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consapevolezza che la fine del dominio politico non avrebbe spezzato i legami
economici tra stati: su questa prospettiva si basa il Neomarxismo, che
individua nelle relazioni economiche la chiave dellordine internazionale. Non
erano tanto le relazioni tra stati il luogo per eccellenza di gerarchia e conflitto,
ma la logica stessa delleconomia capitalistica mondiale e i suoi legami di
dominio. Lapproccio neomarxista offr tre contributi alla disciplina: il
riorientamento delle dinamiche politico-economiche globali dallasse Est-Ovest
allasse Nord-Sud articolato in centro/periferia/semiperiferia; la riscoperta del
lungo periodo cio di un arco temporale che va dal 500 ad oggi per
comprendere la formazione del capitalismo; la nuova importanza data ai settori
sociali il cui potere interno dipendeva dalla divisione del lavoro internazionale.
Tuttavia leccentricit della teoria la port a rimanere nellombra a causa anche
del crollo dellURSS e dello sviluppo delle tigri asiatiche.
Destino opposto ebbe lIstituzionalismo liberale, teoria nata dalla
constatazione che dopo le grandi guerre una parte sempre maggiore delle
relazioni internazionali riguardasse temi economici e ambientali che non
avevano pi a che fare con la preoccupazione realista della sicurezza militare.
Gli istituzionalisti e il loro principale apporto teorico, la teoria dei regimi
internazionali, posero laccento sul fatto che le istituzioni che si erano create
tra le democrazie occidentali durante la guerra fredda e che comprendevano
un numero sempre crescente di questioni e attori fossero in grado di sostenere
per conto proprio la cooperazione tra gli stati, abbassando i costi di transazione
legati al raggiungimento di accordi internazionali, riducendo lincertezza e
fornendo info sulle preferenze e le intenzioni altrui, diminuendo inoltre la
propensione allinganno.
Neorealismo e liberismo, tuttavia, rimangono in accordo nelle premesse: che gli
stati sono gli attori principali, che sono egoisti razionali, che la loro identit sia
indipendente da fattori ideazionali e di apprendimento. Proprio contro queste
premesse nasce lapproccio del Costruttivismo, che pone laccento proprio su
fattori ideazionali (norme, idee condivise) che possono ridefinire lidentit e gli
interessi degli attori, superando cos il paradigma statocentrico. Questa
corrente trov forza nel declino e nella fine della guerra fredda, che pose il
problema del ripensamento dellordine internazionale guidato dal richiamo alle
idee democratiche e liberali uscite vincitrici. Da qui nasce la fiducia del
costruttivismo nelle istituzioni, e a essere messa in discussione fu la natura
stessa dellanarchia internazionale e la presunta propensione alla sfiducia e al
conflitto.
Tuttavia, soprattutto dopo il trauma dell11 settembre 2001, gli USA e tutti i
principali attori hanno cercato di recuperare concezioni e pratiche della
sicurezza di impianto tradizionale. Quello che pi caratterizza lattuale ordine
internazionale la diffusione di soggetti non-statali e la rilevanza di valori e
fattori ideazionali declinati per non pi come elemento di unificazione ma
come terreno per una prossima stagione di conflitti tra civilt.
Tuttavia allinterno della tradizione realista ci sono due punti di vista sul
funzionamento dellequilibrio: il realismo classico ritiene che esso emerga
volontariamente, mentre il neorealismo ritiene che si verifichi
spontaneamente a causa dei logiche sistemiche, e si tratta di un
effetto derivante dalla volont degli stati di accumulare sicurezza. Un
esempio di teoria dellequilibrio di primo tipo afferma che per il suo
funzionamento sia necessario rispettare tre principi: gli stati dovrebbero
cercare di aumentare le proprie capacit pacificamente se possibile, con la
forza se necessario; gli stati dovrebbero opporsi a qualsiasi stato o coalizione
che cerchi di assumere il predominio; gli stati in guerra dovrebbero fermarsi
prima di eliminare lo stato avversario che deve essere poi reintegrato nel
sistema.
Un discorso a parte merita invece la posizione della Scuola inglese, a met tra
liberismo e realismo: per essa lanarchia non costituisce uno stato di natura
hobbesiano privo di regole, ma anzi tali regole sono presenti e consentirebbero
il mantenimento dellordine internazionale e il perseguimento di alcuni obiettivi
primari (mantenimento dellindipendenza degli stati e della societ
internazionale).
Lequilibrio sarebbe quindi una norma generalizzata di condotta propria del
sistema qualora gli stati riconoscano le stesse norme e facciano parte di una
stessa societ, in assenza delle quali si mirerebbe invece alla reciproca
eliminazione.
2. FUNZIONAMENTO DELLEQUILIBRIO
2.1 Lequilibrio di potenza come teoria sistemica
La versione attualmente pi influente dellequilibrio di potenza quella
appartenente al neorealismo. Per Waltz, suo fondatore, il sistema
internazionale composto da unit, gli stati, e dalla struttura nella quale esse
operano, che composta da tre elementi: il principio ordinatore (anarchico
o gerarchico), la differenziazione funzionale tra le unit, la
distribuzione delle capacit tra le unit. Nel contesto internazionale il
principio ordinatore anarchico, dunque non vi differenziazione funzionale
(ogni stato provvede a se stesso secondo il principio del self-help) e lunica
variabile rilevante la distribuzione di potenza.
Tuttavia c naturale tendenza allequilibrio, poich il principio del self-help
induce gli stati a schierarsi con il pi debole contro il pi forte (balancing) e non
viceversa (bandwagoning), per evitare di ritrovarsi prima o poi alla merc dello
stato pi minaccioso e espansionista; in questo modo inoltre uno stato pu
massimizzare la propria influenza sullo stato pi debole con il quale si allea.
Questo punto di vista denominato dagli stessi neorealisti sistemico poich a
differenza delle teorie precedenti, considerate riduzioniste, questa dipende
dalla natura anarchica del sistema a prescindere dalle singole intenzioni.La
politica internazionale ha quindi delle caratteristiche omeostatiche: quanto
pi forte lo shock che minaccia lequilibrio tanto pi forte lincentivo a
contrastarlo.
Opposta alla teoria dellequilibrio di potenza quella del dominio, che si basa
sul bandwagoning e sullo stravolgimento del sistema anche a fronte di piccoli
cambiamenti.
2.2 La flessibilit degli allineamenti
semplice grazie alla teorica facilit con cui si pu calcolare la potenza di uno
stato; tuttavia questa in realt molto difficile da calcolare in precedenza,
tanto che ci sono diversi episodi empirici dove essa sembra non funzionare
(es.: dopo la IIGM, moltissimi stati si sono alleati con gli USA malgrado lURSS
fosse dotata oggettivamente di capacit inferiori). Per questo Waltz introduce
una teoria pi complessa basata non sulla potenza ma sulla minaccia: gli
quale una distribuzione equilibrata di potenza porta alla riduzione della guerra
in generale, e quella minimalista, secondo la quale la distribuzione equilibrata
della potenza aumenta la stabilit del sistema: la guerra infatti produce sempre
una qualche forma di instabilit, ma bisogna distinguere secondo questa
ipotesi tra la guerra che riguarda la distribuzione delle risorse tra gli attori e
quella che mette in gioco la sopravvivenza stessa: la guerra essa stessa uno
strumento attraverso cui si cercato di mantenere lequilibrio. Per testare
questa ipotesi sono stati considerati sia i rapporti diadici, per verificare se attori
simili per potenza sono effettivamente dissuasi dal guerreggiare, che una
prospettiva sistemica, per capire quale grado di concentrazione di potenza nel
sistema sia associato alla stabilit o instabilit.
Secondo questo ultimo tipo di studi la teoria dellequilibrio di potenza
parzialmente confermata, poich nel XX secolo la magnitudine della guerra
sembra diminuire al crescere della concentrazione della potenza e della sua
stabilit, mentre nel XIX secolo essa sembra diminuire al crescere della
diffusione della potenza [Singer, Bremer, Stuckey].
4.2 Le aspettative empiriche alternative circa la stabilit
Le evidenze che confermano le aspettative empiriche dellequilibrio di potenza
spesso riguardano periodi circoscritti della storia internazionale; inoltre per
quanto riguarda i rapporti diadici ci sono delle critiche riguardo lidea per cui la
distribuzione equilibrata di potenza rafforzi i meccanismi di deterrenza. La
parit di potenza sarebbe proprio la condizione che rende pi probabile la
guerra. Questipotesi stata confermata da numerose ricerche; non per questo
tuttavia si pu concludere che lequilibrio di potenzia sia infondato, in quanto
dimostrare che la parit di potenza a livello diadico non favorisce la deterrenza
non equivale a dimostrare che nel sistema internazionale ci sia lo stesso limite.
Tuttavia alcune critiche hanno colpito lequilibrio di potenza proprio a livello
sistemico: infatti la guerra stata indagata nei sui attributi specifici,
chiedendosi quanta guerra si verifica e con quali caratteristiche. Per alcuni
autori questa prospettiva sarebbe incongruente con la teoria che deve
guardare, a loro avviso, al verificarsi della guerra e non alle sue caratteristiche.
Secondo Mansfield in realt per il rapporto tra distribuzione delle capacit
degli attori e loccorrenza della guerra cambierebbe: quando la potenza
diffusa la probabilit di guerra bassa, al crescere invece della sua
concentrazione la guerra sarebbe pi frequente, ma superata una certa soglia il
conflitto diminuirebbe nuovamente.
4.3 Equilibrio di potenza e politiche di bilanciamento
La tradizione dellequilibrio di potenza prevede che quando una attore cerca di
massimizzare la propria potenza e conquistare una posizione egemonica, la
risposta degli altri attori sar di opporre una quantit di potenza sufficiente a
riequilibrare i rapporti di forza. Il bilanciamento pu comunque avvenire in
diverse forme: lautorestrinzione dellegemone; con la presenza di politiche di
bilanciamento diplomatico; con la formazione di uno schieramento di
bilanciamento in una guerra generale.
Niou, Ordeshook e Rose costruiscono un modello della politica di alleanze che
parte dalla capacit delle grandi potenze assumendo che esse muovano guerra
senza minacciare la stabilit del sistema (e cio la sopravvivenza di un attore).
Analizzano il periodo tra il 1871 e il 1914 hanno trovato che le aspettative della
CAPITOLO 3 EGEMONIA
1. LA TEORIA DELLEGEMONIA
1.1 Definizione di egemonia
Il termine egemonia applicato al sistema internazionale definisce la supremazia
di uno stato che ha una preminenza sulle altre unit statuali, preminenza che
pu variare dalla leadership al dominio e pu riguardare lintero sistema o solo
un sottosistema regionale. possibile descrivere la politica internazionale
come una successione di ordini imposti dalla potenza egemone di turno, che si
afferma generalmente attraverso una guerra di ampia portata [Giplin].
1.2 Il tema dellordine internazionale
Si possono suddividere le teorie dellegemonia fra olistiche (che riguardano il
sistema internazionale) e riduzioniste (che analizzano lo stato e le relazioni tra
di essi). Tutte sono per accomunate dallidea che la stabilit del sistema
dipenda da una concentrazione di potenza, cio da una sua
distribuzione diseguale ma ottimale allinterno del sistema ( lipotesi
opposta alle teorie dellequilibrio): tanto pi la disparit evidente, meno
sar probabile il ricorso alla guerra. Queste teorie muovono dalla
tradizione realista, allinterno della quale si incontrano entrambi i tipi di
approccio.
I teorici dellegemonia accettano la premessa della natura anarchica del
sistema, ma ritengono che la fonte massima di instabilit sia legata al declino
della potenza dominante che concede spazio alle aspirazioni degli sfidanti: per
ritardare questo momento legemone crea delle strutture politiche ed
economiche che innalzino la stabilit e la propria sicurezza [Giplin, Kennedy,
Organski, Kugler].
Lipotesi di fondo che lordine sia stabilito dallesito di una guerra
costituente che si conclude con la creazione del massimo ordine internazionale
possibile, la cui fase culminante corrisponde al momento immediatamente
successivo alla guerra; la solidit di ciascun sistema dipende dalla guerra che
lha generato e ci si chiede se la fragilit dellegemonia americana non dipenda
proprio dal tipo di conflitto che lha generata, la guerra fredda. La stabilit
dipende anche dalla quantit e la natura delle risorse dellegemone, dagli
impegni cui esso deve e vuole rispondere, dalla configurazione del sistema in
cui opera, dal tipo della sua egemonia (coercitiva, benevola, costituzionale),
dallattitudine comportamentale degli altri attori.
1.3 Egemonia tra impero e leadership
Il fatto che il sistema sia anarchico non significa che tutte le relazioni al suo
interno lo siano; in effetti esse possono essere e spesso sono di carattere
autoritativo. Lautorit non solo dipende da fonti di carattere giuridico-formale,
ma anche da quelle che vanno dalla religione allideologia. Abbiamo inoltre due
varianti di egemonia: quella fondata sul modello della leadership benevolente
(in cui solamente il leader fornisce il bene collettivo della sicurezza) e quella
basata sulla leadership coercitiva (in cui legemone usa il suo differenziale di
potenza per imporre la partecipazione allordine e la condivisione dei costi del
bene collettivo attraverso una tassazione de facto), in cui la seconda ha un
grado di legittimit minore ed pi esposta al rischio di sfide [Snidal]. La
il mutamento di interazione.
istituzioni avrebbe superato quella nei confronti dello stato stesso, creando una
nuova forma di organizzazione politica globale.
Il neofunzionalismo si distingue da questo approccio perch tenta di spiegare i
processi di integrazione regionale piuttosto che globale, mira ad offrire una
teoria positiva libera da elementi prescrittivi e mettere in rilievo le dinamiche
politiche dellintegrazione sovranazionale; questultima, data la sua presenza in
un settore di policy, genererebbe incentivi per lestensione e lapprofondimento
dellintegrazione in altri (spill-over). Lintegrazione politica regionale stessa
viene prodotta da un progressivo allargamento delle sfere di competenza delle
istituzioni regionali a causa degli interessi materiali degli stati piuttosto che le
loro ideologie.
Tuttavia secondo i teorici della stabilit egemonica non tanto la presenza di
istituzioni quanto lesistenza di una potenza egemone capace di fornire beni
pubblici la condizione necessaria per assicurare alti livelli di cooperazione.
2.2 Assunti e ipotesi
Il testo principale, After Hegemony di Keohane, mira a dimostrare come la
cooperazione sia possibile anche senza la presenza di un egemone e come le
istituzioni abbiano un ruolo essenziale nel promuoverla. Per dimostrare ci, i
razionalisti accettano i seguenti assunti realisti e neorealisti: la centralit degli
stati, gli stati come egoisti razionali, lanarchia del sistema. Ma al contrario di
ci che sostengono i realisti, questi assunti sono compatibili con elevati livelli di
cooperazione interstatale e le istituzioni contribuiscono a realizzarla.
Tuttavia la teoria si presenta immediatamente come parziale, poich tratta le
preferenze degli stati come esogene, quindi senza chiedersi come esse siano
nate ma trattandole come dati di fatto. Unaltra caratteristica della teoria la
logica funzionalista: lesistenza delle istituzioni viene spiegata dai benefici che
portano agli stati. Il meccanismo causale tra interessi statali e istituzioni la
razionalista strumentale, cio quella che si interroga sui mezzi migliori per
raggiungere un certo obiettivo senza considerarne la ragionevolezza. I teorici
quindi mettono in guarda che la loro teoria non si applica a qualunque
situazione, in particolare a quelle in cui gli interessi degli stati coincidono
perfettamente e quindi sono superflue sia cooperazione che istituzioni
(Harmony) e in cui gli interessi sono totalmente incompatibili (Deadlock), ma
solo a quelle in cui essi siano parzialmente compatibili e parzialmente
conflittuali (Mixed-interest games).
2.3 Collaborazione e coordinamento
Tra i vari tipi di situazioni a preferenze miste, i teorici si sono concentrati sui
giochi di collaborazione (in cui gli stati traggono maggiori vantaggi da un esito
in
cui tutti cooperano rispetto a un esito in cui tutti defezionano
(ABBANDONANO); il problema che questo comune interesse non sufficiente
a garantire un esito cooperativo, poich linteresse individuale a
defezionare potrebbe prevalere sullinteresse comune a cooperare,
secondo il gioco del dilemma del prigioniero), e sui giochi di coordinamento
(in cui gli stati hanno un interesse comune a raggiungere un accordo ma un
conflitto di interessi rispetto ai termini dellaccordo stesso: preferita la
cooperazione alla sua mancanza, ma i partecipanti non sono daccordo sulla
sua forma.
militare; a sostegno di questa tesi, sembra esserci in effetti una relazione tra
conflitto e povert. Questa teoria basata sulla visione di Smith e Ricardo sui
benefici del libero commercio senza interferenze statali, che suggeriva che la
ricchezza degli stati vicini favorisse il proprio sviluppo poich facilitava
laccesso a tecnologie pi avanzate e mercati pi ricchi. Lopinione prevalente
in precedenza, quella della dottrina mercantilista, era diametralmente opposta:
il protezionismo era preferibile al libero commercio poich si riteneva che la
ricchezza potesse crescere solo a scapito del proprio vicino, predicando
lintervento statale in materia economica per il conseguimento della massima
autosufficienza. Lesperienza storica ha dimostrato come, in generale, il libero
mercato sia stato un efficace veicolo di sviluppo economico.
2. INTERDIPENDENZA ECONOMICA E POLITICA INTERNA
2.1 Interessi particolari e decisioni collettive
I processi economici di uno stato economicamente aperto per non dipendono
solo dal suo governo, ma anzi in larga misura da attori privati (i gruppi di
interesse) che possono loro stessi influenzare lo stato. Come dimostra infatti la
teoria dellazione collettiva di Olson, questi gruppi hanno sia lincentivo che
lopportunit di distorcere la politica commerciale, e linteresse dei gruppi
concentrati pi intenso di quello dei gruppi diffusi, poich i benefici vengono
ripartiti tra un numero minore di persone e vi sono minori problemi di
coordinamento. I vari gruppi di interesse si possono inoltre alleare al fine di
controllare meglio le decisioni pubbliche (logica del log/rolling).
Anche nei paesi con una rispettabile tradizione liberale possibile per i gruppi
dinteresse particolare prevalere sugli interessi generali del paese: la variabile
fondamentale quella dellimportanza data alle questioni commerciali nel
dibattito politico. Altre teorie si concentrano sulla capacit dello stato di
resistere alle pressioni dei gruppi di interesse: Katzenstein distingue tra stati
deboli e stati forti, dove i secondi, a differenza dei primi, sono capaci di
sviluppare una politica economica nellinteresse del paese. Gli stati autocratici,
al contrario delle democrazie, sono quelli sicuramente pi in grado di evitare il
confronto con lopinione pubblica e possono basare la legittimit delle loro
scelte attraverso la propaganda.
Altra conseguenza della crescita degli interscambi economici laccresciuta
importanza di nuovi tipi di attori, quali le societ multinazionali; in alcuni casi,
esse sarebbero in grado di modificare le politiche dei governi, e questo tema
il fulcro di un dibattito tra chi ritiene che le multinazionali diffondano capitale,
conoscenza e sviluppo e chi sostiene che inibiscano limprenditorialit locale e
contribuiscano al sottosviluppo di alcune zone del mondo. Per S. strange il loro
ruolo nei processi economici contemporanei ha assunto una rilevanza tale da
modificare la diplomazia tradizionale, che prendeva in considerazione solo le
relazioni tra governi.
Per il liberalismo, il passaggio da economie tradizionali a quelle progredite
avviene attraverso la modernizzazione, il cui motore il capitalismo. Ci ha due
conseguenze: da un lato, il libero mercato porterebbe una crescente ricchezza
e benessere, dallaltro, la maggiore integrazione economica avrebbe leffetto di
pacificare le relazioni internazionali modificando sia le preferenze dei singoli
che gli incentivi alle relazioni interstatali.
Il realismo non condivide lenfasi che i liberali pongono sui fattori economici, e
lapertura delle economie degli stati non affatto scontata. Per Rousseau, ad
esempio, gli stati sono in competizione per i vantaggi relativi piuttosto che per
vantaggi economici assoluti: i vantaggi si fanno sentire solo per
contrasto.
Anche Hamilton e List nel XVIII e XIX secolo suggerivano di rinunciare ad
unapertura commerciale per mantenere una capacit economica
indipendente che garantisse la sicurezza statale; uneconomia liberale e
cosmopolita pu favorire solo chi gi forte ed indipendente. Secondo la
posizione neorealista, gli incentivi ad aprire o chiudere leconomia non
deriverebbero da preferenze interne degli stati, ma dalla loro posizione nella
gerarchia e dalle condizioni generali del sistema internazionale.
Solo chi forte e sicuro o chi si trova in un ambiente pacifico pu intraprendere
un commercio libero da condizionamenti politico-strategici: lapertura degli
ultimi secoli dovuta non dai singoli stati ma dalla capacit della potenza
dominante (UK o USA) di determinare questa situazione, secondo la teoria
dellegemonia. Per i neomercantilisti addirittura la competizione politica
potrebbe inibire la cooperazione economica e le interferenze che provengono
dallarea economica potrebbero essere rischiose per la stabilit:
linterdipendenza non porta allarmonia ma al reciproco sospetto.
Nella letteratura contemporanea, sono tre i pericoli per la sicurezza degli stati
nellambito dello sviluppo di uneconomia mondiale aperta:
il capitalismo porta ad un aumento ciclico delleconomia, generando
processi di espansione-contrazione incontrollabili che potrebbero portare
pericolose conseguenze anche sulle relazioni internazionali;
il concetto stesso di interdipendenza implica una simmetria di condizioni
che raro riscontrare nella pratica, e un intenso scambio commerciale
potrebbe portare ad un rapporto di competizione e controllo;
la vulnerabilit prodotta dallesposizione a fenomeni oltre il proprio
controllo potrebbe portare allinsicurezza incentivando il conflitto, poich
temendo che prodotti necessari vengano negati nel momento del
bisogno, gli stati potrebbero cercare di ottenerli con la forza.
Per Waltz, infatti, una stretta interdipendenza aumenterebbe le probabilit di
conflitto poich ci sarebbero pi occasioni di contatto e competizione; pi
stretti sono i legami, pi estremi gli effetti di un piccolo movimento degli stati.
4. INTERDIPENDENZA E PACE NELLA STORIA
La maggior parte della letteratura, tuttavia, sostiene lipotesi liberale; leffetto
pacificatore sarebbe sviluppato in particolar modo nelle relazioni tra stati con
un regime politico liberale, poich democrazia e commercio si rafforzano a
vicenda, nellottica di Mansfield. Tuttavia, dal punto di vista empirico, il
rapporto tra interdipendenza economica e politica internazionale complesso:
difficile dire se sia la cooperazione economica a ridurre il conflitto politico o al
contrario, la riduzione di conflitto politico permettere lemergere di una
cooperazione economica.
Linterdipendenza potrebbe essere considerata un effetto e non la
causa della pace. In effetti questa considerazione vale sia per il lungo periodo
di pace seguito dal Congresso di Vienna nel 1815, coinciso con un aumento
tempi anche negli altri stati considerati democratici, visto che le democrazie
erano di fatto ancora in formazione.
Per risolvere questo problema bisogna considerare che pur potendo classificare
questi paesi come democrazie, non erano percepiti tali dagli altri, modificando
per il nesso tra democrazie e guerra: in questo caso non contano tanto gli
attributi dello stato, ma la percezione che si ha di esso.
Panebianco inoltre considera come la teoria abbia teorizzato la politica estera
della democrazia in generale e non delle singole democrazie con le loro
particolari istituzioni, il che un problema se si assume che le caratteristiche
della struttura politica influenzano il comportamento internazionale. Altro
fattore rilevante che stato ignorato dai teorici il rapporto tra democrazia e
guerra influenzato dal grado di liberalismo dello stato.
importante considerare se gli stati siano liberali o illiberali, poich alla base
delle scelte di politica estera dei governi sta il modo in cui essi si percepiscono,
e che un paese sia governato da una classe politica illiberale pu essere un
motivo sufficiente per percepirlo come minaccioso. In questo modo si risolve il
problema delle eccezioni alla teoria della pace democratica (Germania e
Spagna non erano percepite come liberali). Lintroduzione del criterio
dellideologia liberale riduce il campo dei regimi coinvolti nella pace
democratica restringendolo ai soli paesi occidentali in cui democrazia e alto
grado di liberalismo coincidono: la teoria diventerebbe cos per non pi
globale, ma locale. Inoltre in questo modo si alimenta unaltra critica realista,
che considera la pace democratica come esito dellesistenza di un sistema
bipolare in cui i paesi occidentali facevano tutti parte dello stesso blocco: alla
base della pace non sta la natura democratica dei regimi ma i fattori sistemicostrutturali del bipolarismo.
Per scegliere tra tutte queste spiegazioni alternative allo stesso fenomeno, si
possono scegliere tre vie.
La prima (ipotesi derivate) consiste nel derivare ciascuna spiegazione delle
ipotesi addizionali, cio di estrarre dagli argomenti formulati per esprimere il
fenomeno delle ipotesi che riguardano fenomeni diversi e verificarle: la
spiegazione migliore per quanto riguarda la pace democratica sarebbe quindi
quella che spiega altrettanto bene altri aspetti delle democrazie nei conflitti
internazionali. In questo senso ha pi capacit esplicativa la teoria della pace
democratica rispetto a quelle sistemico strutturali.
La seconda via (influenze multiple) tratta statisticamente i fattori analizzati per
pesare linfluenza di ciascuno di loro (singolarmente e combinati) nel creare il
fenomeno, e anche questa avvalla lipotesi della pace democratica. La terza via
(mutamento strutturale) considera come si sono configurati i rapporti tra
democrazia e guerra quando le cause realiste della pace democratica hanno
assunto valori diversi da quelli della guerra fredda: se la pace democratica
tenesse anche in un sistema non bipolare, si potrebbe trovare pi
semplicemente una soluzione al quesito.
4. LA PACE DEMOCRATICA E IL SISTEMA INTERNAZIONALE
CONTEMPORANEO
La fine della guerra fredda ha modificato molti attributi del sistema
internazionale: non pi un sistema bipolare, si assistiti quindi alla rottura
della forte identit di sicurezza che accumunava i paesi occidentali,
CAPITOLO 8 SICUREZZA
1. LA SICUREZZA COME SCOPO ELEMENTARE DELLAZIONE POLITICA
In una societ anarchica e spesso ostile come quella internazionale, la
riduzione dellincertezza e dellinsicurezza lo scopo elementare dellazione
politica. Lo stato nella storia dellOccidente sicuramente listituzione che ha
realizzato con maggior efficacia la garanzia nei confronti dellinsicurezza,
interna o esterna; ma proprio la presenza di altri stati indipendenti che mette
in pericolo la sopravvivenza delle persone attraverso la guerra. La sicurezza
pertanto il suo oggetto per definizione, pur non esaurendone il significato:
giustizia, libert, indipendenza possono essere valori politici altrettanto o anche
pi rilevanti di essa, tanto che gli stati occidentali hanno negli ultimi anni
utilizzato pi risorse per il loro conseguimento rispetto a quello della sicurezza.
Tuttavia lera della globalizzazione ha chiarito anche agli stati occidentali che ci
sono ancora sfide alla sicurezza, aggiungendone di nuove alle tradizionali.
2. IL PARADIGMA ANARCHICO, OVVERO LA CONTINUA COMPETIZIONE
PER LA SICUREZZA
Nel campo delle relazioni internazionali, la sicurezza deve intendersi come
sopravvivenza politica dello stato indipendente e autonomo: sovranit verso
linterno significa supremazia, verso lesterno non subordinazione. Infatti la
cessione della propria sovranit individuale da parte di ogni membro della
comunit politica a un soggetto terzo (lo stato, appunto) in cambio di
protezione, come avviene nellarena domestica, non praticabile in quella
internazionale, perch se gli stati rinunciassero alla sovranit non avrebbero
ragione dessere.
Tuttavia lidea che il perseguimento della sicurezza sia possibile solo a
condizione di superare la natura anarchica de sistema, attraverso la
prospettiva di un governo internazionale e del concetto di giustizia
cosmopolitica e sicurezza collettiva, si colloca al cuore della riflessione
idealista. Per il realismo classico, invece, ci che conta la sicurezza nazionale:
la protezione della propria comunit politica conseguita attraverso la potenza,
nonch unico interesse dello stato. Ma la sicurezza non coincide con la potenza,
poich aumentando la seconda non necessariamente si migliora la prima: il
miglioramento della posizione di uno stato relativamente agli altri, potrebbe
indurre gli ultimi a ribaltare il guadagno attraverso la guerra. Infine, la
sicurezza pu essere vista in maniera oggettiva o soggettiva: in senso
oggettivo misura lassenza di minacce (elemento costante), in senso soggettivo
lassenza di paura (elemento variabile).
2.1 Il dilemma della sicurezza
vero, comunque, che in unarena anarchica in cui non possono essere mai
dismesse aspettative di violenza lunico modo per garantirsi sicurezza
massimizzare le proprie risorse di potenza, poich aumentandole si
minimizzano le conseguenze della potenza altrui. Ma poich tutti gli stati sono
portati ad agire razionalmente seconda una medesima logica, a fronte
dellincremento di potenza di uno stato, anche gli altri faranno lo stesso nella
cosiddetta corsa agli armamenti: il risultato che ogni sforzo di accrescere la
propria sicurezza alimenta le fonti stesse dellinsicurezza. In questo senso il
dilemma della sicurezza pu essere definito come una condizione strutturale
del sistema internazionale. Gli eventi del primo decennio del XXI secolo, inoltre,
sembrano mettere in luce come lutilizzo della forza, anche in condizioni di
superiorit in cui la potenza sia stata massimizzata, riesce difficilmente ormai
ad essere risolutivo e a migliorare le condizioni di sicurezza (es.: conflitti
afghano e iracheno).
2.2 Gli errori di percezione
La corsa agli armamenti rappresenta un percorso molto pericoloso, perch c il
rischio sempre presente che unerrata percezione delle intenzioni altrui scateni
un conflitto. Jervis sottolinea tre tipi di errori di percezione: non cogliere
limportanza che gli avversari assegnano al raggiungimento di determinati
obiettivi, lerrata convinzione che gli altri abbiano a disposizione alternative
rispetto alle politiche che stanno attuando, la presunzione che il proprio
comportamento sia pi trasparente per gli altri di quanto in effetti sia. Questi
errori possono essere ricondotti a tre fattori: la sovraconfidenza cognitiva
(sovrastima del nostro grado di comprensione dellambiente in cui ci troviamo),
lancoraggio (assimilazione di nuove informazioni ai nostri preesistenti schemi
di credenza), la negazione (rifiuto di percepire e comprendere gli stimoli
minacciosi).
2.3 La questione dei guadagni relativi e il posizionalismo difensivo
La sicurezza non uno scopo come gli altri per lo stato, ma uno scopo-vincolo,
poich senza di essa lo stato non pu sopravvivere, e questo deriva dalla
struttura anarchica del sistema: proprio la natura strutturale della sicurezza la
renda diversa rispetto agli altri scopi dellazione statale e conduce gli stati a
quantificare il proprio utile in questo campo in termini relativi. Partendo dunque
da due assunti principali del realismo (linteresse dello stato massimizzare la
propria sicurezza e forza relativa), questa teoria sostiene che lanarchia induca
gli stati a caratterizzarsi come posizionalisti difensivi: gli stati cercando di
raggiungere quel livello di capacit ed autonomia che consentano loro di
mantenere la posizione di potere relativo rispetto agli altri. Lautodifesa il fine
ultimo degli stati, prima della massimizzazione della potenza e dei guadagni
assoluti.
2.4 Il realismo offensivo
Il realismo strutturale o neorealismo, a differenza del realismo classico, non
presuppone unintrinseca aggressivit delle grandi potenze e privilegia il livello
danalisi sistemico: per questo viene anche definito realismo difensivo. Esiste
per anche un realismo offensivo secondo il quale le grandi potenze si
comportano aggressivamente non perch vogliono farlo ma perch sono
costrette a cercare pi potere se vogliono massimizzare le probabilit di
sopravvivenza, dato che il sistema internazionale spinge a creare occasioni per
guadagnare potere a spese dei rivali, e ad approfittare di tali occasioni quando i
benefici superano i costi.
Le tre concezioni realiste (offensiva, difensiva e egemonica) propongono quindi
una diversa relazione potere-sicurezza e rappresentano tre momenti diversi
della potenza di uno stato:
quando uno stato debole, laccumulo di potere incrementa la sua
sicurezza (realismo offensivo).
Una delle minacce che pone maggiori difficolt nellelaborare delle strategie di
sicurezza quella della proliferazione delle armi nucleari: per il periodo della
guerra fredda il problema non era cos pressante poich posto sotto il controllo
che URSS e USA avevano dellintero sistema politico internazionale. Con la fine
del bipolarismo lo scenario cambiato, soprattutto per quei regimi che vedono
nella capacit nucleare lo strumento principale per innalzare la propria
sicurezza, e in realt finendo proprio per avere leffetto contrario (vedi dilemma
della sicurezza).
Accanto a terrorismo e proliferazione nucleare, bisogna annoverare tra le
minacce anche il moltiplicarsi di stati falliti, cio cos deboli da non riuscire a
garantire alla comunit internazionale che il proprio territorio non si trasformi in
una piattaforma sulla quale gruppi armati e terroristici possono agire
indisturbati. Secondo la spiegazione di Tilly per la nascita del moderno stato
europeo, esso si creato proprio attraverso la necessit di affrontare conflitti
su scala sempre pi ampia: la guerra rafforza gli stati o li fa cessare desistere.
Sorensen ha per osservato che la guerra non ha avuto questa funzione per i
paesi in via di sviluppo, poich essi, a differenza dei vecchi stati europei,
possono acquistare tecnologia miliare senza doversi sottoporre a riforma
istituzionali; inoltre il sistema sorto dalla IIGM ha rafforzato lintangibilit dei
confini internazionali e ha scoraggiato la distruzione delle sovranit, anche se
deboli. In simili condizioni, la minaccia di estinzione nazionale come esito di
una guerra non ha funzionato come incentivo a rafforzare lo stato, n la guerra
stessa ha evitato che al fallimento ne seguisse la rapida scomparsa.
democratico.
2. Per quanto riguarda invece la dimensione della POLITICS, la globalizzazione
pu influire su di essa principalmente alterando le risorse che vari gruppi sociali
possono usare nel processo politico. Secondo vari annalisti la globalizzazione
economica accresce la disuguaglianza dei redditi, almeno dei paesi
industrializzati. Nella misura in cui la disuguaglianza economica si traduce in
disuguaglianza politica (cio risorse economiche producono influenza politica),
plausibile sostenere che la globalizzazione ridistribuisse il potere politico
all'interno degli Stati.
3. Si ritiene frequentemente che la globalizzazione economica abbia
condizionato e limitato le POLICIES che i governi possono attuare.
L'accresciuta mobilit transnazionale del capitale scatenerebbe una
competizione tra Stati per attrarre capitali, che sfocerebbe in una corsa al
ribasso nel campo delle politiche fiscali, salariali, sociali e ambientali. Da un
lato, i governi dovrebbero infatti temere che l'imposizione di costi alle imprese
operanti sul proprio territorio produca un amento del prezzo dei loro prodotti,
danneggiandone la competitivit sui mercati interni e internazionali. Dall'altro
lato, essi dovrebbero temere che le imprese spostino le loro attivit verso paesi
con minori costi di produzione.
Durante gli anni Novanta molte pubblicazioni sottolineavano la gravit di questi
processi e proclamavano il DECLINO DELLO STATO di fronte all'assalto di
forze economiche globali. Una delle proponenti pi autorevoli della tesi del
declino dello Stato, Susan Strange, dichiar che "le forze impersonali dei
mercati mondiali [] hanno oggi un potere maggiore degli Stati, ai quali noi
siamo soliti attribuire la massima autorit politica sulla societ e sull'economia.
Mentre in passato gli Stati erano padroni dei mercati, oggi su molti problemi
cruciali sono i mercati a dominare governi".
La tesi del declino dello Stato stata soggetta a numerose critiche, che per
comodit si possono raccogliere in tre gruppi.
a) La prima critica si concentra sui fattori che ostacolano il cambiamento
delle istituzioni politiche, economiche e sociali.
b) Un secondo tipo di critica non nega la possibilit del cambiamento come
risultato della globalizzazione ma sostiene che questo cambiamento pu
consistere in un'espansione, piuttosto che in una riduzione, del ruolo
dello Stato nell'economia e nella societ. La continuit o perfino
l'espansione del ruolo dello Stato in condizioni di globalizzazione non
sarebbe necessariamente in contraddizione con una forma pi debole
della tesi del declino dello Stato. Secondo questa versione, gli Stati che
non si adeguano alle pressioni dei mercati internazionali verrebbero
puniti con la fuga dei capitali, con il declino della competitivit delle
imprese che rimangono e quindi con il calo dell'occupazione dei redditi.
c) Il terzo tipo di critica, tuttavia, osserva che uno Stato sociale generoso
non deve essere considerato come un onere della competizione tra Stati
nei mercati mondiali. Uno stato attivo contribuirebbe direttamente alla
produttivit dell'economia attraverso la creazione di una forza-lavoro ben
istruita e in buona salute. Inoltre la stabilit politica e sociale promossa
dallo Stato sociale renderebbe un paese pi attraente agli occhi degli
investitori.
ancora
pi
pervasiva
dall'immigrazione
extracomunitaria in Europa e dalla rapida trasformazione della composizione
etnica e culturale dell'America.
In politica, il multiculturalismo non esprime pi la realt pure e semplice della
convivenza, ma esprime un profondo mutamento nel modo di concepirla.
1.1 Multiculturalismo e potere
In questa tensione permanente tra il dato di fatto della pluralit culturale e i
modi in cui questa pu essere percepita e affrontata si intravedono gi i due
nodi fondamentali per l'ordine sociale e, quindi, anche per l'ordine
internazionale.
Il primo, attorno al quale si concentrano le ambiguit del termine
multiculturalismo, lesistenza o linesistenza di un universo discorsivo
comune capace di ricomprendere le differenze. proprio contro questa
possibilit che sembra rivolgersi il multiculturalismo come ideologia. Il
multiculturalismo rifiuta l'assimilazione, anzi si pu dire che nasca del suo
fallimento. Ma, come spesso accade, esso trascina con s il pregiudizio
fondamentale delle culture e delle politiche assimilazionistiche: quello
per il quale la comunicazione sarebbe possibile solo tra uguali.
A differenza della tolleranza, invece, la politica della multiculturalismo
non muove dalla diversit, ma si ferma a questo punto. Il confronto con
l'altro si riduce alla reciproca esposizione della propria unicit: latro
intoccabile, ma per la stessa ragione per la quale non ci pu toccare.
Se non si vuole confondere dietro la stessa etichetta il palazzo del
governatore inglese a Bombay e i ristoranti indiani a Londra si deve
tenere conto del fatto che l'esperienza dell'altro non cambia soltanto a
seconda che ci sia o no un terreno di comunicazione o di quanto l'altro sia
diverso da noi, ma cambia prima di tutto a seconda della posizione (di
forza o di debolezza, di uguaglianza o disuguaglianza) che noi occupiamo
di fronte a lui.
La disponibilit a rimettersi in gioco non pu essere confusa con la
disponibilit a contemplare l'originalit dell'altro. Quello che cambia, e
trasforma la qualit dell'incontro la sensazione di una minaccia. Un
confronto tra eguali rappresenta, sempre, una minaccia a qualcosa:
quantomeno, a ci che ciascuno stato o ancora.
Ed proprio qui che rapporto tra culture e potere diventa un problema, a
maggior ragione in un contesto politico internazionale come l'attuale, nel
quale la configurazione tradizionale del potere, la supremazia politica ed
economica dell'Occidente, appare sempre pi apertamente sfidata
dall'emergere di competitori culturalmente eterogenei tanto sul terreno
economico (come la Cina) quando su quello politico (come l'Islam
radicale).
1.2 Multiculturalismo e relazioni internazionali