere sono
considerati casus belli; quanto pi dunque sono distribuite le capacit
economico-militari tanto pi cresce la possibilit della guerra. La pace un
semplice risultato infatti della diseguale distribuzione di potere e non una
diretta volont dellegemone.
La relazione tra potenza relativa e aspirazioni dei singoli stati importante
anche nella teoria del ciclo di potere, secondo la quale ogni stato nel sistema
ha un ruolo che riflette il suo potere relativo, le sue aspirazioni e la loro
accettazione da parte del sistema; quando potere e ruolo non si equivalgono
crescono i rischi di conflitto. Questa teoria tuttavia critica la teoria della
stabilit egemonica, al contrario della teoria dei cicli lunghi, nella quale la
guerra egemonica o globale (quella che coinvolge la potenza leader; che vede
la partecipazione della maggior parte delle grandi potenze; che di grandi
dimensioni e violenta) considerata il fattore decisivo del mutamento politico e
un modo di selezionare la leadership, che da luogo a periodi di dominio globale
da parte di alcune potenze.
3.
LE
RISORSE
DELLEGEMONIA:
MILITARI,
ECONOMICHE,
INTELLETTUALI
3.1 La supremazia militare
Tutte le teorie insistono sulla necessaria presenza di una supremazia militare
pur non essendo questa una condizione di per s sufficiente. Nelle teorie
cicliche unimportanza cruciale rivestita dal potere marittimo e la potenza
navale poich riescono a proiettare la forza miliare su scala globale
permettendo anche di creare un sistema di transazione commerciale di vasto
raggio. Tuttavia il ruolo dellegemone non incide su tutte le transazioni che si
verificano a livello regionale, che dipendono anche dallo sfidante maggiore.
Quando esso stato continentale per spesso stato anche isolato
internazionalmente da coalizioni oceaniche (nel senso che al suo interno vi la
potenza egemone, marittima: infatti Moldeski colloca anche la Russia in tali
coalizioni) nelle guerre globali, dalla quale per nascer un nuovo sfidante
(sempre come nel caso della Russia).
Nel caso degli USA la potenza navale evidente ed connessa alla capacit
americana di svolgere una funzione anti-egemonica in chiave regionale in zone
come il Medio e lEstremo Oriente. Se nella prima per le cose sono facilitate
dalla mancanza di una potenza egemone, le cose sono diverse per quanto
riguarda la seconda, dove si trova la Cina. Per quanto riguarda i rapporti sinoamericani abbiamo due ipotesi: la prima vede lemergere della Cina come
unopportunit per gli USA per consolidare lordine di Washington; la seconda
sottolineano che quella che non si verr a creare una rivalit strategica tra i
due stati solo unillusione.
3.2 Leadership economica

Lassociazione supremazia economica e militare evidente nelle teorie


delleconomia-mondo, che sostiene che leconomia-mondo capitalista ha
proceduto attraverso fasi regolari di espansione e contrazione nella storia; allo
stesso modo avviene per la concentrazione di potere, che attraversa dei cicli.
La relazione cicli economici-cicli di concentrazione di potere sta nel diseguale
sviluppo delleconomia-mondo capitalista che permette lemergere periodico di
un egemone: infatti per Wallerstein si pu parlare di egemonia solo quando una
potenza ha unefficienza economica superiore in termini produttivi, commerciali
e finanziari.
Sia per la teoria del mutamento e della stabilit egemonici sia per quella della
transizione di potere le differenze nella distribuzione del potere sono nella
differenza di dimensioni e tassi di crescita dei singoli stati.
Per Giplin (stabilit egemonica) il segno dellavvento della modernit sta in tre
sviluppi decisivi: il trionfo dello stato nazionale, lavvento di una crescita
economica basata su scienza e tecnologia, lo sviluppo di uneconomia
di mercato mondiale; un rapido sviluppo da parte di una nazione genera
anche la richiesta di un riconoscimento a livello politico adeguato, e
evidentemente le dimensioni e il punto di partenza contano nel determinare la
sua capacit di disturbare lequilibrio del sistema. La teoria della transizione di
potere colloca nello sviluppo politico e socioeconomico di una nazione la sua
fonte di potenza, e nel rapporto tra potenza relativa dellegemone e quella
dello sfidante la probabilit delle guerre per legemonia.
Sempre incentrata su potere politico e quello economico la definizione di
potere strutturale, cio il potere di scegliere e dare forma alle strutture
delleconomia politica globale; S. Strange lo definisce come il potere conferito
dalla capacit di offrire o rifiutare la sicurezza e crediti, di determinare la
localizzazione, il modo e il contenuto della produzione manifatturiera, di
influenzare idee e laccesso alla conoscenza.
3.3 Linfluenza intellettuale
necessario tuttavia che le risorse economiche e militari si coniughino alla
volont dellegemone di influire sulle preferenze e gli interessi degli
altri stati: necessario un soft power che si accompagni ad un hard power,
con la combinazione di tutti i tipi di potere: coercitivo (forza militare), di
condizionamento (supremazia economica), di persuasione (influenza
intellettuale).
Per Gramsci, egemonia la capacit di direzione intellettuale e
morale che consente ad una classe dominante di accreditarsi come
guida legittima e di innescare il cambiamento, che si manifesta non solo
attraverso la forza ma anche tramite il consenso. Cox, applicando le idee di
Gramsci, formula una teoria dellegemonia che individua tre forze che
condizionano la struttura del sistema internazionale: capacit materiali, idee e
istituzioni; distingue inoltre tra una struttura egemonica in cui il potere assume
forma consensuale e un ordine non egemonico con potenze rivali, nessuna
capace di stabilire la legittimit del proprio dominio.
Il soft power sembra consentire un esercizio pi morbido del potere quando si
verifichino tre condizioni: un gap di risorse di potere tra egemone e seguaci;

condivisione di un vasto patrimonio culturale; convinzione della superiorit del


modello organizzativo dellegemone.
4. LIMITI E ALTERNATIVE ALLEGEMONIA
4.1 Perch le egemonie finiscono
Tutte le teorie concordano sul fatto che le egemonie sono per definizione
temporanee, perch i costi crescono pi rapidamente delle risorse e le
capacit tecnologiche ed economiche dellegemone finiscono per
diventare patrimonio condiviso degli altri stati, tra cui si trova il futuro
sfidante; a ci bisogna sommare il rifiuto dei cittadini di sopportare i sacrifici
necessari per preservare legemonia [Giplin]. Una delle ragioni per cui i costi di
mantenimento dellordine arrivano a superare i vantaggi liperestensione
(overstretching) del raggio dazione dellegemone: iperestensione che pu
essere territoriale ma anche funzionale quando legemone cerca di ampliare gli
ambiti di esercizio della propria egemonia. Per evitare questa possibilit pu
cominciare a ritirarsi, causando per instabilit nellequilibrio del sistema che
pu indurre nuovi sfidanti a farsi avanti. Per la teoria delleconomia-mondo, la
crisi dellegemone segue un percorso analogo ma contrario rispetto a quello
della sua ascesa: il costo del lavoro in campo agricolo e industriale sale per la
perdita del gap competitivo, da qui segue il declino commerciale, poi una
minore efficienza finanziaria e la conseguente fuga di capitali che rendono i
costi di mantenimento dellegemonia sempre pi proibitivi.
4.2 Egemonia e cooperazione
Durante gli anni della Grande Depressione, Kindleberger affermava che il
collasso dellera del libero commercio era da associare al declino dellegemonia
britannica, unito al rifiuto americano di assumersi la responsabilit di fare da
stabilizzatore del sistema: legemone affinch il sistema si mantenga
stabile deve mantenere l infrastruttura economica internazionale,
che comprende lassicurazione di un mezzo di scambio internazionale, la
garanzia di sufficiente liquidit, la capacit di definire e proteggere i diritti di
propriet fondamentali. Se si accetta che lordine del sistema sia creato e
mantenuto da un solo attore, ne discente che la formazione dei suoi elementi, i
regimi, dipenda proprio dallesercizio dellegemonia; legemone dovrebbe
assicurarvi il bene pubblico (stabilit) e imporre i costi ai beneficiari svolgendo
funzioni di pulizia nel sistema in un sistema cooperativo. In realt data una
certa apertura economica internazionale, lincentivo alla cooperazione deriva
pi dallinteresse egoistico dei vari attori che dallesistenza di uno stato
dominante. Inoltre la questione sulla natura liberale dellegemone
controversa, infatti autentiche egemonie liberali corrispondono ad economie
capital intensive, mentre quelle labour intensive tendono a produrre sistemi
imperiali (egemonie coercitive).
Per Keohane invece legemonia facilita la cooperazione, mentre il suo declino,
rendendola pi difficile, mette a rischio i regimi economici e la stabilit del
sistema. Tuttavia Keohane legemonia non condizione necessaria e sufficiente
a mantenere la cooperazione, tanto che i modelli di regimi nati sotto legida
dellegemonia americana sono sopravvissuti al suo declino.

CAPITOLO 4 - GEOGRAFIA POLITICA E INTERNAZIONALE


1. L'IMPORTANZA DELLA GEOGRAFIA
La geografia ha da sempre influenzato la politica, cos come tutte le altre
attivit umane. Importanti sono, ad esempio, le influenze della geografia sulla
STRATEGIA. L'esistenza di grandi barriere naturali ha indotto alcune nazioni a
cercare di rendere i loro confini politici coincidenti con le frontiere naturali
come il Reno per la Francia, i Pirenei per la Spagna e le Alpi per l'Italia. La
separatezza geografica del continente americano ha ispirato negli Stati Uniti
dei primi decenni dell'ottocento la dottrina Monroe, che aspirava ad escludere
dal nuovo mondo le potenze imperiali europee. Nazioni grandi, come la
Russia, possono adottare strategie difensive ritirandosi nell'interno ed
erodendo le capacit degli avversari costretti ad allungare le loro vie
di rifornimento. Nazioni piccole, come Israele, devono invece adottare
strategie offensive per evitare di essere completamente occupate prima di
reagire.
Ma la geografia non l'unica influenza sulla strategia, e il suo impatto deve
essere valutato in base alla interazione con altri fattori.
Nonostante il carattere apparentemente oggettivo della geografia, coesistono
varie interpretazioni del tutto incompatibili tra loro. Le varie teorie geopolitiche
concordano sul fatto che vi siano luoghi che possono amplificare anche in
modo decisivo il potere di chi li controlla.
2. LA GEOGRAFIA CLASSICA
2.1 La visione navalista
Ci sono due visioni classiche della geopolitica: quella NAVALISTA e quella
CONTINENTALISTA, entrambe nate tra il XIX e XX secolo. La prima stata
inaugurata dall'ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan che individu le
origini marittime dell'egemonia britannica. Secondo Mahan, il dominio del mare
concedeva infatti grande libert alle potenze che ne usufruivano, mentre il
potere terrestre era molto pi vincolato. Il controllo sul territorio, inoltre,
implica costi significativi per proteggerlo, mentre il mare pu anche
essere dominato senza una guarnigione costante, ma spostando la flotta
a seconda delle circostanze. La capacit di controllare le rotte navali risulta
pertanto decisiva, in quanto consentiva alla potenza marittima di colpire
quando e dove fosse necessario, mantenendo l'iniziativa con minimi costi.
Mahan propendeva quindi per una strategia indiretta mirata non tanto a
sfidare direttamente il potere militare dell'avversario, quanto a minare le basi
economiche sulle quali necessariamente questo poggiava. Il DOMINIO DEI
MARI permetteva infatti di prosciugare lentamente l'economia del nemico
senza incorrere nei rischi e nei corsti di un confronto diretto. Nelle sue parole:
l'interruzione del commercio costringe alla pace. Mahan riteneva quindi il
commercio vitale per la sopravvivenza delle nazioni, e per questo decisiva la
potenza navale, che era necessaria sia per proteggere il proprio, sia per
bloccare quello dell'avversario conducendolo inesorabilmente alla sconfitta a
prescindere dal suo potere terrestre.
Le FONTI DELLA POTENZA NAVALE erano, per Mahan, dovute ad una serie
di fattori quali:
la posizione geografica (ideale se insulare);
l'accesso al mare (incluso il controllo sugli stretti);

le risorse naturali e demografiche;


il carattere nazionale e la struttura politica (ideali se imprenditoriale e
liberale,
rispettivamente).

L'introduzione dei sottomarini (e poi delle portaerei) durante le guerre mondiali


rendeva poi superflua se non pericolosa la tattica mahaniana di concentrarsi su
grandi battaglie combattute da corazzate, ma confermava l'intuizione
strategica sull'importanza del controllo dei mari.
Nel complesso, la geopolitica navalista di Mahan e dei suoi seguaci appare
compatibile con l'IDEOLOGIA LIBERALE prevalente in Occidente.
2.2 La visione continentalista
Sir Halford Mackinder la figura di spicco della scuola continentalista. Per
Mackinder il potere militare, incluso quello navale, non era una
variabile autonoma ma dipendeva dalla potenza dello Stato in
generale. Se uno Stato diventava pi potente degli altri, nel lungo periodo
anche il suo potere navale sar superiore. Il controllo territoriale, per sua
natura pi competitivo di quello marittimo in quanto esclusivo, diventava
quindi cruciale. Proprio per questo, Mackinder si preoccupava per il declino
relativo della Gran Bretagna e intendeva impedire che si formasse una potenza
tale da sovvertire il pluralismo del sistema internazionale.
Una simile potenza sarebbe stata quella in controllo di una particolare
regione geografica, denominata HEARTLAND, che aveva due
caratteristiche:
da un lato, l'Heartland metteva in comunicazione, per vie interne, l'Asia e
l'Europa, facilitando un controllo congiunto su entrambi;
dall'altro lato, l'Heartland era protetta dalla massa continentale ed era
quindi immune alla proiezione del potere navale, che poteva concentrarsi
solo sulle regioni costiere (linner o marginal crescent).
Chi avrebbe controllato l'Heartland si sarebbe trovato quindi in una condizione
privilegiata per dominare l'isola mondiale eurasiatica, e chi avrebbe dominato
l'Eurasia avrebbe potuto controllare il mondo.
Si apriva una nuova FASE POST-COLOMBIANA, dovuta soprattutto alla
rivoluzione industriale e alle ferrovie, nella quale la mobilitazione interna era
divenuta pi importante del commercio transoceanico e nella quale i trasporti
terrestri acquisivano vantaggi crescenti rispetto a quelli marittimi.
La precisa collocazione dell'Heartland poteva spostarsi, a seconda del potere
relativo delle maggiori potenze. Nel 1904, si trovava in Asia centrale, al confine
tra impero russo e India britannica. Nel 1919, quando la guerra civile aveva
temporaneamente ridotto la Russia all'impotenza, si era invece spostata in
Europa orientale. Per Mackinder, la fine dell'era navalista era dovuta agli
sviluppi
tecnologici.
Leo Amery ribatt che la disposizione geografica avrebbe perso gran parte
della sua importanza, e che le potenze vincenti sarebbero state semplicemente
quelle che avranno la base industriale maggiore.
Una simile posizione, e quella di Strausz-Hup, che riteneva che il pi
importante dato geopolitico nell'era industriale forse la dimensione, con lo

sviluppo tecnologico che accentuava l'importanza strategica di aree grandi e


contigue.
Nicholas Spykman, l'ultimo grande classico del pensiero geopolitico, riteneva
importante lo sviluppo tecnologico e industriale, ma non per questo riteneva
che il fattore geografico avesse perso la sua centralit. Gli Stati nel sistema
internazionale contemporaneo si differenziavano infatti da altri tipi di unit
politica proprio per l'enfasi sulla territorialit, con i confini che delimitavano
l'ambito geografico della sovranit.
La geografia era quindi l'influenza pi fondamentale e duratura sulla politica
estera, quella che consentiva di individuare grandi continuit strategiche
nonostante nel tempo ogni altra caratteristica potesse essersi modificata.
Il progresso aveva per plasmato nel tempo la carta geografica, e nel XX secolo
le zone cruciali si collocavano dove l'industrializzazione e l'urbanizzazione
avevano concentrato le maggiori risorse economiche e demografiche. Queste
aree non si trovavano n sui mari, n al centro dei continenti, ma sulle zone
costiere attorno alla massa eurasiatica e collegate dagli oceani, denominate
RIMLANDS.
3. L'APICE DELLA GEOPOLITICA
La seconda guerra mondiale ha costituito l'apice della fortuna delle teorie
geopolitiche. Da un lato, la Germania protagonista di quel conflitto aveva una
radicata tradizione geopolitica, tanto che ci si pu riferire ad una SCUOLA
TEDESCA.
Durante la Repubblica della Weimar, Otto Hintze aveva sostenuto che
l'autoritarismo della Germania poteva essere spiegato dalla sua collocazione
vulnerabile in mezzo a potenziali nemici e dalla conseguente necessit di
sviluppare un forte militarismo al contrario della Gran Bretagna, sicura nella
sua posizione insulare e periferica.
Schmitt avrebbe poi riletto l'intera vicenda della politica internazionale come
un contrasto tra potenze terrestri e potenze marittime. Queste ultime, per
Schmitt, avevano introdotto un nuovo tipo di guerra assoluta con il blocco
navale teso ad affermare un'intera nazione.
Il regime nazista utilizz poi strumentalmente a fini di legittimazione ideologica
le idee della scuola continentalista. L'esponente di spicco della scuola tedesca,
Karl Haushofer, riteneva infatti che le pianure dell'Europa orientale fino agli
Urali, ricoprissero un'importanza fondamentale per la Germania e uno sbocco
naturale per il suo surplus demografico. Per Heushofer, l'Eurasia e l'Eurafrica
erano aspirazioni politiche per la strategia tedesca pi che semplici espressioni
geografiche.
Al contrario delle scuole anglosassoni, il filone tedesco era intriso di darwinismo
sociale teso a dimostrare il titolo del popolo tedesco a colonizzare ampi tratti di
aree contigue in nome del proprio spazio vitale.
Durante la GUERRA FREDDA, il termine geopolitica cadde a lungo in disgrazia
per il discredito connesso alla sua associazione con l'ideologia nazista.
Ci nonostante le grandi strategie delle superpotenze erano ugualmente
influenzate da considerazioni geopolitiche.
Negli anni Settanta il termine geopolitica torn di moda dopo il temporaneo
esilio, soprattutto grazie a due strateghi americani nati in Europa. Il segretario

di stato di Nixon, Henry Kissinger, giustificava infatti in termini geopolitici


l'avvicinamento sino-americano del quale fu protagonista.
La prospettiva di un ritiro statunitense dal Vietnam allontanava la minaccia per
la Cina, che poteva cos concentrarsi sulla minaccia russa che si stava
intensificando dopo la rottura sino-sovietica degli anni Settanta. In questa
diversa ottica, gli Stati Uniti potevano essere utili alleati, a prescindere dalle
distanze ideologiche.
Gli allenamenti in Asia seguirono pertanto a partire dagli anni Settanta la
classica massima geopolitica: "il mio vicino il nemico, il vicino del mio vicino
il mio amico".
4. LA CRISI DELLA GEOPOLITICA
Nonostante le apparenze, la guerra fredda fu per in realt un periodo di
declino per la geopolitica.
L'introduzione delle ARMI NUCLEARI aveva infatti radicalmente ridotto il
valore strategico del territorio. Nazioni lontane e vicine, piccole e grandi,
protette da barriere naturali o vulnerabili potevano godere di una sicurezza
quasi assoluta una volta dotate di un arsenale nucleare sufficientemente
robusto. Sul versante negativo, nemmeno una posizione geopoliticamente
protetta, come quella degli Stati Uniti separati dalle altre potenze da due
oceani, poteva pi offrire protezione dalle moderne armi di distruzione di
massa, n, come dimostrano gli attentati dell'11 settembre 2001, da attacchi
terroristici.
La acerrima competizione tra superpotenze nelle aree periferiche era poi
dettata da logiche sistemiche pi che dal valore intrinseco dei vari territori . Le
superpotenze intervenivano direttamente o tramite i propri alleati per negare
all'altra un vantaggio, secondo il MECCANISMO A SOMMA-ZERO tipico dei
sistemi bipolari, piuttosto che perch il territorio in questione fosse decisivo
perla propria sicurezza.
Sembra calato il VALORE DEL TERRITORIO in generale, in quanto sono
diminuiti i benefici del suo controllo, ed aumentati i costi per il suo
mantenimento.
I COSTI DELL'ACQUISIZIONE TERRITORIALE sono aumentati nell'ultimo
secolo e mezzo. Non solo la guerra diventata pi distruttiva, ma anche i costi
del controllo territoriale postbellico sono stati magnificati dalla mobilitazione
della popolazione locale, che pu resistere attivamente o passivamente
all'occupazione.
Secondo Edelstein, le occupazioni militari hanno successo solo in casi
particolari, quando le societ occupate sono state debellate, e quando
occupati e occupanti percepiscono una minaccia comune. Per questo, le
occupazioni militari di successo sarebbero quasi esclusivamente concentrate
nel periodo immediatamente seguito alla seconda guerra mondiale, quando le
potenze dellasse furono prima distrutte e poi protette dalla minaccia sovietica.
A questo bisogna aggiungere un cambiamento della MENTALIT prevalente
nella maggior parte degli Stati, che sembra aver trasformato l'atteggiamento
verso l'uso della forza. Mentre in passato l'uso dello strumento militare per
scopi di interesse nazionale era considerato legittimo, ora l'uso della forza
ritenuto accettabile solo per fini almeno apparentemente astratti e
multilaterali. Questo significa che per la maggior parte degli Stati l'acquisizione

territoriale non sia considerata un obiettivo perseguibile della propria politica


estera.
Da questa nuova mentalit discendono due importanti cambiamenti nel
significato di alcuni concetti chiave della politica internazionale:
1. Se la conquista territoriale non n un'opportunit, n una minaccia per
gli Stati, il CONCETTO DI SICUREZZA non pu limitarsi solo questo tipo
di pericolo, ma deve essere esteso alle fonti di rischio. Da un lato, altri
tipi di attori non statali quali le organizzazioni terroristiche o criminali;
dall'altro altri tipi di obiettivi, quali la sicurezza delle citt o dei flussi
commerciali e finanziari.
Mentre il concetto tradizionale di sicurezza si concentrava sugli aspetti
militari, e quindi focalizzava l'attenzione sulle minacce reciproche tra
Stati, l'attuale concetto di sicurezza globale mette l'accento su minacce
transnazionali che possono influenzare l'ordine pubblico e il benessere
della societ, incentivando la cooperazione tra Stati.
2. Cambia il significato dei CONFINI TRA STATI che non perdono il loro
valore geopolitico sebbene venga radicalmente trasformato. Mentre in
passato i confini erano ritenuti soprattutto barriere per separare la
sovranit di uno Stato dagli altri, ora sono pi importanti come
meccanismi per collegare i vari Stati tra loro. Le frontiere non sono pi
impermeabili ma diventano porose e attraversate da flussi la cui gestione
diventa cruciale. Nel caso dei flussi negativi, come il traffico di armi o di
droga, richiesta la loro limitazione, mentre in caso di flussi positivi,
come gli investimenti o i commerci, e invece opportuna la loro
incentivazione. La gestione dei flussi a sua volta comporta la necessit di
cooperare con i governi dall'altro lato del confine, mettendo l'accento su
un controllo congiunto pi che su una sovranit esclusiva. L'idea del
confine come un limes invalicabile infine messa in discussione dalla
crescente importanza delle organizzazioni internazionali e della loro
membership variabile, che prefigura possibili allargamenti.
Ci sono per due importanti questioni contemporanee sulle quali l'impatto della
geografia sulla politica rimane significativo:
Osservando i processi di DEMOCRATIZZAZIONE seguiti alla caduta del
muro di Berlino si nota come la maggior parte dei paesi che ha adottato
un regime democratico sia posizionato sul mare, mentre molti degli stati
che hanno mantenuto un regime autocratico sono prevalentemente
continentali.
Da un lato, questo potrebbe significare che gli Stati marittimi hanno una
natura interna relativamente pi aperta di quella degli altri, con un
migliore accesso al commercio internazionale e una maggiore
propensione ad adottare istituzioni di tipo liberale. Dall'altro lato, questo
potrebbe dimostrare una certa influenza esterna sui processi di
democratizzazione, soprattutto dal momento che la maggiore potenza
mondiale odierna ha sia una politica estera attivamente impegnata nella
democratizzazione, sia la vocazione di una potenza marittima.
Permangono influenze geopolitiche sul vitale MERCATO DELL'ENERGIA.
Finch l'economia mondiale dipender dagli idrocarburi, l'accesso alle
fonti rimarr un interesse cruciale per la comunit internazionale. Le
potenze industrializzate e i principali paesi emergenti sono privi di riserve

o comunque hanno bisogno di importare energia per soddisfare il proprio


fabbisogno. Le riserve di petrolio sono altamente concentrate in alcune
zone, e quattro quinti si trovano in soli 10 paesi che hanno regimi
autocratici o si trovano in regioni instabili. Ancora oggi, quindi, eventi
geopolitici negativi nelle aree cruciali potrebbero riverberarsi su tutto il
sistema internazionale.

CAPITOLO 5 ISTITUZIONI INTERNAZIONALI


1. LE ISTITUZIONI INTERNAZIONALI TRA SPERANZE E SCETTICISMO
Le istituzioni internazionali vengono frequentemente invocate come correttivo
al carattere anarchico delle relazioni internazionali; questo poich offrono
principi e regole per porre freno allarbitrio degli stati, consentendo inoltre ai
governi di affrontare collettivamente problemi sentiti da tutti facilitando il
coordinamento delle politiche pubbliche. I critici sostengono invece che essere
possano tuttal pi formalizzare i rapporti di forza esistenti tra loro.
Bisogna distinguere tra organizzazione e istituzione: la prima un gruppo di
individui dotato di una struttura formale e un obiettivo comune, entit materiali
composte da personale di vario tipo che sfrutta delle risorse per il proprio
scopo. La seconda un insieme di regole che strutturano linterazione
tra individui (o stati come in questo caso) e gruppi definendo i
comportamenti permissibili e non. La maggior parte delle istituzioni
internazionali gestita da organizzazioni internazionali, anche se possibile
che la prima esista senza che ci sia la seconda a gestirla. Il termine istituzione
per si applica a fenomeni molto diversi: insiemi normativi come il diritto
internazionale, le regole della diplomazia e il principio di sovranit, ma anche
istituzioni artificiali non generate dallevoluzione ma fondate secondo un
progetto preciso, come gli accordi internazionali. Buzan infatti distingue tra
istituzioni primarie e istituzioni secondarie, dove le primarie consistono in
pratiche durevoli generate da processi evolutivi e che definiscono gli attori e i
loro comportamenti. Sono otto: sovranit, territorialit, diplomazia, gestione dei
rapporti tra le grandi potenze, luguaglianza degli esseri umani, il mercato, il
nazionalismo, la protezione ambientale. Le istituzioni secondarie invece sono
quelle create e mantenute per la gestione dei rapporti reciproci.
Lo studio delle istituzioni internazionali precede laffermazione delle Relazioni
internazionali come disciplina: gi nel XVII-III secolo gli studiosi miravano a
definire le regole di condotta degli stati sovrani, e gli autori 7-800eschi
elaborarono piani per la pace perpetua attraverso assemblee di sovrani o
popolari oltre che corti internazionali. La nascente disciplina delle Rel. Int.
mirava a fondare lo studio delle istituzioni su basi empiriche e scientifiche
piuttosto che filosofiche. La tradizione cosiddetta istituzionlista considera
come le istituzioni possano avere uninfluenza determinante per ridurre il
conflitto militare economico e politico e si divide in una corrente razionalista e
in una costruttivista.
2. LISTITUZIONALISMO RAZIONALISTA
2.1 Genealogia
Listituzionalismo razionalista nasce in risposta ai precedenti approcci
istituzionalisti, i pi importanti dei quali sono il funzionalismo e il
neofunzionalismo. Secondo il primo lo stato come forma di organizzazione
sociale aveva dimostrato di non poter soddisfare i bisogni fondamentali e
doveva quindi essere affiancato da nuove forme di autorit, come agenzie
atte allintegrazione internazionale, senza per questo per sfidare la
sovranit statale; tuttavia la lealt della popolazione nei confronti di queste

istituzioni avrebbe superato quella nei confronti dello stato stesso, creando una
nuova forma di organizzazione politica globale.
Il neofunzionalismo si distingue da questo approccio perch tenta di spiegare i
processi di integrazione regionale piuttosto che globale, mira ad offrire una
teoria positiva libera da elementi prescrittivi e mettere in rilievo le dinamiche
politiche dellintegrazione sovranazionale; questultima, data la sua presenza in
un settore di policy, genererebbe incentivi per lestensione e lapprofondimento
dellintegrazione in altri (spill-over). Lintegrazione politica regionale stessa
viene prodotta da un progressivo allargamento delle sfere di competenza delle
istituzioni regionali a causa degli interessi materiali degli stati piuttosto che le
loro ideologie.
Tuttavia secondo i teorici della stabilit egemonica non tanto la presenza di
istituzioni quanto lesistenza di una potenza egemone capace di fornire beni
pubblici la condizione necessaria per assicurare alti livelli di cooperazione.
2.2 Assunti e ipotesi
Il testo principale, After Hegemony di Keohane, mira a dimostrare come la
cooperazione sia possibile anche senza la presenza di un egemone e come le
istituzioni abbiano un ruolo essenziale nel promuoverla. Per dimostrare ci, i
razionalisti accettano i seguenti assunti realisti e neorealisti: la centralit degli
stati, gli stati come egoisti razionali, lanarchia del sistema. Ma al contrario di
ci che sostengono i realisti, questi assunti sono compatibili con elevati livelli di
cooperazione interstatale e le istituzioni contribuiscono a realizzarla.
Tuttavia la teoria si presenta immediatamente come parziale, poich tratta le
preferenze degli stati come esogene, quindi senza chiedersi come esse siano
nate ma trattandole come dati di fatto. Unaltra caratteristica della teoria la
logica funzionalista: lesistenza delle istituzioni viene spiegata dai benefici che
portano agli stati. Il meccanismo causale tra interessi statali e istituzioni la
razionalista strumentale, cio quella che si interroga sui mezzi migliori per
raggiungere un certo obiettivo senza considerarne la ragionevolezza. I teorici
quindi mettono in guarda che la loro teoria non si applica a qualunque
situazione, in particolare a quelle in cui gli interessi degli stati coincidono
perfettamente e quindi sono superflue sia cooperazione che istituzioni
(Harmony) e in cui gli interessi sono totalmente incompatibili (Deadlock), ma
solo a quelle in cui essi siano parzialmente compatibili e parzialmente
conflittuali (Mixed-interest games).
2.3 Collaborazione e coordinamento
Tra i vari tipi di situazioni a preferenze miste, i teorici si sono concentrati sui
giochi di collaborazione (in cui gli stati traggono maggiori vantaggi da un esito
in
cui tutti cooperano rispetto a un esito in cui tutti defezionano
(ABBANDONANO); il problema che questo comune interesse non sufficiente
a garantire un esito cooperativo, poich linteresse individuale a
defezionare potrebbe prevalere sullinteresse comune a cooperare,
secondo il gioco del dilemma del prigioniero), e sui giochi di coordinamento
(in cui gli stati hanno un interesse comune a raggiungere un accordo ma un
conflitto di interessi rispetto ai termini dellaccordo stesso: preferita la
cooperazione alla sua mancanza, ma i partecipanti non sono daccordo sulla
sua forma.

Una soluzione di compromesso viene trovata attraverso un processo negoziale,


ma anche in questo caso linteresse individuale a raggiungere
laccordo preferito pu prevalere sullinteresse comune a raggiungere
un accordo qualsiasi; tra le tattiche pi comuni per ottenerlo c quella del
bluff). Entrambi i giochi combinano incentivi a cooperare e incentivi a non farlo,
tuttavia una volta stabiliti i termini dellaccordo, in quelli di coordinamento si
perde linteresse a violarli, mentre in quelli di collaborazione rimane il rischio di
defezione unilaterale.
Per i teorici istituzionalisti, alla base di questi problemi si trova un deficit di
informazione, che pu essere colmato grazie alle istituzioni internazionali;
quelle incaricate di risolvere problemi di coordinamento offrirebbero un
contesto in cui sia possibile tenere negoziati trasparenti, con regole che
strutturino il processo di contrattazione e fornendo soluzioni che possano
essere considerate eque dalle varie parti.
Per quanto riguarda i giochi di collaborazione, le istituzioni dovrebbero
consistere in regole che diminuiscono lambiguit degli obblighi dei
partecipanti, impongono obblighi di trasparenza e giustificazione, delegano ad
agenti imparziali la verifica del rispetto degli accordi, strutturano la risposta
collettiva ed eventuali sanzioni in caso di violazione, assicurano agli stati che ci
saranno opportunit di premiare la cooperazione e punire la defezione.
2.4 Risultati empirici
Gli studi empirici sono di due tipi: il primo mostra che i governi creano le
istituzioni per via dei benefici attesi, come sostenuto dalla teoria (scelte
degli stati = causa, istituzioni = effetto); il secondo mostra gli effetti delle
istituzioni sui comportamenti degli stati (istituzioni = causa, scelte degli stati =
effetto). Le analisi seguenti aiutano a comprendere il ruolo delle istituzioni in
situazioni concrete e in diverse sfere.
difficile valutare complessivamente lONU, una delle istituzioni pi importanti,
poich composta di diversi organi e impegnata in diverse aree di attivit. Per
quanto riguarda lattivit di peace-keeping, studi empirici hanno trovato che la
pace dura pi a lungo quando viene dispiegato personale militare
internazionale, e le operazioni di peace-keeping aiutano i belligeranti a
risolvere un dilemma del prigioniero, e cio quella della tentazione di violare il
cessate il fuoco per evitare di essere attaccati per prima. Per quanto riguarda
invece il Consiglio economico e sociale, tanto i suoi poteri che i suoi effetti
sono pi deboli di quelli del Consiglio di Sicurezza; per quanto riguarda i diritti
umani ad esempio, gli stati che hanno ratificato trattati a riguardo non sono in
realt pi rispettosi di essi degli stati che hanno deciso di non farlo. In effetti
difficile interpretare questo tipo di trattati come una risposta al gioco di
coordinamento e di collaborazione; il rispetto di essi condizionato dalla natura
del regime politico interno, aspetto che viene trattato dallistituzionalismo
costruttivista.
LOrganizzazione
mondiale
del
commercio
(WTO)
viene
vista
dallistituzionalismo razionalista come una risposta al Dilemma del prigioniero
in cui i governi si trovano quando devono decidere sul grado di apertura del
proprio paese nei confronti delleconomia internazionale: ogni governo

trarrebbe beneficio dallimposizione di una barriera tariffaria che


modificasse i termini di scambio in proprio favore, ma questo
causerebbe un declino a livello del commercio internazionale, esito
peggiore per i governi di quello prodotto dallassenza delle barriere tariffarie. Il
WTO svolge quindi due funzioni: fornisce un forum negoziale e strutturato
prevedibile che riduce i problemi di coordinamento e sorveglia e pubblicizza le
barriere tariffarie mantenute dai governi, offrendo un sistema di risoluzione
delle dispute che legittima sanzioni ma impone anche limiti sulla loro entit.
Per quanto riguarda la cooperazione internazionale in campo ambientale, nel
1992 stato ratificato un trattato, lUnited Nations Framework Convention on
Climate Change. Un protocollo a questo trattato stato adottato a Kyoto nel
1997, ma la sua efficacia secondo molti osservatori sarebbe compromessa dal
fatto che gli USA si sono rifiutati di ratificarlo. Le riduzioni delle emissioni di gas
serra infatti rappresenta un classico dilemma del prigioniero: tutti gli stati
preferiscono riduzioni effettuate da tutti piuttosto che nessuna, ma trarrebbero
vantaggio nel non rispettare individualmente il trattato. Secondo
listituzionalismo razionalista, il protocollo deriva la sua efficacia insufficiente
proprio a causa della mancanza di istituzioni forti capaci di promuovere e
coordinare sanzioni, tanto che molti stati hanno infranto le loro promesse senza
conseguenze.
3. LA CRITICA DEL REALISMO
La tradizione realista da sempre scettica nei confronti delle capacit delle
istituzioni internazionali. Secondo gli istituzionalisti i casi in cui non si pu
applicare la loro teoria sono molto rari, invece per i realisti le situazioni in cui
gli interessi sono incompatibili sono comuni; la mancanza di cooperazione non
dovuta alla mancanza di informazione, ma da interessi incompatibili.
Anche se entrambi gli approcci concepiscono gli interessi come indipendenti
dalle istituzioni stesse, a differenza dellistituzionalismo costruttivista, secondo
i realisti listituzionalismo troppo ottimista perch considera solo i guadagni
assoluti degli stati e non i guadagni relativi: gli stati sono sempre consapevoli
che gli altri possono rappresentare una minaccia alla propria autonomia e alla
propria sopravvivenza, e quindi se la cooperazione produce un guadagno per la
controparte superiore al proprio, questo pu indurre alla defezione, al di l del
guadagno assoluto che si percepirebbe cooperando. Gli istituzionalisti
ribattono che esistono soluzioni istituzionali a questo problema, poich
gli stati si possono accordare su una compensazione che ristabilisca lequilibrio
precedente attraverso la creazione di unistituzione dotata di poteri di
supervisione.
Unaltra critica realista consiste nel fatto che le istituzioni sono
epifenomeniche, rispecchiano cio gli interessi e i rapporti di forza tra gli stati e
non hanno alcun potere causale indipendente, e per questo il loro effetto
sarebbe solo apparente.
4. LISTITUZIONALISMO COSTRUTTIVISTA
4.1 Caratteristiche principali dellapproccio costruttivista
Sia gli istituzionalisti razionalisti che i realisti presumono che gli stati abbiano
un rapporto strumentale nei confronti delle istituzioni, che sono efficaci poich
promuovono interessi che gli stati hanno sviluppato indipendentemente dalla
loro partecipazione alle istituzioni stesse.

Listituzionalismo costruttivista rigetta questa concezione strumentale; le


istituzioni definiscono modelli culturali di comportamento appropriato e
promuovono visioni del mondo condivise, strutturando gli stessi obiettivi
fondamentali e identit degli attori. Non influiscono solo su ci che gli
attori possono fare, ma anche su ci che vogliono fare e su chi sono. A
differenza dei razionalisti invece i costruttivisti ritengono che le preferenze
degli stati siano endogene rispetto alla loro partecipazione alle istituzioni.
Per Wendt la cultura un aspetto essenziale della costituzione degli attori, e le
istituzioni ne sono unespressione di specifici modelli culturali che almeno
parzialmente determinano lidentit stessa degli stati che vi operano
allinterno. Ad esempio, la sovranit non deve essere concepita come attributo
intrinseco degli stati, ma come una forma di riconoscimento da parte degli
altri, e che si manifesta attraverso lappartenenza ad organizzazioni quali
lONU. Wendt identifica tre livelli di internalizzazione delle norme internazionali:
nel primo gli attori conoscono la norma e la applicano perch obbligati, nel
secondo gli attori vi obbediscono perch ritengono che farlo sia nel loro
interesse (istituzionalismo razionalista), nel terzo gli attori vi obbediscono
perch la ritengono legittima. A questultimo livello la norma riesce a costruire
lattore.
Meyer invece con la sua teoria aspira a spiegare perch nel mondo
contemporaneo le societ organizzate statualmente sono molto simili tra loro e
perch il cambiamento politico e sociale avviene in modo simile nei vari paesi
del mondo. Meyer mostra che molte caratteristiche dello stato
contemporaneo derivano da modelli culturali generati e diffusi da
processi di portata globale, tra cui spicca lattivit delle
organizzazioni internazionali; queste agiscono spesso come vettore
centrale per la diffusione di modelli culturali. Per esempio, lUnesco con
la sua attivit riuscita a definire la gestione e promozione della ricerca
scientifica come uno degli attributi essenziali dello stato moderno, ed a causa
di questo che anche stati a basso livello di sviluppo socioeconomico si sono
dotati di ministeri per la Ricerca.
4.2 Socializzazione e argomentazione
Per listituzionalismo costruttivista limpatto delle istituzioni avviene soprattutto
attraverso processi di socializzazione, cio processi attraverso cui linterazione
sociale porta dei novizi ad interiorizzare le norme e i modi di vedere una
societ fino al punto di darli per scontati. Per Johnston i meccanismi principali
sono linfluenza sociale e la persuasione. Nella prima, la conformit con le
norme da parte degli stati risulta in benefici e sanzioni di tipo sociale
(benessere psicologico, senso di appartenenza, rispetto degli altri membri;
vergogna, esclusione). La seconda invece linsieme di atti comunicativi che
generano una convergenza di preferenze e opinioni in assenza di sanzioni
materiali o psicologiche; a questo proposito la teoria dellazione comunicativa
del filosofo Habermas mira ad identificare i presupposti di un dialogo effettivo
tra gli stati e le condizioni istituzionali in cui questi presupposti possono essere
realizzati.

CAPITOLO 6 INTERDIPENDENZA ECONOMICA E POLITICA


INTERNAZIONALE
1. ORIGINI DELLA TEORIA DELLINTERDIPENDENZA
1.1 Il liberalismo nelle relazioni internazionali
La principale teoria che si occupa degli effetti dellinterdipendenza economica
sulla politica internazionale appartiene al pensiero liberale ed emerge da una
critica al realismo: lo stato non visto come unico attore rilevante sulla scena
internazionale, ma uno dei vari livelli ai quali possibile aggregare le
preferenze degli individui, un agente che opera per conto di altri principali
come organizzazioni internazionali, compagnie multinazionali, chiese, ma
anche altri che si trovano a livello subnazionale e richiedono di prendere in
considerazione variabili di politica interna
A differenza del realismo, quindi, il pensiero liberale prenda in considerazione
vari tipi di configurazione dei rapporti societ-stato, poich anche entit
internazionali, subnazionali e transnazionali stabiliscono relazioni e influiscono
sugli esiti politici. Inoltre, lambiente non sempre visto come anarchico: anche
i rapporti tra stato e stato sono influenzati dalle proprie caratteristiche interne;
nei casi in cui lanarchia meno evidente e i rapporti meno conflittuali e pi
cooperativi (es.: democrazia-democrazia), la sicurezza non lunica questione
su cui concentrarsi, ma uno degli obiettivi principali proprio il conseguimento
della ricchezza economica.
Nelle prime versioni del liberismo internazionalista, subito dopo la IGM, si
immaginava di poter basare lintero sistema internazionale su di unarmonia
degli interessi e una pacifica interdipendenza (idealismo). Questi approcci
furono screditati dalla IIGM e solo negli anni 70 emersa una Scuola
neoliberale, che adotta una visione pi complessa in cui convivevano sia
relazioni conflittuali che cooperativi grazie ai quali sarebbe stato possibile
concentrarsi sui rapporti economici; il tipo di risorse richieste dunque
(coercitive, persuasive, materiali, immateriali, militari, economiche, hard o soft)
dipenderebbe dal contesto in cui vengono impiegate.
Questa differenza realismo-liberalismo dipende da una diversa visione
dellevoluzione storica. I realisti sono scettici riguardo ad un cambiamento che
riduca le possibilit di conflitto armato, i liberali credono nella possibilit di un
percorso storico di miglioramento verso la pace e verso una condizione di
stabilit e fiducia che renda obsoleto luso della violenza. I possibili

percorsi verso la riduzione della guerra sono: le istituzioni


internazionali,
il
commercio
internazionale
e
la
democratizzazione.
1.2 Il liberalismo commerciale
Questo genere di liberalismo identifica il progresso nelle relazioni internazionali
con la diffusione delle moderne economie industriali di mercato a partire dal
700. Questo fenomeno infatti, nella visioni liberale, avrebbe avuto
ripercussioni inedite sulle relazioni internazionali, inducendo gli stati a
concentrarsi sul proprio benessere economico piuttosto che sul successo

militare; a sostegno di questa tesi, sembra esserci in effetti una relazione tra
conflitto e povert. Questa teoria basata sulla visione di Smith e Ricardo sui
benefici del libero commercio senza interferenze statali, che suggeriva che la
ricchezza degli stati vicini favorisse il proprio sviluppo poich facilitava
laccesso a tecnologie pi avanzate e mercati pi ricchi. Lopinione prevalente
in precedenza, quella della dottrina mercantilista, era diametralmente opposta:
il protezionismo era preferibile al libero commercio poich si riteneva che la
ricchezza potesse crescere solo a scapito del proprio vicino, predicando
lintervento statale in materia economica per il conseguimento della massima
autosufficienza. Lesperienza storica ha dimostrato come, in generale, il libero
mercato sia stato un efficace veicolo di sviluppo economico.
2. INTERDIPENDENZA ECONOMICA E POLITICA INTERNA
2.1 Interessi particolari e decisioni collettive
I processi economici di uno stato economicamente aperto per non dipendono
solo dal suo governo, ma anzi in larga misura da attori privati (i gruppi di
interesse) che possono loro stessi influenzare lo stato. Come dimostra infatti la
teoria dellazione collettiva di Olson, questi gruppi hanno sia lincentivo che
lopportunit di distorcere la politica commerciale, e linteresse dei gruppi
concentrati pi intenso di quello dei gruppi diffusi, poich i benefici vengono
ripartiti tra un numero minore di persone e vi sono minori problemi di
coordinamento. I vari gruppi di interesse si possono inoltre alleare al fine di
controllare meglio le decisioni pubbliche (logica del log/rolling).
Anche nei paesi con una rispettabile tradizione liberale possibile per i gruppi
dinteresse particolare prevalere sugli interessi generali del paese: la variabile
fondamentale quella dellimportanza data alle questioni commerciali nel
dibattito politico. Altre teorie si concentrano sulla capacit dello stato di
resistere alle pressioni dei gruppi di interesse: Katzenstein distingue tra stati
deboli e stati forti, dove i secondi, a differenza dei primi, sono capaci di
sviluppare una politica economica nellinteresse del paese. Gli stati autocratici,
al contrario delle democrazie, sono quelli sicuramente pi in grado di evitare il
confronto con lopinione pubblica e possono basare la legittimit delle loro
scelte attraverso la propaganda.
Altra conseguenza della crescita degli interscambi economici laccresciuta
importanza di nuovi tipi di attori, quali le societ multinazionali; in alcuni casi,
esse sarebbero in grado di modificare le politiche dei governi, e questo tema
il fulcro di un dibattito tra chi ritiene che le multinazionali diffondano capitale,
conoscenza e sviluppo e chi sostiene che inibiscano limprenditorialit locale e
contribuiscano al sottosviluppo di alcune zone del mondo. Per S. strange il loro
ruolo nei processi economici contemporanei ha assunto una rilevanza tale da
modificare la diplomazia tradizionale, che prendeva in considerazione solo le
relazioni tra governi.
Per il liberalismo, il passaggio da economie tradizionali a quelle progredite
avviene attraverso la modernizzazione, il cui motore il capitalismo. Ci ha due
conseguenze: da un lato, il libero mercato porterebbe una crescente ricchezza
e benessere, dallaltro, la maggiore integrazione economica avrebbe leffetto di
pacificare le relazioni internazionali modificando sia le preferenze dei singoli
che gli incentivi alle relazioni interstatali.

2.2 Le critiche neomarxiste


In netto disaccordo, per i neomarxisti la societ non composta da individui
che massimizzano il proprio vantaggio individuale, ma da classi sociali con
interessi contrapposti, che sono lattore fondamentale.
Il mercato porta non ha una maggiore ricchezza complessiva, ma allinevitabile
sfruttamento delle classi meno privilegiate.
La lotta di classe generata da tutto ci pu essere risolta solo con una
rivoluzione che collettivizzi i mezzi di produzione. In effetti, sebbene a livello
assoluto tutti i paesi siano diventati pi ricchi negli ultimi due secoli, sono
anche aumentate le differenze tra loro; per questo per i neomarxisti non si
parla di interdipendenza, ma di indipendenza delle economie avanzate e di
dipendenza delle altre.
Gli stati pi arretrati rimangono poveri proprio perch interagiscono
con quelli pi ricchi che li inducono a specializzarsi in settori poco
redditizi secondo la logica del neocolonialismo (teoria della dipendenza).
Questa teoria per smentita dal successo di qualche paese emergente uscito
dalla trappola del sottosviluppo adottando proprio uneconomia aperta.
Altri teorici, come Wallerstein, disegnano un sistema globale naturalmente
piramidale, un sistema-mondo integrato dalla divisione internazionale del
lavoro e suddiviso in tre aree gerarchiche: centro, avanzato, semiperiferia, in
via di sviluppo; periferia, arretrata e sfruttata. Il ruolo assunto dai paesi pu
effettivamente cambiare, ma non il fatto che questi livelli esistano, visto che la
ricchezza del centro poggia sullarretratezza della periferia.
3. LE CONSEGUENZE DELLINTERDIPENDENZA SULLA POLITICA
INTERNAZIONALE
3.1 Gli effetti pacifici dellinterdipendenza
Secondo il liberalismo, linterdipendenza economica porta i soggetti ad una pi
stretta collaborazione e quindi ad una propensione a cooperare ed evitare il
conflitto. Inoltre, il peso maggiore dato agli individui e ai gruppi interni agli stati
induce a dare maggior rilievo alle questioni economiche, e di conseguenza la
scoperta dellefficienza del libero scambio nel creare ricchezza alla base del
primato delleconomia per il liberalismo.
Sono tre per i teorici gli effetti del commercio a favore della pace:
il commercio modifica gli incentivi degli stati nellarena internazionale,
poich permette agli stati di ottenere prodotti senza correre rischi e costi
di una guerra;
i benefici economici dellinterdipendenza diventano incentivo al
mantenimento della pace poich la competizione politica e la guerra
interromperebbero i flussi economici incidendo cos sul benessere
economico del paese;
gli effetti sociologici di uneconomia capitalista si basano sulla riduzione
di pregiudizi reciproci e enfatizzano le comunante (liberalismo
sociologico).
3.2 Le critiche realiste alla prospettiva liberale

Il realismo non condivide lenfasi che i liberali pongono sui fattori economici, e
lapertura delle economie degli stati non affatto scontata. Per Rousseau, ad
esempio, gli stati sono in competizione per i vantaggi relativi piuttosto che per
vantaggi economici assoluti: i vantaggi si fanno sentire solo per
contrasto.
Anche Hamilton e List nel XVIII e XIX secolo suggerivano di rinunciare ad
unapertura commerciale per mantenere una capacit economica
indipendente che garantisse la sicurezza statale; uneconomia liberale e
cosmopolita pu favorire solo chi gi forte ed indipendente. Secondo la
posizione neorealista, gli incentivi ad aprire o chiudere leconomia non
deriverebbero da preferenze interne degli stati, ma dalla loro posizione nella
gerarchia e dalle condizioni generali del sistema internazionale.
Solo chi forte e sicuro o chi si trova in un ambiente pacifico pu intraprendere
un commercio libero da condizionamenti politico-strategici: lapertura degli
ultimi secoli dovuta non dai singoli stati ma dalla capacit della potenza
dominante (UK o USA) di determinare questa situazione, secondo la teoria
dellegemonia. Per i neomercantilisti addirittura la competizione politica
potrebbe inibire la cooperazione economica e le interferenze che provengono
dallarea economica potrebbero essere rischiose per la stabilit:
linterdipendenza non porta allarmonia ma al reciproco sospetto.
Nella letteratura contemporanea, sono tre i pericoli per la sicurezza degli stati
nellambito dello sviluppo di uneconomia mondiale aperta:
il capitalismo porta ad un aumento ciclico delleconomia, generando
processi di espansione-contrazione incontrollabili che potrebbero portare
pericolose conseguenze anche sulle relazioni internazionali;
il concetto stesso di interdipendenza implica una simmetria di condizioni
che raro riscontrare nella pratica, e un intenso scambio commerciale
potrebbe portare ad un rapporto di competizione e controllo;
la vulnerabilit prodotta dallesposizione a fenomeni oltre il proprio
controllo potrebbe portare allinsicurezza incentivando il conflitto, poich
temendo che prodotti necessari vengano negati nel momento del
bisogno, gli stati potrebbero cercare di ottenerli con la forza.
Per Waltz, infatti, una stretta interdipendenza aumenterebbe le probabilit di
conflitto poich ci sarebbero pi occasioni di contatto e competizione; pi
stretti sono i legami, pi estremi gli effetti di un piccolo movimento degli stati.
4. INTERDIPENDENZA E PACE NELLA STORIA
La maggior parte della letteratura, tuttavia, sostiene lipotesi liberale; leffetto
pacificatore sarebbe sviluppato in particolar modo nelle relazioni tra stati con
un regime politico liberale, poich democrazia e commercio si rafforzano a
vicenda, nellottica di Mansfield. Tuttavia, dal punto di vista empirico, il
rapporto tra interdipendenza economica e politica internazionale complesso:
difficile dire se sia la cooperazione economica a ridurre il conflitto politico o al
contrario, la riduzione di conflitto politico permettere lemergere di una
cooperazione economica.
Linterdipendenza potrebbe essere considerata un effetto e non la
causa della pace. In effetti questa considerazione vale sia per il lungo periodo
di pace seguito dal Congresso di Vienna nel 1815, coinciso con un aumento

dellinterdipendenza economica, sia dallet della Belle Epoque: in entrambi i


casi linterdipendenza non fu da deterrente alle guerre nazionali del 1848-1870
n alla IGM. Un problema per il realismo mercantilistico invece rappresentato
dalla IIGM.
Dopo la IIGM gli Stati del blocco occidentale hanno intrapreso nuovamente la
strada dellapertura economica, questo ha portato, con il suo successivo
allargamento, a un periodo di significativa crescita e prosperit senza
precedenti storici; a questo hanno contribuito le istituzioni fondate
dallindomani della IIGM. Questo forte aumento dellinterdipendenza ha messo
in luce due fenomeni: il periodo della guerra fredda ha messo in evidenza la
preferenza degli stati a commerciare soprattutto coi propri alleati per rafforzare
i rapporti di collaborazione e non essere influenzabili dai potenziali avversari;
dallaltro, lutilit in termini militari di detenere maggiori risorse economiche
frutto dellinterdipendenza, come mostrato dal successo occidentale. La
correlazione tra apertura economica e successo istituzionale potrebbe quindi
spiegare lascesa delle potenze occidentali negli ultimi secoli.

CAP.ITOLO 7 POLITICA INTERNA E PACE DEMOCRATICA


1. POLITICA INTERNA E POLITICA ESTERA
Il modello stato-centrico delle Relazioni Internazionali assume che la politica
estera sa dettata su ci che succede nellambiente internazionale, e che essa
non si modifichi al cambiare delle caratteristiche degli stati stessi, che sono
razionali, autonomi e unitari. Tuttavia, altre prospettive sottolineano la
necessit di studiare lattivit di politica estera tenendo conto della politica
interna e degli attributi degli stati, tenendo in conto in particolare di tre
processi dai quali emerge la politica estera di uno stato: le dinamiche
interstatali, quelle intrasocietarie, le dinamica tra stato e societ.
1.1 La politica estera tra burocrazia e politica
Gli stati sono in realt dei costrutti mentali, dei concetti che rimandano ad
aggregati di persone, organizzazioni, ruoli, elementi materiali (territorio) e
simbolici (lingua, cultura, valori): per i teorici della politica burocratica, quindi,
per comprendere il modo in cui essi agiscono bisogna tenere conto di come
funzionino ed interagiscano questi apparati.
La stessa politica estera deriva dallinterazione tra diversi apparati che lottano
per far prevalere nel processo decisionale la loro percezione dei problemi in
gioco e i loro interessi specifici: linteresse nazionale diventa cos un mero esito
negoziale tra i diversi apparati pi che il risultato derivante dalle sfide
dellambiente internazionale.
Questo modello mette radicalmente in dubbio gli assunti stato-centrici
dellunitariet e della razionalit degli stati, poich le decisioni non vengono
prese in modo centralizzato e n in modo strumentalmente razionale.
1.2 La politica estera tra gruppi di pressione e comunit epistemiche
I decisori pubblici e gli apparati devono considerare le richieste che provengono
da loro ambiente interno, e cio le domande politiche domestiche, poich il
modo in cui lo stato persegue i propri interessi esterni produce numerose
conseguenze interne.
I gruppi organizzati, ad esempio, detengono risorse consistenti che possono
essere impiegate per rafforzare le domande politiche e sostenere coloro che le
accolgono, avendo cos un peso significativo nel processo decisionale pubblico.
Il modello stato-centrico non messo in dubbio solo perch il governo
incapace di decidere in modo centralizzato, ma linfluenza degli attori domestici
fa cadere lassunto dellautonomia del governo. Neanche la razionalit
dellattore messa in dubbio, ma solo quale sia lidentit dellattore stesso. Il
governo diventa un attore che interagisce con gruppi interni per perseguire
politiche estere che realizzano gli interessi di quella coalizione specifica.
Putnam, ad esempio, propone un modello in cui i governi sono attori che
gestiscono un gioco a due livelli:
a livello nazionale il governo viene influenzato dai gruppi domestici, e i
politici cercano di conquistare potere costruendo coalizioni tra questi
gruppi;
a livello internazionale i governi cercano di massimizzare la propria
capacit di soddisfare le pressioni domestiche e di minimizzare le
conseguenze negative degli sviluppi internazionali.

I governi rispondono contemporaneamente alle domande interne ed esterne,


cercando di usare strategicamente le prime per evitare concessioni sgradite
allesterno e viceversa. Ma la politica estera non solo esposta allinfluenza di
gruppi organizzati che perseguono interessi materiali, ma anche da altri tipi di
gruppi, come le comunit epistemiche. Queste sono reticoli formali ed informali
di esperti che diffondono in modo autorevole informazioni e conoscenze circa le
questioni internazionali e possono esercitare uninfluenza che rinvia sia alla
conoscenza come forma di potere sia al ruolo delle idee in politica estera. Il loro
ruolo pu difficilmente essere ignorato, in particolar modo quando la scelta dei
comportamenti internazionali degli stati avviene in condizioni di grande
incertezza e quando i problemi in gioco hanno un elevato contenuto tecnico e
sono poco politicizzati.
1.3 La politica estera tra opinione pubblica e mezzi di comunicazione
La politica estera stata tradizionalmente considerata un settore decisionale
isolato dal dibattito pubblico e sottratto al controllo della popolazione,
considerata disattenta, disinformata e incompetente sulle questioni di politica
internazionale. Questo ragionamento non sembra per confermato dalla ricerca
empirica recente che, pur mostrando che il pubblico tendenzialmente poco
informato sullargomento, evidenzia come esso articoli coerentemente le
informazioni di cui dispone: non si pu assumere in tutti i casi che il processo
decisionale quindi avvenga indipendentemente dagli orientamenti della
popolazione. Quando le sue preferenze in politica estera si compattano in modo
percepibile (sondaggi, elezioni, referendum ecc.) esse esprimono in modo
chiaro lorientamento dellopinione pubblica su certi temi.
Hill sottolinea come leffetto condizionante dellopinione pubblica possa essere:
intermittente, poich le elezioni sono periodiche; sensibile agli stimoli dei
gruppi organizzati o del potere politico; debole, poich lopinione pubblica si
concentra su temi diversi da quelli della politica estera; favorevole in modo
incondizionato al governo, ad esempio quando ci si trova in guerra.
A questeffetto si associa il ruolo dei mass media, che entrano nel processo
decisionale pubblico poich sono parte del processo di formazione ed
espressione delle preferenze politiche diffondendo informazione, e poich
rappresentano daltro canto gli orientamenti dellopinione pubblica; inoltre
pongono al centro dellattenzione pubblica i temi che trattano dando maggiore
urgenza a certi problemi, influenzando cos la definizione dellagenda politica
(CNN effect).
Lo sviluppo delle reti televisive globali ha portato a distribuire con continuit e
su scala mondiale informazioni che sono sempre meno controllabili dai governi
e che hanno un grande impatto emotivo: il CNN effect ha sicuramente
modificato in questo modo i tempi della politica estera, poich rende urgenti
decisioni che in passato erano prese secondo procedure lente e laboriose.
2. POLITICA INTERNA E POLITICA INTERNAZIONALE: LESPANSIONE
DELLARENA DECISIONALE
I fattori che hanno contribuito a modificare la politica estera tradizionale fino a
portarla a quella contemporanea sono vari: lingresso sulla scena mondiale
della politica di massa e della guerra generale, i processi di liberalizzazione e
democratizzazione, la crescita dellinterdipendenza economica e di nuovi e

veloci mezzi di comunicazione. Questo cambiamento percepibile


considerando tre dimensioni ad esso connesse: lespansione dei settori, degli
attori e delle pratiche della politica estera. Le questioni tenute in conto
nellelaborazione della politica estera si sono ampliate poich la politica
ormai intermestica, cio un tipo di politica in cui elementi internazionali e
domestici si intrecciano.
Gli attori sono aumentati pe numero e tipo: vertici militari, banche centrali,
ministri, ma anche gruppi domestici e popolazione stessa. La riservatezza della
diplomazia bilaterale ha lasciato spazio ad una politica estera pi trasparente
condotta per conferenze multilaterali, e la proliferazione di organizzazioni
internazionali ha diversificato le sedi di confronto e le figure che esprimono gli
interessi degli stati; le possibilit offerte dai mezzi di comunicazione inoltre ha
permesso la nascita della diplomazia pubblica.
Si pu anche concludere che lespansione dellarena decisionale della politica
estera ha reso pi rilevante che nel passato il nesso tra politica estera e
interna, per questo ha assunto nuova importanza la natura del regime politico
degli stati (che dunque non si comportano in maniera uniforme, ma cambiano
comportamento a seconda delle loro caratteristiche interne), che si pu
considerare come quarto fattore di cambiamento della politica internazionale.
3. LA POLITICA ESTERA TRA GUERRA E ISTITUZIONI POLITICHE: LA
TEORIA DELLA PACE DEMOCRATICA
La teoria della pace democratica, o pace separata, si basa proprio su queste
ultime considerazioni, in particolare analizza la natura democratica di un
determinato regime in relazione alla guerra. La teoria prende spunto dalle
intuizioni kantiane contenute ne Per la pace perpetua, e si interroga su un
problema specifico: loccorrenza della guerra in relazione alla nature delle
istituzioni politiche degli stati che la combattono, e cio se regimi politici
diversi fanno guerra con frequenza diversa. Non possibile dire che le
democrazie sono pi pacifiche degli altri regimi politici perch combattono
meno di frequente, tuttavia esse sono pacifiche nei loro rapporti reciproci:
questa la risposta che la letteratura da a questo problema.
3.1 I dati della pace democratica
Doyle, analizzando i dati disponibili sulle guerre combattute dal 1800 e la
natura dei regimi politici coinvolti, descrive le democrazie come regimi che
durano almeno 3 anni e che si distinguono per uneconomia di libero mercato e
propriet privata, sovranit esterna, tutela giuridica dei diritti dei cittadini,
subordinazione dei militari al potere esecutivo, potere legislativo con un ruolo
effettivo nella formulazione delle leggi e eletto in modo competitivo tramite
elezioni cui partecipa almeno il 30% dellelettorato maschile, e a cui hanno
accesso anche le donne entro un anno dalla rivendicazione del suffragio
femminile.
Nelle 118 guerre combattute nellarco dei 200 anni considerati, gli stati in cui le
libert sono assicurate costituzionalmente non si sono ancora fatti guerra.
La ricerca segnala inoltre che le democrazie tendono a non combattere guerre
preventive:
Schweller sottolinea come le democrazie sperimentino strade alternative
a seconda del regime che fronteggiano (accomodamento pacifico se si

tratta di uno stato democratico, costruzione di alleanze difensive di


fronte ad un probabile attacco).
Dixon mette in evidenza come le democrazie cerchino di risolvere le
dispute con lo strumento dellarbitrato internazionale (dunque attraverso
una risoluzione pacifica) molto pi spesso di quanto non facciano gli stati
non-democratici. Un esempio a sostegno di questa teoria come USA e
UK abbiano superato senza conflitti aperti una situazione come quella
della transazione di potere, che la tradizione realista connette alla
guerra.

3.2 Le cause della pace democratica


Kant specificava lelemento principale che avrebbe portato alla pace tra le
nazioni: la diffusione universale del governo costituzionale repubblicano
(appunto la democrazia), poich avrebbe reso gli stati meno propensi alla
guerra per le conseguenze che questa avrebbe avuto sui cittadini, dal cui
consenso dipende il governo. Assieme a questo fattore, bisognava anche avere
la realizzazione di ununione pacifica che avrebbe sancito il rispetto per la
legge, e il rispetto del diritto cosmopolitico che sancisce il dovere allospitalit
universale. Le spiegazioni successive si basano su tre tipi di cause della pace
democratica: istituzionali, normative ed economiche.
Le cause istituzionali considerano di grande rilevanza il fatto che le democrazie
siano dei sistemi politici il cui governo dipende dal consenso dei cittadini
tramite libere elezioni periodiche, e che esse prevedano dei contrappesi e
controlli che sottopongono lesecutivo al vaglio degli altri poteri, e il governo a
quello dellopposizione. Questi elementi istituzionali infatti producono tre
costrizioni alla scelta di fare guerra: i costi finanziari e umani di una guerra
ricadono sui cittadini, che dunque si esprimer molto pi probabilmente a suo
sfavore; lopposizione ha spazi di organizzazione e azione tutelati, e i
governanti si aspettano costi politici alti dalluso della forza; la divisione dei
poteri e la trasparenza degli atti delle istituzioni prevengono decisioni affrettate
e ostacolano una politica estera aggressiva, che richiede segretezza e
flessibilit.
Le cause normative hanno a che fare con la cultura politica che caratterizza le
democrazie, dove la violenza esclusa dalle risorse impiegabili per conquistare
o mantenere il potere: le democrazie sono stati di diritto in cui le dispute sono
risolte tramite strumenti giuridici, e allinterno delle quali si coltivano i valori
della risoluzione pacifica, valori che influenzano la stessa politica
internazionale.
Le cause economiche riguardano le conseguenze che derivano dal fatto che le
democrazie tutelano le propriet privata e la libert economica: ci produce un
sistema di libero mercato che facilita lo sviluppo di relazioni commerciali con
lesterno producendo uninterdipendenza economica. Questa aumenta i costi
della guerra e ne riduce i benefici rispetto ad una risoluzione pacifica.
Laffinit istituzionale, normativa e lalta interdipendenza tra le democrazie,
nellidea kantiana, avrebbe totalmente disincentivato la guerra e le avrebbe
portate a creare una comunit pluralistica di sicurezza, entro la quale il

comportamento degli stati diverso rispetto a quando si rivolge allesterno: un


comportamento quindi pacifico con le altre democrazie, potenzialmente
belligerante con le non-democrazie. La pace s perpetua, ma democratica e
separata, stabile ma reversibile poich dipende dal tipo di regime considerato e
quindi dalla sua evoluzione.
Tuttavia Panebianco mette in evidenza come le cause indicate dovrebbero
rendere le democrazie pi pacifiche in generale e non solo nei rapporti
reciproci, a differenza per di ci che dimostrano i dati. La letteratura ha
cercato dunque di completare la spiegazione della pace democratica invocando
la sua causa informativa, cio quella che rimanda allidea che le democrazie
sono pi credibili degli altri regimi nella negoziazione e nella stipulazione degli
accordi: questo per via del giudizio degli elettori, che rende le posizioni
negoziali pi impegnative a causa dei costi reputazionali che queste implicano
allinterno dello stato. Inoltre le democrazie sono pi affidabili per il loro
pluralismo istituzionale, che sottintende poteri di veto e dunque una maggiore
difficolt nel cambiare la propria posizione, e il fatto che esse non fondano la
loro legittimit sui propri leader, il cui cambiamento quindi non influisce sugli
accordi presi. Dunque, se le democrazie affrontano le crisi segnalando in
maniera chiara e credibile quando sono disposte a fare guerra, nei loro rapporti
reciproci hanno unarma in pi per evitarla, cio le informazioni certe sulla
prossimit del conflitto; inoltre sono pi affidabili poich pi difficile cambiare
gli impegni presi e quindi sono in grado di stipulare accordi a loro volta
affidabili e credibili per risolvere pacificamente le controversie.
3.3 Il dibattito sulla pace democratica
La teoria della pace democratica ci che pi si avvicina ad una legge
empirica nelle Relazioni Internazionali, eppure non esente da critiche.
Secondo Dahl, ad esempio, un regime politico una poliarchia se garantisce
costituzionalmente e praticamente: libert associativa e despressione, diritto
di voto attivo e passivo, elezioni libere, periodiche e competitive, fonti
alternative di informazione, istituzioni che garantiscono una certa dipendenza
dal voto popolare delle decisioni collettive.
Confrontando questi requisiti con quelli proposti da Doyle, si nota come la sua
sia meno esigente (non richiede suffragio universale e considera sufficienti tre
anni per considerare consolidata la democrazia): si studia davvero la pace
democratica selezionando paesi cos blandamente democratici?
Tuttavia la scelta di una definizione larga necessaria data lesigenza di dare
profondit storica allanalisi. Nel complesso si sono individuati poco pi di venti
casi dal 415 a. C. ad oggi in cui sono avvenute guerre tra regimi da considerarsi
democratici; un numero certamente impressionante, ma cos esiguo proprio per
lampia definizione di democrazia. Alcuni realisti oppongono infatti che il
numero di democrazie stato molto ridotto fino ai tempi recenti e questo
renderebbe non significativa la teoria dal punto di vista statistico.
Se si considerano le stesse definizioni ampie di democrazia che sembrano
avvallare lipotesi, si deve anche rilevare la presenza di casi dubbi e di
eccezione alla pace democratica, per quanto esigui: anche se in questi casi i
teorici invocano il non completo possesso dei requisiti delle democrazie da
parte degli stati in guerra. Tuttavia i limiti che si riscontrano nei regimi
considerati (Germania del 1914 e Spagna del 1898) si possono ritrovare ai

tempi anche negli altri stati considerati democratici, visto che le democrazie
erano di fatto ancora in formazione.
Per risolvere questo problema bisogna considerare che pur potendo classificare
questi paesi come democrazie, non erano percepiti tali dagli altri, modificando
per il nesso tra democrazie e guerra: in questo caso non contano tanto gli
attributi dello stato, ma la percezione che si ha di esso.
Panebianco inoltre considera come la teoria abbia teorizzato la politica estera
della democrazia in generale e non delle singole democrazie con le loro
particolari istituzioni, il che un problema se si assume che le caratteristiche
della struttura politica influenzano il comportamento internazionale. Altro
fattore rilevante che stato ignorato dai teorici il rapporto tra democrazia e
guerra influenzato dal grado di liberalismo dello stato.
importante considerare se gli stati siano liberali o illiberali, poich alla base
delle scelte di politica estera dei governi sta il modo in cui essi si percepiscono,
e che un paese sia governato da una classe politica illiberale pu essere un
motivo sufficiente per percepirlo come minaccioso. In questo modo si risolve il
problema delle eccezioni alla teoria della pace democratica (Germania e
Spagna non erano percepite come liberali). Lintroduzione del criterio
dellideologia liberale riduce il campo dei regimi coinvolti nella pace
democratica restringendolo ai soli paesi occidentali in cui democrazia e alto
grado di liberalismo coincidono: la teoria diventerebbe cos per non pi
globale, ma locale. Inoltre in questo modo si alimenta unaltra critica realista,
che considera la pace democratica come esito dellesistenza di un sistema
bipolare in cui i paesi occidentali facevano tutti parte dello stesso blocco: alla
base della pace non sta la natura democratica dei regimi ma i fattori sistemicostrutturali del bipolarismo.
Per scegliere tra tutte queste spiegazioni alternative allo stesso fenomeno, si
possono scegliere tre vie.
La prima (ipotesi derivate) consiste nel derivare ciascuna spiegazione delle
ipotesi addizionali, cio di estrarre dagli argomenti formulati per esprimere il
fenomeno delle ipotesi che riguardano fenomeni diversi e verificarle: la
spiegazione migliore per quanto riguarda la pace democratica sarebbe quindi
quella che spiega altrettanto bene altri aspetti delle democrazie nei conflitti
internazionali. In questo senso ha pi capacit esplicativa la teoria della pace
democratica rispetto a quelle sistemico strutturali.
La seconda via (influenze multiple) tratta statisticamente i fattori analizzati per
pesare linfluenza di ciascuno di loro (singolarmente e combinati) nel creare il
fenomeno, e anche questa avvalla lipotesi della pace democratica. La terza via
(mutamento strutturale) considera come si sono configurati i rapporti tra
democrazia e guerra quando le cause realiste della pace democratica hanno
assunto valori diversi da quelli della guerra fredda: se la pace democratica
tenesse anche in un sistema non bipolare, si potrebbe trovare pi
semplicemente una soluzione al quesito.
4. LA PACE DEMOCRATICA E IL SISTEMA INTERNAZIONALE
CONTEMPORANEO
La fine della guerra fredda ha modificato molti attributi del sistema
internazionale: non pi un sistema bipolare, si assistiti quindi alla rottura
della forte identit di sicurezza che accumunava i paesi occidentali,

aumentato il numero di democrazie, che non appartengono pi alla comunit


euroatlantica originaria e hanno quindi interessi di sicurezza differenti.
Analizzando quindi questo periodo si pu mettere a confronto le spiegazioni
liberali e realiste sulla pace democratica. Tuttavia, questo stesso mutamento
sistemico rende difficile il confronto, perch si considera come la transizione
abbia portato a un livello cos elevato la concentrazione di potere militare negli
USA da moderare lo scoppio di guerre interstatali.
Bisogna dunque guardare non tanto alle guerre quanto alle dispute
militarizzate: Gowa analizza le dispute tra il 1950 e il 1991 e poi dal 1992 al
2001, conferma che durante la guerra fredda quelle tra le democrazie erano
molto meno frequenti di quelle con paesi non-democratici. Per il secondo
periodo invece non ci sono differenze significative tra le dispute; si giunge cos
alla conclusione che lo schema della guerra fredda dovuto ai comuni interessi
tra gli stati democratici e alle dispute derivanti dal conflitto Est-Ovest. Se si
considerano le guerre interstatali, invece, la teoria sembra verificata (a parte i
casi dubbi Ecuador-Per e India-Pakistan), anche se le democrazie hanno
iniziato pi di frequente ad intervenire o iniziare conflitti contro stati nondemocratici che non le avevano attaccate: non si pu quindi sostenere la
natura intrinsecamente pacifica delle democrazie, ma queste tra loro hanno
continuato a non farsi guerra dopo il 1989.
A fronte di quello che sembra in ogni caso la prova della validit della teoria,
uno degli obiettivi principali degli stati sembrerebbe quello di espandere la
democrazia, anche con luso della forza. Riguardo questo bisogna per tenere
in considerazione che molto spesso la stessa espansione di questo tipo di
regime porta ad aumentare le tensioni internazionali: le stesse democrazie in
via di consolidamento tendono, come ogni regime di transizione, a fare pi
spesso la guerra, e il concetto di esportare la democrazia facendo la guerra
rimane di dubbio esito.

CAPITOLO 8 SICUREZZA
1. LA SICUREZZA COME SCOPO ELEMENTARE DELLAZIONE POLITICA
In una societ anarchica e spesso ostile come quella internazionale, la
riduzione dellincertezza e dellinsicurezza lo scopo elementare dellazione
politica. Lo stato nella storia dellOccidente sicuramente listituzione che ha
realizzato con maggior efficacia la garanzia nei confronti dellinsicurezza,
interna o esterna; ma proprio la presenza di altri stati indipendenti che mette
in pericolo la sopravvivenza delle persone attraverso la guerra. La sicurezza
pertanto il suo oggetto per definizione, pur non esaurendone il significato:
giustizia, libert, indipendenza possono essere valori politici altrettanto o anche
pi rilevanti di essa, tanto che gli stati occidentali hanno negli ultimi anni
utilizzato pi risorse per il loro conseguimento rispetto a quello della sicurezza.
Tuttavia lera della globalizzazione ha chiarito anche agli stati occidentali che ci
sono ancora sfide alla sicurezza, aggiungendone di nuove alle tradizionali.
2. IL PARADIGMA ANARCHICO, OVVERO LA CONTINUA COMPETIZIONE
PER LA SICUREZZA
Nel campo delle relazioni internazionali, la sicurezza deve intendersi come
sopravvivenza politica dello stato indipendente e autonomo: sovranit verso
linterno significa supremazia, verso lesterno non subordinazione. Infatti la
cessione della propria sovranit individuale da parte di ogni membro della
comunit politica a un soggetto terzo (lo stato, appunto) in cambio di
protezione, come avviene nellarena domestica, non praticabile in quella
internazionale, perch se gli stati rinunciassero alla sovranit non avrebbero
ragione dessere.
Tuttavia lidea che il perseguimento della sicurezza sia possibile solo a
condizione di superare la natura anarchica de sistema, attraverso la
prospettiva di un governo internazionale e del concetto di giustizia
cosmopolitica e sicurezza collettiva, si colloca al cuore della riflessione
idealista. Per il realismo classico, invece, ci che conta la sicurezza nazionale:
la protezione della propria comunit politica conseguita attraverso la potenza,
nonch unico interesse dello stato. Ma la sicurezza non coincide con la potenza,
poich aumentando la seconda non necessariamente si migliora la prima: il
miglioramento della posizione di uno stato relativamente agli altri, potrebbe
indurre gli ultimi a ribaltare il guadagno attraverso la guerra. Infine, la
sicurezza pu essere vista in maniera oggettiva o soggettiva: in senso
oggettivo misura lassenza di minacce (elemento costante), in senso soggettivo
lassenza di paura (elemento variabile).
2.1 Il dilemma della sicurezza
vero, comunque, che in unarena anarchica in cui non possono essere mai
dismesse aspettative di violenza lunico modo per garantirsi sicurezza
massimizzare le proprie risorse di potenza, poich aumentandole si
minimizzano le conseguenze della potenza altrui. Ma poich tutti gli stati sono
portati ad agire razionalmente seconda una medesima logica, a fronte
dellincremento di potenza di uno stato, anche gli altri faranno lo stesso nella
cosiddetta corsa agli armamenti: il risultato che ogni sforzo di accrescere la
propria sicurezza alimenta le fonti stesse dellinsicurezza. In questo senso il
dilemma della sicurezza pu essere definito come una condizione strutturale

del sistema internazionale. Gli eventi del primo decennio del XXI secolo, inoltre,
sembrano mettere in luce come lutilizzo della forza, anche in condizioni di
superiorit in cui la potenza sia stata massimizzata, riesce difficilmente ormai
ad essere risolutivo e a migliorare le condizioni di sicurezza (es.: conflitti
afghano e iracheno).
2.2 Gli errori di percezione
La corsa agli armamenti rappresenta un percorso molto pericoloso, perch c il
rischio sempre presente che unerrata percezione delle intenzioni altrui scateni
un conflitto. Jervis sottolinea tre tipi di errori di percezione: non cogliere
limportanza che gli avversari assegnano al raggiungimento di determinati
obiettivi, lerrata convinzione che gli altri abbiano a disposizione alternative
rispetto alle politiche che stanno attuando, la presunzione che il proprio
comportamento sia pi trasparente per gli altri di quanto in effetti sia. Questi
errori possono essere ricondotti a tre fattori: la sovraconfidenza cognitiva
(sovrastima del nostro grado di comprensione dellambiente in cui ci troviamo),
lancoraggio (assimilazione di nuove informazioni ai nostri preesistenti schemi
di credenza), la negazione (rifiuto di percepire e comprendere gli stimoli
minacciosi).
2.3 La questione dei guadagni relativi e il posizionalismo difensivo
La sicurezza non uno scopo come gli altri per lo stato, ma uno scopo-vincolo,
poich senza di essa lo stato non pu sopravvivere, e questo deriva dalla
struttura anarchica del sistema: proprio la natura strutturale della sicurezza la
renda diversa rispetto agli altri scopi dellazione statale e conduce gli stati a
quantificare il proprio utile in questo campo in termini relativi. Partendo dunque
da due assunti principali del realismo (linteresse dello stato massimizzare la
propria sicurezza e forza relativa), questa teoria sostiene che lanarchia induca
gli stati a caratterizzarsi come posizionalisti difensivi: gli stati cercando di
raggiungere quel livello di capacit ed autonomia che consentano loro di
mantenere la posizione di potere relativo rispetto agli altri. Lautodifesa il fine
ultimo degli stati, prima della massimizzazione della potenza e dei guadagni
assoluti.
2.4 Il realismo offensivo
Il realismo strutturale o neorealismo, a differenza del realismo classico, non
presuppone unintrinseca aggressivit delle grandi potenze e privilegia il livello
danalisi sistemico: per questo viene anche definito realismo difensivo. Esiste
per anche un realismo offensivo secondo il quale le grandi potenze si
comportano aggressivamente non perch vogliono farlo ma perch sono
costrette a cercare pi potere se vogliono massimizzare le probabilit di
sopravvivenza, dato che il sistema internazionale spinge a creare occasioni per
guadagnare potere a spese dei rivali, e ad approfittare di tali occasioni quando i
benefici superano i costi.
Le tre concezioni realiste (offensiva, difensiva e egemonica) propongono quindi
una diversa relazione potere-sicurezza e rappresentano tre momenti diversi
della potenza di uno stato:
quando uno stato debole, laccumulo di potere incrementa la sua
sicurezza (realismo offensivo).

uno stato che continua a farlo potrebbe suscitare una reazione di


bilanciamento che pone a rischio la sicurezza (realismo difensivo).
quando lo stato diventa troppo potente per essere bilanciato, i suoi
oppositori scelgono il bandwagoning e la sua sicurezza cresce di nuovo
(stabilit egemonica).

3. COOPERARE PER LA SICUREZZA: IL PARZIALE SUPERAMENTO DEL


PARADIGMA ANARCHICO
Nella storia recente ci sono evoluzioni che sembrano smentire o rettificare
alcuni degli assunti di base del realismo: non tutti gli attori statali sono o si
comportano come grandi potenze, e la struttura anarchica del sistema appare
superata in alcune zone (es.: Europa); se vero che lOccidente e lEuropa non
rappresentano lintero sistema, anche vero che limpianto realista
sviluppato estendendo al sistema politico internazionale complessivo le regole
desunte dal sistema europeo. Occorre quindi valutare se e sotto quali
condizioni la sicurezza non possa essere concettualizzata come un bene
ottenuto attraverso la cooperazione.
3.1 La sicurezza collettiva e i peace research studies
Lidea della sicurezza come esito cooperativo ricalca quella della sicurezza
collettiva, che per Hans Kelsen si ha quando la protezione dei diritti degli stati e
la reazione contro la violazione della legge assumono il carattere di unazione
messa in pratica collettivamente. Alcuni degli stessi realisti avevano spiegato
gli accordi tra potenze tipici della storia europea (concerti) tramite la
combinazione di elementi egoistici e di interessi relativi alla preservazione della
comunit degli stati; lapproccio della sicurezza collettiva parte da questo
stesso presupposto andando oltre, sostenendo che lordine e la sicurezza
possono affermarsi solo se c un impegno attivo nellarginare qualunque
atteggiamento aggressivo, proprio e altrui. In effetti, secondo Thompson il
principio sul quale la sicurezza collettiva fondata prevede che un attacco a
qualunque stato sar considerato come un attacco a tutti gli stati.
Per la realizzazione della sicurezza collettiva occorre, in questottica, che i
governi siano sensibili ad un richiamo morale contro labuso della forza, e che
ad esso sia affiancato un riconoscimento del valore della pace mondiale con un
conseguente impegno teso al suo perseguimento.
Dal punto di vista soggettivo, quindi, la lealt politica si sposta verso la
comunit mondiale e gli obiettivi di interesse nazionale vengono subordinati a
quelli della sicurezza collettiva: necessario quindi che i governi acquisiscano
un altissimo grado di fiducia nei confronti degli altri stati e che il sistema sia
imparziale e fondato sul principio dellanonimato: ogni stato deve essere
disposto a combattere in favore di una vittima anonima dallattacco di un
aggressore anonimo. Se quindi lidea del concerto tra le potenze si attiva solo
contro luso improprio del potere (undue power), la sicurezza collettiva ha come
oggetto qualunque atto aggressivo (aggressive policy).
Dal punto di vista oggettivo, il primo requisito per la realizzazione della
sicurezza collettiva sta nellesistenza di un modo caratterizzato da una
diffusione del potere e dalluniversalit sostanziale della membership;
bisognerebbe realizzare un parziale disarmo; sarebbe necessaria la presenza di

una certa vulnerabilit economica universale, e di un apparato legale e


organizzativo capace di istituzionalizzare tali principi.
Secondo i critici per c una netta divergenza tra lidea e la realt della
sicurezza collettiva: nella realt, lapplicazione dei principi descritti porta alla
tendenza al coinvolgimento di tutti gli stati in tutte le controversie, esponendo
il sistema ad un conflitto generale. Inoltre, non si spiega come gli stati riescano
a superare paura e incomprensioni reciproche ed anche necessario che gli
stati riescano a distinguere chiaramente vittima e aggressore. A queste critiche
stato replicato che un equilibrio regolato e istituzionalizzato sullidea del tutti
contro uno offre maggiore stabilit rispetto ad uno senza regole e basato solo
sul self-help.
A partire dagli anni 60, nata la scuola della peace research, la quale vuole
realizzare la pace attraverso linfluenza delle istituzioni globali. Viene
sottolineato non tanto il valore della sicurezza, tanto quello della pace intesa
come realizzazione di tutte le potenzialit umane: bisogna allargare le
dimensione sociali coinvolte nellatto della sopraffazione, che pu essere s
militare e politica, ma anche culturale, economica e ambientale, superando i
limiti della concezione che considera la violenza come atto diretto oscurano le
complesse radici sociali del conflitto.
3.2 Le istituzioni e la sicurezza internazionale
Le istituzioni possono fornire informazioni, ridurre i costi di transazione, rendere
pi credibile gli impegni presi, stabilire punti focali per il coordinamento e
facilitare le operazioni di reciprocit, riducendo linfluenza della condizione
strutturale anarchica del sistema. Secondo questa prospettiva, anche nel
campo della sicurezza possono emergere regimi internazionali, un tipo di
cooperazione che implica la distribuzione della potenza tra gli attori del sistema
non determini in maniera diretta i risultati dellinterazione tra gli stati.
Affinch nascano dei regimi di sicurezza, bisogna soddisfare quattro condizioni:
1. La volont di muoversi in un ambiente regolato e quindi un certo livello di
soddisfazione riguardo allo status quo
2. La convinzione che tutti condividano la stessa attribuzione di valore alla
cooperazione e alla sicurezza reciproca
3. Lassenza di attori che credano che la sicurezza sia garantita meglio
attraverso lespansione
4. Lidea che la guerra e il perseguimento individualistico della sicurezza
siano molto costosi
La rilevanza dei regimi internazionali emerge maggiormente se si accetta una
definizione di sicurezza che non si basi solo sugli aspetti militari, ma anche su
eventi che minacciano la qualit della vita e le libert individuali: la sicurezza
non un concetto immutabile. Se appare quindi ancora prematuro parlare di
una concezione condivisa di sicurezza globale, si pu collegare la sua
affermazione
al
consolidamento
delle
istituzioni
internazionali
e
allallargamento del campo della loro azione.
Essendo la sicurezza un valore, lanalisi politica si interroga sulla sua
apprezzabilit nei confronti di altri valori, e si possono distinguere tre approcci:
il prime value approach (primato della sicurezza, prerequisito per il
raggiungimento di altri scopi realismo),

il core value approach (posizione intermedia, il primato va giustificato),


il marginal value approach (il valore della sicurezza non assoluto ma
relativo al soggetto e al contesto: la scelta tra la sicurezza e gli altri valori
dipende dalla differenza nel guadagno marginale).

Dopo la guerra fredda, la prospettiva istituzionalista si interessa alla


problematica della sicurezza rispetto al destino dellAlleanza Atlantica; Keohane
e Wallander analizzano le istituzioni di sicurezza a partire dallabbandono del
concetto ristretto di minaccia e a favore di quello generale di rischio,
includendo cos tutte le problematiche presenti anche dopo che non esiste pi
una diretta minaccia militare. Lo sviluppo dellistituzionalizzazione dipende
dallincrocio di due variabili: il criterio di partecipazione (inclusione/esclusione)
e la situazione che gli stati devono fronteggiare (minaccia/rischio). In questo
senso, alcuni tipi di alleanze sono capaci di adattarsi alla situazione di
scomparsa di minaccia che era la loro ragione dessere, elaborando pratiche
che gestiscono i rischi.
3.3 Istituzioni e comunit di sicurezza
La Scuola istituzionalista si muove verso la prospettiva di una riduzione
dellanarchia, non limitando la propria osservazione alle alleanze tradizionali,
ma estendendola anche a quelle di security management, cio quelle volte a
gestire il conflitto tra i loro membri. Linnovazione della Scuola sta nel
riconoscere che i problemi di sicurezza si manifestano in pi forme: minacce da
stati politicamente instabili, da stati dal futuro incerto o problematico, date
dalla proliferazione delle armi di distruzione di massa, dalla privazione di
risorse vitali, dalla diffusione di ideologie estremiste.
Lapproccio delle comunit di sicurezza si presenta ancora pi radicale e
innovativo di quello istituzionalista, poich mette in discussione alcuni
presupposti del paradigma anarchico: ammette infatti che si possa creare un
legame politico positivo tra i vari attori non solo rivolto alla comune
contrapposizione nei confronti di uno stesso nemico, ma che comprenda anche
elementi di integrazione e solidariet mettendo in comune quote di legittimit
e autorit politica.
Deutsch definisce comunit di sicurezza un gruppo integrato, che ha
raggiunto cio un senso di comunit, accompagnato da istituzioni formali o
informali o da pratiche diffuse cos da assicurare il cambiamento pacifico tra i
membri della comunit; fanno parte di essa anche popolazione e territorio.
Limpostazione di Deutsch stata recuperata dal costruttivismo: le lite
politiche internazionali costituiscono delle comunit sviluppando identit sociali
comuni attraverso una scala di gradazione del livello dellidentit politica:
ostilit, rivalit, indifferenza, coesione, altruismo, simbiosi.
Adler e Barnett, invece, prendono ispirazione da Deutsch per fornire una lettura
delle dinamiche della sicurezza internazionale contemporanea, e sostengono
che il sorgere di una comunit di sicurezza di ha da alcun indicatori: la
presenza di multilateralismo nel decision-making, di frontiere prive di
fortificazioni, di mutamenti nella programmazione militare che escludono gli
altri membri della comunit dallarea ostile, di una comune definizione della
minaccia, di standard comuni di discorso e di linguaggio della comunit.
3.4 Il ruolo della cultura politica

Nel corso degli anni si cercato di considerare le norme, i valori e le culture


quali attori veri e propri del sistema per costruire una prospettiva alternativa al
tema classico della sicurezza nazionale. Wendt costruisce ad esempio una
concezione complessiva in cui il ruolo della sicurezza definito attraverso la
specificit socioculturale del sistema, e cio la cultura dellanarchia. Nella
storia europea moderna le culture dellanarchia sono tre: cultura hobbesiana,
cultura lockeana e cultura kantiana, che si distinguono in base a tre diverse
posizioni relative alla relazione con laltro, e che sono di inimicizia, rivalit o
amicizia.
3.5 Sicurezza societaria, sicurezza umana e sicurezza globale
Il concetto di sicurezza societaria spiega le dinamiche e i fenomeni che
regolano lagire dei gruppi sociali non-statali (religioni, minoranze ecc.) posti
davanti al problema della sopravvivenza: lidentit collettiva in questo caso
che viene sottoposta a minaccia e le risorse sono culturali e non materiali. Il
focus della sicurezza si sposta quindi dallo stato agli esseri umani,
riconoscendo un senso e unautonomia ai gruppi sociali substatali. Secondo
alcuni critici per questo allargamento delle issues di sicurezza non sarebbe
sufficiente e bisognerebbe parlare proprio di sicurezza umana. Il tema della
sicurezza ecologica o ambientale costituirebbe una variante della sicurezza
umana, in cui il focus sullecosistema e la difesa della specie. Il richiamo
alletica cosmopolitica induce a ritenere accettabili gli obiettivi di sicurezza
statali solo compatibilmente al rispetto dei diritti di cittadini: in questo modo lo
stato diventa pi una minaccia che soggetto vulnerabile esso stesso; tuttavia
nel Terzo Mondo proprio la debolezza statale a generare i pericoli rivolti ai
diritti e al benessere degli esseri umani. Accanto ai pericoli dovuti alluso
diretto della violenza, la sicurezza umana pone altre forme di violenza:
oppressione istituzionalizzata delle minoranze, tendenze imperialistiche e
sfruttamento, minacce naturali come malattie ecc., facendo trascendere il
concetto di sicurezza dai confini statali.
A partire dagli anni 90 emerge una prospettiva ancora pi universalista della
sicurezza, in cui gli esseri umani vanno considerai alla luce dellindivisibilit
della pace e al di l della cittadinanza particolare. Il concetto di sicurezza
globale si riferisce ad una dimensione spaziale estesa allintero pianeta e che
trova minacce di natura svariata: militari statali e non-statali, economiche,
allidentit sociale, ambientali, alla salute, tecnologiche, quelle derivanti dalla
criminalit organizzata. Originale lapproccio alla sicurezza globale in termini
di security governance: il problema qui viene posto in termini di policy,
attraverso una riforma del sistema della sicurezza basata sullinterazione tra
privati e pubblici nella costruzione di un monopolio della forza sia a livello delle
aree pi instabili, che a livello del sistema.
4. DILEMMI DELLA SICUREZZA DEGLI STATI
4.1 Anarchie mature e stati forti
Negli anni 90, quando il legame tra stato e politica era gi messo in crisi dalla
globalizzazione, la dimensione della sicurezza appariva quella che avrebbe
potuto rinsaldarlo di fronte a guerre civili e etnico-religiose nel cuore
dellEuropa stessa: lo state-building sembrava lunico modo per rafforzare ed
edificare qualunque altra istituzione e a garantire sicurezza agli individui. Nel

diffondersi di stati forti, secondo la definizione di Buzan (stati dotati di coesione


nel rapporto stato-societ e in grado di monopolizzare violenza legittima), si
poteva immaginare lampliamento delle aree di anarchia matura nelle quali gli
stati riconoscono la pericolosit di continuare a perseguire la sicurezza senza
tener conto anche degli interessi dei propri vicini. Al contrario, nei sistemi
anarchici poco strutturati e caratterizzati da stati deboli (quelli che non sono
riusciti a creare un consenso interno sufficientemente forte per eliminare il
ricordo alla violenza come elemento della vita politica interna) la prospettiva
del conflitto sempre presente.
4.2 Pi liberi o pi sicuri o sicuri perch liberi
Il dilagare del terrorismo di matrice islamista e di scala mondiale ha concorso a
ridare importanza alla dimensione statale e alla sua legittimit in quanto
principale agente col compito di garantire la sicurezza di una comunit.
difficile per non constatare come il terrorismo si sia dimostrato insensibile ai
mezzo con cui da secoli abbiamo affrontato minacce politico-militari. proprio
la dottrina della guerra preventiva adottata da Bush, la quale autorizzava gli
USA a colpire preventivamente e distruggere le organizzazioni che si
ritenevano minacciose a mettere in pericolo la validit del principio della
sovranit degli stati: la stessa natura dellattore che realizza la minaccia del
resto a farlo, essendo esso non-statale, non-pubblico ma chiaramente politico.
Neanche vivendo allinterno di uno stato forte e potente, in unanarchia
matura, si garantiti dalla minaccia. Se la costruzione dello stato sovrano
stato lo strumento principale attraverso cui lOccidete ha affrontato la
questione della sicurezza, questo strumento sembra oggi sempre meno
efficace.
Tuttavia la minaccia terroristica e le reazioni ad essa connesse comportano un
pericolo pi subdolo rispetto alla sicurezza degli individui, poich stiamo
assistendo alla proposizione di politiche che limitano la libert dei cittadini
promettendo loro in cambio maggior sicurezza. In questo senso Buzan riprende
le argomentazioni di Locke per sostenere che lo stesso stato pu rappresentare
una minaccia per i suoi cittadini attraverso quattro forme: tramite il processo
legislativo e di enforcement, tramite la diretta azione amministrativa contro
gruppi e individui, grazie alla lotta politica per il controllo dellapparato statale,
e a causa degli effetti delle politiche di sicurezza esterna. Se per Hobbes alla
crescita della libert consegue una diminuzione di sicurezza, per Locke solo
avendo la prima che la seconda potr aumentare. In realt, queste due visioni
possono essere conciliate considerando che al di sopra di un livello minimo di
libert come quello assicurato da un ordinamento costituzionale liberale e
democratico prevale la visione hobbesiana, mentre al di sotto di essa prevale la
visione di Locke, poich alle minacce provenienti dallesterno e dalla societ si
uniscono quelle dei governanti autoritari.
4.3 Limpossibile ricerca della sicurezza assoluta
Negli anni successivi alla fine della guerra fredda si sono moltiplicate minacce
nuove poco o per nulla sensibili allimpiego della forza, che spesso produce
ulteriori danni: esempio di questo la vicenda della dottrina della guerra
preventiva, che potrebbe risultare semplicemente nellisolamento politico della
potenza egemone.

Una delle minacce che pone maggiori difficolt nellelaborare delle strategie di
sicurezza quella della proliferazione delle armi nucleari: per il periodo della
guerra fredda il problema non era cos pressante poich posto sotto il controllo
che URSS e USA avevano dellintero sistema politico internazionale. Con la fine
del bipolarismo lo scenario cambiato, soprattutto per quei regimi che vedono
nella capacit nucleare lo strumento principale per innalzare la propria
sicurezza, e in realt finendo proprio per avere leffetto contrario (vedi dilemma
della sicurezza).
Accanto a terrorismo e proliferazione nucleare, bisogna annoverare tra le
minacce anche il moltiplicarsi di stati falliti, cio cos deboli da non riuscire a
garantire alla comunit internazionale che il proprio territorio non si trasformi in
una piattaforma sulla quale gruppi armati e terroristici possono agire
indisturbati. Secondo la spiegazione di Tilly per la nascita del moderno stato
europeo, esso si creato proprio attraverso la necessit di affrontare conflitti
su scala sempre pi ampia: la guerra rafforza gli stati o li fa cessare desistere.
Sorensen ha per osservato che la guerra non ha avuto questa funzione per i
paesi in via di sviluppo, poich essi, a differenza dei vecchi stati europei,
possono acquistare tecnologia miliare senza doversi sottoporre a riforma
istituzionali; inoltre il sistema sorto dalla IIGM ha rafforzato lintangibilit dei
confini internazionali e ha scoraggiato la distruzione delle sovranit, anche se
deboli. In simili condizioni, la minaccia di estinzione nazionale come esito di
una guerra non ha funzionato come incentivo a rafforzare lo stato, n la guerra
stessa ha evitato che al fallimento ne seguisse la rapida scomparsa.

CAPITOLO 9 - GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA E SOCIALE


1. IL DIBATTITO SULLA GLOBALIZZAZIONE
1.1 La globalizzazione come concetto analitico e strumento politico
Una delle tante conseguenze della fine della guerra fredda stata la
proliferazione di concetti e formule introdotti nel dibattito pubblico e
accademico. Il concetto che ha avuto fortuna maggiore l'espressione
GLOBALIZZAZIONE.
Non vi praticamente nessun aspetto della globalizzazione che non sia oggetto
di controversia. Schematizzando, si pu dire che i principali punti controversi
sono cinque:
Il primo punto riguarda le questioni di definizione e concettualizzazione,
in breve: che cos' la globalizzazione?
Il secondo punto riguarda i fattori propulsivi della globalizzazione, in
breve: quali sono le sue cause?
Il terzo punto, quali sono le conseguenze della globalizzazione.
Il quarto punto controverso riguarda la novit della globalizzazione: si
tratta di un fenomeno recente oppure di un insieme di processi
onnipresenti nella storia umana, o perlomeno nell'epoca moderna?
Il quinto punto, come giudicare e valutare la globalizzazione? Si tratta di
una forza di emancipazione che aumenta gli spazi di autonomia
personale, creativit e prosperit oppure si tratta di un vettore
dell'imperialismo economico e culturale dell'Occidente, che accentua le
disuguaglianze economiche e politiche all'interno degli Stati e tra i paesi?
1.2 Definizioni e indicatori
Uno dei primi studiosi a usare sistematicamente il termine globalizzazione
stato George Modelski, che agli inizi degli anni Settanta la definiva come "il
processo attraverso il quale diverse societ nella storia del mondo vengono
incorporate in un sistema globale".
Il sociologo Anthony Giddens la definisce come "l'intensificazione di relazioni
sociali mondiali che collegano tra loro localit distanti facendo s che gli eventi
locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di
distanza e viceversa".
La definizioni oggi pi influente probabilmente quella proposta da David Held
e Anthony McGrew il termine globalizzazione denota "la crescente ampiezza
delle relazioni interregionali e dei modelli di interazione sociale. Esso si
riferisce ad una vera e propria trasformazione nella scala dellorganizzazione
della societ umana, che pone in relazione comunit tra loro distanti ed allarga
la portata delle relazioni di potere abbracciando le regioni e i continenti [...] del
mondo. Ci non deve per essere inteso come se si prefigurasse l'emergere di
un'armoniosa societ mondiale, o di un processo universale di integrazione
globale all'interno del quale si realizzerebbe una crescente convergenza di
culture e civilt".
opportuno considerare brevemente anche che cosa la globalizzazione non .
Innanzitutto, essa non equivale alla omogeneizzazione culturale del mondo.
Similmente, la globalizzazione economica non si identifica con la convergenza
delle politiche economiche e sociali dei vari paesi; questa convergenza pu

essere il risultato della globalizzazione, ma non ne una conseguenza


necessaria.
La globalizzazione non rappresenta la fine della storia, nel senso del
raggiungimento di un equilibrio stabile e permanente tra pace internazionale,
prosperit economica e democrazia politica.
Infine, il termine internazionalizzazione talora contrapposto a quello di
globalizzazione per indicare un aumento dell'interdipendenza tra economie
nazionali, piuttosto che una perdita di importanza dei confini statali per le
attivit economiche.

2. GLOBALIZZAZIONE E GOVERNANCE NAZIONALE


Molti analisti della globalizzazione si interessano del fenomeno principalmente
per via del suo possibile impatto sul carattere e l'esercizio delle funzioni di
governo a livello nazionale e internazionale. Nel mondo anglosassone, e in
misura crescente anche in altri paesi, il termine GOVERNANCE pu essere
definito come la creazione e la gestione di sistemi internazionali di norme e
regole che facilitano il coordinamento e la cooperazione degli attori sociali e
determinano la distribuzione dei posti e dei benefici dell'azione collettiva.
Pi in generale, governance - intesa come sistema di regole dirette a produrre
determinati risultati - concettualmente distinta dal GOVERNO (government) inteso come una struttura organizzativa incaricata di gestire e attuare quelle
regole, all'occorrenza tramite strumenti di tipo coercitivo.
2.1 Congetture su polity, politics e policy
Per limitare in qualche misura la complessit della discussione tra
globalizzazione e governance statale, utile distinguere tra diversi aspetti di
quest'ultima:
1. La POLITY ovvero l'identit dello Stato e le caratteristiche generali del suo
regime politico, quali la democrazia o la dittatura, il presidenzialismo o il
parlamentarismo, il federalismo o il centralismo;
2. La POLITICS ovvero il processo politico e decisionale, inclusi i rapporti di
forza tra le varie forze politiche e sociali;
3. La POLICY ovvero il contenuto delle decisioni politiche, per esempio le
politiche fiscali, dell'istruzione, della difesa, ecc.
1a. La discussione pi generale intorno all'impatto della globalizzazione sulla
POLITY riguarda le dimensioni territoriali degli Stati. Alcuni autori ritengono
che la competizione economica globale crei incentivi per gli Stati di formare
blocchi regionali per sfruttare economie di scala e che questi blocchi possono
raggiungere un grado di integrazione politica tale da mettere in discussione la
sovranit degli Stati membri.
1b. Un altro dibattito sull'effetto della globalizzazione economica sulla POLITY
riguarda le prospettive per la democratizzazione di Stati non democratici.
Alcuni autori ritengono che questo effetto sia negativo, perch ipotizzano che
le imprese transnazionali preferiscano il proseguimento di regimi autoritari nei
paesi in cui investono e siano disposti a sostenerli con le proprie risorse
economiche. Pi spesso per si ritiene che l'effetto sia positivo: l'apertura di un
paese ai flussi economici internazionali ne promuoverebbe lo sviluppo

democratico.
2. Per quanto riguarda invece la dimensione della POLITICS, la globalizzazione
pu influire su di essa principalmente alterando le risorse che vari gruppi sociali
possono usare nel processo politico. Secondo vari annalisti la globalizzazione
economica accresce la disuguaglianza dei redditi, almeno dei paesi
industrializzati. Nella misura in cui la disuguaglianza economica si traduce in
disuguaglianza politica (cio risorse economiche producono influenza politica),
plausibile sostenere che la globalizzazione ridistribuisse il potere politico
all'interno degli Stati.
3. Si ritiene frequentemente che la globalizzazione economica abbia
condizionato e limitato le POLICIES che i governi possono attuare.
L'accresciuta mobilit transnazionale del capitale scatenerebbe una
competizione tra Stati per attrarre capitali, che sfocerebbe in una corsa al
ribasso nel campo delle politiche fiscali, salariali, sociali e ambientali. Da un
lato, i governi dovrebbero infatti temere che l'imposizione di costi alle imprese
operanti sul proprio territorio produca un amento del prezzo dei loro prodotti,
danneggiandone la competitivit sui mercati interni e internazionali. Dall'altro
lato, essi dovrebbero temere che le imprese spostino le loro attivit verso paesi
con minori costi di produzione.
Durante gli anni Novanta molte pubblicazioni sottolineavano la gravit di questi
processi e proclamavano il DECLINO DELLO STATO di fronte all'assalto di
forze economiche globali. Una delle proponenti pi autorevoli della tesi del
declino dello Stato, Susan Strange, dichiar che "le forze impersonali dei
mercati mondiali [] hanno oggi un potere maggiore degli Stati, ai quali noi
siamo soliti attribuire la massima autorit politica sulla societ e sull'economia.
Mentre in passato gli Stati erano padroni dei mercati, oggi su molti problemi
cruciali sono i mercati a dominare governi".
La tesi del declino dello Stato stata soggetta a numerose critiche, che per
comodit si possono raccogliere in tre gruppi.
a) La prima critica si concentra sui fattori che ostacolano il cambiamento
delle istituzioni politiche, economiche e sociali.
b) Un secondo tipo di critica non nega la possibilit del cambiamento come
risultato della globalizzazione ma sostiene che questo cambiamento pu
consistere in un'espansione, piuttosto che in una riduzione, del ruolo
dello Stato nell'economia e nella societ. La continuit o perfino
l'espansione del ruolo dello Stato in condizioni di globalizzazione non
sarebbe necessariamente in contraddizione con una forma pi debole
della tesi del declino dello Stato. Secondo questa versione, gli Stati che
non si adeguano alle pressioni dei mercati internazionali verrebbero
puniti con la fuga dei capitali, con il declino della competitivit delle
imprese che rimangono e quindi con il calo dell'occupazione dei redditi.
c) Il terzo tipo di critica, tuttavia, osserva che uno Stato sociale generoso
non deve essere considerato come un onere della competizione tra Stati
nei mercati mondiali. Uno stato attivo contribuirebbe direttamente alla
produttivit dell'economia attraverso la creazione di una forza-lavoro ben
istruita e in buona salute. Inoltre la stabilit politica e sociale promossa
dallo Stato sociale renderebbe un paese pi attraente agli occhi degli
investitori.

Fintanto che le istituzioni continuano a produrre una molteplicit di beni


pubblici per le imprese, le pressioni verso il cambiamento di polity e policies
sarebbero limitate e facilmente gestibili.
2.2 Riscontri empirici
Non possibile determinare se e quanto la globalizzazione abbia condizionato
la governance infrarnazionale solo sulla base di considerazioni teoriche.
necessario analizzare e comparare dati empirici. L'esame empirico del legame
tra globalizzazione economica e politiche pubbliche, in particolare la protezione
sociale, uno dei settori pi complessi e controversi della scienza politica
perch i risultati non sono univoci. Per quanto riguarda l'effetto della
globalizzazione economica sulle disuguaglianze di reddito, alcuni studi
dimostrano che la globalizzazione ha aumentato la disuguaglianza economica
nei paesi industrializzati mentre secondo altri ha avuto l'effetto di ridurla.
Lo stesso vale per i paesi in via di sviluppo: per alcuni la loro integrazione nei
mercati mondiali ne avrebbe aumentato le ineguaglianze, per altri le avrebbe
ridotte.
3. GLOBALIZZAZIONE E GOVERNANCE INTERNAZIONALE
3.1 Oltre lo Stato?
Una quantit ragguardevole di studi si propone di dimostrare che l'esercizio di
funzioni di governance non limitato all'azione di governi che esercitano poteri
sovrani nell'ambito delle loro giurisdizioni, ma si svolge anche a livelli
sovranazionale e transnazionale. Sono in molti a sostenere che governance non
coincide con government e che government non deve essere ritenuto una
condizione necessaria per la governance. Pi specificatamente, si intende
mostrare che l'assenza di un governo mondiale non implica che la governance
scompaia quando passiamo dal livello nazionale a quello internazionale.
Problemi come la riduzione dell'ozono stratosferico, il rischio di crisi finanziarie
globali e la proibizione di determinati tipi di armi sono gestite da strutture di
governance che non si conformano al modello gerarchico di formazione e
attuazione delle norme proprio degli Stati.
Il rapporto tra globalizzazione e forme di governance a livello internazionale
complesso.
Due forme di relazione sono pi comuni:
1. La REAZIONE, che si ha quando forme di governance vengono create
allo scopo di ridurre gli effetti deleteri della globalizzazione. Per esempio,
con il protocollo di Montreal gli Stati firmatari hanno creato una struttura
di governance per limitare uno degli effetti potenzialmente pi deleteri
della globalizzazione ambientale, la riduzione dell'ozono stratosferico.
2. La PROMOZIONE: forme di governance vengono create allo scopo di
facilitare o rimuovere ostacoli a uno o pi dimensioni della
globalizzazione. Per esempio, l'Organizzazione mondiale per il commercio
ha la funzione primaria di facilitare la rimozione delle barriere nazionali al
commercio estero e limitarne il riemergere, mentre l'Organizzazione
mondiale per le telecomunicazioni promuove la globalizzazione della
comunicazione regolamentando l'uso delle frequenze radiofoniche e dei
satelliti in orbita geostazionaria.

In entrambi casi si assiste a una dinamica simile: la volont di evitare gli


aspetti negativi della globalizzazione o la volont di produrre quelli positivi crea
un incentivo a estendere e intensificare la cooperazione internazionale.
Il ruolo centrale degli stati nel sistema internazionale non viene messo in
discussione, ma viene rifiutata anche l'idea che gli Stati siano sempre e
comunque gli attori pi importanti della governance. Bench in generale vi sia
un notevole grado di consenso sulla necessit di allargare la visuale ad alcune
categorie di soggetti non-statali, il rapporto tra attori statali e non-statali nella
governance l'oggetto di intense controversie.
Schematicamente, si pu dire che questo rapporto stato visto in due modi
diversi: come a somma zero oppure come sinergico. Nella prima
interpretazione, linfluenza guadagnata dagli attori
non-statali viene
perduta da quelli statali, per cui si pu parlare di una trasferimento di potere a
scapito di questi ultimi. Nella seconda interpretazione, gli attori non-statali
sono utili ai governi nella formulazione ed esecuzione delle politiche pubbliche,
e questo spiega perch venga dato loro accesso alle sedi decisionali
internazionali.
3.2 Intergovernativismo, sovranazionalismo e transnazionalismo
Per quanto riguarda le forme di governance al di l dello stato nazionale, se ne
possono identificare tre modelli generali che si differenziano in base a due
criteri fondamentali:
la natura pubblica oppure privata degli attori che creano e sostengono la
struttura di governance;
il grado con cui i poteri legislativi, esecutivi o giudiziari vengono delegati
ad agenti autonomi sovranazionali.
Questi modelli sono:
1. INTERGOVERNATIVISMO: si riferisce a un sistema di governance
internazionale incentrato sulla cooperazione volontaria e consensuale tra
governi nazionali.
In una struttura di governance intergovernativa, gli Stati non possono
essere soggetti a regole e vincoli sostanziali a cui non abbiano dato il
proprio consenso. Perfino organizzazioni come il Fondo Monetario
Internazionale formalmente rispettano questa regola, nel senso che ogni
Stato formalmente libero di rifiutare le condizioni che il Fondo impone
per effettuare prestiti, e quindi di rinunciare al prestito stesso.
2. SOVRANAZIONALISMO: al contrario, comporta una riduzione di sovranit
degli Stati che decidono di farne parte. Si tratta della creazione di
istituzioni internazionali con un significativo grado di autonomia dalla
volont dei singoli membri. Per questo possono essere considerati casi di
governance beyond governments.
L'aspetto centrale delle forme di governance sovrannazionale la delega
sostanziale di poteri ad agenzie sovranazionali, che possono svolgere
funzioni legislative, esecutive o giudiziarie. Per esempio, lo staff della
Banca Mondiale gode di notevole autonomia nel definire le condizioni
legate ai propri prestiti, anche se il potere decisionale ultimo risiede nei
governi degli Stati membri. Per quanto riguarda poteri esecutivi, il World

Food Programme gestisce i programmi di assistenza alimentare secondo


le proprie priorit e competenze, anche se soggetto a vincoli delle
donazioni.
A livello globale, i casi pi notevoli di delega si hanno nell'ambito della
risoluzione delle dispute.
In campo economico, l'esempio pi noto la risoluzione delle dispute
nell'organizzazione mondiale del commercio. Se considerato insieme alla
capacit dell'OMC di penetrare profondamente nelle sfere di regolazione
economica e sociale degli Stati membri, il potere cogente di questa
istituzione internazionale risulta notevole.
L'effetto primario dello sviluppo di queste istituzioni la limitazione della
sovranit degli Stati, il che ha portato alcuni a vederle come forme
embrioniche di legalizzazione e financo costituzionalizzazione delle
relazioni internazionali.
3. TRANSNAZIONALISMO: si basa sulle attivit di due variegate categorie di
partecipanti. Da un lato vi sono le imprese, cio organizzazioni che
svolgono attivit economiche con l'obiettivo di generare profitti. Dall'altro
vi sono organizzazioni senza scopo di lucro (ONG), che promuovono
specifiche concezioni dell'interesse generale, la protezione degli interessi
di gruppi venerabili oppure obiettivi mutualistici (come i sindacati).
Le forme e le attivit delle strutture transnazionali sono di varia natura
ma si possono classificare secondo una serie di funzioni primarie:
a) Vi la funzione di rappresentanza e promozione degli interessi.
Organizzazioni come la Camera Internazionale del Commercio e la
International Federation of Pharmaceutical Manufacturers and
Associations hanno come obiettivo primario quello di rappresentare
gli interessi delle imprese che vi sono associate nei confronti di una
serie di istanze pubbliche, nazionali e specialmente internazionali.
Organizzazioni come il World Wildlife Found (WWF) promuovono
quello che considerano un interesse collettivo alla biodiversit e
alla tutela della natura, e pi direttamente le preferenze dei propri
membri rispetto alla protezione di specie animali ed ecosistemi.
b) Rapporti transnazionali possono essere istituzionalizzati allo scopo
di coordinare i comportamenti di organizzazioni operanti nello
stesso settore. La International Federation of Pharmaceutical
Manufacturers and Associations ha adottato un Code of
Pharmaceutical Marketing Practices nel 1980, allo scopo di
armonizzare il comportamento delle imprese del settore.
c) Vi la funzione della risoluzione delle dispute. Spesso imprese di
paesi diversi che effettuano transazioni economiche tra loro
includono nei contratti delle clausole che li impegnano, in caso di
conflitto, a ricorrere all'arbitro privato piuttosto che ai tribunali
pubblici. Si stima che circa il 90% dei contratti internazionali
contenga tali clausole.
d) Vi la funzione svolta da attori non-statali che la certificazione.
Questa pu semplicemente riguardare la qualit dei prodotti, ma
pi interessanti sono i casi di certificazione sociale e ambientale. Di
fronte alla prospettiva di una reazione negativa dei consumatori e/o
di un intervento pubblico, molte imprese hanno creato o aderito a
iniziative miranti a certificare che le loro attivit non violano i diritti

umani e non hanno un intollerabile impatto ambientale.


La distinzione tra intergovernativismo, sovranazionalismo e transnazionalismo
come forme di governance fatta in questa sede deve essere considerata utile a
scopi euristici, ma non deve nascondere che molte delle iniziative di
governance a livello internazionale hanno forme intermedie e ibride. Un
esempio di organizzazione internazionale ibrida che risale al periodo
immediatamente successivo alla prima guerra mondiale l'organizzazione
mondiale del lavoro, in cui i rappresentanti dei sindacati e dei datori di lavoro
sono membri a pieno titolo al pari dei governi.
Forme ibride pi recenti sono il Global Fund for Aids, Tubercolosis and Malaria, il
cui consiglio direttivo comprende rappresentanti dei governi donatori e di quelli
beneficiari, ONG, fondazioni, imprese e le comunit pi direttamente toccate
da quelle malattie.
IN SINTESI, la letteratura internazionalistica mostra che la gestione degli affari
globali non il dominio esclusivo dei governi, ma coinvolge una gamma pi
ampia gli attori. Ovviamente gruppi sociali (imprese, partiti, gruppi di interessi,
ecc.) hanno sempre esercitato un'influenza pi o meno forte sulle politiche
estere dei loro Stati, e quindi anche sulla cooperazione interstatale. Quello che
le ricerche menzionate in questo paragrafo hanno mostrato che variatori nonstatali non si accontentano di agire attraverso questo canale, e che quindi gli
Stati non sono sempre gatekeepers tra i gruppi sociali basati nel proprio
territorio e il mondo esterno. Se specificamente, quello che si venuto a
chiamare global governance implica che le imprese e le organizzazioni nongovernative non sono semplicemente i destinatari passivi di regole e norme
negoziate dai governi sopra le loro teste, ma partecipano in vario modo alla
formulazione di queste regole attraverso la collaborazione tra il settore
pubblico e quello privato, o persino creando regimi puramente privati per la
promozione di certi interessi comuni. Per il momento i governi conservano il
ruolo di attori centrale della governance internazionale, ma possibile che in
un futuro non troppo lontano istituzioni ibride rappresenteranno il modo
normale di far fronte a problemi internazionali.

CAPITOLO 10 - IDENTIT: TRA MULTICULTURALISMO E


SCONTRO DI CIVILT
1. L'INCONTRO E LO SCONTRO DI IDENTIT: IL MULTICULTURALISMO
Multiculturalismo non esprime altro che la realt incontrovertibile della
pluralit culturale, la quale ha sempre permeato societ come quella europea e
quella
americana,
ma

ancora
pi
pervasiva
dall'immigrazione
extracomunitaria in Europa e dalla rapida trasformazione della composizione
etnica e culturale dell'America.
In politica, il multiculturalismo non esprime pi la realt pure e semplice della
convivenza, ma esprime un profondo mutamento nel modo di concepirla.
1.1 Multiculturalismo e potere
In questa tensione permanente tra il dato di fatto della pluralit culturale e i
modi in cui questa pu essere percepita e affrontata si intravedono gi i due
nodi fondamentali per l'ordine sociale e, quindi, anche per l'ordine
internazionale.
Il primo, attorno al quale si concentrano le ambiguit del termine
multiculturalismo, lesistenza o linesistenza di un universo discorsivo
comune capace di ricomprendere le differenze. proprio contro questa
possibilit che sembra rivolgersi il multiculturalismo come ideologia. Il
multiculturalismo rifiuta l'assimilazione, anzi si pu dire che nasca del suo
fallimento. Ma, come spesso accade, esso trascina con s il pregiudizio
fondamentale delle culture e delle politiche assimilazionistiche: quello
per il quale la comunicazione sarebbe possibile solo tra uguali.
A differenza della tolleranza, invece, la politica della multiculturalismo
non muove dalla diversit, ma si ferma a questo punto. Il confronto con
l'altro si riduce alla reciproca esposizione della propria unicit: latro
intoccabile, ma per la stessa ragione per la quale non ci pu toccare.
Se non si vuole confondere dietro la stessa etichetta il palazzo del
governatore inglese a Bombay e i ristoranti indiani a Londra si deve
tenere conto del fatto che l'esperienza dell'altro non cambia soltanto a
seconda che ci sia o no un terreno di comunicazione o di quanto l'altro sia
diverso da noi, ma cambia prima di tutto a seconda della posizione (di
forza o di debolezza, di uguaglianza o disuguaglianza) che noi occupiamo
di fronte a lui.
La disponibilit a rimettersi in gioco non pu essere confusa con la
disponibilit a contemplare l'originalit dell'altro. Quello che cambia, e
trasforma la qualit dell'incontro la sensazione di una minaccia. Un
confronto tra eguali rappresenta, sempre, una minaccia a qualcosa:
quantomeno, a ci che ciascuno stato o ancora.
Ed proprio qui che rapporto tra culture e potere diventa un problema, a
maggior ragione in un contesto politico internazionale come l'attuale, nel
quale la configurazione tradizionale del potere, la supremazia politica ed
economica dell'Occidente, appare sempre pi apertamente sfidata
dall'emergere di competitori culturalmente eterogenei tanto sul terreno
economico (come la Cina) quando su quello politico (come l'Islam
radicale).
1.2 Multiculturalismo e relazioni internazionali

In nessun contesto sociale le ambiguit e i nodi del multiculturalismo appaiono


con maggior evidenza che nel contesto internazionale. Riconoscere che il
mondo abitato stato multiculturale fin dall'inizio non deve indurre a ignorare
che non affatto detto che le differenze culturali si trasformino e,
storicamente, si siano sempre trasformate in contrasti politici; e, in secondo
luogo, che non utile parlare di pluralit delle culture se non si chiarisce prima
in quale configurazioni di potere avvenuto il loro incontro.
Dietro l'apparenza della pluralit, la societ internazionale nacque e si
organizz come un'impressionante monumento all'impatto occidentale sul
resto del mondo. Questo non significa che non resta alcuna traccia dei sistemi
internazionali pre-globali fra i quali era diviso il mondo agli albori
dell'espansione europea, ciascuno con le proprie leggi e istituzioni che
riflettevano la cultura regionale dominante. N significa che queste diverse
esperienze e conoscenze delle relazioni internazionali non abbiano dato alcun
contributo alla formazione del diritto internazionale. Ci che importante,
tuttavia, che quando le regole della societ europea cominciarono ad essere
applicate anche al di fuori dell'Europa, aldil delle amity lines alle quali erano
stati originariamente vincolate, esse ebbero l'effetto di subordinare tutte le
differenze allo stesso standard di civilt per l'ammissione dei nuovi soci. Le
differenze culturali non scomparvero dalla realt ma, desocializzate o confinate
all'interno dei diversi gruppi, cessarono di costituire un problema di politica
internazionale.
Questa attitudine a considerare l'Europa quale portatrice di un ordinamento
valido per tutta la terra non venne meno neppure con la dissoluzione degli
impegni europei. Pur ponendo fine alla subordinazione formale delle aree non
europee, la rivolta contro l'Occidente costitu per certi versi l'apice della sua
influenza.
Ci che controbilanci in maniera decisiva l'impatto della decolonizzazione
furono due elementi fra i pi caratteristici delle relazioni internazionali. Il primo
la distribuzione ineguale delle capacit, che ci che fece s che la
balcanizzazione del mondo prodotta dalla fine degli imperi europei non
scardin il carattere oligopolistico della politica internazionale, mentre questa
continu a essere dominata da norme, procedure e ideologie di ascendenza
occidentale.
Il secondo contrappeso della liberazione dell'eterogeneit fu che essa avvenne
all'interno di un sistema internazionale, quello bipolare, che pur riflettendo una
profondissima lacerazione interna alla cultura occidentale, continuava a
proiettare questa lacerazione sul resto del mondo.
2. LE INTERPRETAZIONI DEL CONTESTO INTERNAZIONALE ATTUALE
Con la fine della guerra fredda la dimensione culturale si riconquistata un
posto di primo piano nell'analisi scientifica delle relazioni internazionali,
sospinta dagli stessi due processi che abbiamo visto nel paragrafo precedente:
la fiducia nella portata universale dei valori democratici liberali e, dall'altra
parte, la ripresa dei linguaggi locali di carattere etnico, culturale e religioso.
Nella prima direzione, una vastissima letteratura si occupata di tematiche
quali il mix di coercizione, competizione, apprendimento e di emulazione che
spinge la diffusione del mercato e della democrazia. Nella direzione della
scomposizione culturale, invece, l'attenzione della letteratura si andata

concentrando dapprima sui fenomeni di revival etnico e di etnopolitica e poi su


tematiche pi comprensive quali la ridefinizione dell'identit o il ruolo delle
religioni nelle relazioni internazionali.
L'immagine cosmopolitica della riunificazione del mondo rigettata in tutte
due le versioni.
Da un lato, una volta allargato l'orizzonte storico della vicenda secolare dei
rapporti tra Occidente e mondo, la fine della guerra fredda interpretata non
come il trionfo dell'Occidente bipolare di matrice democratica e liberale, bens
come la ripresa del riflusso precedente della centralit euro-occidentale.
Dall'altro lato, in contrasto con la tesi della progressiva occidentalizzazione
delle lite, la tesi dell'evoluzione in senso multiculturale del contesto
internazionale nega che, nel loro complesso, le lite dei paesi non occidentali
stiano davvero adottando la cultura occidentale, fino a sostenere l'esatto
contrario: che, cio, loccidentalizzazione (nelle sue forme pi superficiali)
procede tra le masse meno acculturate, mentre regredisce tra la maggior parte
delle lite.
"La fonte principale di conflitto nel nuovo mondo non sar primariamente
ideologica o economica.
Le grandi divisioni nell'umanit e la fonte prevalente di conflitto saranno
culturali. Gli Stati-nazione resteranno i pi potenti attori della politica mondiale,
ma i principali conflitti della politica globale scoppieranno tra nazioni e gruppi
appartenenti a differenti civilt. Lo scontro fra le civilt dominer la politica
globale. Le linee di frattura tra le civilt saranno i fronte delle battaglie del
futuro".
Aspramente criticata tanto sul terreno storico quando quello teorico, questa
predizione ha ricevuto una spinta formidabile degli eventi degli ultimi
vent'anni.
3. SISTEMI INTERNAZIONALI OMOGENEE E SISTEMI INTERNAZIONALI
__ETEROGENEI
Il termine SOCIET INTERNAZIONALE sta a indicare un insieme di stati (o,
pi generalmente, un insieme di comunit politiche indipendenti) che,
riconoscendo alcuni interessi e forse alcuni valori comuni, [] si ritengono
vincolate da certe regole nei loro rapporti reciproci.
Mentre, nei sistemi internazionali omogenei, tutto concorre affinch possa
valere la rigida separazione tra foro interno e foro esterno che era stata la
risposta dei giuspubblicisti europei a due secoli di guerre civili di religione, nei
sistemi internazionali eterogenei viene completamente meno questa possibilit
di separare nettamente lo spazio interno statale, moralmente intoccabile, e le
relazioni esterne degli Stati fra loro; e viene meno, non a caso, proprio perch
cade la premessa che l'aveva resa possibile, cio la rinuncia a porre
pubblicamente la questione della giustizia.
4. ALCUNI PROBLEMI STORICI, TEORICI E POLITICI
Questa distinzione tra sistemi internazionali omogenei e sistemi internazionali
eterogenei sembrerebbe particolarmente appropriata a un contesto
internazionale come l'attuale, nel quale un numero crescente di questioni e
conflitti declinato (e spiegato) in termini culturali o, sempre pi spesso,
religiosi. In quest'ondata di ripoliticizzazione dell'identit, non un caso che

facciano la propria ricomparsa anche i fattori di instabilit tradizionalmente


associati all'affermazione dei sistemi internazionali eterogenei. Le decisioni
degli attori (degli allineamenti internazionali fino alla minaccia e al ricorso
all'uso della forza sorprese) sono prese o, almeno, legittimate sulla base di
valori irrinunciabili e incompatibili tra loro (la solidariet tra democrazie, il
Jihad, ecc.) invece che con la grammatica comune dell'interesse nazionale e
dell'equilibrio di potenza.
La disponibilit a negoziare ostacolata, da un lato dal convincimento che gli
altri attori rispondano a modelli di razionalit radicalmente diversi dai propri o,
peggio, siano totalmente estranee a qualunque modello di razionalit; e
dall'altro dal fatto che le vertenze, di carattere culturale o simbolico, si
presentano meno di quelle materiali a essere risolte mediante compromessi e
concessioni reciproche.

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