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JEAN 

JACQUES ROUSSEAU
(1712-1778)
L'uomo del "Contratto Sociale"
 

di LUCA MOLINARI
poi nota di DIEGO FUSARO

IL SUPERAMENTO DELL’ILLUMINISMO ED 


IL CONTRATTO SOCIALE
J.J. Rousseau nasce nel 1712 a Ginevra e rappresenta la generazione
avanzata del “secolo dei lumi”. La cultura illuminista aveva conosciuto,
con Diderot e Voltaire, il suo momento di massimo splendore riuscendo ad
aprire un ampio dibattito sui principi di eguaglianza e di libertà che avrà
come naturale conclusione la rivoluzione francese del 1789 le cui parole
d’ordine furono, appunto, “libertà, fraternità ed eguaglianza”.

Le idee liberali di cui sarà impregnato il XVIII secolo hanno come padre
nobile Voltaire tanto che Victor Hugo ebbe a dire: “Il ‘700 è Voltaire” e
Luigi di Borbone, prigioniero dopo il tentativo di fuga dalla Francia
rivoluzionaria, accusò il filosofo di “aver rovinato la Francia”.

Con Rousseau, invece, si entra in una seconda fase del pensiero


illuminista, in cui l’elemento razionalista viene a convivere
obbligatoriamente con il recupero del sentimento e di alcuni elementi che
fecero del filosofo ginevrino un precursore del pensiero romantico.

Non c’è più una fede nel progresso e nella scienza anzi, recuperando
autori classici (da Plutarco a Seneca) si accusano le arti e le conoscenze
scientifiche di aver provocato la corruzione dell’uomo che, invece, nel suo
stato di natura (condizione mai esistita realmente in un preciso momento
storico) viveva in una sorta di “età dell’oro” in cui poteva godere ed
usufruire di tutti i suoi diritti naturali che ne facevano un essere felice e
libero.

La critica di Rousseau è rivolta soprattutto verso i giusnaturalisti e verso


Hobbs i quali hanno proiettato nella propria concezione di uomo ideale le
caratteristiche dell’uomo civilizzato finendo, così, per giustificare i difetti
di quest’ultimo.

Altra tematica del pensiero politico è la ricerca dell’uguaglianza e della


comunanza dei diritti come condizione base dell’esistenza dell’uomo.
L’uomo, contrariamente a quanto sostenuto da Hobbs, e a quanto a ciò
che era stato detto da Locke, non può alienare alcun diritto: la società è un
corpo sociale che rappresenta tutti i suoi componenti i quali hanno
stipulato liberamente un patto con il quale hanno riposto tutti i loro diritti
nella stessa comunità di cui sono partecipi; vi è, quindi, un corpo sociale
composto da tutti gli individui che lavorano insieme per la comunità
stessa.

Opera principale in cui sono contenute tali tematiche è il “Contratto


Sociale”, scritto nel 1762 e divenuto uno dei principali testi di “dottrina
politica” della storia del pensiero moderno.

Nella prima parte dell’opera Rousseau descrive le condizioni dell’uomo


nello stato di natura: “(l’uomo naturale) è un animale meno forte di alcuni,
meno agile di altri, ma nell’insieme, organizzato più vantaggiosamente di
tutti”(3) in quanto ha bisogni modesti, passioni elementari e timori limitati.
Progettualità ed immaginazione sono assai limitate poiché vi è una vita in
simbiosi con la natura.

Nel pensiero di Rousseau è assente, inoltre, ogni giudizio di tipo morale:


vivendo isolato l’uomo naturale non può essere né buono, né cattivo.
Esistono, invece, tendenze per così dire “naturali”, anteriori alla razionalità
quali l’autoconservazione (amor di sé) e la pietà per gli altri intesa come
naturale ripugnanza al dolore ed alla violenza. Non è, però, corretta
l’equazione uomo naturale-animale, poiché l’uomo naturale è capace di
perfezionarsi, sviluppando le proprie facoltà e le proprie capacità
giungendo ad avere una propria storia. 

Tale perfezionabilità è tragicamente ambivalente: infatti in essa convivono


progresso e corruzione intesi come sviluppo delle potenzialità umane
unitariamente alla rottura totale dell’equilibrio naturale ed originario della
condizione dell’uomo.

La seconda parte dell’opera descrive l’incredibile e straordinario sviluppo


delle potenzialità dell’uomo che, attraverso la scoperta e l’attuazione delle
principali attività dell’uomo civilizzato (agricoltura, artigianato, industria,
commerci  ecc. …) trasformano l’uomo aumentandone i bisogni fino a
trasformare “l’amore di sé” in un egoistico “amore proprio” tanto che, con
l’introduzione della proprietà privata, si giunge alla scoperta della
disuguaglianza tra ricchi e poveri, tra chi possiede e chi è nullatenente. Si
può, quindi affermare che la disuguaglianza è un frutto della storia e della
civiltà e non della natura.

Il contratto in Rousseau è il momento in cui gli individui giungono


consapevolmente e liberamente a costruire la società attraverso un patto
di associazione e non di sottomissione perché ogni individuo nel cedere
alla comunità la propria sovranità diviene automaticamente sovrano di sé
stesso.
L’atto costitutivo della comunità avviene sul piano di una assoluta
uguaglianza: così non esiste nessun rapporto di dipendenza fra gli
individui, ma soltanto un legame di ciascuno con la realtà politico-
associativa, cioè un legame con se stessi.

Altro tema importante dell’opera è il concetto di “volontà generale”, che


non è la semplice somma delle volontà particolari, ma è la volontà dei
cittadini visti come corpo comune: è qualche cosa di qualitativamente e
quantitativamente diverso dalla somma delle singole volontà particolari.

Seguendo la “volontà generale” si riesce a governare la politica attraverso


la “sovranità” che trova espressione nella “legge”. C’è un esplicito rifiuto
del principio di delega; la democrazia di Rousseau non è di tipo fiduciario
come in Locke od in MONTESQUIEU  ("Spirito delle leggi"), ma è di tipo
diretto, la sovranità non è divisibile e, pertanto, è separata dal governo che
ha come compito l’attuazione delle leggi e la difesa della libertà.

La forma di governo monarchica viene quindi irrimediabilmente


condannata e si propende, ritenendo impossibile una reale democrazia
diretta, per un modello di tipo “aristocratico elettivo” sul modello della
repubblica ginevrina in cui i governanti sono pochi, ma eletti dai cittadini i
quali possono esautorarli dal potere quando lo ritengano opportuno.

Con il “Contratto Sociale” Rousseau, per la prima volta nella storia della
filosofia politica moderna, descrive un ipotetico stato etico in cui impegna
la “volontà generale” ed in cui il contratto sociale è un patto dei cittadini
con loro stessi per giungere alla fondazione di una società di liberi ed
eguali in cui sia possibile una convivenza tra gli individui componenti.

La sicurezza e la libertà sono gli elementi costitutivi della nuova realtà


immaginata dal filosofo ginevrino: il loro perseguimento e la loro
conservazione sono gli obiettivi dell’uomo e della nuova comunità e
politica. Lo spirito di quanto detto nel “Contratto Sociale” ed in questo
capitolo è riassumibile con le parole dello stesso Rousseau: “Trovare una
forma di associazione che difenda e che protegga con tutta la forza
comune la persona ed i beni di ciascun associato; e per la quale ognuno,
unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti altrettanto
libero di prima”(4).

IL REGIME POLITICO IN ROUSSEAU


Una volta analizzato il pensiero politico del filosofo ginevrino è importante
individuare la realtà empirica alla quale Rousseau vuole applicare la
propria filosofia.

Appurato che il compito dello stato per Rousseau è preservare le


intrinseche libertà dell’uomo naturale e garantirne la sicurezza e
l’incolumità è importante vedere come si possa giungere a ciò dopo che
l’uomo ha abbandonato lo stato di natura e stipulato il contratto sociale.

Il “governo” è al servizio della volontà, ma non ne è il depositario, è un


organismo che si trova in posizione intermedia tra cittadini e governo. Il
governo decade ogni volta che il popolo si riunisce in assemblea. In tale
occasione cessa ogni potere del sovrano in quanto il popolo rievoca a sé
tutti i poteri per la conservazione del patto sociale.

L’autorità sovrana viene preservata e perpetuata grazie alla Costituzione


che, qualora sia valida ed in grado di mantenere l’equilibrio sovrano-
governo. Col termine “sovrano” si intende colui che riesce “nel far guidare
la forza comune dalla volontà generale”(5). Questi è, quindi, il depositario
del principio di sovranità che possiede due diversi attributi: inalienabilità
ed indivisibilità.

La sovranità non può essere alienata poiché essa è in stretta relazione con
un’altra realtà, per sua natura inalienabile: la volontà generale. Il sovrano
può essere rappresentato solamente da se stesso poiché è un essere
collettivo.

Per i medesimi motivi neppure la volontà generale e la sovranità possono


essere divise.

Una Costituzione in grado di assolvere ai propri compiti è quella che


costringe il governo ad adempiere al proprio compito primario:
l’applicazione delle leggi e soltanto delle leggi. Le leggi, infatti, sono
l’espressione diretta e più autentica della volontà generale.

E’ anche molto importante che le istituzioni politiche create dal popolo in


assemblea non rafforzino troppo la propria esistenza fino a non poter
essere sospese o mutate. Infatti leggi troppo rigide, non flessibili e non in
grado di adattarsi alle diverse realtà con le quali si troverebbe a contatto,
risultano essere pericolose e dannose.

Solo in casi eccezionali si può ricorrere a forme di particolare rigidità e


fermezza creando realtà politico-istituzionali definibili con il termine
“dittatura”.
In tal caso, anche se ciò può apparire paradossale se confrontato con ciò
che si è detto fino ad ora e con ciò che si può leggere nella prima parte del
“Contratto Sociale”, la volontà generale non è affatto intaccata poiché,
come ha scritto lo stesso Rousseau: “E’ evidente che il popolo vuole
innanzi tutto che lo Stato non perisca. A questo modo si sospende
l’attività legislativa senza abolirla; il magistrato che la fa tacere non può
farla parlare; la domina senza avere il potere di rappresentarla; può fare
tutto eccetto le leggi “(6).

Inoltre tale esperienza dittatoriale è, sull’esempio dell’antica Roma, un


evento che deve consumarsi in un breve lasso di tempo e non
prolungabile in modo che il dittatore, dovendo affrontare in breve tempo
l’emergenza, non possa fare futuri progetti personali di potere spinto dalle
proprie ambizioni.

La ricerca della migliore forma di governo deve essere compiuta tenendo


ben presente due principi fondamentali: la libertà viene meglio preservata
e difesa nelle comunità composte da un basso numero di individui poiché
in caso contrario si assiste ad un progressivo sganciamento delle singole
volontà particolari dalla più ampia volontà generale.

In secondo luogo bisogna tenere presente che quanto è maggiore il


numero dei governanti tanto è minore e più debole l’incisività risultante
dall’azione del governo poiché un tale esempio di governo deve
concentrare troppa parte della propria azione su se stesso non riuscendo,
così, ad avere abbastanza forza pubblica da impiegare in un’azione che
abbia ripercussioni tali da coinvolgere tutto il popolo.

Rousseau recupera una terminologia comprendente espressioni quali


monarchia, aristocrazia, democrazia e repubblica, o, per esprimersi
utilizzando un linguaggio più rigoroso, si deve parlare di governo
monarchico, di governo aristocratico e di governo democratico.

Tali forme di governo differiscono per quanto riguarda il luogo di


allocazione del “concetto di governo”: nel primo caso esso è nelle mani di
un solo magistrato, nel secondo di poche persone e nel terzo dell’intero
popolo.

Le forme di governo citate ed analizzate sono tutte legittime poiché


guidate dalla volontà generale e dalla legge che è espressione della già
citata volontà generale.

La democrazia viene vista come una forma di governo insufficiente in


quanto non è mai esistita realmente in nessun luogo poiché si tratta di un
governo adatto agli dei: “Un tale governo tanto perfetto non conviene agli
uomini”(7).

Nel Terzo libro del IV Capitolo “Contratto Sociale” col termine democrazia
si intende quella forma di governo in cui il popolo , in quanto corpo,
applica direttamente le leggi: c’è una palese unione tra legislativo ed
esecutivo.

Ciò è visto in maniera negativa poiché il popolo distoglie il proprio


interesse dalle idee generali per applicarlo alle necessità particolari in
quanto è venuta meno la distinzione tra sovrano e popolo: i due poteri
devono restare necessariamente divisi.

L’aristocrazia viene apprezzata nella sua accezione elettiva e condannata,


invece, nell’accezione ereditaria. Si assiste, quindi, ad una sorta di
governo dei migliori che, una volta posti alla guida dell’esecutivo, possono
occuparsi del governo guidando il popolo tenendo come obiettivo finale,
ovviamente, il massimo e supremo interesse del popolo medesimo.

L’aspetto negativo di tale forma di governo sta nel fatto che la volontà
generale può risultare mortificata a vantaggio della volontà di una sola
parte: i governanti.

L’ultima forma di governo, quella monarchica, viene apprezzata per la forte


vigoria che è in grado di esprimere, ma viene condannata in quanto può
divenire illegittima, ossia espressione della volontà particolare, cioè
dell’ambizione dei potere di un singolo.

E’ questo tipo di monarchia illegittima basata su un potere abusivo quella


tipica del dispotismo illuminato e del pensiero assolutistico.

Poiché nessuna di queste forme di governo è quella perfetta ci si interroga


come si debba scegliere il tipo di potere esecutivo che uno stato debba
adottare. Si è, quindi, alla ricerca di un nuovo criterio selettivo in campo
politico per creare l’organigramma di uno stato.

L’elemento che viene indicato dal filosofo ginevrino per raggiungere tale
meta non è affatto né nuovo né, tanto meno, innovativo; infatti si prende in
considerazione la dimensione dello stato analizzato.

Ritorna l’elemento “clima” analizzato e scelto come criterio discriminante


già da Montesquieu nella prima fase del periodo illuminista.

Per gli stati piccoli vanno bene governi democratici, per gli stati medi
quelli aristocratici e quelli monarchici per gli stati di grandi dimensioni.
Si torna, quindi, all’affermazione iniziale che può essere riassunta dicendo
che, per tentare di ottenere la miglior forma di governo possibile, il numero
dei governanti deve essere inversamente proporzionale al numero dei
governati.

Rousseau indica, inoltre, anche criterio che può essere utilizzato per
verificare la bontà di un regime politico: si avrà un buon governo in quelle
realtà nelle quali il popolo aumenta di numero senza bisogno di innesti ed
interventi esterni.

In questo capitolo è stata completata una breve analisi del pensiero


politico ed istituzionale di J.J.Rousseau; nei capitoli seguenti si cercherà
di vedere come lo stesso autore abbia cercato di applicare tali intuizioni
politologhe in due realtà empiriche reali: la Corsica e la Polonia.

 
Del “ Contratto Sociale” di Robert Derathè
 
Rousseau è più propriamente un moralista, ma egli stesso nell’ Emile ci dice che
"bisogna studiare la società attraverso gli uomini, gli uomini attraverso la società: chi
volesse trattare separatamente una politica della morale non capirebbe mai niente di
nessuna delle due".  R. Sostiene che l'uomo sia buono in natura e amante della
giustizia dell'ordine, ma di tendenza malvagio: è dunque da società a corrompere gli
uomini, proporzionatamente allo radunarsi. Nel Discorso sopra l'origine
dell’ineguaglianza il filosofo sostiene che la maggior parte dei nostri mali viene
dall'opera nostra e che avremmo evitati conservando il mondo di vivere semplice,
uniforme e solitario che c'era prescritto dalla natura. Ovviamente egli non vuole
cancellare la società e tornare ad uno stato di vita naturale, che ovviamente non ho
mai considerato la situazione dell'uomo isolato come una situazione reale.
L’immobilismo è uno stato di natura, che l’umanità supera con lo scatto
della perfettibilità, così però il tema della depravazione trova la sua consolazione nel
tema dell’elevazione: l’uomo isolato conserva i privilegi di benessere e pace rispetto
a quello di società, mentre quest’ultimo riesce a sviluppare “ le più sublimi facoltà e
mostra l’eccellenza della natura”.
Un altro tema però ci introduce al Contratto Sociale, quello dell’importanza delle
istituzioni politiche ( prefazione al Narcisse) , in cui R. si accorge che alcuni dei vizi
da lui analizzati per l’uomo sociale in realtà vengono per un uomo mal
governato….qui avremo il passaggio per francese dalla morale alla politica . Dunque
vediamo come il termine preciso istituzioni si sostituisce a quello di società. Il punto
chiave di questo passaggio è nell’introduzione al Narcisse:”Tutti quei vizi non
appartengono tanto all’uomo, quanto all’uomo mal governato”. Cos’ bisogna porsi il
problema del governare visto che un popolo sarà ciò che il suo governo lo farà essere.
Così R. decide di scrivere le Institutions Politiques, dove un R. legislatore si occupo,
innanzitutto dei popoli come governabili (indispensabili in questo caso saranno tutti
gli esempi sui popoli antichi; questo confronto gli permetterà di mostrare come le
istituzioni politiche valgono quanto gli uomini che esse avranno saputo formare. Gli
“uomini illustri” di Plutarco non sarebbero esistiti senza le sublimi istituzioni dei
popoli antichi, mentre gli uomini moderni devono in gran parte la loro corruzione alla
stoltezza e all’inettitudine delle loro istituzioni. Questo confronto è stato fatto
nel Discours sur les sciences et les arts mtre nel discours sur l’inegalitè il confronto
oppone l’uomo selvaggio a quello civilizzato.
Qui le istituzioni ad essere in possibilità di ricevere aiuto dal testo sono quelle
giovani o particolarmente meritevoli, o non troppo radicate nella perdizione di un
certo tipo di società (Polonia), ma anche per le altre è possibile salvare i loro
individui; a ciò vediamo molto legato L’Emile con le sue massime di educazione utili
per salvare dalla perdizione il cittadino mal governato.
 
 
Uno dei progetti maggiori della carriera filosofica di R. è  Istitutiones politiques 
opera di enorme respiro che egli stesso aveva auspicato come opera che gli avrebbe
dato la fama. La sua attività letteraria si disperderà costantemente, al contrario per
esempio di Montesquieu che riuscirà nell’ Esprit des lois proprio grazie alla sua
costanza di lavoro. L’opera fu concepita nel 1743-4, ma iniziò a prendere vita solo
nel 1754, mentre si potrebbe anche pensare che il manoscritto abbia avuto inizio a
Ginevra nel 1756. Alcuni dei suoi concetti nascono prima, ad esempio la sovranità di
cui rileviamo tracce già nella dedica introduttiva al Discours sur l’inegalitè. Le sue
idee nascono dalle letture e dalle esperienze; R. non è stato partecipe della vita
politica del suo stato nella sua epoca ma è stato un ottimo osservatore, di uomini e
istituzioni del suo tempo. Lo stampo dell’opera però è politico, dunque va preso in
considerazione il fatto che le letture di R. furono determinanti nella sua stesura: egli
citava spesso Platone ma conosceva anche Aristotele; tra i moderni era conoscitore di
Machiavelli, Bodin, Hobbes, Grozio, Pufendorf, Barbeyrac, Locke, oltre agli autori
contemporanei, tra cui spicca Montesquieu. Non denota nemmeno particolare rispetto
per i suoi predecessori, visto che li ingiuria quando li confuta e li passa sotto silenzio
quando utilizza loro pensieri.
 
 
III
 
I principi sono perfettamente chiari anche se l’argomentazione è a volte difficile da
seguire:
1.     Nessun uomo ha l’autorità naturale sul proprio simile. Ne consegue che
nessuna autorità può essere legittima, se è istituita o se viene esercitata senza il
consenso di coloro che vi sono sottomessi.
2.     L’autorità (sovranità) politica risiede essenzialmente nel popolo. Essa è
inalienabile e il popolo non può affidarne l’esercizio a nessuno. Il singolo che
rinunci alla sua libertà, rinuncia nello stesso tempo alla sua qualità di uomo.
Così, un popolo che rinunci all’esercizio della sovranità con un patto di
sottomissione, si annulla con quest’atto; ci sarebbero solo un padrone e degli
schiavi. Le leggi sono l’espressione della volontà generale, e quando un uomo
sostituisce la sua volontà a quella di un popolo, non c’è più un’autorità
legittima ,ma un potere arbitrario. Poiché la legge non è che la dichiarazione
della volontà generale, è chiaro che, nel potere legislativo, il popolo non può
essere rappresentato.
3.     Il governo o l’amministrazione dello Stato è solo un potère subordinato al
potere sovrano ed è, nelle mani di coloro che lo detengono, un semplice
mandato. Il governo cerca costantemente di sottrarsi all’autorità legislativa e
tende a sostituire la propria volontà a quella del popolo nella amministrazione
dello Stato. Quando ci riesce il patto sociale è infranto, ed i cittadini sono
costretti, ma non obbligati ad obbedire.
La monarchia di cui parla R. lascia sovrano il popolo , dunque il potere del re è quello
di far rispettare la volontà del popolo, dunque, la forma di governo appare più simile
ad una democrazia che ad una monarchia. Egli è però il primo a rifiutare la sovranità
del re. L’unico governo sano per R. è la democrazia spesso accompagnata dal nome
di repubblica, mentre dove il re ricoprirà ancora cariche pubbliche non si rassegnerà
mai a far esercitare le leggi, ma tenterà sempre di togliere la sovranità al popolo ed
esercitarla a suo profitto.
Il cittadino resta libero se si sottomette alla volontà generale, che è anche la sua. Ciò
è possibile solo se il cittadino fa astrazione dal suo io individuale per integrarsi
totalmente nella città. La volontà generale esiste solo in uno stato composto di
cittadini: non esiste nella monarchia, dove ci sono sudditi. Da qui la necessità per il
legislatore di trasformar l’uomo in cittadino attraverso l’educazione pubblica, di
“darlo interamente allo Stato”.
 
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