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Riassunto del libro "IL POTERE"

Filosofia
Università degli Studi di Padova (UNIPD)
29 pag.

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STORIA DELLA FILOSOFIA POLITICA (B) – MAURIZIO MERLO

IL POTERE di GIUSEPPE DUSO

PREMESSE:

Il tema è costituito dal concetto di potere, il quale, così come si configura nella nostra mente, non è un
concetto eterno del pensiero, indicante una dimensione essenziale dell’esistenza degli uomini, ma piuttosto
appare un’idea determinata che si è venuta configurando nell’epoca moderna all’interno di precisi
presupposti teorici. Quello di potere non è un concetto particolare, che ha una sua storia isolata, ma
costituisce il punto focale della “filosofia politica moderna”.

INTRODUZIONE:

Per determinare cosa si intenda per approccio storico-concettuale è utile riferirsi alla lezione della tedesca
Begriffsgeschichte come è stata proposta da autori come Otto Brunner, Werner Conze e Reinhart Koselleck.
Tale riferimento ha costituito uno stimolo importante per un lavoro di ricerca sui concetti politici che sta alla
base anche dell’analisi del concetto di potere quale si presenta in questo volume. Spesso nella storia delle
idee politiche si intendono i concetti come qualcosa che ha valore universale, che coglie una costante delle
relazioni che gli uomini hanno tra loro. Un primo elemento caratteristico dell’approccio qui proposto alla
storia dei concetti è allora la consapevolezza critica dei concetti che si usano, della loro nascita nella
modernità. Dal primo momento che i termini, che si adoperano per avvicinarsi alle epoche precedenti, non
possono essere che quelli in cui si è inevitabilmente sedimentato un insieme di significati concettuali
moderni, ciò significa che per un lavoro storico sul pensiero antico e medievale è indispensabile avere
coscienza critica del pensiero moderno e della sua concettualità politica. Un secondo elemento è costituito
dalla differenza tra un lavoro di analisi del pensiero politico che si può fare su questa base e un modo di fare
storia delle idee politiche che intenda i concetti o idee come grandezze unitarie e costanti, universali, che
possono avere determinazioni storiche diverse proprio grazie ad un nucleo unitario che le caratterizza. Anche
quando si può avere l’identità di un termine, ciò non significa che ci sia identità del concetto. Ciò che rimane
identico è il termine, non il concetto. È in questo contesto che viene elaborato il concetto di potere,
l’obbligazione politica, come si è soliti intenderla, tale cioè da implicare una forza propria del corpo politico
superiore a quella di tutti gli individui, una forza che è garanzia di pace proprio in quanto ad essa tutti sono
sottomessi. Un tale concetto di potere non può non comportare la necessità della legittimazione, della
giustificazione razionale, giustificazione che è appunto la prestazione propria della scienza politica che nasce
a metà del Seicento.

Nasce così una nuova scienza: la scienza politica moderna, o filosofia politica, ché i due termini di filosofia e
scienza non sono qui, e ancora per molto tempo, da distinguere o distinguibili. Questa nuova scienza vuole
fornire, mediante l’universalità e il rigore del suo ragionamento, la base sicura per la realizzazione dell’ordine
e l’eliminazione del conflitto tra gli uomini. Di contro alle antiche concezioni, con la nuova scienza viene
affermata l’uguaglianza degli uomini e il nuovo concetto di libertà, che consiste nel dipendere solo dalla loro
volontà, nell’essere svincolati da obblighi e ostacoli in reazione all’espressione dei propri poteri naturali. Su
questa base nasce il potere, un rapporto formale di comando-obbedienza, che si può instaurare solo sul
fondamento logico di quei diritti di uguaglianza e libertà che diventano anche il suo fine. L’appartenenza del
potere alla totalità del corpo politico esclude che esso sia esercitabile da una persona per le sue qualità o
prerogative: tutti gli uomini sono uguali, e perciò colui o coloro che eserciteranno il potere lo potranno fare
solo in quanto da tutti autorizzati, solo cioè come rappresentanti del soggetto collettivo. Tale concezione del
potere comporta la separazione dell’azione pubblica e politica nei confronti dell’agire privato dei singoli.
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PARTE PRIMA: ORDINE, GOVERNO, IMPERIUM

Per intendere quando sia da ravvisare la genesi del concetto di potere, nel senso di potere politico, bisogna
avere chiara coscienza di ciò che con questo termine si viene ad indicare. Si può riconoscere come elemento
centrale la formulazione di direttive per l’azione di tutti i componenti di una società che si manifesta nella
forma di comando e, di contro, l’attitudine di tutti coloro che si trovano nell’area di tale potere all’ubbidienza:
non ad un’ubbidienza coatta, dovuta al fatto che si subisce semplicemente un atto di forza, ma un’ubbidienza
volontaria, che sembra caratteristica della vita civile. All’interno di questo modo di pensare la politica da
parte di una lunga tradizione, se si manifestano rapporti di comando e sottomissione, essi non solo non
possono essere intesi nella forma del potere, ma esprimono piuttosto un modo radicalmente diverso di
intendere la natura degli uomini e il loro reciproco rapportarsi. Tale radicale diversità viene chiaramente alla
luce quando ci si accorge che, alla nascita della scienza politica moderna, si sentirà il bisogno di giudicare non
razionale e legittimo il pensiero politico di una millenaria concezione della politica, ai fini di costruire una
società giusta che sarà resa possibile proprio dal concetto di potere politico, nel senso di sovranità moderna.
La società non è costruzione artificiale, ma è piuttosto naturale, in quanto fine della natura umana. Essa allora
non dipende dalla volontà dei singoli. L’azione di governo non esprime semplice dominio su coloro che sono
sottomessi: il governo si rivolge al bene della realtà comune, insieme di chi governa e di chi è governato, ed
è un modo per mettere al servizio comune le doti e le qualità di chi governa. Metafore del nocchiero della
nave: perché questa sia una guida buona, un buon governo, bisogna che il nocchiero sia dotato di esperienza
e di qualità, di virtù che non sono distribuite ugualmente fra tutti. L’azione di governo, anche se necessaria
per l’intera comunità, è attribuibile alla persona di colui che governa e non esprime la volontà di tutti i
cittadini, o di tutte le parti che costituiscono il corpo della repubblica; è piuttosto colui che governa ad
esserne responsabile. Il buon funzionamento del corpo comune corrisponde al buon funzionamento delle
parti, e un funzionamento armonico è possibile in quanto c’è una guida delle diverse parti del corpo. Se tale
quadro caratterizza ancora le dottrine politiche del primo Seicento, che trovano nella filosofia pratica di
Aristotele un punto di riferimento, con Machiavelli era già apparsa nella scena del pensiero politico una
diversa comprensione della natura umana che non giustifica più le differenze di posizione nel governo in base
a una natura differenziata e strutturata gerarchicamente. Un momento fondamentale per la nascita del
potere, nel senso moderno della sovranità, è solitamente ravvisato in Bodin. La decisione sovrana risulta
svincolata da un complesso quadro di ordine e di diritto. Tuttavia, la sua assolutezza non nega la natura
plurale della società, composta di ordini, comunità e corporazioni: è proprio tale composizione plurale, che
tende a produrre anarchia e disordine, a dover essere mantenuta, diretta e governata, richiedendo a tal fine
una potenza unitaria sovrana. La rottura nei confronti dell’antico modo di intendere la società avviene con
Pufendorf, che introduce in Germania la logica della costruzione hobbesiana e inaugura la scienza del diritto
naturale. L’uomo è sì caratterizzato dalla socialitas, tuttavia la società civile appare possibile solo mediante
l’imperium, che ora assume un significato nuovo: non è più guida e governo, ma potere, nel quale si esprime
il soggetto collettivo, la civitas, le cui azioni, uniche ad essere politiche, sono intese come diverse e separate
da quelle dei cittadini, ormai ridotti ad una dimensione privata.

Capitolo I: La repubblica prima dello Stato. Niccolò Machiavelli sulla soglia del discorso politico moderno

Nei confronti del pensiero politico e statuale che si affermerà nel secolo successivo, la dottrina di Machiavelli
ha dunque, allo stesso tempo, un carattere preliminare ed eccentrico. Essa rappresenta da un lato un luogo
di passaggio dalla considerazione medievale a quella moderna dei compiti del principe e del potere
monarchico, dall’altro un’alternativa e un’interruzione nella comprensione pratica del reggimento
repubblicano.

Si è così di fronte ai termini fondamentali dell’universo politico di Machiavelli: la dura verità che comunque
si nasconde dietro l’immaginazione delle cose, l’insaziabile desiderio umano di appropriarsi di tempo, spazio
e oggetti, la fortuna che, sia come mutamento sia come persistenza, impedisce la piena disponibilità di quegli

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oggetti del desiderio. È quindi “più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla
immaginazione di epsa”. Se si ha di mira un’azione politica degna di successo, si devono leggere i tempi e il
loro continuo mutamento, anche se la realtà non è del tutto disponibile all’azione consapevole e virtuosa,
ma piuttosto almeno parzialmente indisponibile e sottomessa al dominio della fortuna. Sebbene talvolta lo
stesso Machiavelli abbia condiviso la convinzione opposta, alla fortuna si può reagire e la qualità della risposta
già definisce una soglia che organizza le alternative del discorso politico. Fortuna e virtù (dove la prudenza è
la virtù politica fondamentale per garantire la durata dell’ordine politico) non sono definite dalla loro
contiguità, secondo una metafora linearmente spaziale, quanto piuttosto dalla possibilità che la seconda si
sovrapponga in continuazione alla prima, dominandola. L’effettualità della cosa e quella dell’azione politica
si sommano quindi per riassumere non la corretta analisi dello stato presente delle cose, ma anche la capacità
di adeguarsi a ciò che richiedono le circostanze in forza della loro incontestabile oggettività.

Il principato (forma di governo transitoria) si presenta come modo specifico per rinnovare politicamente una
repubblica che non è più in grado di produrre dal suo interno l’innovazione necessaria. Per il principato, così
come sarà per la repubblica, la forza militare autonoma e la legittimità politica interna sono strettamente
collegate soprattutto perché la seconda, sottratta al suo fondamento tradizionale, deve essere assicurata sia
verso l’esterno sia verso l’interno. Il principato civile-popolare è la soluzione “virtuosa” della crisi di una libera
repubblica, nella quale gli scontri interni impediscono il rinnovamento dell’esperienza repubblicana; esso è
una presa di posizione esterna alla repubblica, ma interna ai suoi conflitti dal momento che, dovendosi
garantire la durata come ogni altro governo, esso deve allearsi con una delle parti dello scontro. È infine una
soluzione eccezionale e nell’eccezione il principe machiavelliano viene messo alla prova, essendo
l’incarnazione di un modo straordinario di affrontare la crisi, nel momento in cui quelli ordinari sono
impotenti di fronte alla disaffezione verso la cosa pubblica.

La particolarità di Roma sta proprio nell’aver avuto a suo fondamento un cittadino armato, disposto a
combattere, non solo per difenderla, ma anche per aumentarne la potenza. Nelle repubbliche sono quindi
necessarie leggi che prevedano modi ordinari per garantire la libertà, di modo che il conflitto tra gli “umori”
o le loro fazioni sia definito dal pubblico. Soggetto della repubblica non è quindi una “moltitudine sciolta”,
ma una moltitudine regolata dalle proprie leggi, in grado di dimostrare la capacità di disciplinare sé stessa,
dimostrando così di essere diversa da quella descritta come partecipe della generale corruzione che rendeva
impossibile la repubblica e impediva l’instaurarsi di ogni forma “civile” di principato.

Così, se viene negata l’equivalenza delle forme, al principe viene comunque riconosciuta una capacità unica
di innovazione, mentre la repubblica della moltitudine sembra destinata più a gestire la continuità dei tempi
che ad affrontare la loro mutevolezza.

Capitolo II: Principi e ragion di stato nella prima età moderna

Nel 1589, con il libro Della ragion di stato di Giovanni Botero, inizia un’intensa opera di ridefinizione della
figura politica del principe e del rapporto da lui stabilito con il territorio e con i suoi sudditi. Tra le opzioni che
si offrono all’agire del principe – la conservazione, l’ampliamento o la fondazione – la ragion di stato privilegia
decisamente la sicurezza garantita dalla prima. La gerarchia che viene così stabilita tra le figure dello spazio
territoriale come metafore dell’agire politico è decisiva per lo sviluppo del discorso complessivo sulla ragione
di stato. Mentre la vicenda europea dei grandi imperi volge al tramonto, a Botero sembra ormai evidente che
gli stati di proporzioni medie hanno maggiori possibilità di conservarsi in quello che si avvia a diventare un
sistema di stati, nel quale essendo piccoli si diventa facilmente preda, ma essendo di grandi dimensioni si è
soggetti a tensioni interne difficili da governare. Su questa delimitazione della superficie si impone la scelta
specifica a favore del consolidamento dello spazio politico, sul quale si è stabilito ed è reputato necessario
un potere regio. Conservazione e potere regio si implicano reciprocamente, perché conservare è possibile
solamente se si considera risolta la disputa sulla forma del governo, cioè se si giudica migliore la forma che
lo stato ha fattualmente assunto. La persona del principe viene considerata “non più come persona
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particolare, ma come persona pubblica”: i principi appaiono come “rappresentanti del pubblico”. Giusto
Lipsio sostiene che la maggior parte degli uomini preferisce un giusto principe alla libertà, perché è comunque
“arduo che vi sia nello stesso luogo potenza e concordia”. La separazione tra governante e governati non è
quindi solo necessaria, ma anche utile in nome di un fine superiore che è la pace.

L’avere di fronte uno scontro in atto mostra il governo principesco come garante della conservazione della
pace. La forza deve sottostare alle procedure di delimitazione che ora definisco lo spazio concreto dell’agire
politico. La situazione di profonda inquietudine politica impone di fare ricorso alla prudenza come insieme di
saperi e di pratiche che consente di dominare il presente, mettendo a frutto la conoscenza del passato. La
prudenza produce un’economia del tempo, nella quale il conosciuto deve servire a governare ciò che non si
può o non si riesce ancora a conoscere, si tratti dell’animo dei sudditi o delle cose della guerra, così come
deve stabilire una gerarchia tra il certo e l’incerto, tra ciò che è sicuro e ciò che è pericoloso.

Capitolo III: Ordine della giustizia e dottrina della sovranità in Jean Bodin

La nozione di sovranità costituisce l’elemento di maggior interesse dell’opera politica di Jean Bodin. “Per
sovranità s’intende quel potere assoluto e perpetuo ch’è proprio della repubblica”. La sovranità aspira infatti
a presentarsi come l’elemento proprio e caratteristico della comunità politica, come “il vero fondamento, il
cardine su cui poggia tutta la struttura della repubblica, e da cui dipendono i magistrati, le leggi, le ordinanze:
è essa il solo legame e la sola unione che fa di famiglie, corpi, collegi, privati un unico corpo perfetto, ch’è
appunto la repubblica”. L’introduzione del principio di sovranità non permette solo di identificare l’essenza
dell’associazione politica, ma fornisce anche un criterio intrinseco per classificare tutte le forme di repubblica,
le quali ammettono tante varianti quante sono le specie di sovrano. Poiché la forma della repubblica dipende
dal soggetto che detiene la sovranità e dal rispetto delle leggi di natura, si daranno due classificazioni: una a
seconda che il sovrano sia un uomo, un collegio o la maggioranza del popolo, e una a seconda che il sovrano
governi in accordo con i dettami del diritto naturale o contro di essi. Definendo la sovranità come una potestà
assoluta di disposizione sulla legge civile, Bodin ottiene infatti l’effetto di neutralizzare il conflitto circa
l’interpretazione della legge e, più in generale, circa la volontà che deve guidare la repubblica. Va tuttavia
segnalato che tale accentramento non produce uno spazio vuoto nel quale tutti i cittadini sono ridotti a
semplici privati, venendo ad annullarsi ogni diversità ma, al contrario, la dottrina politica di Bodin conserva
tutti i gradi di differenziazione del mondo dei ceti. I cittadini sono perciò tutti uguali di fronte al sovrano, ma
diversi e posti su livelli differenti quando si rapportano l’uno all’altro. Contrariamente a quanto si potrebbe
pensare, il sovrano non è l’unica istanza autorizzata a esercitare il potere supremo, e i magistrati inferiori non
sono semplici esecutori, meri mezzi di trasmissione della sua volontà. Bodin pensa invece che la sovranità
venga effettivamente trasferita ai magistrati intermedi e che costoro esercitino in proprio un’autorità che ha
le stesse peculiarità della potestà del principe. Sebbene il potere di comandare spetti solo al sovrano, i
magistrati intermedi non si limitano ad applicare la legge, ma sono superiori ad essa e dispongono
liberamente della propria autorità potendo trasmetterla ad altri; anzi, tutti i magistrati, quando non agiscono
da semplici esecutori, ma godono pienamente della loro dignità, esercitano una potestà di questo tipo.
Nessun magistrato entra tuttavia in rapporto di competizione con il sovrano perché il potere di ciascuna delle
istanze subordinate scompare al cospetto del re. La repubblica viene mantenuta insieme non dalla relazione
orizzontale, cittadino e cittadino, ma da quella verticale che lega ciascun suddito al sovrano. L’idea della
differenza si accompagna così all’idea dell’uguaglianza.

La sovranità di Bodin è pensata esclusivamente come un rapporto tra il sovrano e il suddito, che non implica
un nesso tra suddito e suddito. Essa realizza solo in parte la funzione costituzionale caratteristica della
sovranità giusnaturalista moderna. Quest’ultima è infatti il principio di fondazione della società politica
perché il volere del sovrano identifica la volontà di tutti e permette ai singoli di rapportarsi l’uno all’altro
riconoscendosi come membri dello stesso stato. In Bodin la sovranità rimane il volere di un singolo, il sovrano,
e non diviene in alcun modo la volontà di tutti: essa si presenta come un potere supremo sulla legge, che può

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modificare, abrogare o creare nuova legislazione, ma al quale non è demandato il compito di mettere in
relazione i singoli e di produrre le condizioni per l’unità dello stato. Come viene esplicitamente chiarito, il
nucleo originario della repubblica sono le famiglie, le quali esistono prima e indipendentemente da ogni
società politica. I capifamiglia, che esercitano sui membri della famiglia una sovranità in tutto e per tutto
simile a quella del principe, uscendo dalla dimensione naturale della casa, si spogliano del titolo di padrone,
capo e signore, per diventare uguale agli altri. Solo le passioni impediscono che si formi una società pacifica,
quindi le famiglie entrano in guerra. Il prodotto delle guerre e delle contese è la repubblica, nella quale a uno
solo viene riservata la facoltà di comandare sugli altri. La repubblica trae quindi la sua origine da un atto di
forza, che funge da causa prima nella trasmissione della sovranità. Dunque, la sovranità non nasce con la
repubblica ma prima, con la sovranità dei capifamiglia, ciò significa che ha una origine naturale, cioè rispetta
l’ordine che Dio ha dato del mondo. Tra dominio paterno e sovranità politica non esiste d’altronde alcuna
differenza qualitativa perché entrambi si presentano come forma di governo giusto su sudditi.

A più riprese Bodin sostiene che il volere del principe non può infrangere le norme del diritto divino, di natura
e delle genti. È in modo particolare la legge divina, che coincide con le indicazioni della legge morale, a porre
un vincolo invalicabile per le decisioni e le azioni del principe. Quindi le leggi morali, sebbene siano sanzionate
dal diritto civile di una città e siano formalmente rivestite della volontà del sovrano e a essa sottomesse, sono
vincolanti anche per il sovrano, che in nessun modo può abrogarle ed è doppiamente tenuto a rispettarle.

L’equità, la legge di natura, il diritto naturale e delle genti non sono soltanto dei meri limiti negativi contro i
quali si scontra l’azione della sovranità, ma identificano un ordine eterno, superiore all’ambito della politica,
nel quale la repubblica si inserisce e dal quale l’azione di quest’ultima acquista significato. Ne consegue che
vera repubblica sarà solo quella nella quale è presente quell’elemento che alla banda dei predoni manca:
l’esercizio della virtù che in forma visibile si manifesta nelle buone leggi. La comunicazione di questi beni
morali rappresenta la vera essenza delle comunità umane e in modo particolare della città, la quale è dunque
una società per partecipare reciprocamente l’esercizio della virtù. Il principio a cui si rivolge o da cui proviene
la dottrina della sovranità di Bodin è dunque la vita virtuosa e ad essa è finalizzato l’esercizio della potestas
absoluta, che si presenta come una forza per governare il mondo umano nel quadro di un ordine universale.
La volontà del sovrano di Bodin, che rimane sempre limitata dal diritto naturale e delle genti e dal riferimento
al bene, non conosce simili forme di mediazione e si impone come istanza superiore a ogni altro soggetto
politico. Se la nascita del sovrano moderno passa attraverso la relazione tra sudditi e viene fondata in essa,
la sovranità di Bodin, che può affermare i caratteri della propria assolutezza al pari del potere teorizzato dal
giusnaturalismo moderno, non è in grado di rendere atto dei principi del proprio funzionamento: non
propone quella fondazione in termini concettuali che è destinata a rivelarsi come il vero cuore logico della
tematica del potere.

Capitolo IV: Il governo e l’ordine delle consociazioni: La Politica di Althusius

La Politica di Johannes Althusius merita una particolare rilevanza tra i trattati politici della prima età moderna.
La notorietà che ha tra noi contemporanei deriva più che dal rilievo avuto nei secoli, dal celebre volume di
Otto von Gierke, che pone Althusius alla base del moderno contrattualismo. Il suo pensiero politico ha come
punto di riferimento la dottrina aristotelica. In accordo con il Gierke si può dire che la figura del patto ha un
luogo rilevante nel pensiero di Althusius ma, contro di lui, è da notare che proprio gli aspetti determinanti
che lo caratterizzano e la funzione che viene ad esplicare ci mostrano quanto distante sia il suo modo di
pensare la politica da quelle dottrine che inaugureranno la scienza politica moderna, nelle quali il patto ha la
funzione di costituire il potere nel senso della moderna sovranità. Caratteristica importante è che il patto
fondamentale sia quello religioso tra Dio, il popolo e il sommo magistrato. Accanto al patto religioso e, si
potrebbe dire, sotto il vincolo etico di questo, sta il patto civile vero e proprio, che comprende sia un primo
patto che dà luogo al regno, costituito dai membri, che sono le varie parti e associazioni (famiglie, collegi,
villaggi, città) sia quello tra il popolo e il sommo magistrato, in cui si conferisce il mandato di governo e si

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stabiliscono insieme anche i limiti e le condizioni di esso. Tutto ciò non implica peraltro una fondazione
teologica della politica, o una concezione teocratica: la trattazione della politica di Althusius è razionale, come
mostrano i riferimenti ad una tradizione aristotelica e come indica la stessa intenzione di un lavoro nuovo e
sistematico sulla politica che si esplicita nelle introduzioni delle diverse edizioni della Politica; ma si tratta di
una ragione che si muove in orizzonte generale e all’interno di un cosmos in cui hanno la loro rilevanza anche
la religione e le Sacre Scritture.

La politicità della natura umana non indica soltanto la predisposizione che l’uomo ha per la vita in comune,
ma anche un orizzonte di pensiero in cui l’uomo è quello che è solo nelle strutture comunitarie in cui è
inserito: solo in queste può vivere bene, esplicare la sua virtù e quindi realizzare sé stesso. Perciò il fine della
politica è la “simbiosi santa, giusta, confortevole e felice” e gli uomini, la cui natura è di essere in rapporto
associativo, sono detti simbiotici. Tale termine designa già la prima dimensione della politica, cioè quella della
comunione, della cooperazione, di quel mettere in comune cose, servizi e diritti, che permette di superare la
situazione di indigenza propria dell’uomo isolato e di raggiungere quel fine del vivere, del “vivere bene” e
dell’esercizio delle proprie virtù, che già Aristotele aveva indicato. Questo della comunicazione è infatti
segnato come il primo significato del termine di “politica”, che si accompagna agli altri due, che sono il modo
dell’amministrazione, e l’ordine e la costituzione della civitas. Communio e communicatio si richiamano al
termine greco di koinonia, che caratterizza la politica in senso aristotelico. Al centro della politica sta dunque
l’agire in comune: l’agire di tutti è politico, sia quello di coloro che stanno alla guida dell’associazione, sia
quello di coloro che sono governati, ma non per questo sono semplicemente passivi o individui privati. La
dimensione associativa non è un solo legame sociale ma è legata necessariamente all’altro elemento
fondamentale di quello che viene chiamato il diritto simbiotico, cioè quello che dell’imperium, senza cui non
si dà vita associativa. Vivere in comunità e vivere sotto un governo sono due aspetti della stessa legge
naturale. Infatti, come è naturale la società, così è necessario che ci sia guida e governo: governare ed essere
governati sono azioni naturali iscritte nel diritto delle genti. Infatti, l’associazione si basa non sull’uguaglianza
degli uomini, ma sulla loro diversità. La diversità dei membri richiede dunque una guida e un lavoro diretto
all’unificazione, al governo dell’associazione, e questa guida è svolta da coloro che hanno i mezzi, le qualità
e le virtù necessarie.

La Politica passa in rassegna tutta una serie di strutture associative o consociazioni, dalla più semplice e
naturale, qual è quella domestica, alla più complessa e autosufficiente, qual è la consociatio universalis o
repubblica o regno. Tra le prime abbiamo quella primaria, naturale e necessaria, cioè la famiglia, e quella
civile, frutto di scelta volontaria, che è la corporazione. Tutte le associazioni sono politiche, perché, come si
è detto, è la consociatio in quanto tale ad essere oggetto della politica. Il termine “privato” non indica la non
politicità di queste prime associazioni, ma piuttosto la limitatezza della sfera dell’unione, la sua particolarità
del lavoro e degli interessi. Le associazioni pubbliche infatti riguardano tutte le persone che si trovano
all’interno di un ambito, sia esso quello cittadino o provinciale o dell’intero regno. Le città sono costituite da
famiglie e corporazioni, le province da città e da associazioni, il regno da tutte le associazioni minori. Ciò è
determinante per il senso politico che vengono ad avere gli uomini. Essi hanno bensì significato politico, ma
non in quanto uguali, e in quanto individui di fronte all’associazione, ma piuttosto mediatamente, in relazione
all’associazione a cui appartengono e al loro status all’interno di questa. La trattazione delle molteplici forme
di associazione culmina nel regno, o repubblica. È qui che si ha il livello più esteso di comunicazione e di
unificazione delle diverse istanze dei membri e che si raggiunge quella autosufficienza che, nel contesto
aristotelico, era ravvisata nella polis.

Dal momento che la “sovranità” è attribuita da Althusius al popolo, e non al re, sono sorte interpretazioni
che indicano in questa posizione un capovolgimento della concezione di Bodin, e interpretazioni che hanno
ravvisato in Althusius un precursore della sovranità popolare di stampo rousseauiano. La soggettività politica
delle diverse associazioni, che sta alla base della costituzione del regno, non viene cancellata dal corpo
comune che si è formato, e il consenso e l’accordo di tali membri restano il vincolo che deve tenere unito il
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regno. Se il popolo di cui si parla ha un carattere unitario, tale unità non cancella la pluralità dei soggetti e
delle associazioni alle quali gli uomini appartengono e, se è vero che la sovranità viene attribuita al “popolo”,
è anche vero che il significato di questo termine viene precisato attraverso espressioni quali “i membri
associati al regno” oppure “i corpi consociati”. Non solo cioè non è assoluta la potestas del re, che la riceve
dal popolo, ma nemmeno quella del popolo lo è, perché una potestas absoluta degli uomini è in contrasto
con la parola di Dio, con la ragione e con la giustizia. Il sommo diritto del popolo è dunque condizionato e
vincolato da realtà oggettive che non dipendono dalla sua volontà: la volontà di Dio, l’idea di giustizia, le leggi
fondamentali e la stessa costituzione plurale del popolo. Cioè che caratterizza il pensiero di Althusius è
l’attribuzione della sovranità al popolo e non al re: se il re rappresenta il popolo è superiore il popolo, che è
rappresentato, al re, che è colui che lo rappresenta.

Se il popolo è depositario del diritto di sovranità, tuttavia esso non amministra direttamente questo diritto,
ma si affida a persone a cui è delegata l’amministrazione. Il fatto che l’esercizio dell’imperium sia inteso come
amministrazione indica che coloro che governano non hanno un dominio sulle loro genti, ma hanno un
compito di gestione, di tutela, di amministrazione appunto, di una potestas la cui depositaria è l’associazione
generale ossia il popolo. È quest’ultimo che affida a colui che è chiamato il sommo magistrato il compito di
governare unitariamente il regno o la repubblica. Due sono i soggetti contraenti questo patto e colui che
riceve l’incarico del governo lo riceve all’interno di leggi fondamentali e di clausole precise. Il sommo
magistrato è solo amministratore di quei diritti di maestà che diventano, attraverso di lui, attuali e dipende
dunque dal popolo, il quale lo istituisce e rimane soggetto attivo anche dopo il contratto, cooperando con
lui, controllandolo e anche, nel caso di cattivo governo, deponendolo. Il popolo è una realtà complessa,
costituita da diverse cerchie, che hanno forza, diritti, bisogni: è l’accordo di queste determinate realtà, che
avviene in organi collegiali, ad esprimere il popolo come soggetto. Ciò avviene attraverso la figura di coloro
che, partecipando delle varie cerchie, le rappresentano negli organi collegiali. Al livello più della repubblica o
del regno, costoro sono gli efori. Due sono allora i modi dell’amministrazione, quella collegiale degli efori e
quella unitaria del sommo magistrato. Anche nelle associazioni inferiori infatti sempre si ha un rettore, cioè
una persona che ha il compito della direzione e del governo dell’associazione. L’azione di colui che governa
non è pensabile senza la collaborazione, la partecipazione e il consenso dell’organo collegiale; ragione per cui
il governo e la guida sono spesso intesi come un lavoro di coordinamento. In questo modo si esprime la
dottrina della duplice rappresentanza, che ha la sua radice nella realtà cetuale. Il popolo è invece
rappresentato dagli efori secondo una rappresentanza di identità, secondo la quale, quando gli efori
agiscono, è il popolo che agisce. Questa duplicità della rappresentanza e il modo di intendere il popolo hanno
una loro ricaduta sul problema antico delle forme di governo. Il sommo magistrato, che ha il compito del
governo, può assumere la forma monarchica o aristocratica o democratica. È caratteristica del sistema
politico fin qui delineato che la forma di governo non possa essere che mista, dovendo comprendere tutte e
tre le istanze, quella unitaria del sommo magistrato, quella aristocratica delle magistrature intermedie, e
quella popolare, che si esprime nelle istanze collegiali e nei comizi del regno.

Uno dei compiti degli efori, che hanno la facoltà di istituire il sommo magistrato, è quello di denunciare la
situazione di tirannide che si determina quando il governo di costui fosse troppo contrario alla buona
amministrazione. La denuncia di tirannide comporta l’attivazione del diritto di resistenza, che è inteso con
un carattere mediato e istituzionale e non insurrezionale o popolare in senso moderno. Il diritto di resistenza
va esercitato quando la tirannide è nota e confermata, in quanto il tiranno insiste nel suo comportamento al
di là di ogni avvertimento e consiglio. E quando risulta necessario, non sono i singoli cittadini, ma gli efori
appunto, che hanno il diritto di spada, ad essere investiti del compito di chiamare tutte le forze a raccolta per
destituire e combattere il tiranno. In tutti gli ambiti il governo deve essere commisurato a ciò che va oltre il
volere di chi comanda e i sottoposti hanno il diritto di opporsi ai comandi ingiusti e di “ammonire, frenare e
impedire” coloro che governano, quando costoro agiscono in “modo proditorio, nefando ed empio”. È allora
proprio il fatto che per natura ci sia governo dell’uomo sull’uomo a comportare il diritto di resistenza, a tutti

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i livelli, anche in quello della famiglia. Questa concezione pluralistica permette di parlare di federalismo in
relazione al pensiero di Althusius, nel senso in cui il patto implica pluralità di soggetti diversi e instaura una
comunità di membri che sono continuamente, sotto una guida, alla ricerca delle ragioni della loro unificazione
e del loro accordo.

Capitolo V: Ordine e imperium: dalle politiche aristoteliche del primo Seicento al diritto naturale di Pufendorf

Ogni discorso sull’imperium rinvia inevitabilmente alla costituzione metafisica del mondo e a Dio come al suo
creatore, che è il vero “signore, monarca e imperatore” dell’universo, dal quale tutti i magistrati terreni
ricevono “dominio, autorità e potestà di comando”. Nel mondo tutti detengono una qualche potestas e tutti
sono soggetti a una serie di potestates: solo Dio è potens in senso proprio e eminente e solo la materia è
completamente impotens. Tutti gli uomini sono quindi potenti rispetto a qualcosa di inferiore e impotenti
rispetto a qualcosa di superiore, e infatti anche il più reietto degli uomini può comandare sugli animali o sulla
natura inanimata. Anche l’imperium è una forma di potestas, quella propria della comunità politica, e ne
condivide le proprietà generali: poiché il suo compito è quello di restaurare il bene oscurato dal peccato, esso
si presenta come l’attività che “riporta l’impotente alla potenza”.

Tra il 1600 e il 1620, vennero delineandosi due opposte interpretazioni del termine maiestas e del complesso
teorico che ad esso mette capo. Da un lato la maestà venne intesa come l’autorevolezza personale che nasce
dall’evidente possesso della virtù, mentre dall’altro lato essa fu fatta coincidere con il sommo potere della
repubblica. Nella prima tradizione concepiscono la maestà come una dote personale, capace di indurre negli
altri venerazione, onore e ammirazione. In ultima istanza la maestà compete infatti esclusivamente a Dio ed
essa si manifesta sulla terra solo nella misura in cui questi comunica agli uomini un raggio della sua potenza,
così che i principi possiedono maestà soltanto in virtù del fatto che essi sono rappresentazioni o simulacri di
Dio e partecipano, seppur entro i limiti dettati dall’umana imperfezione, degli attributi divini. La seconda
linea interpretativa della maiestas, che trascura l’aspetto personale e mette in evidenza il valore giuridico di
questa nozione, è strettamente legata alla ricezione tedesca delle dottrine di Jean Bodin. Essa distingue
accuratamente la summa potestas dal summus honor, concependo la prima come causa e il secondo come
effetto. L’essenza della maestà consiste allora nella facoltà, sancita dalle leggi o dalla consuetudine, di
ingiungere comandi ai sudditi, alla quale la fama segue come una conseguenza. Una limitazione della
sovranità ancor più decisa proviene da una teoria sviluppata dalla disciplina politica tedesca durante la
ricezione di Bodin, secondo la quale la maestà di una repubblica si dividerebbe in maiestas realis e personalis.
La prima, che costituisce il fundamentum della società civile, è coeva alla repubblica, dura per tutto il tempo
che quest’ultima sussiste e si esprime attraverso le leggi fondamentali. La maiestas personalis è invece
propria del reggente, nasce e si estingue con lui e intrattiene con la maestà reale un rapporto di
subordinazione, come quello che interviene tra fondato e fondante. Compito del principe, che in ogni caso si
presenta come sommo e assoluto, non è quello di riunire la moltitudine dei sudditi, ma quello di guidare una
società politica già costituita.

La sovranità non nasce dalla mancanza di ordine giuridico, ma è inquadrata in un ordinamento superiore e
obbedisce ad esso. Entrambi gli orientamenti teorici, quello della maestà e quello della somma potenza,
convengono sul fatto che le leggi del diritto naturale, le prescrizioni della ragione e i comandi di Dio
rappresentano gli elementi fondamentali di quest’ordine, che il principe non può in alcun modo violare. Se
nel diritto naturale di Thomas Hobbes quello di tirannide è un concetto impossibile, da espungere dal lessico
politico perché la legge vale solo nella misura in cui proviene dal sovrano e non esiste alcun criterio
indipendente per misurare la sua giustizia, tutti gli scrittori politici del primo Seicento, anche i più radicali
sostenitori di Bodin, ammettono che la tirannide, in quanto degenerazione della giustizia politica e
universale, è una possibilità concreta e sempre incombente. L’esercizio della virtù è l’unica qualità che
distingue un re da un tiranno, così che un re non può essere tale se non è buono. È dunque sempre possibile
distinguere il principe virtuoso dal tiranno vizioso, poiché l’uno afferma mentre l’altro nega l’ordine della

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giustizia. La maestà è infatti superiore alle leggi positive, ma rimane sempre sottoposta alle leggi della natura,
della ragione e di Dio, che sono presenti nell’animo dell’uomo, stabiliscono ciò che è buono ed equo e sono
immutabili. Nulla è infatti superiore alla maestà tanto che essa non può essere giudicata, punita o richiamata
all’ordine da nessun uomo e solo Dio può ergersi a suo giudice. Se non è possibile contestare la sovranità
quando compie questa o quella scelta, essa deve invece venire combattuta quando mette in discussione
l’esistenza stessa dell’ordine. In questo caso il sovrano si atteggia a tiranno e i sudditi hanno il diritto di
resistergli con la forza. Bisogna dunque distinguere il cattivo re dal tiranno, e il criterio da usare è quello della
conservazione dell’ordine, perché il tiranno non governa la repubblica in vista del bene comune e della vita
virtuosa, ma per il proprio interesse personale, e così facendo capovolge l’ordine naturale e distrugge la
stessa società politica, che della sovranità è la ragion d’essere. Che nel cosmo viga l’ordine della giustizia
universale, che la sovranità sia il grado più alto della gerarchia terrena, che la maestà non sia costruita, ma
venga data all’uomo, che essa non nasca dal fare uguali gli uomini e non sopprima la pluralità delle autorità,
ne conservi ognuna di esse e ne sia il momento sommo, che la sovranità sia il governo del buono sui buoni in
vista della vita virtuosa, che l’ambito politico non sia secolarizzato, ma comunichi costantemente con il piano
dell’eterno e che, infine, l’ordine, nonostante tutte le restrizioni, resti visibile e accessibile agli uomini, sono
tutti elementi che sanciscono una distanza incolmabile con la sovranità del giusnaturalismo moderno.

Sebbene la dottrina politica tedesca del primo Seicento rimanesse nel suo complesso all’interno dei confini
tracciati dalla tradizione aristotelica, nell’apparente continuità avvenne una sensibile evoluzione
nell’immaginazione della sovranità e vennero anticipati elementi propri del diritto naturale moderno. Il limite
estremo in direzione delle teorie politiche moderne venne raggiunto negli anni attorno al 1640 da un autore,
Hermann Conring, che si riproponeva di purificare la dottrina di Aristotele e di riportarla, anche
filologicamente, alla sua forma originaria. In primo luogo, non può esistere di conseguenza nessuna istanza
capace di obbligare il sovrano a obbedire ai comandi del diritto naturale e delle genti, di cui è tutore. In
secondo luogo, la sovranità viene liberata anche dalle prescrizioni della morale perché il suo fine non è
identificabile a priore nella sufficienza dei beni civile o nel vivere bene, ma varia secondo le diverse forme di
costituzione e può essere il bene comune oppure il bene dei governanti. Di conseguenza anche le tirannidi
sono caratterizzate dalla presenza della maestà, la quale è legittima fino a quando e nella misura in cui svolge
coerentemente la propria funzione, quella di conservare il dominio tirannico. L’analisi di Hermann Conring
venne ulteriormente sviluppata dal suo allievo Daniel Clasen, che estese le conclusioni del maestro anche
alla distinzione tra maestà reale e personale mostrandone la contraddizione perché non può essere
veramente assoluto e sommo ciò che è sottomesso al volere altrui. L’essenza della maestà risiede nel potere,
cui tiene dietro l’onore come una conseguenza. Il vero fondamento del vivere politico è dunque il sommo
potere, quel potere che sarà al centro della riflessione politica moderna.

La politica era all’inizio del secolo il discorso sulla virtù e sulla vita buona associata ed era difficilmente
distinguibile dall’etica in generale. Si compì in tal modo la trasformazione della politica da dottrina dell’agire
civile a prudenza degli affari di stato e nei sistemi delle scienze dello stato. In questa evoluzione mutò anche
la struttura dell’azione perché il comportamento politico, ed etico in generale, poté essere distinto su due
livelli: quella della teoria, che fornisce principi universali ed è dotato dei caratteri della scienza esatta, e quello
della pratica, che non rappresenta un ambito di conoscenza e di azione caratterizzato in senso stretto, ma è
soltanto il campo nel quale le regole generali vengono applicate ai casi specifici. Alla ristrutturazione del
sapere politico si accompagnò la trasformazione del concetto di potere, che assunse un ruolo centrale nella
costituzione dello stato. Lo stato configurato dal diritto naturale moderno rovescia i termini di questa
relazione e il potere diviene la condizione per il realizzarsi sia della socialità sia del diritto.

Il capovolgimento operato dal giusnaturalismo moderno si delinea chiaramente nell’opera di Samuel


Pufendorf, dove la rifondazione disciplinare si intreccia con la ridefinizione del concetto di potere in due
momenti fondamentali della deduzione giusnaturalistica: nella definizione della socialità e nella fondazione
del diritto. Al pari di Aristotele anche Pufendorf definisce esplicitamente l’uomo come un essere per natura
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indigente e quindi destinato per questa sua determinazione essenziale a dover affidarsi agli altri. Va tuttavia
osservato che l’insufficienza postulata da Pufendorf è puramente materiale e che il fine da essa prefigurato
è la conservazione del singolo individuo. Gli individui dello stato di natura sono originariamente non relati ad
altro e centrati sulla singolarità: se essi entrano in una qualche forma di società, ciò non è dovuto a un impulso
naturale irresistibile né alla ricerca della virtù, ma a un calcolo che mira all’utilità individuale. Nella misura in
cui è finalizzata alla conservazione di sé, la socialità dell’uomo è, paradossalmente, profondamente egoistica.
L’indigenza originaria dell’uomo va allora interpretata come quell’elemento che gli impedisce di realizzarsi
come individuo e di obbedire alla sua determinazione. Pufendorf accorda alla socialità dell’uomo una
funzione centrale facendone il contenuto della prima legge di natura. L’assunzione del principio della socialità
ha infatti un valore esclusivamente epistemologico: è il fondamento logico che permette la deduzione del
complesso giusnaturalistico. L’assunto della socialità, che funge da concetto iniziale, possiede quindi
un’esistenza puramente mentale perché, per dare validità all’insieme del diritto, è sufficiente che su di esso
vi sia un accordo generale. Si viene così a chiarire un tratto paradossale nella dottrina di Pufendorf: che la
società umana non nasca dalla socialità naturale dell’uomo, ma venga fondata ricorrendo a un secondo
principio, l’imbecillitas, cioè l’insicurezza del diritto e, in ultima istanza, l’interesse individuale. Per tale motivo
gli uomini che vivono nello stato di natura non solo non si aiutano vicendevolmente, ma sono facilmente
preda del desiderio di nuocersi. Pufendorf distribuisce la costituzione dello stato su tre diversi momenti: un
patto di unione con il quale tutti i futuri membri della comunità si impegnano a formare una medesima
comunità e a diventare concittadini, un decreto con il quale la moltitudine decide la forma dello stato e un
patto di soggezione con il quale viene garantita obbedienza al sovrano. Nonostante la moltiplicazione dei
passaggi il nucleo fondamentale della dottrina di Hobbes viene tuttavia conservato perché decisivo per la
fondazione dello stato è soltanto il secondo patto, attraverso il quale la moltitudine viene unificata in un
corpo politico che agisce come fosse una sola persona. Il potere politico non è dunque un dato originario
della società, non è una relazione naturale, riferita all’essenza umana e sorretta dalla ragione, ma è un
elemento artificiale ed estraneo alle determinazioni originarie della natura umana. Nel diritto naturale di
Pufendorf lo stato e il potere sono infatti il risultato del desiderio di autoconservazione ovvero dalla paura,
la quale deve figurare come un principio comprimario accanto alla socialità.

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PARTE SECONDA: DAL POTERE NATURALE AL POTERE CIVILE: L’EPOCA DEL CONTRATTO SOCIALE

Alla metà del Seicento avviene un mutamento radicale del modo di pensare la società: la vita in comune degli
uomini appare priva di ordine e dominata dal caos e dal conflitto. Anche la filosofia, nella sua dimensione
etico-politica, non appare più in grado di costituire una guida sufficiente, basata come era sui cardini
dell’esperienza da una parta e della virtù, in special modo della prudenza, dall’altra. Con Hobbes si inaugura
una nuova scienza, che pone al suo centro il compito della deduzione di una forma politica che garantisca la
pace e l’ordine nella vita sociale. È questa la stagione del giusnaturalismo moderno, che dalla metà del
Seicento giunge fino al periodo della Rivoluzione francese. In questo contesto nasce la politica nel senso
specifico moderno di teoria del potere, e si formano i principali concetti politici che giungono fino alla nostra
contemporaneità. Il primo elemento del nuovo modo di pensare è costituito dalla nozione, che diventerà
riferimento comune, dello stato di natura. Essa infatti indica quella che sarebbe la condizione dell’uomo al di
fuori della società civile, condizione che è considerata in modo più o meno pessimistico, ma sempre in
maniera tale da obbligare la ragione ad uscire dallo stato di natura dando luogo alla società. Lo stato di natura
è caratterizzato dall’individualismo. Ciò che si presenta è allora un mondo di individui dotati di ugual diritti:
l’individuo viene a svolgere, per la prima volta, un ruolo determinante, fondante per il concetto di società.
Ciò che diventa fondante per la costituzione del corpo politico è la volontà dei singoli. Lo scenario di questa
costruzione è quella del contratto sociale, in cui gli individui esprimono la loro razionale volontà di accordo
per dar luogo ad una forma della società che eviti il conflitto. Il contratto sociale viene in tal modo a costituire
qualcosa di radicalmente nuovo. Qui non si assiste al trasferimento di un potere che già esiste, che è nelle
cose, ma alla creazione del potere civile. D’ora in poi il popolo non coinciderà più con una realtà costituita di
parti e di forme associative, ma indicherà la totalità degli individui uguali: il problema fondamentale non sarà
più costituito dalle forme di governo, ma piuttosto dal potere del popolo, dalla sua sovranità, dall’espressione
della sua volontà. Il potere che si costituisce con il contratto non coincide con il governo di qualcuno, ma è
potere di tutto il corpo politico, che ha l’uguaglianza come fondamento e come fine. Il potere, che si è
costituito con il contratto, rende possibile la vita ordinata e pacifica della società proprio perché si colloca su
un piano superiore e diverso da quello naturale. Tendenzialmente dunque questo potere è, per propria
essenza, irresistibile. Il motivo della irresistibilità del potere è espresso con chiarezza da Rousseau, che
afferma la necessità della sottomissione al corpo collettivo, perché altrimenti, se qualcuno non si alienasse
totalmente, potrebbe mantenere forze e diritti per sottomettere gli altri, contro i principi di uguaglianza e
libertà. L’aspetto della legittimazione caratterizza la nuova scienza del diritto naturale, che è scienza della
genesi e della razionalità della forma politica. Il primo versante della legittimazione consiste nell’identificare
alla base del potere la volontà di tutti gli individui. Il secondo versante dovrà riguardare l’esercizio del potere,
e tale versante si presenta già con Hobbes, mediante il nuovo concetto di rappresentanza politica. La
soluzione hobbesiana, che condizionerà lo svolgimento del pensiero politico moderno più di quanto si sia
soliti pensare, consiste nel fatto che l’unico modo di esprimere la volontà del corpo comune è quella
rappresentativa; cioè di uno o di alcuni che, in quanto persone realmente esistenti, esprimano per tutti – e
dunque non a causa della loro persona naturale, ma appunto rappresentativamente, dando corpo alla
persona pubblica – la volontà del soggetto collettivo. La dialettica della rappresentanza indicata da Hobbes
è quella del processo di autorizzazione, del processo cioè di costituzione dell’autorità, consistente nel fatto
che tutti si dichiarano autori di quello che la persona designata farà. Nel nuovo modo di intendere il patto
sociale la sottomissione, anche nel caso di Hobbes, si determina nei confronti di colui che rappresenta il corpo
politico che tutti hanno voluto: dunque in fondo è sottomissione alla propria volontà. È proprio questo il
motivo dell’assolutezza della moderna sovranità: la sua legittimazione risiede nella volontà di tutti.

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Capitolo VI: Potere comune e rappresentanza in Thomas Hobbes

La nozione di corpo è l’asse centrale. “Corpo non è per Hobbes il termine di un’opposizione, come è natura
in opposizione a società, ma il primo termine di una sequenza che attraverso l’uomo porta alla società o allo
stato”. Il corpo politico va ricondotto in quest’ordine. Né uomo né macchina, è come un uomo, perché a
quelle del corpo umano corrispondono le sue parti, ma è anche come una macchina, perché è un meccanismo
creato dall’arte dell’uomo.

Nella sua accezione più ampia per Hobbes l’espressione “stato di natura” indica prima di tutto la condizione
delineata dall’assenza di obbligazione e di un potere capace di sanzionarle irresistibilmente. Esso è la
condizione degli uomini prima del loro volontario assoggettamento a un sovrano e quindi nel loro essere
egualmente liberi. In tale situazione gli uomini, le cui azioni e parole non sono state ancora disciplinate, si
mostrano secondo i movimenti che vengono loro impressi dalla spinta alla conservazione, dalle passioni che
derivano dalla loro immaginazione e dai dettami della loro ragione. Il presupposto e allo stesso tempo il
problema da cui muove la considerazione hobbesiana dello stato di natura è dunque l’eguaglianza. Gli uomini
sono spinti dalla propria natura verso gli altri uomini: non solo i loro bisogni, ma le loro passioni, i desideri
che di queste sono gli accidenti, la speranza di soddisfarli impediscono strutturalmente agli uomini
un’autosufficiente solitudine. Ma queste stesse passioni che incessantemente conducono gli uomini a
incontrarsi, sono le stesse che li spingono gli uni contro gli altri, trasformando l’incontro in concorrenza, in
diffidenza, in tentativo di sopraffazione che dalle parole passano alle azioni. La natura non fa gli uomini isolati,
li dissocia. L’uomo di Hobbes non è il solitario di Rousseau, come non è lo zoon politikon di Aristotele e delle
tradizioni aristoteliche: non gli è propria né una vita isolata né una naturale vita comune. Servo e padrone,
dice Hobbes, lo si è solo per consenso degli uomini, mai per natura. Nemmeno la rivendicazione di una
maggiore saggezza può fornire supporto a tale pretesa.

Lo stato di natura è dunque lo scenario dell’eguaglianza e della libertà, la libertà che ogni uomo può usare
come vuole al fine di preservare la propria natura. Tale libertà è un diritto naturale. Il diritto di natura a tutti
e tutto non può che rovesciarsi nel suo opposto, in una situazione cioè che non è migliore “di quello che si
avrebbe se nessun uomo avesse diritto ad alcuna cosa”. Il diritto naturale è così solidale come una vita
“solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve”, dove continui sono il timore e il pericolo di una morte
violenta. Lo stato di guerra è così l’identità ultima dello stato di natura. Le leggi di natura sono così i precetti
razionali che l’esperienza drammatica dello stato di natura prescrive agli uomini. Esse configurano una
strategia orientata alla pace, per quanto è possibile sperare di ottenerla, o all’alleanza, qualora la prima non
sia ottenibile, basata su una reciproca rinuncia al diritto a ogni cosa e una reciproca delimitazione della libertà
naturale, attraverso regole di cooperazione accettate su base volontaria al cui mantenimento si impegna
chiunque le abbia sottoscritte. Queste consistono appunto in un trasferimento di diritti, cioè in una
limitazione del proprio diritto naturale a favore di altri che a loro volta fanno altrettanto: esse sono quindi le
regole in base alle quali si stringono i contratti o i patti, a cui Hobbes affianca in successione altre regole a
quelle che riguardano l’imparzialità dei giudici e la necessità del ricorso a testimoni. Esse tuttavia non possono
costituire le fondamenta di un ordine civile e quindi non possono stare alla base di ciò che Hobbes considera
un’autentica filosofia politica. Orientate alla preminenza dei beni futuri sui beni presenti, esse prefigurano
l’assetto normativo che regola la razionalità delle condotte dei singoli in una situazione di sicurezza, ma
lasciano irrisolta la questione decisiva di quest’ultima. Quella delle leggi naturali è una morale per tempi di
pace. Così è la paura a costituire l’elemento che transita gli uomini dallo stato di natura alla condizione civile.

Il patto che instaura il corpo politico è un patto tra individui che si obbligano reciprocamente nei confronti di
un terzo, attribuendo a quest’ultimo tutto il loro diritto naturale, ad eccezione di quanto concerne “la
sicurezza personale di un uomo nella sua vita e nei mezzi per preservare la sua vita, in modo tale che essa
non gli sia di peso”. Il patto hobbesiano va ben oltre la generalizzazione del patto signorile costruito sulla
relazione protezione/obbedienza. Una prima accezione di potere comune lo determina come potere su tutti,

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in un movimento che enfatizza la deterrenza nei confronti dei sudditi e l’esclusività che contraddistingue la
disponibilità sovrana della forza. Il potere comune deve essere inteso quindi in seconda accezione come il
potere dei tutti che costituiscono il corpo politico. Uno degli elementi che strutturano la narrazione
hobbesiana del corpo politico è il tema del trasferimento dei diritti e delle forze. Se il trasferire i propri diritti
non può che voler dire spogliarsene o ridurli, il trasferimento delle forze non può significare altro che la
rinuncia al proprio potere di resistenza. Hobbes è molto preciso nel definire il carattere privativo in cui la
sovranità si costituisce: la sottomissione è l’unico possibile “trasferimento” da parte di ciascuno della propria
forza.

Nel Leviatano il lessico della rappresentazione irrompe nel capitolo XVI, esattamente alla fine della prima
parte dedicata all’uomo, in una collocazione architettonica decisamente innovativa. Dunque, il termine
chiave con cui Hobbes definisce il sovrano per istituzione è il rappresentante. Punto di partenza è la
definizione di persona, intesa come colui cui riferiamo determinate parole e azioni. Chi agisce a proprio titolo
viene infatti definito persona naturale, mentre persona finta o artificiale è chi le cui parole e azioni sono
considerate rappresentare le parole e le azioni di un altro. Parole e azioni del rappresentante dunque sono
di chi è rappresentato, anche se il rappresentante, parlando e agendo, vincola il rappresentato, nei limiti
dell’autorizzazione che questi ha ricevuto. Hobbes insiste sull’irriducibilità di quanto si produce nel patto
reciproco nel designare un uomo o un’assemblea come proprio rappresentante. Chi viene autorizzato qui
non è in alcun modo il contraente di un contratto e quindi di un’obbligazione; ci troviamo infatti di fronte a
un patto di tutti con tutti, come se ciascuno dichiarasse a ogni altro di autorizzare in tutte le sue azioni – con
la sola clausola limitativa della salvaguardia della vita – un uomo o un’assemblea a governarlo, cedendogliene
il diritto. Quest’uomo o assemblea è il sovrano. Il patto di unione si determina per questa via come patto di
rappresentanza. Non si rinuncia alle proprie forze, ma si decide di porle lungo un’unica traiettoria, agite da
una volontà una e comune. L’autorizzazione presenta un segno contrario rispetto alla dismissione.

Sarebbe tuttavia limitativo ritenere che la vicenda dell’authority hobbesiana sia così conclusa e che il
passaggio dallo schema della dismissione a quello dell’autorizzazione sia solo un diverso modo in cui Hobbes
perviene a definire la genesi della forma politica. Il potere del sovrano, le azioni da lui agite, i suoi comandi
non sono solo garantiti, ma anche posseduti, riconosciuti come propri dai sudditi e quindi l’importante non
è che una legge sia buona, ma che sia una legge in senso proprio e necessaria al bene del popolo e perspicua.
I sudditi restano dunque sempre authors, la loro authority è quella del sovrano e quella del sovrano è la loro
authority. Due ulteriori elementi vengono qui in evidenza. Il primo è che il grande Leviatano di Hobbes è un
gigantesco dispositivo di disciplinamento che si attua per via rappresentativa e la sua vita è un sistema di
parole e di azioni normate dalla mediazione del sovrano. Il corpo politico non è semplicemente un corpo
disciplinato, è un corpo disciplinante. Il secondo elemento è strettamente connesso al disciplinamento e
riguarda il tema dell’opinione. Se le opinioni dei sudditi e quella del sovrano divergono, si introduce qualcosa
di estraneo che alla fine metterà in crisi il riconoscimento da parte dei sudditi della volontà del
rappresentante come propria. Esse devono dunque “coincidere” con quelle del sovrano. È ancora una volta
qualcosa di nuovo di cui in Hobbes si gettano le basi: è l’idea di opinione pubblica come spazio che nella
condizione civile disciplini le opinioni dei singoli e fornisca loro una misura che nella loro diversità le renda
compatibili, iscrivendole al proprio interno, con il riconoscimento fondamentale che sono loro stessi, tutti e
ciascuno, la fonte dell’autorità del rappresentante.

La morte di uno stato è legata al linguaggio che esprime uno stato di malattia del corpo e dell’anima. Le cause,
le malattie possono essere sia esterne, che interne. Le cause possono essere: 1) costituzione imperfetta, con
errori di costruzione, a causa della quale il potere non è perfettamente unito o assoluto 2) La convinzione
che ciascuno sia giudice di ciò che è bene e ciò che è male 3) Quando anche il sovrano è soggetto alle leggi
(perché è lui che fa le leggi ed è al di sopra di esse) 4) Ogni privato ha la proprietà assoluta dei suoi beni tale
da escludere il sovrano 5) I testi greci antichi che promuovevano la lotta per la repubblica contro la monarchia
6) La distinzione tra potere temporale e spirituale 7) Grandezza eccessiva della città e delle corporazioni.
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Capitolo VII: Potenza e potere in Spinoza

L’opera politica di Hobbes nell’Olanda della seconda metà del XVII secolo è al centro di un acceso dibattito.
Anche Spinoza riconosce la novità del naturalismo antropologico hobbesiano, ma allo stesso tempo rileva
uno scarto inaccettabile nel passaggio dallo stato di natura alla società civile, cui contrappone
l’intrascendibilità della connessione tra jus e potestas naturale, in base alla quale la relazione tra governante
e suddito, benché espressa giuridicamente dalla legge, è concretamente prodotta dai rapporti
interindividuali esistenti allo stato di natura.

Spinoza insiste sul carattere necessario della causalità divina, che implica l’assoluta univocità della sostanza,
in base alla quale Dio è causa delle cose nel medesimo senso in cui è causa di sé stesso. La libera necessitas,
lungi dall’introdurre un tratto deterministico, è segno della potenza divina che si manifesta attraverso infinite
modificazioni. Anche l’uomo, modo determinato della sostanza secondo gli attributi del pensiero e
dell’estensione, è inserito in quella catena causale in cui si dispiega l’infinita potenza di Dio, e di conseguenza
è ad un tempo causa ed effetto. La sua essenza, come quella di ogni altro ente finito, si esprime attraverso
una potenza determinata, che tende a farlo perseverare nell’esistenza per mezzo del continuo
rimodellamento dei suoi rapporti con il mondo che lo circonda. Nell’essere umano il conatus si specifica come
“desiderio”, che è la “stessa essenza dell’uomo, in quanto si concepisce determinata da una certa data sua
affezione a fare qualcosa”. Emerge inoltre a questa altezza il ruolo fondamentale della facoltà immaginativa.
Ed è proprio nello spazio disegnato dall’immaginazione che la potenza desiderante si traduce nell’esercizio
del potere.

Dio non esercita alcun potere sul mondo, poiché non si dà la condizione necessaria al costituirsi di tale
relazione, ossia la piena esternalizzazione dei modi rispetto alla sostanza. Il potere è percepibile solamente
se si acquisisce il punto di vista dell’universo creaturale. Per quanto riguarda gli esseri umani, la potestas
esprime un tratto peculiare della loro essenza, che Spinoza esplicita affrontando il tema del diritto naturale.
La trattazione dello jus naturale uniuscuiusque (=diritto naturale di ciascuno) costituisce il fondamento della
teoria politica. Tale diritto è definito come l’insieme delle regole attraverso le quali ciascun individuo è
determinato ad agire o a “patire”, cioè a venire affetto dal mondo esterno, esprimendo sul piano esistenziale
il carattere determinato della potenza umana. Il diritto naturale non preesiste all’agire dell’individuo come
se ne costituisse un codice originario, né distingue tra azioni “giuste” ed azioni “ingiuste”, ma piuttosto indica
la presenza di alcune regolarità nel comportamento degli uomini, determinate dalla combinazione e dallo
sviluppo dei principali affetti. La definizione spinoziana del diritto naturale evidenzia il suo radicamento
nell’ontologia. La contrapposizione tra i diversi diritti individuali contribuisce a produrre una situazione
generalizzata di instabilità e di rischio, che si concretizza nel pericolo comune di cadere sotto il diritto altrui.
Il potere si manifesta come esito possibile dell’interazione tra le potenze finite degli uomini. Nella maggior
parte dei casi il risultato è una situazione di conflittualità tanto interna quanto esterna, e quindi di relazioni
interindividuali dominate dalla paura e dall’odio.

Nonostante l’instabilità interiore e la conflittualità esterna, tutti gli uomini sono però in grado di riconoscere,
seppure confusamente, che “la società è di grande utilità, anzi assolutamente necessaria, non soltanto per
quanto concerne la difesa dai nemici, ma anche per l’unione che in essa si istituisce di molteplici attività”.
Spinoza afferma così l’inseparabile connessione di diritti individuali e di diritti comuni, tale per cui i primi
assumono forma concreta e non meramente immaginaria soltanto laddove coesistono con i secondi, ovvero
dove è presente un legame sociale spontaneo che costituisce la condizione di possibilità dell’esistenza dei
singoli. “Poiché gli uomini sono guidati più dalla passione che dalla ragione, si deve conchiudere che una
massa di gente tende naturalmente ad associarsi, non per suggerimento della ragione, ma per una sorta di
affezione comune”. Ad ogni modo, la trasformazione della “società naturale” in “società politica” non
introduce alcuna modificazione strutturale nel diritto di natura. Anche il TTP, che pure utilizza un lessico
fortemente segnato dalla terminologia contrattualistica presenta il passaggio dallo stato di natura a quello

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civile senza un’effettiva soluzione di continuità. La cessione del proprio jus sive potentia da parte di ognuno
all’intera società, in modo da istituire quel diritto che Spinoza chiama “democrazia”, cioè “unione di tutti gli
uomini che ha collegialmente pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere”, è un prodotto della dimensione
immaginativa, e quindi della costituzione affettiva dell’uomo. Il patto sociale nasce quindi dall’evoluzione
degli aspetti non razionali della natura umana, attraverso un processo storico graduale che incorpora in sé
elementi della religiosità di un popolo, dei suoi costumi, della sua etica; in tal senso l’assunzione dell’orizzonte
contrattualistico non blocca il movimento dell’ontologia politica spinoziana, ma anzi gli conferisce la
concretezza della piena assunzione del reale. L’esercizio di un potere avviene attraverso una relazione
biunivoca, all’interno della quale anche chi soggiace alla potestas altrui ne determina, almeno parzialmente
l’indirizzo. Questo significa che nessun potere assoluto è possibile; e, inoltre, che ogni atto da parte
dell’autorità politica che voglia ottenere obbedienza non può non tenere in considerazione l’aptitudo dei
propri sudditi, ovvero la loro disponibilità ad accettare o meno determinati comandi.

L’organizzazione politica di una collettività si struttura come somma algebrica delle potenze di tutti gli
individui che la compongono, incorporandone quindi sia i tratti collaborativi, sia la passività prodotta dalle
tensioni sociali e dalle lotte per il dominio. Per questo nessun cittadino è mai totalmente escluso dai processi
di produzione della decisione politica, nemmeno nei regimi monarchici o aristocratici. Non la potestas, il
potere che mantiene gli individui nella separatezza e nell’ostilità, ma solo l’imperium, che affonda le sue radici
nella comune potenza degli affetti e della ragione, può essere assoluto. E del tutto assoluto è l’imperium
democraticum, in cui i cittadini partecipano alla gestione della cosa pubblica senza mai trasferire il loro diritto
naturale in modo definitivo. In una democrazia le leggi allargano lo spazio di comunicazione tra uomini
permettendo di realizzare l’uguaglianza e la libertà.

Capitolo VIII: Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke

Il punto di partenza di Locke è la comunità naturale, cioè un insieme di “uomini che vivono assieme secondo
ragione, senza un comune superiore sulla terra, dotato di autorità di giudicare tra loro”. Questo stato di
natura ritaglia un’area antropologica “barrata” dalla proprietà. L’appropriazione si fonda infatti sulla
proprietà del corpo e della persona, sul diritto naturale di ognuno all’autoconservazione mediante i prodotti
del proprio lavoro. Tuttavia, l’inserimento della proprietà nei diritti naturali obbedisce in Locke a un ordine
discorsivo che non è più centrato in misura decisiva su criteri di giustizia distributiva, bensì sulla libera
espansione della proprietà e sull’accumulo di ricchezza. Da questo momento in avanti, la proprietà è
scambiata con denaro e vengono così superati i limiti che la legge naturale poneva all’appropriazione privata.
La nuova condizione determinata dall’introduzione della moneta appare oscillante. Locke è del tutto
consapevole che la moneta universalizza il desiderio acquisitivo e separa il possesso dal suo oggetto,
rendendolo intercambiabile e indifferente. Non è certo casuale allora che la necessità di un arbitro riguardi
sia la conservazione della proprietà sia la certezza del titolo. L’ineguaglianza dei possessi rende necessario un
potere politico con il diritto di fare leggi per regolare e limitare la proprietà, stabilendo modi regolari di
trasferimento di questa in sostituzione di quelli irregolari nello stato di natura. Quando, lungo le linee di una
“storia congetturale” del potere, Locke prende in esame la società formata da padrone e servo, la relazione
contrattuale appare tutt’altro che fondata su un’ineguaglianza politica o naturale. Agli antichi vincoli della
subordinazione personale si sostituisce un rapporto di dipendenza che comunque non contraddice alla figura
del libero. Il potere che ognuno possiede per natura di conservare la property (vita, libertà e fortuna) contro
gli attacchi degli altri, nonché di giudicare e punire “anche con la morte” le altrui infrazioni è certamente
massima espressione di quella perfetta libertà naturale di godere di tutti i diritti e i privilegi della legge di
natura. Nello stato di natura la volontà è individuale e discreta, e tuttavia diretta al bene generale, la pace e
la conservazione dell’umanità. L’unione in un solo corpo, con una legge comune stabilita e una magistratura
cui appellarsi sono i tratti distintivi della società politica, la quale soltanto ha in sé il potere di conservare la
proprietà. L’assenza di un giudice (causa per cui scoppia la guerra) comune non è tuttavia propria solo dello
stato natura ma anche della monarchia assoluta, costituita da sudditi non capaci di proprietà rispetto ai quali
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il monarca è in uno stato di natura illimitato e per di più corrotto dall’adulazione e armato di potere, e ciò
rende sempre possibile la violazione della proprietà anche in presenza di una legge comune cui appellarsi,
per ordine e volere del suo monarca. Va dunque rifiutata la logica hobbesiana che vorrebbe la sottomissione
alla legge di tutti tranne uno che conserva la libertà dello stato di natura, accresciuta per di più del potere e
resa arbitraria dalla certezza dell’impunità. Il problema centrale, sostiene Locke, è quello della collocazione
del potere supremo.

Alla volontà discreta dello stato di natura si sostituisce l’unica volontà politica, il cui esercizio è finalmente
adeguato al proprio oggetto. Essa è risultato del patto originario per cui ognuno si incorpora con altri in una
società nel mentre abbandona la propria volontà individuale, cioè il potere esecutivo della legge naturale, e
lo consegna nelle mani della comunità. Il patto è dunque l’atto con il quale si esce dalla confusione e disordine
dello stato di natura e si dà luogo alla società. Il patto di incorporazione di un gruppo di uomini, costitutivo
di un unico corpo politico, prevede l’accettazione tacita del principio di maggioranza (limitato dalla sola legge
naturale) per il quale questa ha il diritto di agire e di obbligare gli altri. La comunità politica ha il potere di
agire come un unico corpo e con il proprio moto è necessario che il corpo si muova là dove la forza maggiore
lo porta, che è il consenso della maggioranza. La “sovranità” del corpo politico, la sua forza coesiva, non è più
quella hobbesiana della trascendenza del capo rispetto al corpo. Nel mentre conferisce carattere
temporalmente illimitato all’obbligo di obbedienza alle deliberazioni della maggioranza, Locke parla di un
consenso della maggioranza dato o direttamente dai membri della società o dai loro rappresentanti da essi
eletti, intendendo come equivalenti consenso diretto e consenso per rappresentanza. Il principio di
maggioranza fonda la rappresentanza, il diritto a una rappresentanza distinta di carattere elettivo per tutto
ciò che dipende di fatto dalla proprietà. Nel patto si esprime un’unica volontà coincidente con l’istituzione
del legislativo. È questo il primo e fondamentale atto della società. Poiché l’essenza e l’unione della società
consiste nell’avere una sola volontà, il legislativo è costituito dalla maggioranza come l’interprete e quasi il
custode di quella volontà. La società si identifica con il legislativo, poiché è in esso che i membri di una società
politica sono uniti e congiunti insieme in un solo armonico corpo vivente. Questa è l’anima che dà forma, vita
e unità alla società politica, di qui i vari membri derivano la loro reciproca influenza, simpatia e connessione.

L’istituzione del legislativo è il momento centrale del patto originario; esso prevede l’obbligo di obbedire ai
decreti della società, ovvero di rimettere tutto il potere alla maggioranza, la quale sceglie in quali mani
collocare il potere legislativo, dunque chi debba ricevere la sua fiducia. Entra qui in gioco una figura chiave
della costruzione lockiana: il trust, che è l’elemento che attua la connessione tra dinamica del compact e
asimmetria della relazione di governo e compone lo scarto tra patto originario e tempo storico della dinamica
dell’affidamento. Le forme possibili di governo decise dalla maggioranza includono certe forme di monarchia
ma escludono dunque già a livello del patto la monarchia assoluta. Si dà infatti compiuta forma di governo
solo quando la maggioranza affida tutto il “potere necessario”, legislativo ed esecutivo, ad un o più persone,
cioè a un trustee, con la fiducia di essere governata da leggi dichiarate. Infatti, la libertà e l’autoconservazione
sono a tal punto congiunte, che l’individuo non può autorizzare altri a impiegare la sua property senza il suo
consenso, ovvero non è in potere di un uomo trasferire a un altro un potere maggiore di quello che ha in sé,
né sottometterglisi o dargli la libertà di distruggerlo. Il carattere fiduciario (trusteeship) del potere rimesso al
legislativo è fondato sulla convinzione che la comunità conserva in perpetuo un supremo potere di rimuovere
o alterare il legislativo, quando quest’ultimo delibera contro la fiducia in esso riposta. Oppure la violazione
della fiducia può avvenire da parte del legislativo stesso, e allora ha luogo la tirannia. In misura significativa,
la tirannia appare a Locke possibile per qualsiasi forma di governo, e non limitata alla degenerazione della
monarchia.

Se il legislatore viene meno ai suoi obblighi (ridurre il popolo a schiavitù o di toglierli la sua proprietà), gli
uomini tornano in possesso dei loro diritti naturali quindi anche il potere di punire i capi di governo. Il vero
arbitro è il popolo, ma se il sovrano rifiuta questo modo di risolvere le cose, allora il solo giudice è il cielo. Il
pericolo di privazione di proprietà c’è quando il potere legislativo è costituito da una sola assemblea sempre
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in funzione (senza rotazione di cariche e figure) oppure da un solo uomo che, volendo accrescere la
loro/propria ricchezza, tentano di togliere al popolo le sue proprietà. Abbiamo due casi di dissoluzione del
governo: esterna, quando una conquista dissolve la società e il governo, oppure interna, quando il potere
esecutivo abbandona il proprio ufficio riportando tutto all’anarchia o quando il legislativo permanga ma che
agisca contro il trust.

Capitolo IX: Rousseau e la questione della sovranità

Il colpo di genio di Rousseau fu quello di appropriarsi degli attributi della sovranità dei monarchi assoluti per
attribuirli a un altro titolare, il popolo. Il popolo di Rousseau è causa ed effetto del patto sociale, cioè dell’atto
per cui ciascuno unendosi a tutti trova già di fronte a lui quel tutto ch’egli fa esistere come risultato
dell’associazione. Allo stesso tempo, in questa alienazione totale di ciascun associato a tutta la comunità,
ciascun individuo non obbedisce tuttavia che a sé stesso. Rousseau riprende a favore della sovranità del
popolo diversi tratti caratteristici dell’accezione monarchica. La sovranità popolare, potere immanente al
corpo dei governati, animata dalla volontà generale e donatrice dell’impersonalità della legge, procura il
potere legittimo; il regno della legge, che annulla il potere dell’uomo sull’uomo, è pensato, in Rousseau, come
l’esatta antitesi del regno dell’arbitrio.

Bossuet pensava che la monarchia sia la forma di governo più comune, più antica e anche più naturale.
Ispirandosi ampiamente a Hobbes affermava che “il principe, in quanto principe, non è considerato come un
uomo particolare: è un personaggio pubblico; tutto lo stato è in lui: la volontà di tutto il popolo è racchiusa
nella sua. Come in Dio sono riunite ogni perfezione e ogni virtù, così tutto il potere dei particolari è riunito
nella persona del principe. Quanta grandezza perché un solo uomo ne contenga tanto!”. Ma non è soltanto
il potere dei “particolari” che il principe racchiude in sé, è anche la facoltà (saggezza o competenza) di
sentenziare, entro il regno, sul bene di tutti e di ciascuno. “Quando il principe ha giudicato, scrive Bossuet,
non c’è più altro giudizio”. A differenza con Hobbes, il popolo, o piuttosto la moltitudine, non parla attraverso
il re. Pur seguendo la logica hobbesiana della incorporazione, Bossuet rifiuta le conseguenze della
rappresentazione. Jurieu riprese l’immagine organicistica del popolo e del re, ma per sostenere che il re non
era che il magistrato della sovranità del popolo. Il popolo poteva dunque riprendere la sovranità. A ciò, a
questa idea di un “soggetto primario” della sovranità che sarebbe il popolo stesso, Bossuet replica che prima
del monarca non c’è sovranità e che prima del monarca non c’è neppure il popolo e che, viceversa, è il
monarca che istituisce il popolo come tale. Anche se si volesse chiamare sovranità quello che è un puro stato
di “anarchia”, prosegue Bossuet, lo pseudo-popolo sovrano non avrebbe alcuno su cui esercitare la propria
sovranità; in altri termini, non si può essere sovrani su sé stessi. Il progetto rousseauiano per pensare la
politica consisterà nell’andare dal popolo al sovrano, e non l’inverso, perché l’inverso è sempre a vantaggio
della monarchia illegittima (fondata sull’arbitrio e generatrice di arbitrio). Di qui deriva la distinzione tra il
sovrano e il governante: Jean Bodin l’aveva già fatta, ma in tutt’altra prospettiva. Il popolo, dunque il sovrano,
e infine il governante, questo è l’ordine della genesi razionale, ma anche, si potrebbe dire, della genesi delle
norme, secondo Rousseau.

Ci sono diversi modi di osservare come il pensiero politico di Rousseau sia in contrapposizione con l’idea della
monarchia assoluta. Se, nella visione assolutistica, il popolo è governato perché c’è un sovrano, nella
concezione rousseauiana il popolo è governato perché esso stesso è il sovrano. In Rousseau, l’immanenza
della sovranità, la sua dimensione orizzontale (in questo senso) richiede una teoria del soggetto: bisogna, per
fondare la con-divisione dell’esercizio della sovranità, che colui che riceve gli ordini della legge si ritrovi in
essa. La legge deve rappresentare il soggetto a sé stesso. La sovranità non è né dominio da parte di altri, né
consenso alla legge di altri, né patto di sottomissione regolato dal calcolo di interesse, ma autoproduzione di
ciascuno come membro della volontà generale, e del tutto (il popolo) attraverso ciascuno. Fare il popolo
(nella sua unità costituita) o fare la legge è sì l’atto del sovrano, ma di un sovrano che non precede
quest’opera, perché esso stesso è la propria opera. Il vero carattere della sovranità è che vi sia sempre

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accordo di tempo, di luogo, di effetto, tra la direzione della volontà generale e l’impiego della forza pubblica,
accordo su cui non si può più contare non appena un’altra volontà, qualunque possa essere, disponga di
questa forza. Abbiamo potuto notare in precedenza che la condizione di uguaglianza era fondatrice per
conclusione del patto sociale: bisogna che l’alienazione di ciascuno verso tutti si compia senza restrizione
alcuna: “poiché ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e poiché la condizione è uguale
per tutti, nessuno ha interessa a renderla onerosa agli altri”. “Essendo i cittadini tutti uguali per il contratto
sociale, ciò che tutti devono fare, tutti possono prescriverlo, mentre nessuno ha diritto di esigere che un altro
faccia ciò che non fa egli stesso. Ora è proprio questo diritto che il sovrano dà al principe istituendo il
governo”. Prodigiosa (ma indispensabile) deroga del pensiero rousseauiano al suo principio più caro,
l’eguaglianza di tutti i membri del corpo sociale: ci sarà un uomo o un gruppo, il principe, che potrà ordinare
senza contropartita, come il monarca sovrano aveva il diritto di ordinare in modo unilaterale. In Rousseau il
principe non può ordinare che ciò che la legge ha prima prescritto. D’altronde il governo è il solo caso in cui
Rousseau accetta la nozione di rappresentazione: “Poiché la legge non è che la dichiarazione della volontà
generale, è chiaro che nel potere legislativo il popolo non può essere rappresentato; ma può e deve esserlo
nel potere esecutivo, che non è la forza applicata alla legge”.

Ogni governo, una volta istituito, diventa molto rapidamente una minaccia diretta verso quella garanzia della
libertà che comprende in sé la volontà generale – perché il governo, già costituito con privilegio di comando
unilaterale, tende, nella pratica, a rendersi permanente e a far prevalere i propri interessi rispetto a quelli
del popolo. Lo stesso accade nel caso della rappresentanza. Essa è radicalmente incompatibile con l’esercizio
della sovranità del popolo e l’espressione autentica della volontà generale: “La sovranità non può essere
rappresentata per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella
volontà generale, e la volontà non si rappresenta affatto: essa è la stessa o è un’altra; non c’è nessuna via di
mezzo. L’individuo libero non ha rappresentanti. La rappresentanza, che tuttavia nei grandi Stati è inevitabile,
è in pari tempo per Rousseau un’invenzione della feudalità e una scoperta delle società moderne che
scambiano i servizi personali in denaro.

Rousseau non pensa ad una alienazione della forza dei singoli come in Hobbes in cui la forza del sovrano
nasce dalla forza ceduta da ogni cittadino, infatti la forza non diviene esterna al soggetto ma permane in
esso. Il singolo è parte di un tutto organico che si esprime nella volontà generale. C’è una polemica nei
confronti della fondazione hobbesiana del potere politico che sembra essere antropologicamente povera:
l’uomo viene ridotto a mera forza meccanica.

Limitandoci ai due aspetti studiati, si tratta di due aporie capitali che gravano sul pensiero del Contratto
sociale: c’è necessariamente bisogno di un governo, ma esso costituisce per definizione il primo pericolo per
la sovranità del popolo; c’è necessariamente bisogno di scartare la rappresentanza, ma essa è, negli Stati
empiricamente esistenti, un’istituzione di cui non si può fare economia, di cui si può tutt’al più cercare di
attenuare la nocività.

“Il Contratto sociale” (1762):

(Libro I)

 Capitolo I: analizza la contraddizione tra la natura dell’uomo, ossia l’essere libero, e una condizione
di fatto, ossia l’essere in catene.
 Capitolo II: analizza le prime società. La famiglia è il primo modello di società ed è la sola di naturale.
Anche la famiglia si conserva per convenienza e che è quindi, anch’essa, un accordo tra esseri umani.
In questo capitolo vengono citati autori come Grozio e Hobbes. Essi vengono citati in riferimento al
tema platonico del pastore: per entrambi il genere umano è diviso in greggi, ciascuno dei quali ha il
proprio capo che lo custodisce per divorarlo.

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 Capitolo IV: si ha il passaggio dalla famiglia alla schiavitù. In Aristotele non c’era questo problema
perché la famiglia comprendeva la figura dello schiavo. La schiavitù è criticata sia nella forma
naturale, dovuta alla guerra, sia nella forma civile, che appare impensabile concettualmente.

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PARTE TERZA: COSTITUZIONE E LIMITAZIONE DEL POTERE

“Fare un patto sociale significa redigere l’atto per mezzo del quale un certo numero di persone sono
d’accordo nel formare un’associazione. Fare una costituzione, al contrario, vuol dire solamente determinare
il modo di governo o l’assetto dei poteri che deve reggere la società che viene formata. L’uno crea la società,
l’altro l’organizza”. Questa tensione tra movimento costituente e organizzazione dei poteri costituiti
attraversò per intero la Rivoluzione francese. L’Antico Regime, dopo il costituirsi del terzo stato in Assemblea
nazionale, non appare più riformabile, perché in quel passaggio si esprime una tensione costituente che
muove dal presupposto che a fronte dei diritti delle donne e degli uomini di Francia non esista ormai
organizzazione precostituita di poteri. Il terzo stato organizzato in Assemblea nazionale rifiuta di riformare il
quadro costituzionale ereditato dal passato, e si ingegna ad immaginare, per fondarlo, lo Stato del futuro.
“Quel decreto era la stessa Rivoluzione”. Lo spazio della Repubblica si definisce nello spazio costituente in
cui sono affermati e riconosciuti, quale presupposto dell’associazione, i diritti di tutti; uomini e donne, poveri
dignitosi e borghesi, liberi e schiavi. “Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali
ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza
all’oppressione”. “Il popolo è sovrano, ma nel governo rappresentativo i suoi rappresentanti sono i suoi
tutori; solo i suoi rappresentanti possono agire in suo nome, dato che i suoi interessi sono quasi sempre
collegati a verità politiche di cui esso non può avere una conoscenza netta ed approfondita”.

Capitolo X: Rivoluzione e costituzione del potere

Il periodo della Rivoluzione francese costituisce un momento privilegiato per intendere l’intreccio della
moderna scienza politica con i processi costituzionali dello Stato moderno. Il termine di costituzione viene a
prender il significato, che si diffonderà nell’età contemporanea, di carta costituzionale, finalizzata a delineare
l’organizzazione dello Stato e a stabilire i principi delimitanti il potere a tutela dei diritti dei cittadini. La
Dichiarazione dei diritti dell’uomo è un indicatore di quanto si sia diffusa l’idea che gli uomini sono uguali ed
hanno uguali diritti e di come sulla base di tali diritti si debba organizzare la convivenza politica degli uomini.
La dichiarazione dei diritti, pur intendendo essere un proclama universale per tutti valido, in realtà è la
premessa alla costituzione, cioè al formarsi di una società politica specifica, con un suo potere. Nella stessa
dichiarazione è presente l’elemento del potere, poiché il diritto fondamentale della libertà sta alla base della
proclamazione della legge e di una forza pubblica che sola appare garantire i diritti. Concetto centrale e
determinante il senso della rivoluzione è quello di libertà: la rivoluzione è il processo di liberazione dalle
pastoie del potere esistente e dalla cristallizzazione dei diversi diritti e privilegi. Un concetto di libertà inteso
come indipendenza, o dipendenza di tutti dalla propria volontà, libera appunto di esprimersi in ogni
direzione, con il solo limite di non nuocere agli altri. Questo limite è quello che la legge determina, legge in
cui consiste il comando del corpo politico che si deve costituire. Ma se la legge, con l’obbligazione politica
che da essa deriva, si nasa sulla libertà ed è ad essa funzionale, la sua produzione deve essere segnata
dall’autonomia della volontà: per essere libero cioè il popolo deve obbedire solo alla legge che esso stesso si
è dato. Questa, d’ora in avanti, diventa una verità indiscussa, e il problema riguarda solo il modo in cui il
popolo può dare a sé stesso la legge: determinare questo modo è appunto il compito della costituzione dello
Stato. Uguaglianza e libertà, le idee che si stanno affermando, non possono che determinare un popolo
omogeneo, una nazione, in cui non ci sono più privilegi né differenze, se non quelle sociali, legate alla
divisione del lavoro, che sono funzionali all’utilità comune. Non ci sono più allora ceti, stati diversi, ma la
rivendicazione del terzo stato diviene l’affermazione di un unico Stato in cui tutti sono uguali. Il terzo stato,
che coincide con la nazione intera, si fa Stato, ma in questo modo perde totalmente di senso politico l’antica
parola di stato, perdono di significato ordini, ceti e tutto ciò che caratterizzava le diversità nella convivenza
politica degli uomini.

Lo Stato deve essere fondato su una base razionale e su principi giusti, deve essere costituito e per questo
compiti emerge un soggetto costituente, per il quale non si può trovare un riferimento del pensiero di

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Rousseau. Solo il popolo può dettare leggi a sé stesso, può costituire lo Stato. Il potere, di cui la nazione è
dotata, non è limitato né limitabile da chicchessia. Lo Stato, razionalmente fondata secondo i principi
razionali e legittimato dalla volontà di tutti, diviene la fonte unica del diritto al suo interno. La situazione non
è più solo quella teorica propria dello scenario del contratto sociale: si tratta nella realtà storica di dare
costituzione ad una società politica; e con il problema della costituzione si presenta anche il problema del
potere costituente. Sieyes distingue il potere costituente da quello costituito: c’è organizzazione politica in
quanto c’è un potere che, come si vedrà, è articolato o diviso, ma tale potere costituito non può essere
costituente. Il depositario di quest’ultimo può essere solo la nazione, il popolo intero. Viene in tal modo
ripresa l’idea del corpo politico sovrano di Rousseau, ma in un contesto in cui si parla di “volontà generale
rappresentativa”, un contesto cioè che passa attraverso la necessità della rappresentanza, non solo al livello
del potere costituito, ma anche al livello più alto del potere costituente, dal momento che il popolo per
esprimersi ha bisogno pur sempre di un nucleo di persone, dell’Assemblea costituente appunto. D’ora in poi,
nelle costituzioni, il potere sarà sempre fondato dal basso, in quanto non c’è rappresentanza se non
attraverso l’elezione, un suffragio che si estenderà fino a divenire suffragio universale; tuttavia, essendo la
volontà comune, che diviene legge, prodotta dai rappresentanti, la legge, come comando determinato, viene
dall’alto e richiede ubbidienza, in ragione della forma politica che per volontà di tutti si è costituita. Ma se si
riconosce la forza e la irresistibilità del potere, inteso come sovranità del popolo, nella duplice accezione del
potere costituente e del potere costituito, il pericolo che immediatamente si presenta è quello della
possibilità dell’abuso da parte dei rappresentanti e del governo di un così grande potere, che non ha i
bilanciamenti tipici di un contesto cetuale. Perciò il problema che si pone è quello del controllo di questo
potere e della sua limitazione, problema che è posto esplicitamente nel dibattito costituzionale, e che implica
innanzitutto quel principio della divisione dei poteri che appare essenziale per una giusta costituzione.

Capitolo XI: I limiti del potere: il contributo francese

Nel delineare i caratteri distintivi delle tradizioni liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese e
francese, si partirà dall’ipotesi che liberalismo e costituzionalismo siano posizioni tipicamente moderne. La
tradizione inglese pretende di svilupparsi senza soluzioni di continuità a partire dal costituzionalismo
medievale, mentre la tradizione francese-rivoluzionaria vorrebbe rompere completamente con il passato.
Per la tradizione evoluzionistica inglese o meglio britannica, il potere è un prodotto dell’azione umana
inintenzionale, rivolte quindi ad altri scopi. Per la tradizione costruttivistica francese-rivoluzionaria, invece, il
potere è il prodotto dell’azione umana intenzionale. In questo paragrafo, i tratti caratteristici delle tradizioni
liberali e costituzionalistiche rispettivamente inglese e francese verranno schematizzati in tre opposizioni
concettuali. La prima opposizione riguarda lo stesso carattere spontaneo o costruito delle costituzioni; la
seconda attiene al carattere corporativo o individuale degli interessi ammessi al gioco costituzionale; la terza
verte sul carattere di bilancia o di regola della strategia di limitazione del potere adottata.

1) Per la tradizione inglese, come si è anticipato, le costituzioni hanno carattere spontaneo, per la
tradizione francese carattere costruito. Nella tradizione inglese, gli individui, perseguendo
intenzionalmente il proprio interesse, producono inintenzionalmente l’interesse generale, in un
modo paragonato all’operare nella Divina Provvidenza. Che la costituzione britannica non sia stata
fabbricata da alcuno, ma si sia evoluta spontaneamente è un’idea presente in Montesquieu
nell’Esprit des lois. La mano invisibile istituzionale gioca un ruolo importante anche nel libro
undicesimo, in cui si trova il famoso capitolo sesto dedicato alla costituzione inglese. Com’è noto, il
libro undicesimo è il luogo classico della teoria della separazione dei poteri: espressione che peraltro
non deve la sua fortuna a Montesquieu ma all’articolo 16 della costituzione del 1791. In base a tale
teoria, ogni regime politico consterebbe di tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) che
andrebbero affidati a organi rigorosamente distinti: situazione che peraltro non si verifica nella
costituzione inglese raffigurata da Montesquieu, in cui sia i due poteri strettamente politici
(esecutivo e legislativo), sia il giudiziario, potere considerato politicamente nullo, sono in realtà
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amministrati da organi fittamente intrecciati fra loro. La costituzione inglese raffigurata da
Montesquieu garantisce la libertà dei cittadini non tanto tramite la separazione, quanto attraverso il
bilanciamento dei poteri. Ognuno degli organi tende spontaneamente ad accrescere il proprio
potere; così facendo, peraltro, finisce per scontrarsi con la tendenza uguale e contrario degli altri,
innescando quel meccanismo di pesi e contrappesi che garantirebbe la libertà degli inglesi. L’idea
montesquiviana di un bilanciamento dei poteri ritornerà anche pressi i costituenti americani, ma con
almeno due varianti, che indicano anche altrettante direzioni in cui guarderanno pure i costituenti
francesi. In primo luogo, la costituzione federale americana è interamente progettata. In secondo
luogo, né il presidente né il Senato né la Camera dei rappresentanti possono più venire concepiti
come espressione di diversi ceti o classi sociali. Tutto il costituzionalismo rivoluzionario francese, in
effetti, pensa che le costituzioni debbano essere costruite calcolando attentamente gli interessi dei
partecipanti al gioco costituzionale, e diffidando di meccanismi spontanei quali la mano invisibile
istituzionale.
2) Questo generale atteggiamento costruttivistico, o antievoluzionistico, è peraltro solo il primo aspetto
distintivo della tradizione francese rispetto a quella inglese. Nella tradizione inglese non sembrano
esservi vincoli al tipo di interesse ammesso al gioco politico: può trattarsi indifferentemente di
interessi individuali o di interessi corporativi. La tradizione francese-rivoluzionaria, invece, si presenta
al contempo come egualitaria, nel senso che non ammette distinzioni di ceto, e individualistica, nel
senso che ammette solo interessi rigorosamente individuali. La differenza fra interessi individuali e
interessi corporativi viene fissata sin da Qu’est-ce que le Tiers-Etàt, che può considerarsi una sorta di
programma dell’intera Rivoluzione Francese. L’autore di questo celebre testo è il già menzionato
Sieyes. Lo scopo di questa distinzione è del tutto trasparente: Sieyes vuole sostenere che l’assemblea
di una nazione va costituita in modo tale che gli interessi particolari vi restino isolati e che l’opinione
dei rappresentanti vi sia sempre conforme all’interesse generale. A determinare il fallimento del
modello inglese alla Costituente, com’è stato spesso riconosciuto, fu proprio il sospetto che dietro il
bilanciamento dei poteri, il bicameralismo e il diritto di veto reale proposti dai monarchiens vi fosse
il disegno di restituire influenza alle forze sociali sconfitte dalla Rivoluzione. Sieyes operava un’altra
distinzione: quella fra l’insieme di tutti i francesi, chiamata societé civile o nation, e cui viene
attribuito il potere costituente, e l’organizzazione politica francese. Questa distinzione tra società e
Stato ha evidenti valenze rivoluzionarie. Sieyes puntualizza infatti che “non si costituisce la nazione,
ma la sua organizzazione politica. La nazione è l’insieme degli associati. I governanti, al contrario,
formano un corpo politico di creazione sociale”. La nation, in altri termini, si costituisce
anteriormente allo Stato, in base agli interessi economici dei consociati. Lo Stato nasce quindi
limitato, come una macchina consapevolmente costruita per svolgere le funzioni delegategli dai
consociati. In questo modo, i rapporti fra i principali organi costituzionali (legislativo ed esecutivo)
possono venire fraseggiati non più in termini di balance, ma di specializzazione delle funzioni.
3) Il terzo criterio distintivo fra tradizione costituzionalistiche e liberali rispettivamente inglese e
francese è relativo alla strategia di limitazione del potere adottata. Nella tradizione inglese viene
adottata la strategia della bilancia: la limitazione del potere, cioè, appare affidata al meccanismo
spontaneo dei contropoteri. Solo il potere, in fondo, è in grado di limitare il potere. Nella tradizione
francese, o piuttosto continentale, viene adottata invece la strategia della regola: la limitazione del
potere, cioè, appare affidata a una norma superiore – la stessa costituzione – che ne fissa i titolari e,
soprattutto, gli ambiti di esercizio. Sieyes critica la strategia della bilancia e adotta espressamente la
strategia della regola. Sieyes propone infatti l’istituzione di un organo competente, fra l’altro, a
controllare la conformità delle leggi alla costituzione: “vi sarà, sotto il nome di giurì costituzionale un
corpo di rappresentanti con la specifica competenza a giudicare sui ricorsi per la violazione della
costituzione che vengano avanzati contro le decisioni del legislativo”.

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Delineati questi criteri distintivi fra tradizioni britannica e francese, occorre ora impiegarli per accertare a
quale delle due sia prevalentemente riconducibile il costituzionalismo liberale di Constant e di madame de
Stael. Alle dottrine sia repubblicana sia monarchica di Constant e di madame de Stael, cioè, verranno applicati
i criteri distintivi fra tradizioni inglese e francese individuati precedentemente. Per quanto riguarda il punto
1 è infatti noto come entrambi gli autori – e non solo nel periodo repubblicano – abbiano sempre optato per
una costituzione scritta e progettata. Nel periodo repubblicano l’atteggiamento di entrambi è quello
rigorosamente costruttivista della tradizione francese. Per quanto riguarda il punto 2 constatiamo subito
come entrambi gli autori, almeno nel periodo considerato, rispettino quasi alla lettera la grammatica del
costituzionalismo francese-rivoluzionario. Dopo aver assunto che le costituzioni si costruiscono sulla base del
calcolo degli interessi dei soggetti coinvolti, Constant e madame de Stael rifiutarono l’ammissione al gioco
costituzionale i soggetti dotati di interessi particolari o corporativi, come il monarca e la nobiltà. Ancora più
significativa appare la posizione di Constant a proposito dei partiti. È noto come, proprio per la sua ostilità
verso gli interessi corporativi, il costituzionalismo francese-rivoluzionario rifiuti i partiti, pacificamente
ammessi nella pratica costituzionale inglese, qualificandoli spregiativamente come fazioni. In questo caso si
forma nello Stato due interessi opposti in modo permanente, che costituiscono un autentico germe di
dissoluzione. Qui madame de Stael dichiara espressamente: “occorre che gli interessi particolari non siano in
opposizione con l’interesse generale”, indicando fra i principi fondamentali del costituzionalismo
repubblicano anche l’égalité, ovvero la distruzione dei privilegi delle classi. Per quanto riguardo il punto 3,
consideriamo, infine, l’atteggiarsi della dottrina repubblicana di Constant e di madame de Stael rispetto al
carattere di bilancia o di regola della strategia di limitazione del potere adottata. Benché Constant parli
espressamente di limitare le competenze del legislatore, egli non vede la possibile soluzione del problema,
del resto appena intravista dallo stesso Sieyes dei discorsi del Termidoro: ovvero il controllo di
costituzionalità. Resta da chiedersi se la strategia della regola sia anche la posizione di madame de Stael: la
quale critica talvolta la strategia della bilancia, come si è già visto, ma non aderisce mai espressamente alla
strategia alternativa. Risulta dunque possibile ipotizzare che sul punto madame de Stael si discosti da
Constant, e fors’anche dal costituzionalismo francese in genere.

Occorre ora occuparsi, utilizzando gli stessi criteri distintivi fra tradizioni inglese e francese impiegati nel
paragrafo precedente, del costituzionalismo specificamente monarchica di Constant. Qui i rapporti con la
tradizione inglese sono evidentemente molto più ravvicinati. Constant aderì alla monarchia dopo vent’anni
buoni di teorizzazioni filorepubblicane. Per giustificare la propria adesione alla monarchia costituzionale,
Constant ricorrerà proprio a quella concezione delle istituzioni politiche come semplici mezzi, funzionali alle
esigenze della società, che innerva i trattati repubblicani: “la libertà, l’ordine, il benessere dei popoli, sono lo
scopo delle associazioni umane; le organizzazione politiche sono soltanto dei mezzi; e un repubblicano
illuminato sarà sempre più disposto a diventare monarchico-costituzionale di un sostenitore della monarchia
assoluta”. Quanto al carattere spontaneo o costruito della costituzione, si trovano nelle opere della
Restaurazione passi che indurrebbero a ipotizzare una rinuncia da parte di Constant al costruttivismo della
tradizione francese, e un approdo all’evoluzionismo della tradizione britannica. Quanto al carattere
particolare o individuale degli interessi ammessi nel gioco costituzionale, anche qui le opere della
Restaurazione presentano passi che sembrano testimoniare di un recupero della tradizione inglese. Quanto
al carattere di bilancia o di regola della strategia di limitazione del potere adottata, anche il costituzionalismo
monarchico di Constant manifesta la tendenza già intravista nel suo costituzionalismo repubblicano: la
tendenza, cioè, a combinare le due strategie, salvo subordinare rigorosamente la strategia britannica della
bilancia a quella francese della regola.

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PARTE QUARTA: PENSARE IL POTERE: LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

Il nuovo assetto concettuale inaugurato dal giusnaturalismo si afferma in Germania attraverso la trattatistica,
copiosa alla fine del Settecento, sul diritto naturale. Ciò che colpisce ancor più è la presenza del sistema
concettuale hobbesiano all’interno di opere che, lungi dal volere riferirsi positivamente ad esso, lo pongono
esplicitamente come obiettivo polemico a causa dell’assolutezza del potere che lo caratterizza. Si può leggere
la critica di Hobbes nello scritto politico kantiano Sul detto comune.

Capitolo XII: Potere e libertà nella filosofia politica di Kant

Il problema del potere si pone, per Kant, all’interno di una filosofia della volontà (universale). Prima di
determinare il potere in chiave giuridica e politica, quindi è opportuno approfondire la concezione kantiana
della volontà, nei suoi rapporti con la facoltà di desiderare e con l’arbitrio (particolare). L’arbitrio è la
consapevolezza della capacità di attuare concretamente una possibilità d’azione, che rimane però impotente
davanti all’immaginazione soggettiva. Bisogna quindi elevarsi al livello della volontà, ove la facoltà di
desiderare giunge a determinarsi non in base ad inclinazioni naturali ma in base alla ragione, la quale è in
grado di produrre principi di legislazione universale. La “volontà”, come del resto l’arbitrio, non è qualcosa di
diverso dalla stessa facoltà di desiderare, bensì è la modalità mediante cui tale facoltà giunge a determinarsi
in base a motivi che non provengono dall’inclinazione naturale, ma trovano la loro origine nella ragione. Se
la funzione della ragione è quella di produrre massime conformi alla possibilità di diventare principi di
legislazione universale, la libertà si trova essa stessa determinata in relazione all’istanza di universalità fatta
valere dalla ragione. Non è possibile libertà senza determinazione dell’agire ad opera della ragione, come
viceversa solo un agire determinato in base a motivi offerti dalla ragione può propriamente chiamarsi tale,
essere cioè attuazione della libertà. Tale reciproca implicazione tra ragione e libertà consente allora un altro
passaggio, che Kant compie quando determina la libertà come autonomia. La facoltà di desiderare, insomma,
è volontà dal momento in cui assume come cogente (=che determina un obbligo inderogabile) la ragione
nella sua capacità di determinazione pratica, e viceversa la ragione in quanto capacità di determinazione
pratica si esprime e si realizza nella forma della volontà. “La volontà non può essere chiamata né libera né
non libera, poiché è diretta non ad azioni, bensì immediatamente alla legislazione per la massima delle azioni
(dunque alla ragione pratica stessa), perciò è anche assolutamente necessaria e non suscettibile di alcuna
coercizione. Soltanto l’arbitrio dunque può essere chiamato libero”.

All’interno dell’argomentazione politica di Kant è necessario distinguere tra la motivazione che spinge il
soggetto ad agire, e le azioni esterne che tali motivazioni risultano. Di qui scaturisce la necessaria distinzione
tra le discipline della morale e del diritto. La prima, infatti, pone alla base della sua legislazione la conformità
dell’intenzione al precetto della volontà, mentre il secondo considera esclusivamente la conformità esterna
di un’azione ai dettami della ragione. Ma proprio lo spostamento dell’attenzione dal piano dell’interiorità e
della coscienza del singolo individuo a quello della compatibilità dei suoi comportamenti con la libertà e le
azioni degli altri individui, pone il problema di stabilire un ordine in cui la libertà di ciascuno sia compatibile
sotto il profilo esterno con la libertà di tutti coloro con i quali egli entra o può entrare in relazione. L’ambito
di pertinenza della legislazione giuridica e della disciplina del diritto, a differenza dalla morale, è dunque
costituito dagli atti e dai comportamenti esterni di singoli individui razionali in relazione reciproca. Il
“contratto originario” è l’atto mediante cui il popolo stesso si costituisce in uno Stato, ma in senso proprio
solo l’idea di esso, secondo cui soltanto se ne può pensare la conformità al diritto, è il contratto originario,
secondo cui tutti nel popolo rimettono la loro libertà esterna, per subito riprenderla come membri di un
corpo, cioè del popolo considerato come Stato. Esso è considerato da Kant come un’idea fornita a priori dalla
ragione pratica. Non è possibile immaginare il contratto come una costruzione artificiale da cui produca
l’universalità di quest’ultima. Ma in rapporto alla costituzione dello Stato non si tratta di un contratto puro e
semplice, cioè di un fatto empirico, ma di un contratto in senso “originario”. E qui “originario” non va inteso
soltanto come ciò da cui prende inizio qualcosa, ma designa il rapporto con la dimensione dell’idea, in cui

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all’arbitrio dei singoli subentra la volontà come istanza di legislazione universale. Quindi, l’interpretazione
più corriva secondo cui a fondamento dello Stato verrebbe posta una decisione degli individui non può
corrisponder alla concezione kantiana. Così, il “contratto originario” si mostra come condizione
trascendentale spontaneamente posta dalla ragione per rendere possibile l’instaurazione del diritto e, con
ciò stesso, l’esercizio della libertà esterna da parte dei singoli; in questo senso, esso non è l’artificio da cui si
genera la volontà comune del corpo politico, bensì è la configurazione che l’idea, come principio di per sé
incostruibile, assume quando si accolga come presupposto l’esistenza di una pluralità di soggetti singoli.
Riassumendo: la volontà opera nei singoli e attraverso i singoli, ma non in quanto puro e semplice arbitrio di
questi, bensì come funzione o istanza produttiva di universalità. Il contratto si limita a esprimere l’universalità
già operante all’interno delle singole volontà. La volontà è una in quanto funzione apriorica della soggettività,
e perciò si esercita attraverso la formulazione di leggi e principi di carattere universale. In quanto tuttavia
investe i rapporti reciproci tra una pluralità di individui razionali, essa si esercita in forma di volontà
“generale”, cioè universalmente unificata. È in virtù di quest’ultima che i singoli si riuniscono in popoli e
“Stati”.

Lo Stato è la forma istituzionale di cui la volontà si dota per costringere l’arbitrio della moltitudine a obbedire
coattivamente all’istanza della libertà. Ciò comporta la fondazione di un rapporto di comando e obbedienza,
in cui la totalità del popolo si istituisce come potere coattivo (=chi ha il potere, costringe) rispetto ai singoli
membri che lo compongono, cercando si salvaguardare l’unità e indivisibilità della volontà, pur all’interno
dell’asimmetria indispensabile al funzionamento di una relazione di potere. Il dispositivo del comando di
istituisce quando la volontà, in quanto universale, plasma un organo dotato di potere coattivo esterno, rivolto
non tanto alla limitazione della volontà (che sarebbe assurda), quanto piuttosto alla limitazione dell’arbitrio.
Dunque, è proprio perché non c’è trasferimento di volontà che diventa possibile fondare uno Stato. Ciò
comporta una duplice conseguenza: da un lato, la disposizione gerarchica dei poteri; dall’altro l’impossibilità
per ciascuno di essi di limitare l’esercizio degli altri due. La funzione della sovranità in senso stretto spetta
all’organo che incarna la funzione legislativo, perché carattere proprio della volontà è quello di porre
autonomamente leggi a sé stessa. A ciò è deputata la funzione del governo come esercizio di potere coattivo,
tale da disporre l’arbitrio all’obbedienza nei confronti dell’universale. La funzione giudicante è infine
conforme alla conclusione del sillogismo pratica, di cui l’articolazione dei poteri è la configurazione giuridico-
statale, in cui il caso singolo è valutato e deciso conformemente all’universalità della legge (premessa
maggiore) e al comando particolare con cui il governo ne determina l’attuazione (premessa minore). È questa
articolazione quella che Kant chiama la “triade politica” della volontà. In quanto la volontà si esercita in forma
di auto legislazione, l’organo del potere sovraordinato a tutti gli altri è necessariamente quello che svolge la
funzione di legiferare in forma universale, cioè il potere legislativo.

Ciò spiega perché Kant ritenga contraddittoria con l’idea dello Stato la pretesa di istituire una costituzione di
tipo “moderato”. La conseguenza della costituzione “moderata” è dunque l’instaurazione di un governo
dispotico, che Kant caratterizza come l’esercizio, da parte di un unico potere (quello esecutivo), di due
funzioni che nell’idea di Stato appaiono rigorosamente distinte, quella legislativa (piano dell’universale) e
quella esecutiva (piano del particolare). È contraddittorio attribuire al popolo un diritto di resistenza nei
confronti di chi detiene il potere di governo, poiché soltanto l’esistenza di quest’ultimo rende possibile la
concreta vigenza ed efficacia del diritto: sostenere che il popolo possiede il diritto di ribellarsi contro un
potere dello Stato è assurdo, poiché il potere dello Stato è la condizione da cui dipende la possibilità di
esercitare ogni e qualsiasi diritto. Cerchiamo dunque di approfondire la questione in riferimento alla
distinzione tra forme di Stato e tipi di governo, che Kant presenta nello Per la pace perpetua. Le forme di
Stato definiscono il numero di individui cui viene assegnato il compito formulare le leggi. Alla costituzione
dell’organo legislativo Kant riserva la distinzione classica tra forma di Stato autocratica (in cui chi detta le
leggi è uno solo), aristocratica (in cui chi detta le leggi sono alcuni) e democratica (fin cui chi detta le leggi
sono tutti). Il modo in cui si organizza l’organo legislativo determina in senso stretto la forma costituzionale

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dello Stato. Il potere coattivo dello Stato è legittimo, cioè ad esso non è lecito opporre alcuna forma di
resistenza, poiché esso proviene dall’atto della sua originaria Constitution, cioè dal processo mediante cui la
volontà dei singoli ha fatto valere l’istanza dell’universalità nei confronti del proprio arbitrio, e ha dato
all’universalità della volontà potere coattivo contro quest’ultimo, garantendo l’esercizio conforme al diritto
della libertà esterna pertinente a ciascuno. Nella democrazia, infatti, tutti hanno il potere di formulare le
leggi, e di conseguenza tutti hanno la pretesa di esercitare il potere di sovranità su tutti gli altri. Ciò conduce
inevitabilmente all’identificazione tra facoltà legislativa e potere di governo, e all’impossibilità di distinguere
tra organi rappresentativi della volontà generale e moltitudine dei cittadini soggetti alle leggi da essi
emanate. Di conseguenza, in una democrazia anche il governo della maggioranza sulla minoranza appare
dispotico, perché è comunque il governo di una parte (preponderante sotto il profilo numerico, e dunque
della mera forza) su di un’altra parte (che soccombe perché numericamente inferiore e quindi più debole).
Per evitare queste conseguenze è necessario introdurre un ordinamento rappresentativo, perché soltanto
sulla base della rappresentanza è possibile, da un lato, far valere la volontà come volontà generale; dall’altro
distinguere tra funzione legislativo e potere esecutivo. La rappresentanza così non risulta legata soltanto alla
funzione legislativa, ma attraversa tutti e tre i poteri dello Stato, in quanto ciascuno di essi incorpora la
totalità della volontà generale, che si esercita in forma articolata nella specificità delle loro diverse funzioni.

Mentre nello scritto Per la pace perpetua Kant afferma che la forma autocratica di costituzione, in cui uno
solo detiene il potere di formulare la legge, è quella più vicina a un ordinamento di tipo repubblicano, nel
testo più tardo egli inverte l’argomentazione, e sostiene che la costituzione autocratica è quella più
pericolosa. Correlativamente a questa diversa valutazione della costituzione di tipo autocratico, emerge una
diversa e più complessa trattazione della costituzione di tipo democratico. Quest’ultima non è più collegata
alla forma del governo dispotico, ma è aperta all’instaurazione di una forma di governo repubblicano. Questo
spostamento non è collegato ad un mutamento nella concezione del governo repubblicano, ma sembra
dovuto ad un cambiamento nella concezione della democrazia.

“Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico” (1784):

Kant si chiede quali sono le condizioni a priori per il darsi della storia. La storia, dice Kant, è il modo del
rapporto che passa attraverso la memoria con le azioni umane come fenomeni causali che determinano la
volontà ma solo la volontà autonoma può rendere conto di questi eventi. La Geschichte rende presente,
attraverso la memoria, eventi passati attraverso il resoconto storiografico. Kant guarda finalisticamente gli
eventi apparentemente caotici. Ha quindi un procedimento teleologico/finalistico. La natura va intesa come
sistema/organismo ha uno scopo ultimo.

Nel testo troviamo un’argomentazione di matrice liberale ed è suddiviso in tesi: 1) Tutte le disposizioni
naturali di una creatura saranno dispiegate 2) Il rapporto tra la natura e la specie umana, l’unica ad essere
razionale: è il genere e non l’individuo che conta nella storia 3) C’è un’idea di progresso 4) La natura opera
attraverso l’antagonismo sociale. Ossimoro: “gli uomini sono socievoli, ma di una socievolezza insocievole”:
nell’uomo abbiamo due tendenze simultanee, ossia la tendenza alla costituzione sociale, e anche il liberarsi
di questa costituzione e isolarsi perché trova in sé il volere piegare tutto al proprio interesse 5) Il massimo
problema del genere umano: il raggiungimento di una società civile la quale deve far valere il diritto in modo
universale cioè deve far valere la coazione. Kant identifica la nascita dello stato/del sovrano con il bisogno
patologico degli uomini di avere un padrone. Questo padrone spezza la volontà particolare di ogni singolo e
lo costringe ad obbedire alla volontà universale che richiede che ognuno sia universalmente libero.

“Sul detto comune” (1793):

È un saggio che ha il suo centro nella negazione del diritto di resistenza. Nella premessa Kant spiega cosa
significa teoria e cosa invece pratica. Pratico è tutto ciò che è fatto secondo i principi razionameli mentre

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teoria è un corpus di regole che presuppone un’estrazione di casi per generare leggi concrete. Tra teoria e
pratica è necessaria una connessione e queste necessità della facoltà del giudizio.

 “La relazione della teoria con la pratica nella morale in generale”: un uomo morale non
consentirebbe mai a leggi che violino la moralità o le sue precondizioni giuridiche-normative. Si
conclude che tutto ciò che nella morale è giusto per la teoria, deve valere anche per la pratica.
 “La relazione della teoria con la pratica nel diritto dello stato”: qui traccia i punti di distacco e i punti
in comune con Hobbes. Il contratto di instaurazione di una costituzione civile è dato dall’unione di
molti per un fine comune, ma questa unione a differenza degli altri patti/contratti sociali è un’unione
fine in sé. La struttura formale del patto viene definita dall’elemento morale del dovere (stringersi in
un patto civile fine in sé con altri uomini è un dovere che ognuno deve sentire). Ne deriva la
subordinazione della politica alla morale. Tale unione si può avere solo in una società allo stato civile,
cioè quando c’è un corpo comune. Il diritto è la limitazione della libertà di ognuno alla condizione
dell’accordo di questa libertà con ogni altro, è la sfera normativa che definisce i rapporti della libertà
esterna tra uomini, il diritto restringe ciò che gli altri fanno su di me e anche la mia libertà verso gli
altri. Abbiamo poi un diritto pubblico che è l’insieme delle leggi esterne che rendono possibile un
tale accordo. Lo stato civile è fondato sui seguenti principi a priori: la libertà di ogni membro della
società come uomo (ciascuno deve poter cercare la sua felicità per la vita che gli sembra più giusta,
purché non ledi la libertà altrui), l’eguaglianza di ogni membro come ogni altro suddito (ogni membro
ha verso tutti gli altri diritti coattivi in modo che gli altri restino dentro i limiti dell’accordo. Da questa
reciprocità è escluso solo il sovrano), l’indipendenza di ogni membro come cittadino (non tutti hanno
il diritto di fare leggi: vi sono cittadini che partecipano alle associazioni politiche e producono leggi,
c’è il sovrano che dà le leggi e ci sono altri che semplicemente godono della protezione offerta da
queste leggi senza partecipare attivamente alla loro elaborazione). Colui che ha il diritto di voto, e
quindi partecipa attivamente all’elaborazione delle leggi, si chiama cittadino e la qualità necessaria
per esserlo è che egli sia padrone di sé e cioè abbia una qualche proprietà che lo mantenga. È
necessario che tutti coloro che abbiano il diritto di voto siano d’accordo su questa legge della giustizia
pubblica, se non si ha un consenso unanime si ricorre al principio di maggioranza il quale deve essere
il principio supremo dell’instaurazione di una costituzione civile in quanto accolto con un accordo
generale, cioè per mezzo di un contratto. Se una legge è conforme al diritto vige il divieto di resistenza
verso la volontà del legislatore: il potere dello stato che dà legge è incontrastabile perché la
resistenza distruggerebbe ogni costituzione civile e annullerebbe quello stato in cui gli uomini sono
possessori del diritto.
 “La relazione della teoria con la pratica nel diritto internazionale”: tratta del diritto internazionale,
considerato da un punto di vista cosmopolitico. In questo saggio non è ancora presente la distinzione
tra diritto internazionale e cosmopolitico. Kant qui dice che il diritto internazionale deve essere tale
da impedire la guerra e i suoi mali e tale risultato si può ottenere solo se si instaura nel diritto
internazionale un’ispirazione cosmopolitica.

“Per la pace perpetua” (1795):

Nella Prefazione l’uomo di governo pratico si confronta con il teorico della politica, e guarda quest’ultimo
con presunzione come se fosse inferiore. Kant si identifica con il teorico politico.

Nella Sezione Prima sono contenuti gli articoli preliminari per la pace perpetua tra stati:

 “Nessun trattato di pace che sia stato fatto con la segreta riserva di materia per guerre future può
valere come tale”
 “Nessuno Stato indipendente deve poter essere acquisito da un altro Stato per eredità, scambio,
compero o donazione”

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 “Gli eserciti permanenti devono col tempo scomparire del tutto”
 “Non devono essere contratti debiti pubblici per le relazioni esterne dello Stato”
 “Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato”
 “Nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi atti di ostilità, che non potrebbero non
rendere impossibile la fiducia in una pace futura”.

Nella Sezione Seconda sono contenuti gli articoli definitivi per la pace perpetua tra gli stati:

 La costituzione civile di ogni deve essere repubblicana e quindi rappresentativa e si deve basare sui
principi di libertà in quanto uomini (anche gli stranieri), dipendenza da un’unica legislazione,
uguaglianza di tutti in quanto cittadini. La costituzione repubblicana è quella secondo il diritto civile
degli uomini di un popolo, secondo il diritto delle genti degli stati nei loro reciproci rapporti, secondo
il diritto cosmopolitico in quanto uomini e stati che stiano in rapporti reciproci sono da considerarsi
come cittadini di uno Stato universale di uomini. Ogni vera repubblica è una forma rappresentativa,
ciò significa che il potere esecutivo e il potere legislativo devono essere distinti. (vedi Federico II che
rappresenta lo Stato) Si può dunque dire che quanto è più piccolo il numero di sovrani e tanto più
maggiore è il grado di rappresentatività di questi, tanto più la costituzione si avvicina
progressivamente al repubblicanesimo. Quindi è meglio che il sovrano sia uno, come affermava
Hobbes.
 “Il diritto delle genti deve essere fondato su un federalismo di liberi Stati”. Ricorre l’espressione
“cittadino del mondo” che è colui che spiritualmente si sente vicino a tutti. Per Kant l’essere
cosmopoliti è un sentimento positivo di appartenenza ad una città ideale. La pluralità politica di stati
e di popoli è compatibile all’idea di cosmopolitismo: gli stati sono enti dentro cui ognuno è libero di
circolare.
 “Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni della ospitalità universale”. Ospitalità è
diritto di uno straniero di non essere trattato da nemico nel paese di arrivo, il quale si può rifiutare
di riceverlo solo se ciò non compromette la sua esistenza; ma sinché quello straniero sta
pacificamente al suo posto, non lo può accogliere ostilmente.
 Primo supplemento: il fondamento della pace perpetua per Kant sta nella natura la quale ha una
finalità. Kant ritiene che gli uomini derivino tutti da una sola famiglia e che poi si siano dispersi a
causa della guerra (che è radicata nella natura umana), ma la sfericità della terra limita questa
monadizzazione del mondo: gli uomini non possono vivere sempre come monadi, non possono
isolarsi all’infinito perché prima o poi si incontreranno e saranno costretti a rapportarsi tra loro e
coesistere. La natura mette gli uomini in condizioni di realizzare la pace perpetua ma la sua effettiva
traduzione in pratica dipende dalla responsabilità morale dell’uomo.
 Secondo supplemento: Kant crede che le parole dei filosofi possano produrre effetti positivi sebbene
stia ben attento a non porre il filosofo al di sopra del politico. Vi è una conflittualità tra il giurista e il
filosofo: il giurista applica le leggi senza preoccuparsi se queste debbano essere migliorate. Il giurista
che incarna lo stato si trova ad essere superiore alle leggi che lui applica. Non si capisce però se la
filosofia faccia da serva al diritto oppure se sia la filosofia che illumini la via e il diritto che la segue.
Non c’è una conclusione in senso stretto.

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AUTORI:

Machiavelli 1469-1527

Bodin 1530-1596

Althusius 1563-1638

Pufendorf 1632-1694

Hobbes 1588-1679

Spinoza 1632-1677

Locke 1632-1704

Rousseau 1712-1778

Kant 1724-1804

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