La riflessione filosofica moderna inizia a porre la sua attenzione sulla sfera
politica a partire dalla metà del XVII secolo circa, quando autori come Baruch Spinoza e Thomas Hobbes danno alle stampe, rispettivamente nel 1670 e nel 1651, il Trattato teologico-politico e il Leviatano. Iniziamo dal primo. Spinoza fu uno strenuo difensore dello Stato di diritto che egli ricostruì teoreticamente partendo da presupposti molto vicini a quelli di Thomas Hobbes. Egli parla, infatti, di diritto e di leggi naturali, nel senso che ogni individuo è per natura determinato a esistere e a operare in un certo modo, e che questo comportamento è necessario. Analogamente, data la loro costituzione, gli uomini, soggetti a passioni e ire, sono nemici per natura. Ma per il desiderio di vivere e di essere il più possibile al riparo da continui conflitti, gli uomini stipulano il patto sociale. Tanto più che, senza il reciproco aiuto, essi non potrebbero vivere agevolmente né coltivare il loro spirito. Il patto sociale, dunque, trae origine dall’utilità che ne consegue e su di essa si fonda. Tuttavia, lo Stato cui vengono trasferiti i diritti nella costituzione del patto sociale non potrà essere lo Stato assolutistico, di cui parla Hobbes, come vedremo. Alcuni diritti sono inalienabili, perché rinunciando a essi l’uomo rinuncia a essere uomo. Il fine dello Stato non è la tirannide, ma la libertà e il fatto che proprio il filosofo dell’assoluta necessità metafisica si presenti come il teorico della libertà politica e religiosa risulta un’aporia assai significativa. Tuttavia, la difesa della libertà religiosa e dello Stato liberale ha radici esistenziali: bandito dalla comunità degli Ebrei e privo di agganci di ogni genere, non restava a Spinoza se non quello Stato che gli permetteva la libertà di vivere e pensare; ed è proprio quello Stato che egli volle teorizzare. Anzi, potremmo dire che, paradossalmente, proprio e solo in quello Stato che garantiva piena libertà egli poté pensare il sistema dell’assoluta necessità.
Passiamo al Leviatano. Hobbes è un autorevole esponente del contrattualismo,
della concezione politica che dominerà il pensiero moderno fino a Kant, per la quale lo Stato nasce da un contratto fra gli individui. E tuttavia il corpo sociale si può tenere insieme soltanto se c’è un potere coercitivo capace di far rispettare i patti. Questo potere è concentrato nelle mani del sovrano, egli non deve dar conto né a Dio, né agli uomini di come esercita il suo potere assoluto, quando contraggono il patto di unione gli individui rinunciano ai propri diritti su tutto, ma il sovrano non compie questa rinuncia e quindi detiene per natura il diritto su tutto. Tale detentore di potere assoluto è il Leviatano che simboleggia la forza dello Stato cui nessun individuo o gruppo di individui può opporre resistenza. Lo Stato-Leviatano agisce per conto di tutti, il suo fine è la difesa della pace interna e il mantenimento dell’ordine. Persino la religione del cittadino è guidata dal sovrano, vi è infatti una religione di Stato cui è dovuto ossequio pubblico. E dunque, secondo Hobbes, è necessario che l’uomo esca dallo stato di natura nel quale non è certamente garantito il diritto; e tuttavia è anche vero che in questo modo la volontà particolare è assoggettata a quella generale, e che si pongono le basi per la nascita dello Stato del dispotismo perfetto dove la legge non è più l’arbitrio di uno solo ma non è neppure la condivisione di un comune sentire, poiché laddove si pensa di agire anche per gli altri non vi è più legge ma solo inganno. Sono queste, dunque, le premesse filosofiche del pensiero moderno sulla riflessione politica, entrambe si ebbero nel bel mezzo del Seicento, secolo ambiguo e contraddittorio per eccellenza. Sarà poi il secolo dei lumi, il Settecento, a raccogliere questa eredità e ad illuminarla con la fede nella ragione, una ragione tollerante che vedrà nella politica e nella religione gli strumenti indispensabili per l’emancipazione dell’essere umano come essere morale e sociale.