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SCIENZA POLITICA

La politica è importante perché può fare la differenza in questioni estremamente rilevanti, come
tra pace e guerra, tra libertà e oppressione, tra giustizia ed ingiustizia. La politica cerca infatti di
risolvere le controversie tra comunità senza ricorrere alla guerra.

DEFINIZIONI FILOSOFICHE DI POLITICA

ARISTOTELE: Introduzione al pensiero politico classico

Nel pensiero classico c’è una distinzione tra il piano descrittivo e il piano prescrittivo: per gli antichi
greci, fare politica significava “descrivere”, cioè spiegare come è organizzata la realtà della “polis”
per cercare di migliorarla. Una domanda che i filosofi antichi si ponevano era: “qual è la miglior
forma di governo?”. Di conseguenza, l’analisi filosofica classica era positiva perché volta a
migliorare le città. Secondo i classici, politica e morale sono perfettamente in sintonia: una buona
azione politica è una buona azione morale. Per Aristotele, la “polis” è un’“organizzazione
orizzontale”, cioè si basa sulla partecipazione diretta dei cittadini. Nell’Atene classica, la società e
la politica erano la stessa cosa. Lo spazio riservato ai cittadini che partecipavano alla politica era lo
stesso di quello di chi prende le decisioni, mentre oggi c’è una distinzione tra società civile e
politica.

Il “corpus” letterario di Aristotele comprende anche opere di politica (“Politica”, “Etica


Nicomachea”), in cui, come lui stesso afferma, scrive di “cose politiche”, ovvero di tutto ciò che
riguarda la “polis” e che conviene alla comunità. Aristotele fa una distinzione fra le cose che
avvengono sulla Terra e quelle che avvengono in Cielo: la politica è una delle principali attività
legate alle “cose terrestri”. Le “cose politiche” sono tutte quelle che riguardano la gestione della
“cosa pubblica”, e rientrano nella filosofia che studia le “cose umane”, le quali, per Aristotele,
sono confuse e complicate e si realizzano in tre aspetti principali:

- Organizzazione della società: riguarda chi ha il potere e come lo esercita.

- Analisi dei costumi di una società: capire quali cose una società considera nobili e quali
sono i suoi valori.

- Individui: come fare perché gli individui diventino buoni cittadini, cioè trovare la forma
sociale che permetta loro di realizzarsi.

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Dalle “cose politiche” emerge una chiara visione di Aristotele di come funzionano le comunità: egli
dice che l’uomo è fatto apposta per vivere in comunità, ed afferma che esistono tre tipi di
comunità:

- Famiglia: ogni uomo aspira a trovare un partner con l’obiettivo di sopravvivere.

- Villaggio: più famiglie si uniscono in un villaggio per sopravvivere al meglio.

- Polis: più villaggi danno luogo alla “polis”, la “città-Stato”.

Questi sono i tre livelli di associazione umana. Infatti, per Aristotele, l’uomo è un “animale
sociale”, cioè è dotato di istinti che lo portano a vivere pacificamente insieme agli altri per poter
sopravvivere (egli dice che chi non fa parte di una comunità, o ne è al di sopra, ma solo gli Dei lo
sono, o ne è al di sotto, e quindi è una bestia).

La politica quindi, nella visione di Aristotele, rappresenta ordine e pace. Egli riconosce che per
gestire i rapporti all’interno di una comunità c’è bisogno di una “dialettica del potere”. Aristotele
dice che ci sono 3 tipi di potere:

- Potere paterno: si ha all’interno della famiglia, dove il padre comanda. È un potere


legittimato dalla natura, poiché il padre non comanda per realizzare i proprio interessi, ma
quelli dei suoi figli.

- Potere dispotico: si può avere all’interno della famiglia, del villaggio e della “polis”. È un
potere che lega uno schiavo ad un padrone, il quale esercita il suo potere mediante la
minaccia di un castigo, e lo fa per realizzare i propri interessi, motivo per cui non è un
potere legittimato. Si può trovare anche in un tipo di regime che agisce solo per se stesso e
non per gli interessi del popolo.

- Potere politico: si può trovare all’interno della “polis”, poiché ne regola le questioni al suo
interno. È un potere legittimato, poiché avviene per consenso di chi ritiene opportuno
affidarlo a qualcuno.

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Dal momento che la politica è una cosa naturale che rientra in tutti i tipi di comunità, e che è
“pacifica”, essa serve al fine più elevato, serve per dare a tutti gli individui la possibilità di pensare
(che per Aristotele è l’attività che più avvicina l’uomo agli Dei), cioè serve al bene comune.

HOBBES: “Il Leviatano” e la Guerra dei Trent’anni

Hobbes scrive qualche anno dopo la Guerra dei Trent’anni (definita dal filosofo come “un male che
non deve ripetersi”), la cui fine è sancita dalla pace di Vestfalia del 1648. Il 1648 sancisce anche
l’inizio del sistema dello Stato moderno, che è una forma politica diversa da quelle precedenti.
Hobbes dice che è proprio in funzione di quelle differenze tra forme politiche e religiose che ebbe
origine la guerra. Quindi, per Hobbes, bisogna trovare un rimedio a tutto ciò: applica perciò
l’espressione “cuius regio, eius religio” (è il sovrano a decidere la confessione religiosa a cui la
popolazione deve adattarsi), che in senso lato implica l’inviolabilità del principio di sovranità. La
sua opera “Il Leviatano” è la giustificazione teorica del principio di sovranità, che è ciò che
contraddistingue lo Stato moderno dagli Stati-nazione del passato. Hobbes dice che inizialmente
gli uomini vivevano in uno “stato di natura”, che era una situazione paradossale, perché se da una
parte si godeva di una libertà estrema, dall’altra c’era la spiacevolezza della costante
preoccupazione per la propria sicurezza (se chiunque può fare ciò che vuole, allora ci si può anche
uccidere). Per Hobbes, è nella natura dell’uomo essere spregevoli (antropologia negativa). Infatti
egli dice che il primo istinto dell’uomo è sopravvivere, quindi si insediano in lui sospetto e
diffidenza verso tutti. Il secondo istinto dell’uomo è il guadagno, che è un istinto che non verrà mai
soddisfatto, poiché più cose l’uomo ha, più ne vorrebbe. Il terzo istinto è la gloria, cioè il desiderio
di essere rispettato e stimato. Questi istinti creano competizione fra gli uomini, e questa situazione
naturale non è bilanciata né frenata da alcuna legge. Secondo Hobbes, Dio ha dato all’uomo solo
alcuni imperativi morali (es: ricercare la pace), ma non funzionano perché non c’è nessuno in
grado di farli rispettare.

A differenza di quanto diceva Aristotele, Hobbes dice che nello stato di natura tutti gli uomini sono
uguali (mentre per il filosofo greco ogni uomo nasce per natura guerriero, schiavo, ecc..), cioè
hanno tutti gli stessi diritti e le stesse facoltà, ragion per cui, secondo la visione negativa che
Hobbes ha della natura umana, chiunque può sopraffare un altro per i propri interessi. Da questa
antropologia negativa deriva quindi la necessità di uscire dallo stato di natura, nel quale, per
Hobbes, non c’è una contrapposizione tra bene e male o lecito ed illecito, cioè non esiste qualcosa
che sia bene per natura. Per avere una morale quindi, l’unica soluzione è abbandonare lo stato di

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natura, e lo si può fare con il Leviatano, che rappresenta lo Stato: gli uomini sottoscrivono un patto
di unione in cui dicono di costruire un artificio per poter sopravvivere, e rinunciano a parte della
propria libertà, quella di poter possedere qualsiasi cosa. Questo crea differenza tra pubblico e
privato, poiché gli individui si ritagliano così il loro spazio privato, cedendo parte della loro libertà
al Leviatano (lo Stato), perché possa, grazie alla sua forza, porre fine all’anarchia. Per Hobbes
quindi, la politica serve per promuovere la pace e l’ordine. Tuttavia, se gli individui sono così deboli
e lo Stato così forte, si potrebbe pensare che essi siano in un rapporto di sottomissione nei
confronti dello Stato. Questo problema viene risolto con il principio di rappresentanza: gli individui
non sono sottomessi allo Stato, poiché essi hanno sottoscritto un patto di unione e non di
sottomissione, ragion per cui il Leviatano, ovvero lo Stato, opererà per gli interessi degli individui.
La politica è quindi, nella visione di Hobbes, lo strumento di pacificazione delle relazioni,
strumento che richiede però sacrificio.

MACHIAVELLI: “Il Principe” e “I Discorsi”

Machiavelli definisce la figura del Principe come una “scorciatoia” per fare politica, è un “male
necessario”. Machiavelli dice che l’umanità, in alcuni momenti, è vittima della decadenza dei
costumi. Il problema delle “cose umane” è che in esse tutto è caos, non c’è un ordine. Egli dice che
solo il Principe può trovare una soluzione alla condizione di corruzione e decadenza in cui versa lo
Stato. Il modo in cui lo Stato può ritrovare l’ordine e riacquisire la propria virtù sta nelle armi. Il
Principe deve infatti guardarsi dai pericoli interni ed esterni per poter riportare l’ordine nello
Stato, e deve capire che tipo di armi utilizzare. Machiavelli dice che esistono tre tipi di armi:

- Mercenari: sono incapaci e pusillanimi, se il Principe si affida a loro è un vile.

- Truppe ausiliarie: truppe prese in prestito da un altro Signore, ma se il Principe ricorre alle
truppe di un altro, ne diventa poi dipendente.

- Armi proprie: il bravo Principe deve armare i propri cittadini, poiché, dice Machiavelli,
questo dà loro la possibilità di combattere per quello in cui credono, cioè gli permette di
realizzarsi.

Combattendo, un cittadino agisce per se stesso, per difendere la propria famiglia e le proprie
ricchezze, ma, oltre agli interessi personali, combatte anche per una causa più nobile, cioè la

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propria patria. Attraverso il combattimento si realizza la virtù, e così facendo si fa grande lo Stato.
Secondo Machiavelli, l’importanza delle armi è uguale a quella delle leggi. Per Machiavelli, se lo
Stato non ha le armi non sarà mai libero, ma solo se possiede le armi potrà far valere i propri diritti
ed esercitare la virtù, che è espressione di buona politica.

Quindi, nella visione di Machiavelli, la politica è “polemofila”, cioè abbraccia la guerra e la


ritiene l’attività principale dello Stato. Questa visione ritorna anche nei momenti rivoluzionari:
Napoleone, per esempio, può essere considerato la realizzazione del Principe di Machiavelli,
poiché tenta di porre fine alla decadenza dello Stati attraverso le armi.

COSA É LA POLITICA?

La politica si presenta in una varietà di forme e componenti. La complessità della politica


comporta, per poterla analizzare, una riduzione di tutte le sue componenti. Come si fa a ridurre
questa complessità della politica? Bisogna darne una “definizione empirica”, cioè basata sulla
realtà, cercando di cogliere quelle componenti che sono presenti in tutte le manifestazioni della
politica. Si deve vedere quindi quali sono le caratteristiche necessarie perché un’azione possa
definirsi politica. Una definizione empirica, perché sia valida, necessita anche di chiari confini, cioè
deve avere ben chiaro che cosa resta fuori dalla politica. Per fare tutto ciò, occorre un “approccio
politologico”.

APPROCCIO POLITOLOGICO

Serve a definire cosa è la politica. L’approccio politologico risponde a quattro quesiti:

- CHI?: gli attori coinvolti nei processi politici, cioè i politici di professione. C’è tuttavia un
problema, perché l’idea di politica di professione non è facilmente osservabile dal punto di
vista empirico (ci sono politici i cui interessi o compiti sfociano anche in altri ambiti, per
esempio economici). Il ruolo del politico è quindi quello di mediare alle differenze nei vari
ambiti che possono esserci nella politica. Quindi è fuorviante definire la politica solamente
in base a chi fa politica, anche se, così facendo, si possono distinguere diverse forme di
politica (es: teocratiche, tecniche).

- COME?: le modalità d’esecuzione della politica, cioè le regole e i criteri di comportamento


che valgono in politica e non in altri ambiti. La prima caratteristica propria del processo
politico è che esso deve essere basato sul dialogo, non sulla violenza, quindi tutti coloro

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che sono coinvolti nella politica devono cooperare pacificamente (tuttavia, nei rapporti fra
Stati è più difficile che si vengano a creare rapporti basati sulla cooperazione e sulla pace).
Un'altra caratteristica del processo politico è l’autorità, ovvero in politica c’è chi comanda e
chi ubbidisce (vedi Hobbes, che nel “Leviatano” dice che in politica ci sono due livelli
diversi, ma non un rapporto di sudditanza). In politica ci sono quindi governanti e
governati, dove chi governa ha però dei limiti. C’è una forma di scambio, poiché chi
governa deve dare qualcosa a chi è governato, pur restando il principio di autorità
(rapporto verticale). In politica, il fine ultimo è volto al bene comune, cioè il processo
politico deve essere volto al bene di tutti, senza massimizzare l’utile soggettivo di alcuni.
Bisogna trovare soluzioni nell’interesse di tutti (perché la politica è “res publica”). Tuttavia,
la realtà non è così, poiché nei vari processi (es: tassazione) si viene per forza incontro agli
interessi di qualcuno, ma non potrebbe essere altrimenti. Le decisioni in ambito politico
sono prese da una collettività di persone (es: Parlamento, Consiglio dei ministri), e quando
le decisioni sono prese da uno solo, costui deve avere il consenso di un’assemblea, quindi
non sono decisioni indipendenti ma coinvolgono anche altri. C’è quindi il principio di
pluralismo e non quello di monismo nelle decisioni politiche. Nelle varie manifestazioni
della politica ci sono però dei processi diversi che non dovrebbero appartenere
propriamente alla politica, come quelli di violenza (es: Primavere arabe). In questi processi
si può notare come la politica si ponga quasi all’intersezione fra ambiti diversi. Un processo
fondamentale della politica è il fatto che questa sia volta alla ricerca del potere, mezzo che
rende la politica diversa da altri ambiti. Si può vedere che in ogni collettività ci sia un
aspetto di ricerca del potere. In politica si ha una definizione del potere molto precisa, cioè
esso è definito da una serie di caratteristiche. Il potere è una serie di strumenti e capacità
(es: potere economico). Il potere è anche la capacità di un attore di modificare il
comportamento di un altro. Un’altra caratteristica del potere in politica è che esso si basa
su “risorse di coercizione” (o coazione), ovvero la minaccia di una ritorsione per ottenere
un determinato comportamento e per fare sì che questo potere possa perdurare nel
tempo. Infatti nella politica ci si aspetta che una classe di dominanti possa esercitare il
potere per un tempo indeterminato. Quello che il processo politico mira a ottenere è una
conformità garantita, ovvero che chi ubbidisce ubbidisca sempre. Ma chi comanda non
comanda solo perché minaccia con ritorsioni, ma perché riesce ad ottenere un consenso

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quindi il potere politico non si basa solo sulla “potestas” ma anche sulla “auctoritas”.
L’autorità è quell’elemento che rende il potere legittimo (l’azione consensuale, per chi la
impone, comporta costi molto più bassi). Il problema di ogni leader è sempre stato quello
di ricercare l’autorità. Un sociologo tedesco, Max Weber, dice che nella storia si sono
realizzati tre diversi tipi di autorità: autorità carismatica, basata sul carisma e non sulla
minaccia. É la convinzione (non importa se fondata oppure no) per cui il leader è dotato di
qualità straordinarie. Si ritiene quindi un’autorità legittima perché basata sull’eccezionalità.
Il leader realizza le sue politiche attraverso un apparato amministrativo, che egli sceglie fra
i suoi discepoli più fedeli. Questo tipo di autorità è quindi tipica di forme autoritarie. C’è poi
l’autorità tradizionale, basata sulla tradizione, ovvero legittimata dal fatto che da sempre si
è fatto in un certo modo. È quella delle dinastie. L’amministrazione di questa autorità è
scelta dal sovrano fra i suoi servitori. C’è l’autorità legale, basata sulla legge e da essa
legittimata. Chi comanda rispetta delle regole e delle procedure, per questo è l’autorità
tipica delle democrazie. L’amministrazione del potere legale si basa sulla burocrazia,
elemento imprescindibile non solo dello Stato, ma di tutto il processo democratico. Chi
comanda esercita quindi il potere non grazie a persone scelte perché fedeli al potere
politico, ma perché in grado di applicare la legge.

- DOVE?: il dove della politica è una collettività, cosa che pone una differenza rispetto
all’economia, in cui il fulcro dell’azione è uno scambio. È importante che questa collettività
sia ben definita, altra differenza con l’economia, dove si parla di soggetti (es: consumatore,
produttore) che non hanno un’identità e una collocazione precisa. È importante infatti
anche il fattore dell’identità, poiché una comunità politica si definisce non solo in base al
luogo geografico, ma anche a come le persone si definiscono parte di un gruppo. Nello
Stato ci sono dei confini ben precisi, considerati sacri e inviolabili, cosa che denota una
sostanziale ipocrisia di fondo, ovvero che il dove della politica non è la collettività, ma lo
Stato. Tuttavia non è sempre così, perché a volte lo Stato non è sufficiente per definire il
dove della politica (es: Stati multietnici). Lo Stato ha quindi bisogno di collanti per tenere
uniti i diversi gruppi al suo interno (es: religione, lingua, storia), collanti che spesso non
durano molto.

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- PERCHÉ?: gli obiettivi della politica. Nonostante esista una grande varietà di obiettivi della
politica, si può attribuire un obiettivo comune all’interno di ogni tipo di collettività, cioè
l’ordine, che è a sua volta il mezzo per raggiungere altri fini. Un’entità politica ha quindi la
responsabilità di mantenere l’ordine pacifico. La politica cerca di risolvere questo problema
organizzando una collettività e costituendo al suo interno un’autorità che si assuma
istituzionalmente la responsabilità di mantenere l’ordine. Così facendo, la politica crea una
forma di coesione e di identità collettiva, ma al contempo anche una forte separazione
verso l’esterno, ovvero verso coloro che non fanno parte della stessa collettività. L’ordine
come fine comune e caratterizzante della politica ha una caratteristica precisa, quella di
non essere un fine ultimo (se non per certe ideologie), ma un “fine intermedio” in vista di
altri obiettivi. Ad esso è legata la possibilità di prendere decisioni per la collettività,
decisioni le quali hanno particolari conseguenze per la collettività stessa, cosa che dà dei
contenuti multiformi alla politica.

Delineati questi quattro quesiti, è possibile giungere ad una definizione di politica: essa è
l’insieme di attività, svolte da uno o più soggetti individuali o collettivi, caratterizzate da
comando, potere e conflitto, ma anche da partecipazione, cooperazione e consenso, inerenti al
funzionamento della collettività umana alla quale compete la responsabilità primaria del
controllo della violenza e della distribuzione al suo interno di costi e benefici, materiali e non.
Più sinteticamente si può dire che la politica è la gestione delle cose pubbliche attraverso lo
strumento del comando e dell’obbedienza (potere).

LA TRE FACCE DELLA POLITICA

POLITICA COME “POLITICS”

La “politics” è lo studio dei rapporti che intercorrono tra gli attori politici. Studiando la “politics” si
cerca di osservare chi comanda chi e con che potere, è quindi lo studio del potere. Ci si pongono
diversi quesiti sul potere, come la sua natura (forme, risorse, legittimità), la sua distribuzione (chi
ce l’ha e chi no), i suoi limiti e le sue modalità di esercizio. Ci sono due filoni di studio:

- I regimi politici: quali sono le regole di funzionamento dello Stato (ordinamento


costituzionale). I regimi politici sono di lunga durata perché funzionano attraverso
meccanismi complessi (il più importante è la Costituzione, che stabilisce quali sono le
regole della vita politica). Le regole del regime politico ne cambiano le modalità di accesso

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e i limiti, per questo, solitamente, tutto ciò che riguarda il regime è statico, cioè si modifica
ma in modo lento.

- Gli attori e i processi: i principali attori politici (i partiti) e i fenomeni che vengono
dall’azione dei soggetti politici. Gli attori politici sono mutevoli.

POLITICA COME “POLITY”

La “polity” è costituita dalla comunità politica che si distingue come parte di un tutto. È l’identità di
una comunità politica. Ci sono diverse identità:

- Identità nazionale: l’idea di nazione è un costrutto mentale che serve semplicemente per
trovare degli elementi di affinità, non è basata su elementi genetici o storici. L’idea di
nazionalismo è che chi appartiene ad una nazione deve appartenere ad uno Stato.

- Identità religiosa: in uno Stato possono esserci diverse religioni.

- Identità linguistica: la lingua parlata.

- Identità etnica: i tratti somatici, che non possono essere cambiati (a differenza di quanto
può avvenire, per esempio, con la religione e la lingua).

Quindi nella “polity” esistono diversi princìpi, a volte incoerenti. Ci sono tuttavia delle “polity” con
eccezioni, che possono essere multinazionali e multilivello (diverse “polity” all’interno di una
nazione).

Per una comunità unita è importante stabilire dove ci si trova, cioè i propri confini (sacri e
inviolabili). I confini sono quindi allo stesso tempo una parte costitutiva e simbolica della “polity”:
essi rappresentano un valore, qualcosa che non si può toccare (se uno Stato vìola i confini di un
altro è una dichiarazione di guerra). Per quanto riguarda i confini, esistono delle restrizioni, ovvero
non c’è libertà di movimento attraverso i confini.

Nella “polity” c’è poi un’analisi che mette in mostra due prospettive:

- Prospettiva statica: come una nazione si presenta quando non sono in atto cambiamenti.

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- Prospettiva dinamica: cambiamenti degli aspetti interni o esterni di una nazione
(unificazione o collasso di una comunità).

Nella “polity” è importante lo Stato. Guardando la carta politica del mondo vediamo che
quest’ultimo è diviso in 192 Stati, con pochissime parti nel globo ancora all’esterno di questi,
quindi si vede quanto sia importante il concetto di Stato. Inoltre, quando c’è una questione a
livello internazionale, gli Stati tentano di trovare una soluzione. Dello Stato esistono diverse
definizioni:

- Lo Stato è la più alta espressione di potere politico (potere basato sull’obbedienza).

- Lo Stato è l’istituzione che detiene il monopolio legittimo della forza.

- Lo Stato è arbitro di ultima istanza nella risoluzione pacifica delle controversie al suo
interno (cosa che non riesce a fare nelle controversie internazionali, perché nessuno Stato
è superiore ad un altro).

- Lo Stato è un’organizzazione che controlla la popolazione su un dato territorio.

Da queste definizioni di Stato ne derivano quattro caratteristiche:

- Lo Stato è diverso da tutte le altre organizzazioni, ma è “superiore” ad esse: lo Stato si dà


una prerogativa, cioè quella di occuparsi delle questioni politiche, infatti solo lo Stato è
preposto alle istituzioni della politica.

- Lo Stato è autonomo, quindi sovrano: sovranità significa che capacità e legittimità di azione
non dipendono da nessun’altra fonte esterna. All’interno di uno Stato vige infatti il
principio di sovranità (che da circa vent’anni è “frenato” dal principio di tutela dei diritti
umani).

- Lo Stato è centralizzato: la pubblica amministrazione si basa sul principio di gerarchia


(anche se c’è una varietà di componenti dislocati in posti diversi e tutti organizzati in base
ad un principio di fedeltà comune).

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- Lo Stato prevede che tutte le sue componenti siano tra loro coordinate.

POLITICA COME “POLICY”

Una “policy” (politica pubblica) è una decisione presa nell’ambito della politica e che ha degli
effetti sulla società. Ci sono molte varietà di politiche pubbliche, come per esempio:

- Ambrogini d’oro: è un riconoscimento di Milano.

- Riforma delle pensioni: stabilisce in base a quale principio un lavoratore accumula un


capitale necessario per usufruire della pensione e a quale età potrà usufruirne.

- Pesca delle sardine: stabilisce chi ha accesso a questa risorsa.

- NATO: insieme di politiche di sicurezza.

Quando si parla delle politiche pubbliche, si distinguono quattro aspetti in cui esse si realizzano:

- Distribuzione costi-benefici: chi ci guadagna e chi ci rimette.

- Fasi del processo decisionale: come e in quanto tempo viene realizzata una politica
pubblica per risolvere un problema.

- Attori coinvolti e loro relazioni: gruppi di interesse diversi possono giungere ad un


compromesso.

- Processo di implementazione: consiste nella realizzazione pratica di una politica pubblica


da parte della burocrazia.

IL FUTURO DELLA POLITICA

Negli ultimi 200 anni si sono sviluppate delle tendenze di cambiamento e delle sfide future per la
politica:

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- A livello di “politics”: come e dove si diffondono i regimi democratici. Tuttavia le
democrazie non sono semplicemente un punto di arrivo, ma, una volta che si è raggiunto
questo “status”, c’è bisogno di un consolidamento.

- A livello di “polity”: lo Stato-nazione come pilastro di unità della “polity” lo si trova nel
‘900. L’integrazione sovranazionale, cioè l’accettazione da parte degli Stati che la propria
sovranità sia legata a qualcuno più in alto. Le spinte autonomiste mirano a disgregare uno
Stato e a crearne uno nuovo, motivo per cui devono essere frenate.

- A livello di “policy”: il “Welfare state” (“Stato del benessere”, cioè l’incremento del ruolo
dello Stato nell’ambito sociale) e lo “Stato interventista” (Stato che nella sua forma
originale si preoccupava di poche questioni, come fare o non fare la guerra. Recentemente
invece si dedica ad attività di tipo economico e commerciale). Da metà degli anni ’90 si è
cominciato a notare che lo Stato non funziona quando agisce in campo economico, poiché
in quell’ambito ci sono già le imprese, quindi c’è una sorta di “sfida al mercato” da parte
dello Stato.

COSA É E COME SI FA LA SCIENZA

La Scienza politica è un modo per conoscere, cioè spiegare (dare rapporti di causa-effetto) la
politica così come è, cercando di darle un senso (mentre la filosofia politica è quella disciplina che
ci spiega come dovrebbe funzionare la politica). Nel fare ciò, si cerca di generalizzare, cioè di
trovare delle affermazioni che siano valide in più situazioni. Nello studiare il perché delle decisioni
politiche bisogna organizzare il sapere in teorie, tenendo però presente che la scienza politica non
arriva quasi mai a conclusioni valide in ogni caso.

LA RICERCA IN SCIENZA POLITICA

Per fare ricerca in Scienza politica ci sono diversi punti:

1) Formulazione del quesito di ricerca: chiedersi quale è l’oggetto, la cosa concreta che
bisogna studiare. Di questo oggetto, quale è la domanda, il suo perché.

2) Trattare i fenomeni empirici: c’è bisogno di una serie di artifici, come i concetti empirici,
l’operazionalizzazione , le classificazioni e le tipologie.

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3) Raccolta dei dati e relazioni tra variabili: è un’operazione di descrizione dei dati (per
esempio il numero dei partiti e la loro stabilità).

4) Controllo empirico: quali sono le tecniche applicabili per verificare se sono attuabili in
pratica i dati raccolti.

1) FORMULAZIONE DEL QUESITO DI RICERCA

Per individuare e formulare l’oggetto della ricerca ci sono diversi criteri:

- Attenzione e interesse per il problema: i valori e gli atteggiamenti di fondo sul tema scelto
da parte del ricercatore. Il tutto va però compiuto senza fare connessioni logiche (es: se la
spesa pubblica per la sanità è elevata, allora è buona  connessione logica da evitare).

- Rilevanza del tema: una ricerca è rilevante quando l’oggetto in questione riguarda la
comunità e quando grazie ad essa si può fornire qualche prescrizione, cioè suggerimenti,
per il funzionamento delle “policy”.

- Letteratura esistente: vedere le risposte date in passato per evitare di dare risposte banali
che possono sbarrare la strada.

- Formulazione precisa della domanda: la necessità che venga data una formulazione chiara
del quesito.

- Controllabilità empirica: possibilità di controllare che la formulazione del quesito sia


empiricamente analizzabile fino a giungere a delle spiegazioni controllabili del fenomeno.

2) TRATTARE I FENOMENI EMPIRICI

I CONCETTI EMPIRICI

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I concetti empirici hanno degli elementi: il termine, il significato (spiegazione del contenuto
espressa attraverso una definizione) e il referente empirico (oggetto la cui essenza viene catturata
dal significato e dal termine). Tra questi tre elementi deve esserci un rapporto univoco. Prendiamo
in esempio il partito: abbiamo i referenti empirici (vediamo quali sono i partiti) e i termini (es:
partito politico), dobbiamo trovare un significato, che vede il partito come “una coalizione di
individui che hanno come obiettivo competere per assumere posizioni di potere”. Il partito deve
però anche seguire il progetto legale all’interno dell’ordine costituito. Un altro esempio, il
terrorismo: è un fenomeno empirico (lo vediamo ancora oggi), ma è difficile definirlo. Possiamo
dire che il terrorismo è l’uso premeditato della violenza per perseguire obiettivi politici, ma allora
qualsiasi guerra sarebbe un atto di terrorismo, quindi bisogna aggiungere che è una violenza che
sfrutta l’effetto psicologico. Ma anche questo non è sufficiente, quindi si può aggiungere una terza
classificazione, cioè si può definire il terrorismo come l’uso della violenza che sfrutta l’effetto
psicologico e attuato da organizzazioni criminali. Tuttavia vedremo che non basta ancora, perché si
escluderebbe il terrorismo di Stato (terrorismo applicato da agenzie dello Stato) e le persone che
agiscono da sole. La definizione di terrorismo deve quindi comprendere violenza e effetto
psicologico: bisogna però stare attenti ad evitare l’ambiguità, che si ha quando non c’è un
rapporto univoco tra significato e termine (es: con un termine solo magari si usano due significati
diversi o si usano due termini per un solo significato, cioè i sinonimi, come per esempio chiamare
rivoltosi o eroi o insorti coloro che reagiscono ad un regime straniero). Bisogna stare attenti poi
alla vaghezza, cioè quando abbiamo un solo significato che sottende però due diversi referenti.
Quindi il tutto sta nella formulazione del significato, perché il termine è uno e il referente lo
vediamo empiricamente (es: se diciamo che il terrorismo è violenza indiscriminata, questo uso
della definizione è sbagliato).

I concetti empirici possono avere tre tipi di definizione:

- Definizione dichiarativa: non aggiunge nulla di nuovo ma usa una definizione già esistente.

- Definizione stipulativa: volontà di imporre una nuova convenzione, cioè di dare al


significato un nuovo valore o di inventare una parola nuova.

- Definizione esplicativa: ha una componente dichiarativa e una stipulativa, cioè si prende


una definizione vecchia del termine e si aggiungono elementi nuovi.

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I concetti empirici hanno delle proprietà:

- Connotazione: il numero di proprietà che si vogliono mettere in evidenza (es: definizione di


terrorismo sempre più ampliata).

- Denotazione: indica il numero dei referenti empirici che la definizione permette di inserire
(es: definendo il terrorismo come pura violenza ci sono alcuni soggetti, se lo si definisce
come violenza di gruppi avremo altri soggetti).

- Scala d’astrazione: rapporto che intercorre tra connotazione e denotazione, postula una
relazione inversa tra le due, cioè maggiore sarà il numero di requisiti richiesti, minore sarà
il numero di soggetti che soddisfano quei requisiti (es: la definizione di partito, cioè una
coalizione di individui che hanno come obiettivo competere per assumere posizioni di
potere, si addice a molti elementi).

L’OPERAZIONALIZZAZIONE

Il concetto va operazionalizzato facendo in modo che la definizione che abbiamo dato ci consenta
di misurare il fenomeno. Operazionalizzare significa quindi attribuire un contenuto empirico a
concetti non immediatamente osservabili. Per operazionalizzare un fenomeno occorrono due
elementi:

- Definizione operativa: definizione che esplicita chiaramente quali sono le proprietà del
fenomeno empirico da osservare (es: la definizione operativa di terrorismo è
l’interessamento a quanta violenza viene esercitata, cioè al numero di attacchi).

- Indicatori: unità di misura che rilevano una proprietà del fenomeno di interesse. Vengono
espressi sotto forma di variabili. Combinando più indicatori si ottiene un indice, una scala di
misura composita che permette di confrontare i vari casi che si stanno studiando. Gli
indicatori devono essere veritieri nel confrontare le proprietà. La scelta degli indicatori che
si possono prendere in esame dipende dal quesito della ricerca. Il valore dell’indicatore
acquista un senso solo se contestualizzato. L’utilità di un indicatore è anche quella di
trovare dei nessi logici, cioè diverse spiegazioni causali.

ESEMPI DI OPERAZIONALIZZAZIONE

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Esempio 1

CONCETTO: qualità della vita (definita come grado di soddisfazione personale).

UNITÀ D’ANALISI: città, provincia o regione (è più alta la qualità della vita a Milano o a Roma?).

INDICATORI: reddito pro-capite (in un posto dove il reddito pro-capite è elevato c’è una qualità di
vita più alta), qualità dell’aria (più buona è, più alta è la qualità di vita), criminalità (più bassa è, più
alta è la qualità di vita). C’è però un problema: quali variabili usare? Usare quelle che misurano il
reddito pro-capite, la qualità dell’aria (polveri sottili: quanti giorni la provincia o il comune ha
superato i limiti di guardia), il tasso di criminalità (si guardano quanti furti ci sono), numero di
discoteche per abitanti (più possibilità di svago ci sono, più alta è la qualità di vita). Bisogna creare
un indice delle variabili, cioè armonizzarle nelle loro diversità.

Esempio 2

CONCETTO: sensibilità al terrorismo (gravità dei danni che uno tato subisce a causa di attacchi
terroristici).

UNITÀ D’ANALISI: lo Stato.

INDICATORI: numero di attentati (anche se molti attacchi non significa necessariamente più danni),
vittime e feriti, stima dei danni e della distruzione fisica (misurata non solo in soldi ma in gravità),
costi delle politiche anti-terrorismo, costi non materiali.

CLASSIFICAZIONI E TIPOLOGIE

Sono strumenti che hanno lo scopo di mettere ordine, cioè catalogare “per genere e differenza”,
stabilire casi che tra loro sono simili e casi differenti. La classificazione consiste nel dividere in
classi l’estensione di un concetto sulla base di un solo criterio. La tipologia è una classificazione
basata su due o più criteri. Servono perché all’interno di casi diversi ci sono comportamenti e
problemi diversi. Per classificare ci sono quattro regole:

- Il criterio deve essere discriminante: i casi empirici osservati devono essere equamente
distribuiti.

- Esclusività: ogni soggetto preso in considerazione deve stare in una sola “casella”, cioè i
referenti empirici devono stare solo all’interno di una classe decisa prima.

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- Esaustività: in base ai nostri criteri bisogna dividere tutti i fenomeni, non vi devono essere
casi esclusi.

- Criteri non sovrapposti: la scelta del discrimine deve essere fatta per criteri non
sovrapponibili (vale solo per le tipologie).

3) RACCOLTA DEI DATI E RELAZIONI TRA VARIABILI

Per reperire i dati ci sono due tipi di fonti a cui si può ricorrere:

- Fonti secondarie: scritti o ricerche già stati da altri (es: banche dati, come l’ISTAT).

- Fonti dirette: fare interviste per poter avere informazioni uniche con la prospettiva di una
singola persona, o fare dei “surveys”, dei sondaggi per fare studi sull’opinione pubblica;
consultare documenti ufficiali; fare un’osservazione partecipante, con cui il ricercatore
entra a far parte del fenomeno che vuole investigare.

Una volta raccolte le informazioni bisogna passare dai dati alle ipotesi. Un’ipotesi è una
supposizione che esista una relazione tra due fenomeni (non tra fatti). Le ipotesi sono per natura
generalizzabili perché devono spiegare fenomeni grandi. Un’ipotesi mette insieme delle variabili.
Ci sono tre tipi di variabili:

- Variabile indipendente (B): primo elemento dell’ipotesi. Una proprietà varia per motivi
suoi, cosa che si riversa sulla variabile indipendente.

- Variabile dipendente (A): elemento caratterizzato dalla variabile indipendente.

- Variabile interveniente (C): fattore che con la sua presenza aiuta a spiegare meglio il
rapporto tra A e B.

Esempio:

Povertà (B) Terrorismo (A)

↘ Autocrazia (C)↗

4) CONTROLLO EMPIRICO

Il controllo empirico può avvenire in diversi modi:

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- Metodo sperimentale: consiste nel prendere alcuni casi, tendenzialmente delle persone, e
dividerli in due gruppi di cui uno verrà sottoposto ad uno stimolo (la variabile
indipendente) e l’altro no. Il vantaggio di questo metodo è che si usano solo due variabili
(in quanto si basa su due gruppi), mentre tutto il resto rimane invariato. Questo metodo è
raramente utilizzabile in scienza politica.

- Metodo statistico: prevede due requisiti, ovvero che si abbiano a disposizione tanti casi da
osservare e che le variabili studiate possano essere misurabili con dei numeri. Con questo
metodo si possono scoprire, attraverso la tecnica della regressione, delle correlazioni più o
meno significative. Per annullare l’influenza di possibili terze variabili si usa la
parametrizzazione. “Parametrizzare” significa convertire le variabili in parametri, in
costanti fisse.

- Metodo comparato: è un confronto tra due o più stati di una o più proprietà (misurabili
attraverso delle variabili), presi da due o più oggetti in un momento preciso di un arco di
tempo più o meno ampio. Si devono quindi scegliere dei casi e per sceglierli si seguono dei
criteri:
 Scegliere casi che tra loro mostrano una grande differenza nella variabile indipendente
(cioè se, per esempio, vogliamo studiare i paesi soggetti al terrorismo, dobbiamo prendere
i casi in cui c’è una grande differenza nella variabile indipendente, cioè prendere paesi
molto poveri e paesi molto ricchi).
 Scegliere casi dove le variabili di controllo sono più o meno simili come valori.
 Strategia dei sistemi maggiormente simili (o metodo della concordanza): si usa quando
vogliamo prendere dei casi che presentano tutti lo stesso risultato finale. Si basa cioè sulla
scelta di casi simili su un aspetto, cioè la variabile dipendente.
 Strategia dei sistemi maggiormente diversi (o metodo della differenza): i casi devono
essere diversi tra loro in tutto tranne che in un aspetto.

Un altro tipo di comparazione è la comparazione d’area. C’è poi la comparazione


“multicasi”. La comparazione può essere sincronica (fatta in un singolo istante ) o
diacronica (quando si osserva nel tempo).

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- Studio di caso: la sua principale caratteristica è di considerare un unico caso. Ce ne sono
cinque tipi:
 Studio ateorico: studio puramente descrittivo, che non vuole spiegare.
 Studio interpretativo: si limita a descrivere un fenomeno cercando di dare un senso ai fatti
avvenuti facendo ricorso a delle ipotesi, a delle generalizzazioni più ampie.
 Studio generatore di ipotesi: si prende un singolo fenomeno e si cerca di dimostrare che
questo fenomeno non è mai stato spiegato in precedenza, così da generare delle ipotesi
che prima non c’erano.
 Studio di controllo di ipotesi (o teorie): serve per confermare o falsificare una teoria. Se lo
studio conferma la teoria, rafforza la proposizione in questione. Se invece lo studio falsifica
la teoria, indebolisce la proposizione.
 Analisi del “caso deviante”: caso che devia da generalizzazioni largamente accettate e che
la teoria non riesce a spiegare.

LE TEORIE

Alla fine del processo di conoscenza dei fenomeni, dopo aver sviluppato le ipotesi, c’è bisogno di
un approfondimento. Tra i fenomeni c’è una correlazione e adesso bisogna spiegare il perché
questa si pone, e per fare ciò si usano le teorie. Una teoria è un’affermazione generale che
descrive e spiega le cause e gli effetti di certi fenomeni (cioè ci mostra come funzionano i processi
e trova loro delle connessioni causa-effetto). Da questo deriva che una teoria, pur contenendo
delle ipotesi, non si limita a riproporle e basta, ma tenta di spiegarle. Inoltre le teorie devono
essere molto selettive, cioè devono limitarsi solamente a pochi fenomeni interessanti. Le teorie
devono poi essere generali (es: dire “la Germania ha causato la Seconda guerra mondiale” non è
una teoria, mentre dire “un regime nazionalista è causa di guerra” è una teoria perché non implica
due fenomeni particolari ma è un’affermazione generale). Una teoria ha diverse componenti, una
è l’insieme di ipotesi, che possono essere causali/deterministiche o probabilistiche (si associa un
dato effetto ad una stima, motivo per cui sono più comuni in un’analisi politica). Le teorie devono
essere supportate da delle spiegazioni, ovvero delle concatenazioni di leggi causali che mostrano
come avviene la relazione di causa-effetto tra fenomeni (questo serve perché alcune relazioni
possono essere “spurie”, cioè errate). Una teoria deve anche avere delle condizioni antecedenti,

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ovvero dei fenomeni la cui presenza rende possibile o amplifica il grado della relazione causa-
effetto tra fenomeni.

CARATTERISTICHE DI UNA TEORIA

Una teoria, perché sia buona, deve:

- Avere un elevato potere esplicativo: la variabile indipendente ha un forte impatto sulla


variabile dipendente; la teoria si applica a molti casi; la teoria riesce a spiegare fenomeni
diversi. Per esempio, la “teoria dei beni pubblici” di Olson dice che ci sono alcuni beni
chiamati “beni pubblici” perché godibili da tutti. Questi beni, come per esempio l’aria,
hanno delle caratteristiche particolari, ovvero di essere non escludibili (non impediscono di
godere di altri beni) e di essere non rivali (che non si esauriscono quando aumenta il
numero di utenti). Questi beni pubblici hanno un problema, cioè che gli attori che li
possono produrre non hanno alcun incentivo a farlo, infatti tutti hanno interesse ad avere
un’aria pulita, ma nessuno è disposto a non inquinare. Olson dice che per evitare ciò è
necessario fornire degli incentivi o delle sanzioni. Questa teoria è valida e importante
perché spiega chiaramente che quando si hanno dei beni con le due caratteristiche di non
escludibilità e non rivalità, allora non si ha interesse nel produrre quei beni o si fa fatica a
farlo.

- Essere parsimoniosa: partendo da poche varabili indipendenti riesce a spiegare molte


variabili dipendenti.

- Essere soddisfacente: la variabile indipendente è logicamente distante dalla variabile


dipendente, cioè non deve essere banale.

- Essere concettualmente rigorosa: tutte le sue componenti sono ben definite.

- Essere falsificabile: l’analisi empirica deve essere corroborata (comprovata) o falsificata,


senza vie di mezzo.

- Fornire delle prescrizioni: deve indicare degli strumenti per manipolare le variabili.

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COME EVOLVE IL SAPERE?

Un sistema organico di teorie dà vita ad un “paradigma”, ovvero una prospettiva teorica condivisa,
fondata su acquisizioni precedenti, che indirizza la ricerca riguardo alla scelta dei fatti rilevanti da
studiare, alla formulazione delle ipotesi e ai metodi e tecniche di ricerca.

Le teorie sono delle supposizioni, ma quando molte teorie sembrano dare un’immagine chiara del
mondo allora si può dire di essere arrivati alla conoscenza? Due filosofi provano a dare delle
risposte a questa domanda:

- Popper: si chiede fino a quando sono valide le teorie. Dice che le teorie non saranno mai
comprovate, devono anzi essere sempre falsificabili (es: egli dice che la teoria della
gravitazione è arrivata a diventare un paradigma, ma un giorno arriverà un fenomeno che
smentirà la teoria di Newton). L’unico criterio per smontare le teorie è quindi la capacità di
poterle falsificare. Così si può concludere che nella scienza non ci può essere molto
progresso, perché prima o poi qualcuno smentirà tutte le teorie scientifiche. Popper dice
infatti che l’unico modo perché in scienza possa esserci progresso è che quando una teoria
viene falsificata si tenti di trovarne una nuova più generale che spieghi sia la teoria vecchia
che la sua anomalia.

- Kuhn: dice che nella scienza non c’è un vero progresso. La scienza vede il susseguirsi di due
momenti, uno in cui la scienza è “normale” e uno in cui è “straordinaria”. Quando la
scienza è normale forma un paradigma. Quindi, secondo Kuhn, non esiste il progresso ma
solo una sostituzione di paradigmi. Il passaggio da scienza “normale” a scienza
“straordinaria” avviene in cinque fasi:
 Fase zero: periodo che precede la formazione di un paradigma. In questa fase c’è una serie
di scuole di pensiero in competizione. Fra di esse, dice Kuhn, una riesce a imporsi sulle altre
perché sembra spiegare meglio e con metodi più rigorosi i fenomeni.
 Fase uno: periodo di accettazione del paradigma emerso fra tante correnti di pensiero.
 Fase due: il paradigma assume lo “status” di “scienza normale”, cioè fissa gli standard per
chi vuole fare scienza.
 Fase tre: emerge un problema, perché, per quanto il paradigma possa essere valido, ci
sono delle anomalie che, nonostante possano sembrare marginali, diventano sempre più
rilevanti e potrebbero minare la stabilità del paradigma. Inizia infatti una crisi del

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paradigma, molte persone iniziano a criticarlo. Si cerca quindi di capire dove sia l’anomalia
di fondo del paradigma.
 Fase quattro: fase della scienza “rivoluzionaria”, ovvero del ribaltamento del paradigma. Si
torna all’inizio, poiché ci sono molte scuole di pensiero che tentano di imporsi sulle altre
per fissare i nuovi standard per chi intende fare scienza. Questa fase è quindi l’ultima di un
ciclo e coincide con la prima, la fase zero.

I REGIMI NON DEMOCRATICI

REGIME AUTORITARIO

DEFINIZIONE ALLARGATA: è un regime in cui il Parlamento e le elezioni non ci sono o, se ci sono,


sono semplicemente una manifestazione simbolica del potere costituito. Non c’è autonomia dei
sottosistemi politici (partiti, sindacati, media).

DEFINIZIONE RISTRETTA: è un tipo di regime non democratico.

ELEMENTI CARATTERIZZANTI: Juan Linz (1964) dice che un regime autoritario presenta cinque
caratteristiche:

- Si basa sul pluralismo limitato: gli attori rilevanti a livello politico e sociale sono pochi. Il
potere, a prescindere dagli interessi sociali che rappresenta, rimane sempre in mano ad
una coalizione dominante ristretta. In questo modo chi comanda non è responsabile delle
proprie azioni, cioè se commette degli errori non ne paga le conseguenze (es: perdita delle
elezioni) e non deve preoccuparsi di rendere conto a nessuno.

- C’è una scarsa mobilitazioni politica: le persone che partecipano alla politica sono molto
poche, perché chi è al potere incanala la mobilitazione politica a suo piacimento. La scarsa
mobilitazione politica implica tre cose:
 Il regime deve avere un apparato repressivo.
 Non ci sono partiti strutturati.
 Non c’è rispetto per i diritti civili e politici di base (libertà d’espressione, di voto,
d’associazione).

- Si basa su delle mentalità caratteristiche: un regime autoritario non deve necessariamente


sviluppare un’ideologia ma fa riferimento a dei concetti astratti.

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- Ha dei limiti mal definiti all’esercizio del potere: non è scritto chiaramente quali siano i
limiti di chi sta al potere, ma le azioni di chi governa possono andare oltre certi limiti, anche
se non sono del tutto arbitrarie.

- Chi è al potere è una sola persona (leader) o un gruppo ristretto: al vertice del potere, in
ogni caso, ci sono sempre le stesse poche persone.

TIPI DI REGIMI AUTORITARI

- REGIMI MILITARI: nascono con un colpo di Stato effettuato da poche persone che possono
permettersi di accedere al potere (i militari di rango più elevato). I regimi militari hanno
diverse caratteristiche:
 Coalizione dominante: è una classe molto ristretta che comprende i vertici delle Forze
Armate o solamente il capo supremo di esse.
 Mentalità/ideologia: i regimi militari non hanno bisogno di un’ideologia e non è importante
promuovere dei valori.
 Mobilitazione dall’alto: è rara e limitata.
 Strutturazione del regime: c’è una bassa innovazione delle istituzioni. I regimi militari
istituiscono le Giunte, degli organi deliberativi di cui fanno parte solo i militari.

Ci sono due tipi di regimi militari:

- Tirannia militare: c’è un solo leader poiché c’è un esercito poco coeso. Il leader distribuisce
le cariche, i premi e le punizioni a suo piacimento.

- Oligarchia militare: c’è una coesione all’interno dell’esercito. Se emerge una figura di
spicco, essa si eleva a “primus inter pares”. Possono esserci tre tipi di militari: i militari
moderatori si limitano a garantire lo “status quo”; i militari guardiani si appropriano dei
livelli più alti del potere per gestire la vita pubblica, cercando di mantenere una
razionalizzazione economica; i militari governanti penetrano completamente nella
burocrazia per prendere tutte le decisioni politiche, oppure istituiscono un partito di massa
che però, generalmente, non riesce a durare.

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Per l’istituzione dei regimi militari necessitano dei colpi di Stato che sono organizzati solitamente
dai militari, poiché essi hanno delle risorse che altri non hanno, come il monopolio delle armi e
un’organizzazione ben strutturata. I militari intervengono in politica anche perché devono
difendere lo Stato. Ci sono diverse motivazioni per l’intervento in politica dei militari, come
l’interesse di classe, cioè i militari fanno il proprio interesse perché sono per la maggior parte
esponenti del ceto medio, quindi con il colpo di Stato intendono difendere la propria base sociale
di appartenenza. I militari intervengono anche per difendere gli interessi dell’organizzazione
militare in sé, per proteggere, per esempio, i propri finanziamenti. Un’altra ragione di intervento
dei militari è che essi vogliono evitare le interferenze dei civili (capita molto spesso infatti che a
ministro della difesa di uno Stato ci sia un civile e non un militare). Esistono delle condizioni di
base che rendono più probabile l’intervento dei militari, come per esempio una politica interna
instabile o una vera e propria crisi politica, che può essere caratterizzata da bassa legittimità del
regime vigente, da politicizzazione delle classi inferiori, da minaccia agli interessi delle classi medie
e così via.

- REGIMI CIVILI-MILITARI: nascono dopo un colpo di Stato ed è presente in essi una


commistione di parti militari e parti civili. I regimi civili-militari hanno diverse
caratteristiche:
 Coalizione dominante: militari che hanno rimosso la vecchia élite e una parte civile, cioè i
funzionari dell’amministrazione precedente.
 Mentalità/ideologia: a volte può essere importante, ma non è essenziale.
 Mobilitazione dall’alto: è possibile ma viene raramente fomentata.
 Strutturazione del regime: è medio-alta, perché il regime tenta di darsi nuove strutture.

Ci sono due tipi di regimi civili-militari:

- Burocratico-militare: si limita a prendere decisioni che riguardano soprattutto la politica


economica. Cercano di istituire un partito unico fondato da civili e militari, ma non è un
partito di massa. Sono importanti gli attori di tipo tradizionale, come la monarchia e la
Chiesa. Si basa necessariamente sulla repressione di qualsiasi forma di dissenso.

- Corporativo: si ispira ad una visione organica della società. Ci sono dei gruppi di
rappresentanza di interesse primari, all’interno di questi gruppi deve avvenire la
mobilitazione. Vengono creati dei “sindacati verticali” basati sul settore.

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Questi due tipi ti regimi civili-militari possono essere anche definiti “populisti” (sebbene tra militari
e populismo non vi sia un rapporto necessario). Il populismo è un meccanismo che porta alla
mobilitazione delle masse. Il populismo intende far mobilitare delle fasce particolari della
popolazione, principalmente quelle che prima non avevano grande mobilitazione, come quella
degli operai. Il populismo si basa sull’idea per cui non ci debbano essere mediazioni tra la società e
la politica, quindi i partiti (che sono l’elemento di mediazione per eccellenza) non sono
contemplati. L’idea della rappresentanza per il populismo è di una rappresentanza non mediata.
Secondo il populismo, le mediazioni tra società e politica sono impersonati da organi corrotti. Il
populismo si basa inoltre sulla figura di un leader carismatico.

- REGIMI CIVILI: sono i tipi di regimi che più si avvicinano al regime autoritario. I regimi civili
hanno diverse caratteristiche:
 Coalizione dominante: è un partito unico.
 Mentalità/ideologia: ha un ruolo importante.
 Mobilitazione dall’alto: è molto frequente, poiché è tutto imposto dal partito unico.
 Strutturazione del regime: è elevata, i regimi cambiano gran parte delle strutture
precedenti.

Ci sono quattro tipi di regimi civili:

- Nazionalista di mobilitazione: regime che nasce in uno Stato appena costituito. Questo
regime si applica a Stati liberati dal giogo coloniale. Al potere c’è Il leader del movimento di
liberazione nazionale. Gli altri liberatori della nazione diventano l’élite politica. C’è
un’ideologia nazionalista. Le persone vogliono partecipare alla politica perché hanno
combattuto anche loro per la liberazione nazionale, quindi questa volontà di mobilitazione
viene orientata dall’alto per andare a creare un partito formato dal movimento di
liberazione nazionale.

- Comunista di mobilitazione: regime che si fonda quasi esclusivamente sulla capacità del
partito di evitare il dissenso. Questo regime si applica a Stati già esistenti. C’è un’ideologia
comunista. Il partito comunista si sovrappone allo Stato, cioè i responsabili del partito sono
anche i responsabili dello Stato (es: il responsabile del partito per la politica estera è anche
il ministro degli esteri).

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- Fascista di mobilitazione: regime che potrebbe sembrare la riuscita di un regime totalitario,
ma non è così perché un regime totalitario non sarebbe sceso a compromessi con organi
come la Chiesa (come avvenne, per esempio, con i patti Lateranensi). Inoltre non può
definirsi pienamente come un regime totalitario perché in esso è rimasto un pluralismo
sociale.

- Mobilitazione a base religiosa: regime in cui la religione costituisce un aspetto importante


per legittimare il regime stesso. Ha una struttura di mobilitazione molto articolata e
potenzialmente più efficace del partito, cioè il clero. Ha un’ideologia altrettanto complessa
che disciplina e controlla la vita dell’“affiliato-credente”, cioè la religione. Ha un assetto
monistico.

- REGIMI IBRIDI: detti anche di transizione, sono regimi ampiamente presenti (il 30% dei
paesi). Presentano alcune istituzioni e procedure proprie della democrazia, ma conservano
degli aspetti autoritari. Al potere c’è un pluralismo allargato. Hanno origine dalla crisi di un
regime precedente (democratico o autoritario). Si può dire infatti che i regimi ibridi sono o
dei regimi autoritari entrati in crisi e che quindi hanno dovuto fare delle concessioni alla
democrazia, o dei regimi democratici che hanno perso parte della democrazia. I regimi
ibridi hanno diverse caratteristiche:
 Coalizione dominante: è una coalizione indebolita, allargata, ci sono delle opposizioni.
 Mentalità/ideologia: non c’è un’ideologia determinante.
 Mobilitazione dall’alto: è assente.
 Strutturazione del regime: è molto scarsa, poiché spesso il regime non riesce a garantire
alcuni servizi di base.

Ci sono tre tipi di regimi ibridi:

- Democrazia protetta: ci sono le elezioni ma ci sono dei limiti (anche scritti) alla corretta
esecuzione della tornata elettorale (es: ci sono delle leggi che impediscono a determinati
partiti di partecipare alle elezioni).

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- Democrazia illiberale (o limitata): ci sono le elezioni ma non vengono garantiti alcuni diritti
fondamentali, in particolare la libertà d’informazione.

- Democrazia senza legge: sulla carta tutti possono partecipare alle elezioni ma ci sono dei
gruppi autonomi che possono inficiare il risultato delle elezioni con minacce e violenza.

DINAMICA DEI REGIMI AUTORITARI

Ci sono tre fasi della vita di un regime autoritario:

- Instaurazione: chi mettere al posto delle persone cacciate. Non dura molto.

- Consolidamento: la coalizione dominante stabilisce le regole del gioco, cioè gli attori della
coalizione si impongono delle regole di comportamento. Questa fase può portare a due
esiti:
 Persistenza instabile: il regime rimane sostanzialmente stabile, ma c’è un continuo cambio
di potere.
 Persistenza stabile: il regime viene perfettamente consolidato.

- Crisi: scoppia quando nella coalizione dominante non gira più bene il meccanismo che fa sì
che il regime regga. La rottura dei legami nella coalizione dominante può avvenire per
diversi motivi:
 Cambiamenti nei gruppi dominanti: c’è anche un cambiamento dell’accordo preso
inizialmente.
 Contrasti interni sulle politiche da intraprendere: alcune politiche possono fallire, quando
accade si cercano i responsabili.
 Ascesa di nuovi attori rilevanti: può essere anche un fattore non prettamente politico (es:
forte “invasione” straniera).

Al momento della rottura della coalizione dominante fuoriescono alcuni attori dalla coalizione
stessa, come i militari o i civili. A questo processo possono aggiungersi dei fattori intervenienti,
come il livello di istituzionalizzazione del regime (più il regime è durevole, più è difficile che una
crisi possa far collassare il regime) o un evento esterno (es: sconfitta militare).

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Per riconoscere che un regime sta entrando in crisi ci sono dei segnali:

- Difficoltà decisionale: impossibilità di trovare degli accordi e delle soluzioni ai problemi.

- Perdita della legittimazione dell’élite: presa delle distanze, anche da parte dei livelli più alti
della società, dagli individui al potere.

- Perdita della capacità repressiva: i militari si rifiutano di reprimere i movimenti di protesta.

Quando il regime entra in crisi, chi è al potere ha due opzioni:

- Repressione della società civile: cosa possibile fino a quando i militari non si rifiutano di
reprimere le proteste.

- Apertura pseudo-democratica: liberalizzare, cioè togliere delle limitazioni ad alcuni diritti.

Per evitare una fase di stallo devono esserci diverse condizioni:

- Attori ex dominanti in opposizione, cioè coloro che prima erano al potere vanno a
ingrossare le file dell’opposizione.

- Mobilitazione di attori prima indifferenti.

- Nuovo vigore alle tradizionali forze di opposizione.

Analizzato tutto questo, si può dire che serve un’alternanza politica, cioè che l’opposizione
proponga una nuova coalizione, la quale non deve però scacciare la coalizione vecchia, ma deve
porla nelle condizioni di accettare la nuova coalizione.

REGIME TOTALITARIO

ELEMENTI CARATTERIZZANTI: questo tipo di regime ha delle caratteristiche comuni a quelle del
regime autoritario e altre in aggiunta:

- Si basa sul pluralismo limitato: chi è al potere è un leader o una cerchia ristretta, ma
comunque spicca la figura di un partito. Il pluralismo limitato in questo tipo di regime fa sì
che le strutture dello Stato siano subordinate al partito al potere.

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- C’è il terrorismo di Stato: si crea una sorta di deterrente nei confronti dei cittadini. Inoltre
nel regime totalitario è molto importante l’ideologia, che è volta alla trasformazione della
società.

- C’è un alto livello di mobilitazione: la grande mobilitazione è dovuta all’ideologia di


trasformazione sociale.

- C’è un’imprevedibilità dell’esercizio del potere: chi comanda può decidere quello che vuole
e come vuole.

Ci sono due tipi di regime totalitario:

- Regime di destra: nazionalista, personalista e razzista.

- Regime di sinistra: tendenzialmente volto all’apertura internazionale, democratico ed


egualitario.

A parte queste contrapposizioni, fra i due ci sono poche differenze, hanno giustificazioni opposte e
differenti organizzazioni del partito, anche se nella prassi seguono le stesse regole.

REGIME TRADIZIONALE

ELEMENTI CARATTERIZZANTI: le caratteristiche di questo regime lo distinguono molto dagli altri


due:

- Si basa sul patrimonialismo: il potere è concepito come patrimonio personale ed è


legittimato dalla tradizione, cioè chi ha il potere è legittimato ad averlo perché gli è stato
tramandato (es: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti). Chi è al potere fa quindi il proprio
interesse, non c’è nessuna responsabilità nei confronti dei sudditi, i quali fanno anche
parte dell’apparato amministrativo.

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- Manca qualsiasi ideologia e qualsiasi struttura di mobilitazione di massa.

Ci sono due tipi di regime tradizionale:

- Regime sultanistico: il sovrano ha un potere personale che non deve condividere con una
coalizione dominante. Questo potere viene esercitato attraverso ricompense e punizioni
verso l’apparato amministrativo costituito dai sudditi, quindi c’è un rapporto con di lealtà
con il sovrano. Inoltre, nell’ideologia è data importanza alla componente religiosa, che
anch’essa serve a legittimare il potere.

- Oligarchia competitiva: non c’è apertura alla società, chi comanda è rappresentante di una
frazione minima della società. Diversamente dal regime autocratico, chi è al potere non ha
la garanzia di starci per sempre, anche se è presente una competizione fra élite.

I REGIMI DEMOCRATICI

C’è una sorta di pregiudizio secondo il quale la democrazia sia la migliore forma di governo.
Qualificarsi come Stato democratico è una nota di merito in ambito internazionale. Inoltre, nelle
democrazie c’è una migliore qualità della vita (es: alfabetizzazione più elevata, condizioni sanitarie
migliori, accesso a infrastrutture più ampie, maggiore distribuzione del benessere).

DEFINIZIONE

Per definire una democrazia esistono diversi approcci:

- Formale/costituzionale: analizza come è strutturata e quali sono le regole di


funzionamento della “politics”.

- Sostanziale/fattuale: analizza quali sono le condizioni di vita che il regime politico produce.

- Procedurale: analizza il modo in cui le strutture dello Stato trasformano i problemi in


soluzioni.

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- Orientato al processo: analizza il funzionamento del meccanismo della “politics”. Questo
approccio ci pone una lista di condizioni per poter dare una “definizione minima di
democrazia”. Perché un regime democratico possa essere definito tale, deve avere:
 Suffragio universale: tutti devono avere il diritto al voto.
 Elezioni libere, competitive, ricorrenti e corrette: tutti devono essere liberi di votare e tutti
devono essere messi nella condizione di votare. Le elezioni devono essere periodiche e
corrette.
 Più di un partito: sulla scheda elettorale devono esserci varie opzioni.
 Fonti di informazioni molteplici e alternative: ogni partito deve fornire diverse informazioni
sul proprio programma, così che l’elettore possa votare avendo ben chiari tutti i punti di
tutti i partiti.

La democrazia si può riassumere in un processo decisionale, che deve essere:

- Selettivo: il contenuto delle decisioni discusse non è arbitrario, ma basato su accordi e


negoziati.

- Incerto: c’è la certezza delle regole, ma il risultato del processo decisionale dipende da
molte cose, cosa che permette flessibilità nel sistema politico.

- Basato su regole: le regole permettono la soluzione pacifica delle controversie.

In tutto questo esistono però dei paradossi:

- Accordo sulle regole VS dissenso sui contenuti: avviene perché le regole sono frutto di un
compromesso, anche se per alcune regole serve l’unanimità.

- Certezza sulle regole VS incertezza sui risultati.

- Comando della maggioranza VS rispetto delle minoranze.

- Trasparenza VS segretezza: il processo decisionale deve essere chiaro e i leader politici


devono essere responsabili, però, almeno in alcune questioni, è richiesta segretezza. Le

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democrazie che funzionano bene scendono a compromessi senza problemi, cioè sono
trasparenti ma accettano la segretezza come eccezione.

- “Welfare” VS “Warfare”: i politici possono spendere i soldi pubblici in attività di “Welfare”


(asili, strade, scuole, infrastrutture), ma li spendono anche per attività di “Warfare”, cioè
per la difesa (armi e strutture militari). Questa è una contraddizione perché, come si è
visto, le democrazie risolvono le controversie pacificamente, quindi non servirebbe
spendere soldi per prepararsi alla guerra, cosa che invece accade.

- “Free trade” VS protezionismo: le democrazie sono votate al commercio e agli scambi, cosa
che implicherebbe la liberalizzazione dei commerci (niente dazi), tuttavia c’è una tendenza
verso la protezione dei prodotti locali (imponendo dazi e tariffe).

TIPOLOGIE E MODELLI DEI REGIMI DEMOCRATICI

TIPOLOGIE

DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA VS DEMOCRAZIA DIRETTA: la democrazia rappresentativa si


basa sul “doppio livello”, cioè sulle regole e le istituzioni della rappresentanza (i cittadini delegano
le decisioni dello Stato ai professionisti della politica). È caratterizzata da elezioni (che devono
essere libere, competitive, corrette e periodiche) e da strutture rappresentative (come il
Parlamento) e decisionali (come il governo). Non comporta una partecipazione diretta dei cittadini
se non saltuariamente al momento del voto. La democrazia diretta prevede invece un elevato e
costante grado di partecipazione politica. Coincide con la democrazia degli antichi, ovvero delle
antiche città, dove pochi cittadini si riunivano e decidevano sui problemi che li riguardavano.
Questo era però un regime che oggi designeremmo come autoritario in quanto, di solito, un
gruppo di cittadini conviveva con un numero ben più ampio di persone senza diritti. Tuttavia si
sono mantenuti anche in democrazie rappresentative alcuni istituti di democrazia diretta, come i
referendum.

TIPOLOGIA DI LIJPHART: serve per spiegare perché ci sono delle democrazie più stabili e altre
meno stabili. Lijphart sostiene che, a differenza di come si diceva una volta, cioè che delle società
omogenee portano ad una democrazia che funziona bene, mentre società frammentate (con
gruppi religiosi o linguistici diversi) portano a democrazie non stabili, in realtà non è così, poiché,

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secondo lui, anche società frammentate possono portare a democrazie stabili. Egli dice che
bisogna considerare due criteri, ovvero la propensione delle élite al compromesso e
l’omogeneità della cultura politica (l’insieme dei valori condivisi da una società). Secondo Lijphart,
dove c’è una cultura politica frammentata possiamo avere due tipi di democrazia:

- Democrazia consociativa: nasce in condizioni difficili ma riesce abbastanza bene, perché i


leader, nonostante abbiano delle nette differenze, si vengono incontro, così che lo Stato
funziona. Ha diverse caratteristiche:
 Governi di larghe coalizioni.
 C’è il potere di veto, così che anche i partiti più piccoli possono bloccare la maggioranza.
 C’è il sistema elettorale proporzionale, cioè il meccanismo di distribuzione dei seggi in
relazione ai voti non prevede necessariamente che chi prende più voti vinca tutto, ma i
seggi sono distribuiti in misura proporzionale ai voti presi, cosa che impone una sorta di
cooperazione fra le élite.

- Democrazia centrifuga: ha molti problemi e fa fatica a risolverli.

Dove c’è una cultura politica omogenea possiamo invece avere altri due tipi di democrazia:

- Democrazia spoliticizzata: non c’è una grande differenza tra i partiti, poiché i valori che
condividono sono pressoché uguali.

- Democrazia centripeta: è raro che governo e opposizione mostrino lo stesso


atteggiamento, quindi non sono propensi al compromesso.

C’è poi un’altra tipologia che distingue fra diverse forme di democrazia. Infatti l’organizzazione del
governo e la sua legittimazione democratico-rappresentativa hanno seguito una varietà di strade
producendo così una pluralità di forme di governo. Questa è infatti una tipologia dei rapporti tra
potere esecutivo e legislativo più che una vera e propria tipologia democratica. Si distinguono:

- Forma di governo parlamentare: la legittimità del governo è indiretta, poiché è tratta dal
Parlamento, i cui membri sono eletti dai cittadini (essi scelgono le persone fra cui poi potrà
essere eletto il presidente). La struttura del governo è collegiale, cioè il capo del governo è
un “primus inter pares”, deve solo coordinare gli altri membri del governo che hanno

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ricevuto anch’essi la legittimità. La struttura di governo collegiale implica la presenza di due
tipi di governo possibili:
 Governo parlamentare.
 Esecutivo collegiale ad elezione diretta.

- Forma di governo presidenziale: la legittimità è diretta, poiché i cittadini nominano il


presidente. La struttura del governo è monocratica, cioè al governo c’è una sola persona,
quindi c’è una gerarchia a due livelli. La struttura di governo monocratica implica la
presenza di due tipi di governo possibili:
 Governo presidenziale.
 Governo cancellierato.

- Forma di governo semi-presidenziale: la legittimità è diretta, poiché il capo dello Stato si


basa su una investitura popolare e non parlamentare, e gli viene inoltre attribuito un ruolo
non solo rappresentativo ma anche di governo, come nel presidenzialismo. Ma, a
differenza del presidenzialismo, qui viene mantenuto il legame di fiducia tra il governo e il
Parlamento (di conseguenza la figura del capo del governo non viene fusa con quella di
capo dello Stato). All’interno della struttura del governo esiste quindi un dualismo tra le
figure del presidente della repubblica e del presidente del consiglio.

MODELLI

I modelli servono per spiegare la realtà, poiché sono capaci di enucleare un maggior numero di
dimensioni rilevanti.

MODELLI “POLARI” DI LIJPHART: sono come due estremi che si escludono reciprocamente. Hanno
caratteristiche opposte, grazie alle quali si può osservare come le democrazie ispirino le loro forme
istituzionali a due principi:

- Principio maggioritario: sulla base di questo principio, la democrazia è un regime in cui i


rappresentanti, eletti tramite elezioni (libere, competitive e ricorrenti), raggiungono le
proprie decisioni in base al principio di maggioranza. Questo principio dà vita al modello
istituzionale maggioritario.

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- Principio consensuale: in questo principio si ricerca più un accordo che la vittoria di una
parte, quindi la democrazia è più tolleranza reciproca che “tirannia” della maggioranza.
Questo principio dà vita al modello istituzionale consensuale.

La differenza fra questi due princìpi comporta una serie di differenze nel sistema politico a diversi
livelli:

- Differenze a livello di governo e partiti:

 Concentrazione del potere esecutivo.


 Relazioni tra governo e Parlamento.
 Sistema dei partiti.
 Sistema elettorale.

- Differenze a livello di assetto istituzionale:

 Governo unitario e centralizzato VS governo federale.


 Bicameralismo simmetrico VS bicameralismo asimmetrico.
 Costituzione rigida VS Costituzione flessibile.
 Controllo giurisdizionale VS controllo di costituzionalità.

CONDIZIONI PER LA DEMOCRAZIA

La democrazia liberale ha origine in Europa, in particolare in Francia e Gran Bretagna. Nel corso
degli anni le democrazie sono andate sempre più espandendosi. Il regime democratico ha avuto
un’evoluzione abbastanza lineare. Esistono delle variabili che permettono alla democrazia di
fiorire:

- Variabili economiche: assenza di diseguaglianze economiche estreme, perché se tutta la


ricchezza è nelle mani di un gruppo ristretto, questo gruppo riuscirà probabilmente a

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convertire il proprio potere economico in potere politico. Inoltre, perché ci sia una
democrazia, deve esserci un certo livello di sviluppo economico (inteso come PIL pro
capite). C’è una teoria di Lipset (1959) che dice che un certo stadio di sviluppo economico è
fondamentale perché permette ai cittadini di attivarsi politicamente.

- Variabili sociali: il pluralismo sociale è quando la società è articolata e differenziata in


gruppi sociali diversi. Il pluralismo sociale non comporta il pluralismo politico, ma può
favorirlo poiché tanti attori diversi esprimono interessi diversi (se non ci fosse il pluralismo
sociale non ci sarebbero partiti diversi). Tuttavia, il pluralismo sociale promuove anche una
maggiore competizione fra gli attori, cosa che non è molto d’aiuto al processo democratico.
È poi importante, affinché possa sussistere un regime democratico, il livello di
alfabetizzazione. Quanto più è alto il livello di alfabetizzazione fra le persone, tanto più alta
sarà la possibilità che ci sia democrazia.

- Variabili culturali: il sociologo Max Weber dice che la diffusione del capitalismo in Europa è
da attribuirsi alla Riforma protestante, poiché con essa è cambiato il modo di pensare degli
europei. Nell’etica protestante infatti, l’artefice della propria salvezza è l’individuo, che con
le sue azioni si garantisce la salvezza. Per promuovere un regime democratico sono anche
importanti i valori che tutti hanno (es: cultura civica), che sono però convinzioni personali
più o meno condivisibili. Un’altra cosa importante è la propensione al compromesso delle
élite.

- Variabili storiche: il sociologo Barrington Moore dice che ci sono state alcune condizioni
storiche peculiari di tre paesi (Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna) che hanno permesso di
sviluppare alcune condizioni fondamentali per la democrazia:
 Equilibrio tra monarchia e aristocrazia terriera: da questo equilibrio è sorto uno spazio per
la partecipazione di altri attori, poiché nessuno dei due è in grado di “sopraffare” l’altro
nelle decisioni politiche. Nasce quindi il pluralismo sociale.
 Passaggio dall’agricoltura di sussistenza all’agricoltura mercantile: questo passaggio fa sì
che si produca più di quello che serve per poter essere venduto, così l’agricoltura diventa

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uno strumento di profitto che innesca altri procedimenti, come gli investimenti in nuovi
strumenti o attività. Nasce così il mercato, con tanti interessi diversi.
 Indebolimento dell’aristocrazia terriera: di fronte al monopolio dell’aristocrazia dei mezzi di
produzione, arrivano altri attori che ne rivendicano i diritti.
 No alla coalizione aristocrazia/borghesia contro i contadini e gli operai: nei paesi in cui
avviene una coalizione per escludere dalla politica i contadini e gli operai, è stato creare un
consenso in favore dei contadini e della classe operaia.
 Rottura rivoluzionaria con il passato: c’è bisogno di un profondo cambiamento.

DEMOCRATIZZAZIONE

L’analisi più semplice ed efficace della prima democratizzazione è quella del politologo Dahl
(1971), il quale individua due processi fondamentali al centro del cambiamento, entrambi collegati
tra loro. Questi due processi sono:

- Accettazione della competizione tra le diverse forze politiche: si accetta la presenza di più
attori al potere tramite un’alternanza, cosa che comporta un accettazione del dissenso e
dell’opposizione.

- Ampliamento dell’inclusività: aumento della porzione di popolazione che ha titolo a


partecipare, a controllare e ad opporsi alla condotta governativa (quindi chi è al potere
deve accettare di ottenerlo legittimamente tramite un procedimento elettorale).

Partendo dall’evoluzione di queste due dimensioni, Dahl elabora una teoria (“la scatola di Dahl”)
in cui delinea tre percorsi principali attraverso cui, da un’egemonia chiusa (regime politico
caratterizzato da assenza di competizione e di partecipazione, e dalla presenza di un potere
sostanzialmente assoluto di un capo), si può giungere alla democrazia:

- Percorso di competizione: processo più o meno graduale che porta da un’egemonia chiusa
ad un’oligarchia competitiva. Nell’oligarchia competitiva vi è un qualche grado di
competizione tra élite ristrette in rapporti faccia a faccia. Alla fine di questo percorso si
giunge alla poliarchia (o liberal-democrazia di massa), contraddistinta da un alto grado di
competizione e di partecipazione.

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- Percorso di partecipazione: processo che porta da un’egemonia chiusa ad un’egemonia
includente. Nell’egemonia includente vi è un’ampia partecipazione. Alla fine di questo
percorso si giunge alla poliarchia.

- Percorso intrapreso da alcuni Stati di recente democratizzazione: possibilità di


competizione/dissenso e inclusività crescono contemporaneamente. Dahl dice che questo
sentiero è una sorta di “scorciatoia” alla democrazia, anche se è il più ambizioso poiché il
sistema politico viene modificato radicalmente in tempi brevi. Per questo motivo, dice
Dahl, si creano dei traumi e si rischia di tornare indietro.

Per poter dire che una democrazia sia effettiva, il sociologo Marshall dice che basta guardare il
riconoscimento dei diritti, cioè quali diritti vengono riconosciuti ai cittadini. Nel fare ciò, Marshall
nota che ci sono tre fasi di riconoscimento dei diritti:

- Diritti civili: riconoscere questi diritti (es: proprietà privata) significa che lo Stato si pone dei
limiti rispetto a quello che può fare, inoltre lo Stato si pone come garante di questi diritti,
ponendo in essere un apparato giudiziario.

- Diritti politici: un diritto politico importante è il diritto di voto, riconoscerlo significa che
nello Stato diventa importante il Parlamento.

- Diritti sociali: sono i diritti legati al “Welfare State” (es: sanità, istruzione), riconoscere
questi diritti porta alla crescita della burocrazia statale affinché lo Stato possa garantire ai
cittadini questi diritti. Tuttavia per garantire questi diritti lo Stato deve spendere di più e
quindi viene a crearsi la tassazione e l’eventuale indebitamento dello Stato.

CRISI E CROLLO DELLA DEMOCRAZIA

Analizzando la crisi di un regime democratico, si notano delle differenze:

- Crisi “della” democrazia: si ha quando succede qualcosa che impedisce il corretto


funzionamento dei principi base della democrazia, quindi è l’insieme dei fenomeni che
alterano il funzionamento di meccanismi tipici di un regime democratico, come la

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competizione politica basata sul compromesso o l’espressione dei diritti (si ritrova, per
esempio, nella Repubblica di Weimar).

- Crisi “nella” democrazia: si ha quando i principi base della democrazia rimangono invariati
ma funzionano male, quindi è il cattivo funzionamento di strutture e meccanismi cruciali
del regime, come il Parlamento e il governo. Un altro segno di evidenza della crisi nella
democrazia è la rottura del rapporto società-partiti (si ritrova, per esempio, nella Gran
Bretagna degli anni ’30).

Quando la crisi della democrazia è molto profonda e l’élite politica non è in grado di arrestarla,
può avvenire il crollo del regime, crollo che è definito come un “mutamento delle forme fondanti il
regime”. In seguito si può fondare un diverso tipo di regime, non necessariamente autoritario, ma
comunque non c’è un’evoluzione continua dei regimi, ma ci sono sempre delle fratture, dei punti
di svolta.

La rottura di un regime democratico avviene in due momenti, non sempre consequenziali. Il primo
momento mostra che ci sono dei problemi, ma è ancora possibile tentare di risolverli. Il secondo
momento porta alla rottura del regime democratico. Un elemento che si manifesta quando c’è una
crisi è il fatto che le élite politiche, che prima dialogavano, vedono diminuire lo spazio per il
confronto e c’è una competizione sul modello di un “gioco a somma zero”, cioè, anziché cercare
un compromesso che non scontenti nessuno, l’agone politico diventa “o vinco io, o vinci tu”. Un
altro elemento è che i legami fra i leader politici e la società si fanno sempre più sottili, la
partecipazione popolare assume forme di manifestazione violenta oppure i leader non si
interessano alle esigenze del loro elettorato. La crisi ha due fasi e quando osserviamo questi due
fenomeni, ovvero la competizione fra élite e la rottura dei legami fra leader politici e società,
entriamo nella prima fase di crisi, caratterizzata da quattro fenomeni empiricamente misurabili:

- Radicalizzazione delle modalità di conflitto: le ali estreme di destra e sinistra diventano più
rilevanti, quindi non c’è possibilità di compromesso.

- Frammentazione dei partiti: aumento del numero dei partiti nel Parlamento e delle
divisioni all’interno dei partiti, con conseguente difficoltà nel prendere decisioni.

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- Aumento della mobilitazione politica: non è solo un aumento della partecipazione
elettorale, ma anche delle manifestazioni pubbliche più o meno violente. I partiti
estremisti, soprattutto quelli anti sistema, sono quelli che riescono a cavalcare meglio
queste manifestazioni.

- Instabilità governativa: i governi si susseguono a ritmo accelerato.

Quando si innescano questi quattro fenomeni, ci sono diverse conseguenze drammatiche per lo
Stato:

- Inefficacia decisionale: impossibilità di prendere decisioni in sede governativa perché i


governi stanno poco al potere o perché sono governi di larghe intese, quindi con interessi
incompatibili.

- Ineffettività: l’apparato amministrativo non riesce ad implementare (realizzare) le politiche,


qualora vengano prese.

- Messa in discussione della legittimità: l’élite politica viene messa in discussione e bisogna
quindi cambiare le regole del gioco, cosa che può avvenire con un crollo.

Quando l’élite politica non riesce a risolvere le questioni pacificamente, si arriva alla seconda fase
(fase del “non ritorno”), caratterizzata da tre fenomeni:

- Polarizzazione dei partiti: si hanno partiti o di estrema destra o di estrema sinistra, non di
centro, perché si intende attuare politiche di svolta.

- Fenomeni di violenza: possono avvenire con diverse forme (es: attentati).

- Politicizzazione dei poteri neutrali: istituzioni (es: capo dello Stato, Magistratura, Forze
Armate) che per natura non dovrebbero prendere decisioni politiche, si collegano a dei
partiti per intervenire sulle decisioni politiche.

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Dalla crisi al crollo il passaggio non è inevitabile, ma l’alternativa non è migliore. La crisi senza
crollo presenta infatti alcune delle conseguenze analizzate, ma non presenta necessariamente una
forza di opposizione che intenda rinnovare le cose.

CAUSE DEL CROLLO DEMOCRATICO

In tempi recenti può avvenire un crollo democratico a causa delle “troppe domande” ai regimi
democratici, ovvero le democrazie tentano in diversi modi di rispondere alle esigenze del popolo
impegnandosi nell’attività economica e tentando di fornire quanti più servizi possibili. Ma in
questo tentativo si crea il cortocircuito, perché parte delle funzioni dei governi è anche di
selezionare le politiche pubbliche da attuare. La causa prima della crisi nasce quindi dall’incapacità
dei governi e dei partiti di selezionare le domande, tentando quindi di soddisfarle tutte
provocando un drenaggio delle risorse e una conseguente crisi economica. Il sovraccarico delle
domande nasce da diverse trasformazioni:

- Trasformazioni culturali: cambiamento delle aspettative della popolazione e della sub-élite


(funzionari di partito, dirigenti dei sindacati), cioè è andata incrementando l’aspettativa che
le proprie istanze potessero essere sempre soddisfatte. Quindi, nel momento in cui lo Stato
non è in grado di soddisfare quelle aspettative, si mette in discussione la legittimità del
regime.

- Trasformazioni sociali: aumento della complessità sociale e dei requisiti che la democrazia
deve soddisfare, cosa che porta al cortocircuito.

- Trasformazioni economiche: aumento delle uscite economiche di uno Stato rispetto alle
sue entrate, cosa che causa l’indebitamento e l’emissione dei titoli di Stato (i cittadini
danno i propri soldi per finanziare lo Stato nell’attesa di riceverli indietro con gli interessi).

Il sovraccarico delle domande ha portato, in tempi recenti, fino alla prima fase e ai primi momenti
della seconda, ad una crisi della democrazia che non necessariamente è divenuta crollo. Questo è
avvenuto e può avvenire per diversi motivi:

- Nel tempo i partiti si sono dati una struttura sempre più solida e coesa di quella che
avevano negli anni ’20, cosa che impedisce la nascita di partiti anti sistema.

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- Recentemente lo Stato dispone di molte più risorse rispetto a quante ne aveva negli anni
’20.

- Non sono sorte delle alternative anti-democratiche in grado di coagulare consenso.

INSTAURAZIONE DELLA DEMOCRAZIA

È il processo che fa da continuazione alla crisi dei regimi autoritari. Il processo di instaurazione e
consolidamento della democrazia avviene in cinque fasi:

- Transizione: avviene alla fine di un regime autoritario, quando la coalizione dominante


deve aprirsi cioè quando il regime autoritario diventa ibrido. L’origine, cioè il primo passo
per l’instaurazione della democrazia, è la liberalizzazione, ovvero il regime rimane
sostanzialmente autoritario, ma fa delle concessioni, sopra le quali spicca per importanza
quella del diritto di voto. La transizione si conclude infatti al momento delle prime elezioni
libere, dopo le quali un partito va al potere.

- Instaurazione: inizia con le prime elezioni, dopo le quali bisogna darsi una Costituzione. Il
primo segno della fase di instaurazione è la concessione dei diritti civili e politici per tutti.
Questa fase è quindi l’accettazione che l’elemento fondante del regime che si sta ponendo
è la partecipazione, ma attraverso tanti partiti, non uno solo. La Costituzione è appunto il
primo segno dell’instaurazione, che si realizza pienamente quando i militari abbandonano
qualsiasi velleità politica. I sindacati sono gli strumenti di esercizio dei propri diritti civili e
politici. Questo processo si realizza da ultimo quando vengono formalizzati i meccanismi di
funzionamento (es: sistema elettorale, equilibri tra potere legislativo ed esecutivo). Il
processo di instaurazione avviene grazie all’intervento di alcuni attori che decidono le cose
sopradette. Gli attori possono essere di due tipi:
 Attori esterni: sono i componenti di una potenza straniera, importanti però nella fase di
transizione di un regime, non tanto in quella di instaurazione.

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 Attori interni: possono essere porzioni della vecchia élite (burocrati, militari, leader di
partito), attori non governativi (esponenti della società) o esponenti della vecchia
opposizione che prima era esclusa. La “coalizione fondante” deve comunque dare vita ad
un processo costituente, cioè deve stabilire una serie di aspetti (quelli presenti nella
Costituzione, ma non solo). La “coalizione fondante” si basa sulla capacità delle élite di
convogliare la mobilitazione popolare per supportare la democrazia e i propri partiti.
Quindi il processo costituente non deve solo sfruttare una volontà di partecipazione a
favore della democrazia, ma deve anche incanalarla all’interno dei partiti principali. I
vincitori all’interno della coalizione fondante possono porre delle novità oppure possono
non farlo.

Uno degli aspetti più controversi di tutti i regimi democratici è che, al momento
dell’instaurazione, la democrazia deve inizialmente basarsi sul compromesso dato dal fatto
che essa nasce sulle ceneri di un vecchio regime e che mantiene al suo interno le persone o
le istituzioni del vecchio regime. Alla fine di questo processo d’instaurazione, è chiaro quali
sono le regole di funzionamento dello Stato, anche se non c’è la certezza che queste regole
possano adattarsi a cambiamenti di vario tipo.

- Consolidamento: è uno degli esiti possibili dell’instaurazione, poiché a volte essa può fallire
e si può tornare indietro. Il consolidamento consiste in un processo (cioè qualcosa che si
modifica nel tempo) che porta alla definizione dei caratteri essenziali del regime, ad una
rigidità dei meccanismi fondamentali e ad una flessibilità dei meccanismi secondari. Il
processo di consolidamento serve quindi a garantire che il processo democratico mantenga
la capacità di prendere le decisioni. I meccanismi e i processi definiti dal consolidamento
sono di vario tipo. Il politologo Morlino dice che ci sono due tipi di processi con cui può
avvenire il consolidamento:
 Processo di legittimazione: riguarda le strutture essenziali e il fatto che sia l’élite che la
massa ritengono valide le istituzioni. La legittimazione avviene attraverso quattro
dimensioni:

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 Compromesso democratico: impone ai partiti in competizione in Parlamento di rispettare il
proprio avversario non come un nemico, ma come un possibile alleato, cioè tutti i partiti
devono percepirsi come ugualmente legittimati.
 Rispetto della legalità: tutte le élite di partito devono rispettare la legge e devono anche
porsi come difensori della legge.
 Neutralità dei militari: gli organi militari devono rinunciare a qualsiasi ambizione politica e
accettare di essere comandati da una élite politica civile.
 Accettazione da parte dei gruppi imprenditoriali privati (attori economici più importanti)
del fatto che le istituzioni politiche tutelino i loro interessi: si riconosce che, nonostante
l’uguaglianza del mercato, un regime ottiene il massimo della legittimazione quando, anche
nell’ambito economico, i grandi gruppi accettano come legittime le istituzioni,
riconoscendogli la capacità di tutelare i loro interessi, cioè quando in esse vedono i loro
difensori.
 Processo di ancoraggio: riguarda i processi secondari. In una democrazia ben funzionante, i
principi di legittimità vengono accettati, qualora però non vengano accettati, un regime
riesce comunque a sostenersi se alcune prassi riescono a colmare questa lacuna
permettendogli quindi di “ancorarsi”. Ci sono due tipi di ancore (prassi):
 Partiti: essi possono fornire una risposta ad alcune esigenze, per esempio garantendo ai
propri iscritti dei benefici che lo Stato non riesce a fornire. A volte la modalità di fruizione di
questi servizi è data da rapporti clientelari, cioè rapporti di scambio di natura privatistica
tra un privato e un funzionario pubblico. Questa prassi è illegale, perché un funzionario di
Stato fornisce un servizio pubblico in modalità privata, quindi è una forma di corruzione.
 Capacità dei sindacati, dei governi e dei gruppi di pressione di strutturarsi attraverso
strutture triangolari: la concertazione in ambito di rapporti industriali non avviene tra
sindacato e Confindustria, ma in modo triangolare con il governo, che si pone come
mediatore. La forma più evidente di questo è che lo Stato paga Confindustria e sindacati
per non fare scioperi.

- Stabilità: non implica particolari cambiamenti, il regime funziona correttamente. Ci mostra


che, in un certo periodo di anni, non succede nulla di strano e il regime perdura senza
turbamenti.

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- Crisi: comincia quando compaiono i vari fenomeni di radicalizzazione, estremizzazione e
violenza.

PARADIGMI IN SCIENZA POLITICA

Un paradigma consiste in una serie di assunti (affermazioni non necessariamente vere) in merito
all’oggetto studiato. Nel corso degli ultimi sessant’anni si sono sviluppati tre diversi paradigmi
(scuole di pensiero): paradigma della scelta razionale, paradigma neoistituzionalista, paradigma
culturale. Questi tre paradigmi cercano di mostrare quali sono le spiegazioni migliori nell’analisi
della scienza politica (definita come “lo studio ovvero la ricerca sui diversi aspetti della realtà
politica al fine di spiegarla il più compiutamente possibile adottando la metodologia propria delle
scienze empiriche”) .

LA SCELTA RAZIONALE

Ci dice che è possibile studiare i fenomeni politici più o meno come gli economisti studiano
l’economia. Le previsioni degli economisti sono tendenzialmente più affidabili di quelle dei
politologi. Si cerca quindi di mutuare degli strumenti dallo studio dell’economia per lo studio
politologico. Emergono due concetti dell’economia che si possono applicare anche allo studio
della politica:

- L’“homo economicus”: è un concetto secondo cui l’uomo prende le proprie decisioni


tenendo conto di come fare a massimizzare l’utile (il guadagno). Questo concetto può
essere applicato anche in politica, ovvero l’attore che prendiamo in considerazione
cercherà di massimizzare il proprio utile. Tuttavia, mentre in economia è facile misurare
l’utile (i soldi), in politica non è così semplice misurare chi o cosa garantisce un maggior
ritorno. Questo assunto ha quindi sia dei vantaggi che degli svantaggi. Il procedimento che
rende possibile il concetto di “homo economicus” in economia è che ci sia un’idea di
razionalità molto forte, mentre in politica non sempre le decisioni prese sono del tutto
razionali.

- La scelta individuale: si possono capire molti fenomeni della società mettendoci nei panni
del singolo. Ma se poniamo la scelta individuale come punto focale della nostra attenzione,
si presuppone che la società nel suo complesso sia il risultato della somma delle azioni di

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singoli individui. Questo approccio abbraccia quindi l’individualismo metodologico, motivo
per cui è criticato, perché i fenomeni che avvengono nella società sono difficilmente
spiegabili partendo soltanto da quello che fa il singolo individuo.

L’approccio della scelta razionale ipotizza che gli attori politici siano razionali e che quindi
prenderanno delle scelte basate sul loro interesse. I primi autori che adottano questa prospettiva
(Gaetano Mosca, George Catlin, Joseph Schumpeter) cercano di costruire delle analogie tra il
mercato e la politica. Schumpeter scrive sulla democrazia dicendo che essa è come un mercato,
ovvero un punto di incontro tra domanda offerta. Egli dice che nel mercato elettorale, i produttori
di beni (i partiti) devono vendere il proprio prodotto (con la propaganda elettorale) agli elettori,
cioè devono competere tra loro, e vince chi riesce a vendere più prodotto (chi ottiene più voti).
Questi studi sono però ancora acerbi. Negli anni ’50 si sviluppa la “rivoluzione del
comportamentismo”, che dice di partire dal comportamento dei singoli attori e vedere come il loro
comportamento si possa spiegare. Si vuole quindi ora studiare le masse, le singole persone. Questi
studi hanno diversi assunti:

- L’individuo è l’attore principale: assunto legato all’individualismo metodologico. Ogni


attore è definito “egoista e razionale”, cioè ognuno ha un interesse motivato solo dalla
propria soddisfazione personale e conosce anche il suo obiettivo e i mezzi necessari per
raggiungerlo. Gli attori dispongono di informazioni “perfette”, cioè sanno bene quali sono
le conseguenze delle loro azioni.

- Gli attori hanno degli ordini di preferenza: sanno stabilire quali risultati, fra tutti quelli
possibili, sono i loro preferiti. Gli ordini di preferenza sono stabili (non cambiano), sono
coerenti tra loro e sono transitivi (se il primo è preferibile rispetto al secondo, è preferibile
anche rispetto al terzo, cosa che non è sempre vera).

- Le preferenze sono esogene: sono fissate da un fattore esterno e non cambiano.

Nell’approccio della scelta razionale si possono studiare tre tipi di comportamento:

- Azioni individuali: qualsiasi singolo attore ha un obiettivo finale individuale. Noi studiamo il
comportamento degli elettori. C’è una teoria, la “teoria dell’elettore mediano”, che dice
che se in un sistema elettorale maggioritario ci sono diversi elettori con diversi interessi, il

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risultato ottimale sarà dato dall’elettore mediano, ovvero se c’è da prendere una decisione,
il massimo dell’utilità collettiva (la massimizzazione dell’utile) viene raggiunta scegliendo
l’opzione mediana, la via di mezzo (il tutto è dimostrabile matematicamente  esempio:
pizze da 10, 20 e 30 euro, meglio quella da 20).

- Azioni interattive: si possono spiegare con una teoria, la “teoria dei giochi”, uno strumento
concettuale che serve per spiegare le interazioni tra attori. Nei giochi infatti, per spiegare
qualche risultato occorre vedere le azioni sia del vincitore che del perdente. Allo stesso
modo, il risultato di un’azione interattiva è dipendente dalle scelte dell’uno e dell’altro
attore. La maggior parte dei comportamenti politici è infatti data dall’interazione. La
componente fondamentale di un gioco sono i giocatori. Ogni giocatore deve avere delle
strategie, cioè delle opzioni disponibili che si possono compiere o non compiere, e il
risultato di queste strategie sono i “payoff” (i premi per l’esito del gioco). Questo lo si può
spiegare con l’esempio del “gioco a somma zero”. In questo gioco non c’è possibilità di
pareggio, uno vince e l’altro perde. Ci sono due giocatori, A e B, ognuno con due strategie
disponibili da poter giocare, cioè pari o dispari. Ci sono quindi quattro possibili
combinazioni (pari-pari, pari-dispari, dispari-pari, dispari-dispari). Di conseguenza, se il
giocatore A sceglie pari ci possono essere quattro diversi esiti. Ad ogni esito è associato un
risultato, ma ogni volta uno guadagna e l’altro perde. Il risultato può essere positivo o
negativo e il gioco si chiama “a somma zero” perché quello che vince uno è esattamente
uguale a quello che perde l’altro. Se i giocatori sono razionali e vogliono entrambi vincere,
quale sarà il risultato finale? Si può prevedere. Se il giocatore A conosce i possibili risultati
delle proprie scelte e anche cosa è possibile che vinca, allora è avvantaggiato. Inoltre si dice
che B ha una “strategia eliminante”, cioè non importa quello che sceglierà perché la
strategia dispari gli conviene sempre. Quindi, indipendentemente da quello che farà A,
anche se B non vince cercherà di minimizzare i danni giocando sempre la strategia dispari.
Di conseguenza A capirà che ha due opzioni possibili, cioè vincere poco o perdere. A
giocherà quindi dispari, che è la “strategia del maximin”, cioè massimizzare il risultato
minimo, cercare di limitare le perdite. I giocatori razionali cercheranno quindi di fare in
modo che il risultato minimo sia il più alto possibile. Con questo gioco si può dimostrare
come, in certe situazioni di pura competizione, la strategia razionale di alcuni attori ci

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permetta di prevedere il risultato all’inizio. Un altro esempio di gioco, in cui però la somma
dei “payoff” è diversa da zero (quindi i giocatori possono anche cooperare tra loro), è il
“dilemma del prigioniero”. Ci sono due giocatori, A e B, che si trovano in custodia
cautelare perché si suppone stiano organizzando una rapina. A e B sono complici e sono
interrogati separatamente (quindi non possono consultarsi tra loro) dalla polizia, che
intima loro di confessare. I due giocatori hanno due strategie possibili, confessare o non
confessare. Se confessano tradiscono il proprio complice, se non confessano rimangono
fedeli. A nessuno dei due però importa del proprio complice, ma gli importa sapere se
andranno o no in prigione. Sono due attori razionali, quindi la polizia, per incentivarli a
confessare, propone una struttura di “payoff”. Sia ad A che a B viene detto che se uno
confessa l’intenzione di fare una rapina e l’altro complice non confessa, chi confessa la può
fare franca, poiché la polizia scaricherà sull’altro la responsabilità, condannandolo a dieci
anni di prigione. Se invece entrambi confessano, andranno in prigione entrambi per cinque
anni. Confessare si rivela quindi avere dei vantaggi poiché se va bene si è liberi e se va male
si fanno cinque anni anziché dieci. Se nessuno dei due confessa, la polizia, in assenza di
prove concrete, può condannare entrambi, ma solo ad un anno di prigione. Il risultato
peggiore di tutti invece è che se uno non confessa e l’altro tradisce, chi non ha confessato
andrà in prigione per quindici anni e chi ha tradito sarà libero. Come si comporteranno gli
attori? Possono defezionare (tradire) o cooperare (mantenere il segreto). Il miglior risultato
possibile per entrambi è che uno defezioni e l’altro cooperi, cosa da cui deriva che il punto
di equilibrio, che è subottimale, sarà la strategia della defezione. Qualsiasi cosa faccia
l’altro, defezionare è l’opzione migliore. Infatti se il giocatore A coopera, B, supponendo
che A cooperi, sceglierà di defezionare. Questo gioco permette di capire perché in alcune
interazioni, anche volendo ottenere il massimo risultato possibile, il risultato è subottimale.
Attori razionali che giocano in modo razionale cercando di ottenere il miglior risultato
possibile, non riescono a farlo. Questo gioco permette quindi di capire dei procedimenti
con la stessa struttura, come, per esempio, la corsa agli armamenti. Entrambe le potenze
avevano un vantaggio a cooperare per ridurre il numero degli armamenti, perché
avrebbero raggiunto un risultato ottimale. Tuttavia, entrambe scelsero di defezionare
perché scegliere di limitare gli armamenti, per entrambi avrebbe avuto senso solamente se
fossero stati sicuri che anche l’altro avrebbe fatto altrettanto.

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- Azioni collettive: necessitano di un accordo. Si possono spiegare con la “teoria della scelta
pubblica”, sviluppata da Buchanan e Tullock, i quali si chiedono se ci sono delle regole
decisionali che permettono di raggiungere delle soluzioni ottimali. Dicono che qualsiasi
regola impone dei costi, i quali sono di due tipi:
 Costi decisionali: quanto è difficile arrivare ad una decisione finale. Varia da quanti sono gli
attori necessari per avere la maggioranza.
 Costi esterni: costi che presenti quando si prendono delle decisioni senza essere concordi.
Per renderli minimi bisogna avere il maggior consenso possibile.

Una decisione ottimale minimizza la somma dei due costi. C’è un problema, che i due costi
hanno andamenti opposti. Quindi non c’è un sistema di decisione ottimale. Se c’è un
metodo ottimale, questo dipende dal tipo di decisione che deve essere presa.

CRITICHE ALLA SCELTA RAZIONALE

Sono state mosse diverse critiche rivolte a particolari aspetti del paradigma della scelta razionale.
Gli aspetti in questione sono:

- Razionalità: molti comportamenti non sono “razionali” nella realtà, poiché razionalità
significa scegliere fra alternative che conosciamo, ma a volte le decisioni prese portano a
risultati inattesi che non si possono prevedere inizialmente. La razionalità degli attori è
sempre limitata, quindi molti comportamenti degli attori possono sembrare razionali ma
non lo sono. L’assunto si basa solo sul rapporto mezzi-fini, cioè si dice che un attore è
razionale nella misura in cui prende le proprie decisioni in base ai propri fini. L’assunto
implica poi informazione perfetta.

- Teoria dei giochi: la dicotomia “cooperazione/definizione” distorce la realtà. I “payoff”


(premi risultanti dall’esito del gioco) possono essere manipolati dagli attori, i quali
potrebbero avere delle preferenze diverse.

- Individualismo: il comportamento, anche quello del singolo, è condizionato dal contesto


esterno. L’individualismo è un approccio riduzionista, cioè non riesce a spiegare perché
attori che sono diversi, in contesti analoghi, fanno le stesse cose.

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IL NEOISTITUZIONALISMO

C’è un’idea centrale, ovvero che le istituzioni contribuiscono a spiegare i fenomeni politici.
L’istituzionalismo afferma infatti che le istituzioni sono importanti perché servono a spiegare i
fenomeni delle relazioni politiche. Le istituzioni sono appunto delle regole formali e informali che
strutturano le interazioni politiche e sociali (es: sistema elettorale, assetto costituzionale,
regolamenti parlamentari). Le istituzioni hanno tre effetti che spesso si sovrappongono:

- Creano contesti di interazione: regolano le interazioni sociopolitiche.

- Generano attori istituzionali: creano degli attori politici che operano in contesti
istituzionalizzati e che non esisterebbero se non fosse per le istituzioni stesse (es: capo del
governo).

- Distribuiscono potere e risorse: la distribuzione avviene sia tra attori politici che sociali.

Il Neoistituzionalismo nasce negli anni ’70 -’80, grazie ad una serie di studi sullo Stato. C’erano
delle reazioni a delle teorie sociologiche (come il pluralismo e il marxismo) che vedevano le
istituzioni come variabili dipendenti, arene neutrali. Con il Neoistituzionalismo c’è una reazione
allo studio tradizionale dello Stato (e altre istituzioni), che era legalistico, descrittivo e normativo. Il
vecchio Istituzionalismo era una scuola in voga dalla fine dell’800 fino agli anni ‘30-’40, ed era
vicino al diritto pubblico. I neoistituzionalisti volevano distinguersi dai vecchi istituzionalisti
dicendo che le istituzioni sono importanti per spiegare le relazioni causa-effetto della politica, cioè
essi vogliono spiegare la politica e perché le cose sono come sono.

Il Neoistituzionalismo è diventato una scuola dominante nella scienza politica americana e oltre (i
sociologi Pierson e Skocpol scrissero: “Ormai siamo tutti istituzionalisti”). Nel ’96, i sociologi Hall e
Taylor scrissero un articolo in cui proponevano una tripartizione di Istituzionalismi, che in parte
sono sovrapposti:

- Istituzionalismo razionalista
- Istituzionalismo sociologico

- Istituzionalismo storico

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ISTITUZIONALISMO RAZIONALISTA

Parte dal paradigma della “scelta razionale”, ovvero che la politica è fatta da attori le cui
preferenze di base sono esogene e fisse, cioè sono determinate a priori e rimangono le stesse.
L’Istituzionalismo razionalista considera le variabili intervenienti (tra causa ed effetto) che
strutturano e alterano i contesti strategici, riducono i costi di transazione, cambiano i “payoffs” e
determinano le strategie possibili. In politica ci si pone il problema di come creare (e come
spiegare) la cooperazione fra soggetti (es: Stati). Un esempio di Istituzionalismo razionalista è il
“dilemma del prigioniero”.

ISITITUZIONALISMO SOCIOLOGICO

Definisce le istituzioni in maniera molto più ampia. L’Istituzionalismo sociologico include regole e
strutture intersoggettive (purché istituzionalizzate). Le strutture intersoggettive sono costruzioni
mentali condivise all’interno di un gruppo sociale (es: idee, norme, cultura). Una struttura
intersoggettiva è simile ad una struttura soggettiva, cioè è astratta e non tangibile, ma deve anche
essere condivisa. Gli istituzionalisti sociologici dicono che le istituzioni creano dei quadri prescrittivi
e/o cognitivi che influenzano il comportamento sociopolitico. Questo si può spiegare con un
esempio sugli armamenti e il pericolo:

- Tre paesi: A, B e C.

- A ha 1 missile, B ha 100 missili. Chi dovrebbe essere più temuto da C? Logicamente si


risponderebbe B.

- Diamo dei nomi ad A, B e C: A (Corea del nord), B (Regno Unito), C (Stati Uniti). Chi
dovrebbe essere più temuto da C? la risposta è cambiata ed è A, perché ora si sono
aggiunti dei fattori che influenzano la risposta.

ISTITUZIONALISMO STORICO

È il più propriamente “istituzionale” tra i tre tipi di Istituzionalismi. L’Istituzionalismo storico ha


un’accezione più politica di istituzioni (come l’Istituzionalismo razionalista). Ha un ruolo

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costitutivo delle istituzioni (come l’Istituzionalismo sociologico). Vede le istituzioni anche come
variabili indipendenti (oltre che come variabili intervenienti), cioè come qualcosa che può
cambiare le preferenze degli attori. Ha una prospettiva storica e modelli “ad albero”, cioè le
istituzioni sono un prodotto di eventi politici passati che, una volta create, incanalano gli eventi
successivi in direzioni da cui è difficile deviare, anche se sono inefficienti o “irrazionali”. Gli
istituzionalisti storici parlano quindi di “path dependence”: ciò che accade oggi è spiegato da ciò
che è accaduto ieri. Questo porta però, nel momento di dare delle risposte, alla possibilità che le
risposte siano tautologiche. Per questo hanno importanza le giunture critiche, cioè i momenti in
cui si prende una decisione, e mano a mano che passa il tempo è sempre più difficile e costoso
tornare indietro. Il metodo prevalente dell’Istituzionalismo storico è quindi lo studio dei casi.

L’Istituzionalismo storico, pur essendo efficiente, ha dei limiti:

- Il paradigma è necessariamente eclettico: non tutte le interazioni politiche e sociali sono


istituzionalizzate. In questi casi, l’istituzionalista deve appoggiarsi ad altre teorie e modelli
di azioni politica.

- Difficoltà nello spiegare il cambiamento: ci sono periodi di inerzia interrotti da momenti di


crisi e cambiamento. L’istituzionalista storico tenta quindi di spiegare il cambiamento con il
“modello di equilibrio punteggiato”, che dice che può avvenire un cambiamento solo
quando ci sono degli eventi traumatici tali da creare cambiamenti delle istituzioni.

Negli ultimi dieci anni c’è una sfida, quella di spiegare il cambiamento graduale che sta avvenendo
oggi. Gli istituzionalisti storici stanno quindi tentando di elaborare dei modelli che, partendo da
diverse variabili, tentino di spiegare il cambiamento.

IL PARADIGMA CULTURALE

La tesi centrale è che i fenomeni politici riflettono idee (concetti), valori (princìpi che indicano ciò
che è giusto e ciò che è sbagliato) e credenze condivise (visioni comuni sulla politica). C’è un
sistema di valori che plasma gli standard di una comunità. Idee, valori e credenze condivise sono
racchiusi in un unico termine: cultura (civica o politica). La cultura spiega:

- Le forme di governo.

- Le politiche pubbliche.

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Un paradigma è quindi importante perché riesce a spiegare ambiti molto diversi tra loro con
un’enorme mole di dati empirici.

IL PARADIGMA CULTURALE: PRECEDENTI

Montesquieu: lo “spirito” della nazione

Montesquieu dice che per spiegare la presenza di una democrazia o di una monarchia in una
nazione bisogna guardare lo “spirito generale” della nazione stessa. Le forme di governo si
distinguono per il numero di governanti e per le modalità di esercizio del potere, ma anche per i
valori sottesi delle forme di governo. Montesquieu individua un valore fondamentale per ogni
forma di governo:

- Virtù: valore che caratterizza la Repubblica. Ci sono dei popoli che hanno insito in loro un
generale rispetto della legge e quindi di obbedienza per accettazione di una legittimità.

- Onore: valore che caratterizza la Monarchia. L’onore significa che la società nel suo
complesso accetta che al suo interno ci siano diseguaglianze e privilegi.

- Paura: valore che caratterizza il Dispotismo. La paura è la subordinazione totale al potere.

Tocqueville: i costumi statunitensi

Per spiegare la democrazia degli Stati Uniti, che li distingue dal resto dell’Europa, Tocqueville dice
che bisogna analizzare i costumi americani. Tocqueville individua due costumi fondamentali:

- Spirito religioso e spirito liberale: i due spiriti coesistono pacificamente, quindi libertà
individuale e obbedienza ad un’autorità superiore non sono in contraddizione fra di loro (in
Francia non è così, per esempio).

- Patria: mentre in Europa si è sviluppata l’idea di nazione, negli Stati Uniti c’è l’idea di
patria, ovvero l’identificazione dello Stato con un valore positivo. Il potere dello Stato non è
quindi di pura forza, ma è legittimo e quindi nel bene del cittadino.

Marx: il concetto di ideologia

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L’ideologia è un concetto che si è sviluppato soprattutto con Marx ed Engels. Per Marx, l’ideologia
è la rappresentazione fallace della verità, cioè una mistificazione della realtà che, con immagini
illusorie, distorce i veri rapporti sociali. Le ideologie si applicano sia nel sapere che in politica. Negli
ultimi cinquant’anni, tuttavia, si è cominciato a parlare di “fine delle ideologie”.

Riesman: Il carattere sociale

Riesman è un sociologo che ha studiato l’atteggiamento politico. In base alla predisposizione delle
persone, Riesman ha individuato tre tipi di atteggiamento, che porteranno a tre stili politici
diversi:

- Carattere diretto dalla tradizione: proprio di coloro che seguono la politica in modo
abbastanza apatico, cioè che si conformano alla politica disinteressandosene. Porta allo
stile politico degli “indifferenti”.

- Carattere auto-diretto: proprio di coloro che interiorizzano alcuni fini e alcuni valori, cioè
che si pongono degli obiettivi e cercano di raggiungerli. Per loro la politica è una tecnica per
rispondere a dei problemi. Porta allo stile politico dei “moralizzanti”, cioè coloro che
diventeranno burocrati di professione. Il moralizzante non svolge il suo ruolo per far del
bene alla gente, ma per far del bene all’interno delle istituzioni che egli rappresenta.

- Carattere etero-diretto: proprio di coloro che si lasciano influenzare dalle preferenze e


dagli interessi altrui, cioè che sono disposti a mettere in gioco le proprie convinzioni. Hanno
una visione partecipativa della politica. Porta allo stile politico dei “bene informati”, cioè
coloro che, diversamente dai burocrati, non sono interessati al benessere delle istituzioni,
ma delle persone.

IL PARADIGMA CULTURALE: LA CULTURA

La cultura politica è un “insieme di atteggiamenti, orientamenti e opinioni che i membri di un


sistema politico manifestano nei confronti della politica”. Secondo Ammon ci sono tre
componenti della cultura politica:

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- Componente cognitiva: la semplice informazione. Possono esserci individui bene o male
informati riguardo la politica. A seconda del grado di informazione, deriveranno diversi tipi
di atteggiamento nei confronti della politica.

- Componente affettiva: sentimenti provati dagli individui nei confronti della politica.
Possono esserci individui attratti dalla politica o individui che provano repulsione verso
essa.

- Componente valutativa: valutare se i risultati della politica siano buoni o cattivi.

Da queste considerazioni possiamo definire tre diversi tipi di cultura politica, che porteranno a
orientamenti politici diversi:

- Cultura politica dei provinciali: hanno una scarsa conoscenza della politica (componente
cognitiva), provano repulsione verso la politica (componente affettiva), e quindi il loro
giudizio su di essa sarà negativo (componente valutativa). L’atteggiamento dei provinciali
porta all’apatia, atteggiamento più diffuso nella società. Il carattere dell’apatia è proprio
di un sistema politico tradizionale.

- Cultura politica dei sudditi: hanno una buona conoscenza della politica, ma hanno uno
scarso interesse verso essa, cosa che porterà ad un giudizio discordante della politica.
L’atteggiamento dei sudditi porta alla passività, cioè subiscono le decisioni che vengono
prese. Il carattere della passività è proprio dei regimi autocratici.

- Cultura politica dei partecipanti: hanno una buona consapevolezza della politica, cosa che
implica un loro interesse nel parteciparvi, e questo farà sì che abbiano un giudizio positivo
della politica. L’atteggiamento dei partecipanti porta alla partecipazione. Il carattere della
partecipazione è proprio delle democrazie.

IL PARADIGMA CULTURALE: EFFETTI

Fukuyama: “La fine della storia”

Nel 1989, Fukuyama dice che la storia (intesa come interazione ideale/reale) è finita. Con questa
espressione intende che il meccanismo che ha fatto procedere la storia è in qualche modo è

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arrivato ad una conclusione. Fukuyama, riprendendo il pensiero di Hegel, osserva che la storia è un
continuo dialogare fra la dimensione ideale e la dimensione reale. Nella dimensione ideale c’è una
competizione di valori. II contesto storico in cui Fukuyama diceva queste cose era infatti quello
della fine della Guerra Fredda, cioè della fine della competizione fra la Democrazia liberale e il
Comunismo. Alla fine della Guerra Fredda e con la vittoria della Democrazia liberale, Fukuyama
dice che il mondo sarà sempre più democratizzato, nonostante emergeranno altre forme di
competizione con cui la democrazia dovrà confrontarsi (es: nazionalismo, estremismo religioso),
anche se Fukuyama dice che queste non dureranno molto e cederanno alla democrazia. Quindi
Fukuyama ha una visione positiva del futuro della cultura politica.

Huntington: “Lo scontro delle civiltà”

Huntington dice, riprendendo il pensiero di Fukuyama, che le idee contano ancora parecchio. Una
civiltà è un gruppo che si definisce ad un livello che va ben oltre quello degli Stati. Si possono
distinguere pochissime civiltà al mondo, non più di otto. Una civiltà è un insieme di persone
accomunate dalla lingua, dalla cultura, dalle tradizioni e dalla religione. Huntington dice che le
civiltà individuabili nel mondo (occidentale, islamica, indù, confuciana, giapponese, slavo-
ortodossa, latino-americana, africana) andranno per forza a scontrarsi fra loro (cosa opposta a
quello che dice Fukuyama), e questo avverrà per due motivi:

- Globalizzazione: la globalizzazione ha reso il mondo sempre più piccolo e quindi le


interazioni fra le varie civiltà sono sempre più frequenti, cosa che aumenterà il rischio di
attrito fra di loro.

- Invadenza dell’Occidente: l’Occidente, dice Huntington, ha esportato i propri valori in tutto


il mondo generando reazioni avverse.

Lo scontro che avverrà sarà su tre livelli:

- Livello micro: scontro tra piccoli gruppi.

- Livello macro: scontro a livello internazionale.

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- Livello di “Torn States” (“Stati dilaniati”): scontro in paesi in cui convivono due culture
diverse, come per esempio la Turchia, dove convivono la componente islamica e la
componente pro-occidentale.

IL PARADIGMA CULTURALE: CRITICHE

Al paradigma culturale sono state mosse diverse critiche:

- Rapporto di causazione collineare: l’approccio culturale ci dice che la cultura è causa di


qualcosa, solitamente di un comportamento. Tuttavia, un’elevata cultura civica è presente
solo dove l’“output” dello Stato è efficiente, cioè dove i servizi offerti dallo Stato soddisfano
i cittadini.

- Come misurare la cultura?: la cultura in quanto tale è un fenomeno che non si misura
facilmente. Bisogna quindi scegliere degli indicatori sufficientemente adeguati per
misurarla (se esistono). Quindi alla domanda su come si misuri la cultura non si può dare
una risposta univoca. Per questo motivo si è proposto di misurare la cultura politica
osservando i comportamenti. Ma anche questo metodo ha un problema, perché così la
spiegazione diventerebbe tautologica (es: l’Italia va meno in guerra degli Stati Uniti.
Perché? Perché in Italia c’è una cultura della pace. Come si può dire che in Italia c’è una
cultura della pace? Perché va meno in guerra).

- Come separare il ruolo di fattori materiali e culturali?: se vogliamo dare una risposta ad un
certo comportamento dobbiamo considerare sia il fattore materiale, sia quello culturale,
che entra in contatto con la razionalità. I due fattori materiale e culturale possono quindi
sembrare inseparabili.

TABELLA RIASSUNTIVA DEI PARADIGMI

SCELTA RAZIONALE NEOISTITUZIONALISMO PARADIGMA


CULTURALE

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ONTOLOGIA Sistema di scambi e Insieme di regole e Aspettative/valori
negoziazioni procedure condivisi e
contrapposti

UNITÀ D’ANALISI Individui Istituzioni Collettività

PREFERENZE Esogene, stabili Endogene Endogene

CAUSE ULTIME Interesse egoistico Contesto, istituzioni Identità, idee, valori

I GRUPPI DI PRESSIONE

In una democrazia, i gruppi di pressione (o gruppi di interesse) sono importanti perché riescono a
portare delle esigenze e delle domande della società nelle stanze della politica. I gruppi di
pressione sono una forma di espressione della società, un mezzo di contatto con la politica. Ci
sono molti gruppi di pressione, come per esempio i sindacati. Ci sono anche altri tipi di gruppi di
pressione, che agiscono però per i propri interessi e non per quelli della società.

CENNI STORICI

Ai tempi dell’Impero romano esistevano delle realtà simili ai gruppi di pressione, ovvero le
Corporazioni, cioè gruppi identificati da persone che svolgevano la stessa professione (es:
corporazioni degli artigiani, dei mercanti, ecc..).

Nel Medioevo si sviluppano le Gilde e le Corporazioni locali, delle forme di mutua assistenza fra
persone che svolgevano lo stesso lavoro.

Nel XVIII secolo nascono delle ostilità verso i corpi intermedi, perché tramite essi gli interessi
dell’individuo vengono mediati. Le Gilde vengono infatti viste come delle Caste.

Nel XIX secolo c’è l’ascesa dei sindacati (o gruppi professionali), che rappresentano gli interessi
della classe operaia.

Il più importante è il XX secolo: qui, a causa delle difficoltà causate dalla Prima guerra mondiale, lo
Stato necessita di avere ordine e di mantenere questa situazione di ordine, in particolare degli
operai. Per fare ciò, i governi, oltre a riconoscere agli operai diversi diritti, devono anche
riconoscere loro dei benefici. Si sviluppano così delle organizzazioni di interessi.

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In generale, infine, l’aumento della complessità e dell’articolazione sociale portano alla
proliferazione dei gruppi di pressione, soprattutto in periodi di rapido mutamento sociale, quando
le aspettative legate alla tradizione sono sistematicamente frustrate.

DEFINIZIONI

I concetti di “gruppo di pressione” e “gruppo di interesse” hanno un uso intercambiabile, purché


si sia consapevoli che il primo concetto indica l’azione svolta, mentre il secondo indica che cosa
tiene insieme il gruppo. All’azione di pressione si riferisce il concetto di “lobbying” (derivato da
lobby), che indica l’azione di delegati dei gruppi di interesse, in contatto diretto con
parlamentari, membri del governo, burocrati, con il fine di influenzare le scelte politiche.

Come ogni realtà sfaccettata e complessa, poter definire un gruppo di interesse è complicato. La
realtà degli interessi è infatti estremamente variegata in diversi termini. Inoltre gli stessi interessi
della classe operaia, che alcuni anni fa erano visti come omogenei, sono oggi considerati
eterogenei e frammentati. Nella letteratura si è cercato di privilegiare alcuni aspetti di tali concetti.
Arthur Bentley (1908), per esempio, pone l’enfasi sull’interesse e dice che “un gruppo di interesse
coincide con ogni sezione della società con interessi propri che agisca o tenti di agire”. David
Truman (1951) pone l’enfasi sull’atteggiamento e dice che “un gruppo di interesse è qualsiasi
gruppo che, sulla base di uno o più atteggiamenti condivisi, presenta delle domande ad altri
gruppi della società”. Almond e Powell (1978) pongono l’enfasi sulla consapevolezza
dell’appartenenza e dicono che un “un gruppo di interesse è un insieme di individui legati da
comuni preoccupazioni o interessi e che sono consapevoli di questo legame”.

Tutte queste visioni possono essere conciliate con una definizione empirica di gruppo di pressione
(o di interesse): è un insieme di persone, organizzate su basi volontarie, che mobilita risorse per
influenzare le decisioni e le conseguenti politiche pubbliche. Un gruppo di pressione deve quindi
avere delle caratteristiche:

- Organizzazione formalizzata: deve esserci una struttura ben definita.


- Aggregazione volontaria: bisogna essere liberi di partecipare.
- Scopo di influenza: non bisogna prendere decisioni al posto della politica, ma bisogna starle
al fianco per fare “lobbying”, cioè cercare di far prendere determinate decisioni agli
esponenti politici.

CLASSIFICAZIONI

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Esistono diversi gruppi di interesse che si possono classificare per caratteristiche.

- Gruppi di interesse classificati per struttura organizzativa:


 Gruppi di interesse anomici: nati da forme di proteste spesso disorganizzate. Hanno vita
breve e non riescono a influenzare profondamente la politica.
 Gruppi di interesse non associativi: non nascono da una volontà diretta di associazione, ma
da una comunanza. Non hanno grande influenza sulla politica.
 Gruppi di interesse istituzionali: nati dall’unione di rappresentati delle istituzioni statali.
Sono gruppi vicini “per natura” ai vertici della politica, motivo per cui hanno una capacità di
condizionamento connaturata, anche se le aree di interesse sono limitate.
 Gruppi di interesse associativi: nati da una partecipazione volontaria di un gruppo definito
in base ad un interesse che può essere corporativo oppure no.

- Gruppi di interesse classificati per modalità d’azione:


 Gruppi di interesse con forme d’azione convenzionali: hanno contatti con la politica a
livello ministeriale.
 Gruppi di interesse con forme di pressione più forti: sono forme di pressione a volte ai
limiti della legalità, ma pur sempre legali, come gli scioperi. Sono forme di
condizionamento forte.

- Gruppi di interesse classificati per obiettivi:


 Gruppi di interesse “oggettivi” VS gruppi di interesse fondati su preferenze morali.
 Gruppi di interesse pubblico VS gruppi di interesse “speciale”.

- Gruppi di interesse classificati per risorse


 Gruppi di interesse con risorse economico-finanziarie.
 Gruppi di interesse con risorse numeriche.
 Gruppi di interesse con risorse di influenza.
 Gruppi di interesse con risorse conoscitive.
 Gruppi di interesse con risorse organizzative.
 Gruppi di interesse con risorse simboliche.

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RELAZIONI TRA PARTITI E GRUPPI

Gruppi e partiti scambiano influenze e risorse. I partiti possono avere infatti bisogno sia delle
conoscenze tecniche dei gruppi, sia della loro cooperazione per realizzare certe politiche. Nelle
loro relazioni si possono individuare due estremi:

- I partiti fungono da “gatekeepers” (guardiani), cioè tutelano gli interessi della società
raccogliendo le istanze e trasformandole in leggi.

- I gruppi di pressione hanno accesso diretto al “policy-making”, cioè possono arrivare al


Parlamento aggirando i partiti.

Tra questi due estremi si possono trovare quattro soluzioni intermedie di relazioni tra gruppi e
partiti:

- Occupazione: uno o più partiti prevalgono completamente su uno o più gruppi. È una
situazione in cui gli interessi del gruppo sono subordinati a quelli del partito.

- Simbiosi: partito e gruppo si rinforzano a vicenda nelle rispettive sfere di attività. È una
situazione in cui i due si trovano in una posizione paritaria, nella quale l’uno ha bisogno
dell’altro e viceversa.

- Egemonizzazione: un gruppo ha sopraffatto completamente un partito o, addirittura, ha


formato un proprio partito “ad hoc”. È una situazione in cui il gruppo condiziona
completamente il partito, il quale offre un accesso indiretto alle decisioni pubbliche.

- Neutralità: caso intermedio tra occupazione e simbiosi. Il partito mantiene il suo ruolo di
“gatekeeper” (quindi controlla l’accesso alle decisioni pubbliche), mentre il gruppo trova
più conveniente non stabilire contatti privilegiati con alcun partito.

LA TEORIA PLURALISTA DEI GRUPPI

La teoria pluralista dei gruppi è un approccio realistico alla politica, partendo dalla constatazione
che i gruppi sono gli attori più rilevanti in politica.

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I vantaggi della teoria pluralista sono:

- Porta equilibrio tra i vari interessi: la competizione tra i vari gruppi di interesse porta ad
una mediazione tra di essi, permettendo di avvicinarsi così ad una sorta di bene comune.
- Garantisce socializzazione, ossia i singoli individui si socializzano con altre persone: la vita
nelle associazioni educherebbe all’interazione con gli altri, allontanando dal proprio
interesse egoistico.
- Consente autonomia della società dallo Stato: i gruppi esprimono la capacità della società
di organizzarsi dal basso e lo Stato si pone solo come arbitro.

Da qui si possono dedurre 3 assunti:

- Ci sono diversi gruppi e in concorrenza tra di loro, cosa vista come benefica per la
democrazia: la molteplicità dei gruppi spinge verso un continuo negoziato.
- C’è un’adesione volontaria ai gruppi
- C’è l’assenza di rapporti strutturati con lo Stato, in quanto essi non dipendono dalle
istituzioni pubbliche

Sono però state mosse varie critiche alla teoria pluralista:

- Pone dei limiti all’azione collettiva


- Teoria dello scambio: essa si concentra sulle interazione tra i promotori dei gruppi di
interesse e chi vi partecipa. La partecipazione richiede la disponibilità di risorse, il che
spiega la forte presenza di organizzazioni di ceti sociali abbienti. Ai gruppi tendono a
partecipare gli individui con stato sociale più alto.
- Critica normativa, secondo la quale non è vero che tutti gli interessi sono equivalenti, ma ce
ne sono alcuni più importanti e altri meno.

CORPORATIVISMO

A partire dagli anni '70 un filone della letteratura si concentra sul modello neocorporativo,
sottolineando le somiglianze con le corporazioni caratterizzanti il sistema della rappresentanza di
alcuni regimi autoritari.

MODELLO NEOCORPORATIVO

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- Tipo di associazioni: le associazioni sono singole (monopolistiche), a partecipazione
obbligatoria e non in concorrenza le une con le altre ma differenziate. Esse detengono una
licenza e sono riconosciute, sovvenzionate e controllate dallo Stato.
- Rapporti gruppi-Stato: I contatti istituzionali fra gruppi e governo sono frequenti ed efficaci:
i gruppi hanno responsabilità anche nella realizzazione delle politiche.
- Logica della partecipazione dei membri: struttura organizzativa forte, integrata e ricca di
risorse, relativamente indipendenti dai membri e capaci di sviluppare prospettive a lungo
termine.
- Logica di influenza: un sistema istituzionalizzato di interazioni attribuisce alle associazioni
ruoli particolari nell'elaborazione e nella realizzazione delle politiche pubbliche →
concentrazione: accordo tra più attori su decisioni e politiche (governativi e non)

LE CAUSE DEL NEOCORPORATIVISMO

Il neocorporativismo è favorito da:

- integrazione nei mercati


- forti partiti socialisti
- associazioni di interessi ben strutturate

Durante gli anni '30: paesi del Nord e centro europei di piccole dimensioni sperimentano forme di
negoziato tra diverse organizzazioni di interesse e stato per elaborare politiche economiche per
fronteggiare la crisi del commercio internazionale.

Paesi come Svizzera, Svezia, Olanda, Norvegia, Danimarca, Belgio e Austria sono i primi a
centralizzare gli interessi dei lavoratori e a firmare accordi che prevedessero la collaborazione
sociale tra i gruppi di interesse → nascita del corporativismo

La culla del neocorporativismo sono dunque i piccoli paesi europei:

- associazioni di classe e settoriali ben organizzate


- economie integrate internazionalmente
- partiti socialdemocratici forti e stabili
- omogeneità culturale

La crisi negli anni '70 spinge nuovamente i governi a contrattare con sindacati e datori di lavoro,
permettendo la diffusione del neocorporativismo in altri paesi.

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Fattori politici che stimolano il neocorporativismo:

- libertà di associazione
- maggiore capacità di azione collettiva
- impegno nel perseguire politiche di pieno impiego
- partecipazione diffusa e organizzata
- accettazione collettiva delle decisioni politiche

Fattori economici e amministrativi:

- fiducia nell'esperienza professionale


- informazione specializzata
- pianificazione
- sicurezza negli investimenti

A tutto ciò si aggiungono:

- pace sociale
- flessibilità di manodopera
- contenimento salari per accrescere la competitività

Lo sviluppo di un sistema neocorporativo è ostacolato dalla frammentazione delle organizzazioni


di rappresentanza degli interessi.

NEOCORPORATIVISMO: CONSEGUENZE

Alcuni studiosi ritengono che il favore accordato ai gruppi economici forti del neocorporativismo:

- emargina i gruppi più poveri di risorse economiche


- contiene elementi antidemocratici (vantaggi gruppi più forti)
- riduce la competizione e quindi la partecipazione

Altri invece sottolineano la capacità del neocorporativismo di ridurre il tasso di conflitti sul lavoro e
l'insubordinazione verso istituzioni statali.

Il tasso di inflazione è più basso in democrazie con accordi neocorporativi che pluralisti.

Il neocorporativismo porta comunque ad un rischio di sovrarappresentazione degli interessi forti,


legati ad un rafforzamento del circuito funzionale della rappresentanza, come recenti studi hanno
dimostrato.

64
I PARTITI POLITICI: DAI PARTITI STORICI AI PARTITI MODERNI

XVIII secolo: il termine partito ha un’accezione negativa, poiché è visto ancora come una “setta” (o
fazione).

1774: Madison e Burke teorizzano che il partito può avere una funzione positiva laddove si dia
come obiettivo di essere un’organizzazione per il bene pubblico. Il partito nasce quindi da un atto
particolaristico/egoistico, ma viene legittimato quando passa l’idea che esso opera anche per il
bene comune (stesso paradosso della politica, che è una lotta per il potere ma finalizzata al bene
comune).

1911: con il sociologo Michels ha inizio la “Sociologia dei partiti”, cioè il fatto che i partiti nati
all’interno del Parlamento diventino anche rappresentanti della società.

1922: il sociologo Max Weber dà una definizione di partiti come “associazioni fondate su una
adesione libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di
un gruppo sociale e ai propri militanti attivi le possibilità per il perseguimento di fini oggettivi o per
il perseguimento di vantaggi personali o per tutti e due gli scopi”.

1957: l’economista Downs dà una definizione di partiti come “una compagine di persone che
cercano di ottenere il controllo dell’apparato governativo a seguito di regolari elezioni”.

LE FUNZIONI DEI PARTITI

I partiti hanno diverse funzioni:

- Reclutamento dei governanti: prendono dalla società persone che andranno ai vertici
dell’élite politica.

- Controllo sul governo: i partiti hanno diritto di influenzare il governo.

- Partecipazione alla formazione delle politiche pubbliche: il processo di formazione di buone


politiche pubbliche è molto importante ed è influenzato dai partiti.

- Strutturazione del voto: i partiti servono per organizzare i voti degli elettori. Se infatti non ci
fosse un’organizzazione, lo Stato sarebbe difficile da governare.

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- Socializzazione politica: funzione di educazione civica.

L E TIPOLOGIE DEI PARTITI

Tipologia di Weber (1922)

Max Weber è stato il primo a teorizzare una contrapposizione fra due tipi di partiti:

- PARTITO DI NOTABILI: caratterizzato da un personale dotato di risorse autonome, da


un’attività di tipo intermittente e da un atteggiamento di deferenza da parte degli elettori.

- PARTITO DI MASSA: caratterizzato da politici di professione, da un’attività permanente e da


un atteggiamento di delega da parte degli elettori.

Il meccanismo che determina il passaggio dal primo al secondo tipo è l’allargamento del suffragio.

Tipologia di Duverger (1951)

Il politologo Duverger riprende la contrapposizione di Weber, ma la articola rispetto ad altri fattori:

- Rispetto al tipo di partecipazione: PARTITO DI QUADRI (i Quadri sono gli “eletti”, la


leadership allargata del partito) VS PARTITO DI MASSA.

- Rispetto all’unità organizzativa: PARTITO DI COMITATI (struttura temporanea che si


costituisce a ridosso delle elezioni), PARTITO DI CELLULE (forma organizzativa tipica dei
“partiti-setta”, importanti negli anni centrali del ‘900), PARTITO DI MILIZIE (si riferisce a una
realtà importante soprattutto negli anni centrali del ‘900), PARTITO DI SEZIONI (struttura di
cui abbiamo una memoria oramai persa).

Inoltre, per lui abbiamo anche la suddivisione dei partiti in sistemi:

- Sistemi monopartitico: è un partito unico e caratterizza i regimi autoritari.


- Sistemi bipartitico: alternanza di potere tra due partiti e sono ritenuti efficienti.
- Sistemi multipartitici: più coalizioni però è instabile.

Tipologia di Rokkan

Egli parla di come, grazie ad alcuni conflitti e fratture, sono nati i partiti ancora oggi in vigore.

Le quattro fratture fondamentali:

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1. Prima frattura: si sviluppa tra centro e periferia ovvero si riferisce ai conflitti tra un centro
politico, culturale ed economico e le periferie che vennero incorporate nel governo
centrale.
2. Seconda frattura: si sviluppa tra stato e chiesa cioè la costruzione dello “Stato-Nazione” fu
al centro di un conflitto tra stato e chiesa perché la chiesa difendeva le su sfere di
competenza nella formazione delle anime, mentre lo stato difendeva il suo potere in alcuni
campi delicati come l’istruzione. Il nodo della questione fu quindi “il controllo della morale
e delle norme della comunità” (inizialmente era la chiesa che istruiva ecc… e voleva
difendere i suoi diritti).
Queste prime due fasi quindi si sono sviluppate durante la creazione dello stato nazionale.
3. Terza frattura: si sviluppa tra città e campagna cioè il potere politico si estende nelle città,
mentre la rivoluzione industriale creava interessi che andavano contro quelli della zona
agricola. Un esempio fu lo scontro sulle barriere doganali e sui prezzi dei prodotti agricoli.
Questi contrasti in realtà c’erano già nel medioevo, ma questa rivoluzione li accentuò
(scontro quindi tra economia primaria e [campagne] e secondaria [città]).
4. Quarta frattura: si sviluppa tra imprenditori industriali e classe operaia cioè questa
rivoluzione porta a problemi, contrapponendo i capitalisti (borghesia) contro i salariati
(classe operaia).
Queste due ultime fasi si sviluppano invece durante il periodo della rivoluzione industriale.
In questo stesso periodo vedremo che inizierà anche lo scontro tra socialismo (destra:
voleva meno intervento dello stato e meno tassazioni) e comunismo (sinistra: voleva più
intervento dello stato e migliori condizioni di lavoro).

Tipologia di Sartori

La suddivisione effettuata da Duverger è considerata troppo banale e semplificatoria infatti si dice


che oltre al numero di partiti è importante anche la dimensione. Quindi come contare i partiti?
Per far sì che il conteggio sia intelligente un partito ha sicuramente una di queste caratteristiche:

- Potenziale di coalizione cioè può entrare in coalizioni di governo.


- Potenziale di ricatto cioè il partito ha effetto sulle tattiche usate dagli altri.

Con questi due criteri ha classificato i partiti in modo più complesso:

I sistemi monopartitici, che sono suddivisi in:

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- partito singolo (un solo partito)
- partito egemonico (gli altri partiti sono satelliti del partito principale)
- partito predominante (i partiti minori sono in constante competizione con il partito
predominante infatti vince sempre quest’ultimo).

I sistemi bipartitici, questi sono quei partiti che:

- possono competere con la maggioranza per ottenere i seggi


- uno dei due partiti deve ottenere la maggioranza
Dunque qui c’è il principio di competizione.

I sistemi multipartitici, che sono suddivisi in:

- multipartitismo moderato (numero di partiti non superiore a 5 e tutti sono orientati ad


andare al governo e ci sono due coalizioni in particolare che lottano per avere maggiore
influenza).
- pluralismo polarizzato (un numero di partiti superiore a 5 e qui c’è tendenza a fare
promesse che non si mantengono, presenza di partiti antisistema, mentalità importante).
- multipartitismo segmentato (numero di partiti superiore a 5 ma con bassa polarizzazione
ideologica).

Pluralismo polarizzato e Caso italiano

Il pluralismo polarizzato ha caratterizzato il caso italiano cioè c’erano due partiti: il Movimento
sociale italiano (Msi) ed il Partito comunista italiano (Pci). In questi partiti c’erano più di 5 partiti e
tra questi c’erano anche partiti antisistema. Dunque c’era la politica radicalizzata. In realtà il caso
italiano non viene visto come un caso di pluralismo. Inoltre si è passato da un multipartitismo
polarizzato ad un multipartitismo moderato.

LA CRISI DEL PARTITO DI MASSA

La “legge ferrea dell’oligarchia” (Michels, 1909): teorizzata da Michels, dice che tutti i partiti
politici si evolvono da una struttura democratica aperta alla base, in una struttura dominata da
una oligarchia. Questo deriva dalla necessità di specializzazione, la quale fa sì che un partito si
strutturi in modo burocratico, creando dei capi sempre più svincolati dal controllo dei militanti di
base. Con il tempo, chi occupa cariche dirigenti si "imborghesisce", allontanandosi dalla base e
formando un’élite compatta.

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Il “Catch-all party” (Kirchheimer, 1966): è un tipo di partito di cui si inizia a parlare in Germania
negli anni ’60, caratterizzato da una struttura tipica del partito di massa, ma con un
ridimensionamento del supporto ideologico. Un’altra caratteristica è il rafforzamento della
leadership. È caratterizzato poi da un ridimensionamento dell’attivismo partitico. I messaggi di
questo tipo di partito sono rivolti ad un pubblico più ampio. Infine c’è un’apertura a diversi gruppi
di interesse.

Dal “partito burocratico di massa” al “partito professionale-elettorale” (Panebianco, 1982):


Panebianco propone una contrapposizione tra il partito burocratico di massa (partito di massa) e il
partito professionale-elettorale. Nel partito burocratico di massa viene enfatizzata la centralità
della burocrazia. È un partito di “membership” in cui c’è preminenza dei dirigenti interni. È
finanziato tramite tesseramento e attività. C’è un accento sull’ideologia. Il partito professionale-
elettorale enfatizza la centralità dei professionisti. È un partito elettorale in cui c’è preminenza dei
rappresentanti pubblici. È finanziato tramite gruppi di interesse e fondi pubblici. C’è un accento su
“issues” e leadership.

Il “Cartel party” (Katz e Mair, 1996): è un’organizzazione più leggera del partito di massa. C’è una
concentrazione del lavoro sul profilo elettorale. La sua risorsa principale è il finanziamento
pubblico. È presente una diminuzione ulteriore degli assetti ideologici. Il messaggio di questo
partito è sempre più importante e articolato, a discapito del programma che propone. Ha un pieno
controllo sui mezzi della comunicazione politica.

BUROCRAZIA E STATO

Molti Stati vedono nella burocrazia la spina dorsale della propria amministrazione. Dal punto di
vista funzionale, la burocrazia statale è un processo attraverso cui le regole e le leggi prese in
Parlamento vengono tradotte in pratica. Dal punto di vista organizzativo, la burocrazia sono tutti
quegli uffici di cui lo Stato si serve per governare.

Burocrazia e Stato sono nati insieme e vanno di pari passo. La burocrazia serve allo Stato per
ottenere consenso, quindi c’è un rapporto di dipendenza dello Stato dalla burocrazia. Infatti i
cittadini riconoscono che il potere statale è legittimo quando esso è esercitato rispettando le leggi
(prospettiva teorica). L’apparato burocratico non è solo funzionale per la stabilità del potere, ma è
anche coevo con lo Stato, cioè è nato assieme a lui (prospettiva storica). Lo Stato moderno si

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sviluppa sottraendo autorità, funzioni e capacità di controllo territoriale ad altre fonti di potere.
Per ottenere il controllo su un territorio, lo Stato si serve di forze dell’ordine. Per difendere il
proprio territorio, lo Stato si serve dell’esercito. La funzione principale della burocrazia era quindi
la difesa. Prima dello Stato, il burocrate era una figura privata, un servitore di un sovrano. La
simbiosi fra Stato e burocrazia si può vedere nel fatto che tre caratteristiche dello Stato richiedono
una parte burocratica. Queste caratteristiche sono:

- Accentramento territoriale: alla fine del Medioevo il sovrano deve essere in grado di
gestire la “cosa pubblica” al meglio, cosa che richiede un apparato di funzionari sempre più
organizzato.

- Monopolio della forza legittima: per garantire la sicurezza e l’ordine, lo Stato necessita di
personale (polizia ed esercito).

- Impersonalità del comando: nello Stato, l’obbedienza al dominio politico non è dettata
dalla paura di una punizione, ma da un “senso di obbligazione”, di doverosità morale e dal
riconoscimento da parte di chi è assoggettato al potere che esso non è arbitrario, ma è
volto all’interesse di tutti.

DEFINIZIONE WEBERIANA DI BUROCRAZIA

Secondo Max Weber, la burocrazia è un insieme di organizzazioni che si basano su una serie di
princìpi. Il principio base è che ad ogni componente dell’organizzazione spettano alcune
competenze che corrispondono a diversi livelli di autorità. La burocrazia, secondo la visione di
Weber, ha diverse caratteristiche:

- È improntata su un principio di razionalità: è uno strumento per governare e, in quanto


tale, deve essere razionale.

- È neutrale: la burocrazia promuove l’uguaglianza di tutti. Tutti sono uguali di fronte alla
legge.

- Ha una gerarchia: c’è un capo e una catena gerarchica.

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- Si basa sul principio della competenza: le diverse funzioni degli apparati burocratici sono
svolte da persone non scelte casualmente o per origine nobile, ma scelte per competenza.

ESPANZIONE DELLA BUROCRAZIA

La burocrazia nasce da un piccolo gruppo di funzionari, mentre al giorno d’oggi si è allargata


enormemente. Inizialmente, il numero delle funzioni che la burocrazia doveva svolgere era molto
limitato, mentre oggi ce ne sono moltissime. Inoltre, la spesa di uno Stato per la burocrazia era
all’inizio relativamente bassa, mentre oggi la spesa per la burocrazia prende una porzione di PIL
più elevata. La burocrazia è quindi, nel bene e nel male, un elemento costitutivo e fondamentale
dello Stato. La burocrazia è andata aumentando sempre più per diverse cause:

- Cause economiche: l’affermazione dell’economia monetaria è una precondizione della


nascita della burocrazia. Infatti, solo in un’economia monetaria chi opera per conto dello
Stato può essere remunerato attraverso uno stipendio. Quindi la presenza di un’economia
monetaria è indispensabile perché gli Stati si procurino, attraverso la tassazione, le risorse
necessarie a pagare la burocrazia pubblica.

- Cause internazionali: nel corso degli anni, gli Stati europei hanno intrapreso numerosi
conflitti militari, i cui sforzi per sostenerli hanno provocato una crescita
dell’amministrazione statale. Infatti, molte attività pubbliche introdotte in tempo di guerra
si mantengono poi anche in tempo di pace. La guerra porta anche numerosi debiti che ad
accrescere l’intervento statale in economia. Tutte le risorse di cui gli Stati necessitano a
causa delle guerre implicano quindi una maggiore espansione e centralizzazione
dell’apparato burocratico.

- Cause interne: le guerre hanno accresciuto sia il bisogno di risorse materiali sia il bisogno di
legittimazione per lo Stato. Questo bisogno di legittimazione di un potere centrale sempre
più esteso richiede lo sviluppo di un sentimento di identificazione con un’entità territoriale
di ampie proporzioni. Nasce così lo “Stato-nazione”, con il quale i compiti dello Stato si
sono ampliati, in particolare quelli in relazione all’offerta di servizi (che ha portato allo
sviluppo dello “Stato del benessere”) e alla promozione dello sviluppo (che ha portato allo
sviluppo dello “Stato programmatore”). Questa espansione dei compiti dello Stato si è
riflessa in una crescita della burocrazia pubblica. Inoltre la burocrazia statale aumenta

71
anche per una spinta endogena, proveniente cioè da interessi propri alla classe politica e
alla burocrazia pubblica. I dirigenti dei vari servizi pubblici sarebbero “naturalmente”
portati ad aumentare il peso delle loro agenzie, accrescendo così il loro potere. Quindi i
burocrati, attraverso alleanze con gli utenti dei loro servizi, fanno pressione per ampliare il
budget delle loro agenzie (es: creazione di nuove posizioni, magari solamente di
convenienza).

LIMITI DEL MODELLO BUROCRATICO WEBERIANO

Nel corso degli anni sono stati individuati dei limiti alle diverse caratteristiche del modello di
burocrazia weberiano.

LIMITI ALLA RAZIONALITÀ: la burocrazia è un complesso di istituzioni, ma quello che fanno i singoli
uffici della burocrazia ha una serie di effetti a catena, quindi è impossibile prevedere gli effetti
delle decisioni burocratiche. Non è possibile avere una “razionalità sinottica”, cioè che possa
prevedere eventi complessi di un’organizzazione come la burocrazia. Tuttavia, la burocrazia non
può definirsi irrazionale, ma si può parlare di “razionalità limitata” (Simon), cioè i burocrati e gli
amministratori si accontentano delle informazioni che hanno, che gli permettono di avere una
capacità di previsione limitata. Un’altra soluzione è proposta da Lindblom, che parla di
“incrementalismo incoerente”. Egli dice che il processo di decisione è incrementale, cioè le
amministrazioni non prendono tutte le decisioni, ma le frammentano facendo tante piccole
modifiche volta per volta. Questo modo di procedere permette di valutare gli effetti di una singola
decisione, anche se è un metodo che può incepparsi in qualsiasi momento, così che ad una
decisione può venirne contrapposta un’altra del tutto incoerente. Infine, si dice che nella
burocrazia non c’è una razionalità perché essa è un’organizzazione complessa, dove si intrecciano,
cooperano e confliggono interessi diversi, sia individuali che collettivi. La “teoria del garbage can”
(cestino della spazzatura) afferma infatti che la vita delle organizzazioni burocratiche è dominata
da una continua lotta fra diversi attori, ciascuno con propri obiettivi e strategie, spesso
incompatibili. Le decisioni si sovrapporrebbero quindi in modo disordinato (come, appunto, in un
cestino della spazzatura). Il problema della mancanza di obiettivi comuni è stato affrontato
sostenendo l’esistenza di norme che rendono possibile il riferirsi alle organizzazioni burocratiche
come istituzioni. Questa posizione è stata elaborata dall’approccio neoistituzionalista, secondo il
quale le istituzioni non sono da intendere come organigrammi di funzioni (o di funzionari), ma
piuttosto come tessuto di regole, procedure e valori.

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LIMITI ALLA NEUTRALITÀ: la burocrazia, per essere neutrale, deve essere alle dipendenze della
politica, cioè il burocrate deve essere un mero esecutore. Il primo punto che mina la neutralità
della burocrazia sono le “pari opportunità”, poiché, malgrado si tenti di applicare un criterio di
parti opportunità per tutti, ci sono dei gruppi che sono sistematicamente sottorappresentati. Un
secondo punto che va a minare la neutralità è che le burocrazie sono “conservatrici”, cioè cercano
di opporsi a qualsiasi tentativo di cambiamento, soprattutto se imposto dall’élite politica. Inoltre
nella burocrazia c’è un monopolio del sapere, cioè l’élite dell’apparato burocratico è più
competente dei propri vertici. Infine la burocrazia è impegnata spesso in attività di
programmazione, non solo di esecuzione, cioè i burocrati non sono solo dei meri esecutori ma
vengono anche coinvolti nel processo decisionale.

LIMITI ALLA GERARCHIA: il primo limite alla gerarchia è dato dal potere di veto, cioè il subordinato
può in qualsiasi modo boicottare le decisioni di un sovraordinato. Un altro limite alla gerarchia è la
capacità di chi è subordinato di guadagnarsi degli spazi di azione (la discrezionalità è più presente
nei burocrati di base, cioè quelli che hanno un contatto con l’esterno, poiché le loro risorse sono
spesso insufficienti per far fronte alle alte domande). Un altro limite è poi la decentralizzazione (o
frammentazione), cioè la creazione di strutture che sono al di fuori della catena di comando.

LIMITI ALLA COMPETENZA: perché la burocrazia dimostri competenza è importante il metodo di


selezione dei funzionari. Ci sono due modelli di metodo di selezione dei burocrati:

- Modello francese: modello molto rigido e schematico. Il funzionario viene istruito


all’interno delle “Grandi scuole”, all’interno delle quali, oltre alla buona istruzione fornita,
c’è anche un processo di socializzazione, volto a creare una sorta di corpo che abbia già
uno spirito di appartenenza allo Stato. Per accedere alle grandi scuole si deve superare un
concorso. Una volta superato il concorso, la carriera rimarrà all’interno della pubblica
amministrazione. Le competenze fornite in queste scuole sono di natura giuridica, poiché
devono servire in qualsiasi ambito amministrativo.

- Modello americano: nato storicamente su premesse opposte a quelle del modello


francese. È lo “spoils system”, secondo il quale chi vince le elezioni nomina i membri
dell’amministrazione scegliendo fra persone a lui care. Il vantaggio di questo sistema è che
è sempre in cambiamento. Quindi in questo modello i burocrati non vengono scelti per
aver superato un concorso o per aver studiato in particolari scuole, ma vengono scelti per

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capacità professionali. Le competenze dei burocratici non sono generaliste ma specifiche,
cosa che fa sì che l’ambito di permanenza all’interno della pubblica amministrazione sia
vincolato.

MODELLO FRANCESE MODELLO AMERICANO

FORMAZIONE Formazione “ad hoc” Costruzione di competenze


specifiche anche attraverso
esperienze professionali

ACCESSO Concorso pubblico Possibilità di nomine politiche

CARRIERE Interna alla pubblica Permeabile a ingressi


amministrazione dall’esterno

COMPETENZE Profilo generalista Specializzate

SISTEMA DECISIONALE Autorità gerarchica interna Organizzazione attorno a


progetti

CULTURA AMMINISTRATIVA Legittimazione attraverso Costruzione di decisioni su casi


l’applicazione di norme individuali
impersonali

RAPPORTI CON L’ESTERNO Formale chiusura rispetto Funzione attiva di mediazione


all’esterno

RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: SVILUPPI RECENTI

Negli anni ’90 è stata avviata una serie di sviluppi che hanno sollecitato un processo di riforma
della pubblica amministrazione. Le diverse riforme si sono rivolte in due direzioni principali:

- “Deregulation” e privatizzazione: gli effetti di “deregulation” (deregolamentazione, che


riduce le formalità amministrative) e privatizzazione (intesa come limitazione di fini e
funzioni del settore pubblico, attraverso una riduzione dei servizi pubblici e/o una vendita
di beni e imprese dello Stato) sul buon funzionamento della pubblica amministrazione sono
dibattuti. È stato infatti osservato che le loro conseguenze non sono ancora state

74
empiricamente accertate in modo univoco. Deregolamentazioni e privatizzazioni
porterebbero non ad un mercato competitivo, ma ad un’involuzione dello Stato.

- Trasparenza: principio affermatosi come chiarezza dell’azione dell’amministrazione


pubblica di fronte ai cittadini, ai quali è stato garantito non solo il diritto di essere informati
su quello che gli amministratori fanno, ma anche quello di partecipare ad una serie di
decisioni pubbliche attraverso procedure di consultazione e concertazione. Sono state
anche introdotte delle procedure che garantiscono maggiore visibilità alle proposte della
pubblica amministrazione e spesso, prima delle scelte definitive, un pubblico dibattito.

LE POLITICHE PUBBLICHE

In politica, le politiche pubbliche rispecchiano l’aspetto dell’amministrazione. Nello studio delle


politiche pubbliche bisogna risalire a molto tempo prima del momento della decisione finale,
poiché c’è un momento precedente alla decisione in cui sono state compiute altre scelte e sono
stati coinvolti altri attori. C’è anche un momento successivo al momento della decisione. Bisogna
anche guardare le modalità con cui la burocrazia e i suoi utenti si pongono nei confronti delle
politiche pubbliche. L’analisi delle “policy” (politiche pubbliche) ha origine negli Stati Uniti all’inizio
degli anni ’50, mentre in Europa la ricezione di questi temi è avvenuta solo negli anni ’70 (in Italia
ancora dopo, negli anni ’80). Il contributo della scienza politica allo studio delle politiche pubbliche
riguarda i processi, i meccanismi, quali attori vengono coinvolti e i loro comportamenti. Questo ci
permette di capire in che modo la “politics”, cioè l’insieme delle istituzioni, determina la “policy”,
cioè i processi di decisione delle politiche pubbliche. La “policy” ha generato un maggiore
consolidamento dello Stato.

DEFINIZIONI DI POLITICHE PUBBLICHE

LASSWELL E KAPLAN: una politica pubblica è “un programma d’azione proiettato verso il futuro
che si basa sull’individuazione di obiettivi di valore e prevede procedure e atti finalizzati al
raggiungimento di questi”. Per Lasswell e Kaplan, una politica pubblica è la volontà di fare
qualcosa, il tentativo di avere un impatto sulla società. Quindi la caratteristica prima di questa
visione è che le politiche pubbliche hanno un’intenzione e una razionalità. È poi importante avere
una pianificazione delle politiche pubbliche. Tuttavia, nella realtà delle cose, queste caratteristiche
trovano diversi ostacoli.

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LOWI: una politica pubblica è “una norma formulata da una qualche autorità governativa che
esprime un’intenzione di influenzare il comportamento dei cittadini individualmente o
collettivamente, attraverso l’uso di sanzioni positive o negative”. Per Lowi la politica pubblica è il
risultato dell’azione statale, cioè qualcosa che può fare solo lo Stato.

Da queste definizioni possiamo individuare cinque caratteristiche di una politica pubblica:

- Si compone di una pluralità di provvedimenti, quindi è molto complessa ed è formata da un


insieme di decisioni, a volte anche contraddittorie, cosa che può portare all’inceppamento
del processo.

- Deriva da autorità pubbliche.

- Ha un valore normativo, cioè si esprime sotto forma di legge, quindi impone l’obbedienza.

- Si riferisce ad un determinato ambito di problemi sociali, cioè riguarda soprattutto la vita


delle persone.

- Comprende i processi pre-decisionali e di attuazione.

TIPOLOGIE DI POLITICHE PUBBLICHE

TIPOLOGIA DI LOWI: per classificare le politiche pubbliche, Lowi usa due criteri:

- Probabilità della coercizione: può essere prossima (probabile che gli individui possano
avere una sanzione diretta) o remota (raro che lo Stato punisca chi non rispetta una politica
pubblica).

- Applicabilità della coercizione: può essere diretta all’azione individuale o all’ambiente


dell’azione.

Da questi due criteri, Lowi individua quattro tipi di politiche pubbliche:

- Politica distributiva: stabilisce dei vantaggi, dei benefici da distribuire ad una porzione
della società. L’applicabilità della coercizione è quindi mirata ad un determinato settore
della società e la probabilità di sanzione è remota.

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- Politica regolativa: comporta una limitazione dei comportamenti ammissibili in un
determinato ambito o prescrive degli adempimenti specifici. L’applicabilità della
coercizione è diretta ad alcuni soggetti e la probabilità di sanzione è prossima.

- Politica costituente: politica al cui centro ci sono norme sui poteri o sui governanti. Tende
a creare nuove autorità o a modificare quelle esistenti. L’applicabilità della coercizione è
diretta all’ambiente dell’azione e la probabilità di sanzione è remota.

- Politica redistributiva: stabilisce dei vantaggi, dei benefici da distribuire ad una porzione
della società, accollando i costi ad un’altra porzione della società (un esempio di politica
redistributiva è la variazione della pressione fiscale, con cui si decide di aumentare le tasse
per i più ricchi a vantaggio dei più poveri). Qui prevale il principio maggioritario, per cui è
importante portare a casa il risultato, cioè vince chi ha più voti nella fase di decisione.
L’applicabilità della coercizione è diretta all’ambiente dell’azione e la probabilità di
sanzione è prossima.

APPLICABILITÀ DELLA COERCIZIONE

ALL’AZIONE ALL’AMBIENTE
PROBABILITÀ INDIVIDUALE DELL’AZIONE
DELLA
REMOTA Politica distributiva Politica costituente
COERCIZIONE
PROSSIMA Politica regolativa Politica redistributiva

TIPOLOGIA DI WILSON: per classificare le politiche pubbliche, Wilson individua due criteri:

- Costi: possono essere concentrati su pochi o diffusi su tutta la società.

- Benefici: possono essere diretti ad alcuni gruppi o a tutta la società.

Da questi due criteri, Wilson Individua quattro tipi di politiche pubbliche:

- “Interest groups politics”: prevede un conflitto fra due gruppi di interesse specializzati,
conflitto in cui ognuno cerca di accaparrarsi in esclusiva dei vantaggi per scaricare i costi
sull’altro. È quindi una politica contraddistinta da benefici concentrati e costi concentrati.

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- “Client politics”: un gruppo di interesse ristretto riesce ad acquisire i vantaggi di una
politica scaricando i costi sulla massa indifferenziata dei contribuenti. È una politica
contraddistinta da benefici concentrati e costi diffusi.

- “Entrepreneurial politics”: politica in cui è centrale un gruppo di interesse forte, motivo


per cui non è facile da realizzare, poiché sembra piuttosto difficile che la massa riesca a
prevalere sulla forza organizzata. È una politica contraddistinta da benefici diffusi e costi
concentrati.

- “Majoritarian politics”: c’è un confronto equilibrato tra i destinatari dei costi e i destinatari
dei benefici, ma allo stesso tempo non c’è nessun gruppo fortemente interessato né
positivamente né negativamente, motivo per cui questa politica è difficile da avviare. È una
politica contraddistinta da benefici diffusi e costi diffusi.

BENEFICI

CONCENTRATI DIFFUSI

COSTI CONCENTRATI Interest groups politics Entrepreunerial politics

DIFFUSI Client politics Majoritarian politics

FASI DELPOLICY-MAKING

Ci sono cinque fasi di formazione di una politica pubblica:

- Identificazione del problema: fra tutti i settori statali che chiedono una risposta bisogna
selezionare quelli con bisogni prioritari. Quelli che riceveranno la priorità saranno quelli
con lo “status” di emergenza.

- Formulazione della politica: il governo deve capire se ci sono soluzioni al problema e quali
sono. Bisogna creare delle soluzioni alternative, ognuna della quali avrà costi e benefici

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diversi. Fase altamente arbitraria, poiché non è importante tanto la decisione tecnica,
quanto quella politica.

- Decisione: entra in gioco l’autorità che deve prendere la decisione finale, cioè il
Parlamento.

- Implementazione: è la messa in opera della soluzione. Avviene attraverso la burocrazia.

- Valutazione: verificare se la politica presa è stata un successo o un fallimento. Per la


valutazione bisogna trovare degli indicatori empirici.

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