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1 Dopo aver definito i concetti di 

comunità (realtà etico sociale in cui prevale l'aspetto biologico, il cui oggetto è “un fatto che
precede le determinazioni dell'intelligenza e che agisce per creare una psiche comune inconscia” ed è un prodotto dell'istinto e
della natura) e società (realtà etico sociale in cui prevale l'aspetto spirituale, il cui oggetto è “un compito da assolvere o un fine da
raggiungere che dipende dalle determinazioni dell'intelligenza” ed è un prodotto della ragione e della forza morale), si passa a
definire il concetto di Nazione (un gruppo etnico diviene nazione quando "diviene consapevole del fatto che esso costituisce una
comunità di modi tipici di sentimenti o, meglio, che esso possiede una psiche inconscia comune"), che differisce nettamente da
quello di corpo politico. Inoltre non è la Nazione a diventare Stato, ma lo Stato a far sì che la Nazione esista. Si passa a definire le
“società”, cioè Stato (“parte specializzata negli interessi del tutto” e al servizio del corpo politico, da cui discende il suo potere) e
corpo politico (realtà umana che tende al bene comune, fondata su giustizia e amicizia civica e che racchiude una pluralità di società
particolari) e il primo sta in rapporto alla secondo come la parte al tutto. Il bene comune non è solo la somma “delle utilità e dei
servizi pubblici che organizzazione della vita comune presuppone”(.) ma anche l'integrazione sociologica di tutto ciò che vi è di
coscienza civica e di virtù politiche nella misura in cui tali cose sono comunicabili e “fanno ritorno a ciascun membro, aiutandolo a
perfezionare la propria vita e la propria libertà di persona”. Si critica poi la moderna concezione di Stato, foriera di gravissimi errori,
poiché fonde Stato e corpo politico (lo Stato è ritenuto il tutto, persona morale e soggetto di diritto dotato di sovranità assoluta,
separata e, per diritto naturale, che si pone come mezzo assorbendo il corpo politico e che si assegna un bene comune particolare da
perseguire). Maritain afferma che, pur essendo stata la crescita di importanza dello Stato in sé normale, perché “il dovere primordiale
dello Stato moderno è di mettere in atto la giustizia sociale”, c'è stata una “alterazione parassitaria” cioè il forte intervento dello Stato
nella vita economica, sociale e culturale al fine di dirigerla e organizzarla in violazione del principio di sussidiarietà. L'autore si
augura che in futuro l'intervento dello Stato si limiti ad una suprema regolazione della vita socio-economica lasciando ai corpi
intermedi la loro autonomia. Si dà infine la definizione di popolo (“moltitudine delle persone umane che riunite sotto giuste leggi e
da una reciproca amicizia per il bene comune della loro esistenza umana “), cui spetta sì il diritto all'autogoverno, ma non un diritto
ad una sovranità separata da sé stesso. Il popolo “è la sostanza stessa del corpo politico”.
2 Il secondo capitolo è dedicato alla confutazione della nozione classica di sovranità e se ne esaminano le concezioni diffuse
fra Seicento e Settecento. Si inizia con Bodin, secondo il quale lo Stato (cioè il Re) possiede un potere assoluto, limitato solo dal
diritto naturale e da Dio (“Il principe sovrano non è tenuto a render conto che a Dio”). Secondo Bodin, essendosi il popolo spogliato
di tutto il potere per trasferirlo al sovrano, quest'ultimo costituisce un tutto “separato e trascendente”; non quindi un potere al vertice,
ma “al di sopra del vertice” e “che governa dall'alto”. Un potere quindi assoluto, illimitato nell'estensione e nella durata
senza responsabilità verso alcuno. Maritain fa notare che Bodin ha trattato il problema in termini di beni posseduti anziché in termini
di diritti posseduti per essenza o per partecipazione e che ha dimenticato il concetto tomistico di vicariato (il principe partecipa del
potere del diritto all'autogoverno del popolo grazie alla fiducia che vi riscuote ed è una parte che rappresenta il tutto). Nel Seicento si
affermò infatti l'idea secondo la quale “il re, come persona, possedesse un diritto naturale ed inalienabile a governare dall'alto i suoi
sottoposti” e il potere del re potesse essere limitato solo “da una libera e graziosa concessione accordata dal re stesso”, poiché in sé
assoluto, trascendente, separato e irresponsabile. La sovranità in seguito si definirà con Hobbes come ”diritto all'indipendenza
suprema e al supremo potere come diritto naturale ed inalienabile” e “diritto ad una indipendenza e a un potere che nella loro propria
sfera sono supremi assolutamente, ovverosia in un modo trascendente e non relativamente o come appartenenti alla parte più alta del
tutto”. La sovranità è separata, quindi non partecipabile ed indivisibile. Ma né il corpo politico né lo Stato in realtà dispongono di
questa sovranità. Infatti il corpo politico dispone solo della prima forma di sovranità, cioè al diritto alla piena autonomia interna ed
esterna, ma non della seconda, in quanto il corpo politico non si autogoverna separatamente da se stesso e al di sopra di se stesso.
Nessuna delle due forme di sovranità è posseduta dallo Stato: il suo potere discende dal corpo politico in virtù di una costituzione ed
è semplicemente "una parte e un organo strumentale del corpo politico". Segue una dura critica alla filosofia politica di Rousseau: la
sua concezione della sovranità, secondo la quale il popolo si governa separatamente e dall'alto di sé stesso, è per Maritain assurda e
il legislatore descritto nel Contratto sociale che dovrebbe "alterare la struttura dell'uomo per rafforzarla" è il modello
del dittatore moderno. Totalitaria è anche l'unione di potere civile e potere religioso, la distruzione dei corpi intermedi e la superiorità
del diritto positivo a quello naturale e alla coscienza individuale. Maritain conclude invitando ad abbandonare il moderno concetto di
sovranità che produce solo centralismo e irresponsabilità e incapace di far nascere una società mondiale superiore ai singoli Stati.
3 Il terzo capitolo affronta il problema dei mezzi e inizia stabilendo qual è il fine dell'attività politica. Esso non è né assicurare l'agio
materiali a individui isolati né conseguire la padronanza sulla natura bensì “quello di migliorare le condizioni della vita umana in se
stessa ovvero di procurare il bene comune della moltitudine in modo tale che ogni persona concreta possa veramente raggiungere
quel grado di indipendenza che è proprio della vita civilizzata e a ottenere il quale concorrono in ugual modo le garanzie economiche
del lavoro e della proprietà, i diritti politici, le virtù civili e la possibilità di coltivare lo spirito”.Ma quale forma di ragione deve
guidare l'uomo nell'attività politica?La politica deve basarsi su una “razionalizzazione tecnica”o su “una razionalizzazione morale”?
Maritain sceglie la seconda. La prima ha come fine la conquista e il mantenimento del potere, è amorale e trova il suo padre in
Machiavelli. Nonostante le molte vittorie a breve termine, la razionalizzazione tecnica alla fine, mancando del tutto di forza morale,
alla fine “si distrugge distruggendo il bene in cui risiede”. La razionalizzazione morale invece ha come fine il bene comune e sulla
dignità dell'uomo, si lega alla filosofia politica antica e medioevale e si può attuare solo mediante la democrazia. Infatti solo mediante
quest'ultima può avvenire un autentico progresso morale. Contro il machiavellismo, la forza è veramente forte solo se la giustizia è la
regola suprema. Gravi sono le sfide che hanno di fronte le democrazie: devono impedire che la democrazia sia ridotta a tecnocrazia e
che sia estromessa la fondamentale ispirazione evangelica su cui si fonda la stessa coscienza democratica(“la democrazia non può
vivere che della ispirazione evangelica””).Altro grave pericolo è l'ipermoralismo che non comprende che la politica “è un ramo
dell'etica ma distinto dagli altri rami” e che il fine della politica non è il bene ultraterreno ma il bene comune. Questo fatto rende
leciti molti atti che “i pessimisti del machiavellismo volgono a vantaggio dell'amoralismo politico”(l'impiego della forza coercitiva,
l'utilizzo dei servizi segreti, difesa dei propri interessi, il principio del male minore e del “fatto compiuto”).Si cita a proposito la
dottrina della purificazione dei mezzi presa dall'opera “Umanesimo integrale” e già esposta. In caso poi di regressione morale di un
gruppo sociale poi,”i precetti in se stessi non mutano, ma il modo in cui devono applicarsi scende ad un livello più basso”, rendendo
leciti molti atti prima illeciti. Si passa a delineare i mezzi grazie ai quali il popolo può esercitare la sua supervisione nei confronti
dello Stato democratico o totalitario. In quello democratico i mezzi di controllo sono le elezioni, la stampa, la radio e i gruppi di
pressione. Si sottolinea poi l'importanza del principio di sussidiarietà e della partecipazione civica come antidoti al totalitarismo.
Esistono poi altri mezzi “i mezzi di guerra spirituale”, ad esempio il Satyagraha di Gandhi, che combattono il male con la sofferenza
e il sacrificio e sono particolarmente utili nella lotta per la libertà, per controllare un governo e per trasformare la società in senso
cristiano. Molto diversa è la situazione in una società regressiva e totalitaria dove non esistono mezzi di controllo legali. Non è
accettabile rifiutarsi “di impegnarsi in una qualsiasi attività politica perché i mezzi da impiegare (spionaggio, inganno, tradimento,
collaborazione con i carnefici,(..)ricorso all'omicidio)”e neppure mettere da parte la legge morale “e acconsentire ad usare qualsiasi
specie di mezzi corrotti, al fine di eliminare i peggiori carnefici e di salvare almeno un certo numero di persone che è particolarmente
importante sottrarre alla morte o al fine di disporre i preparativi per qualche insurrezione finale”. Il primo atteggiamento infatti non è
raccomandabile, il secondo immorale. Quale approccio bisogna adottare allora in questi contesti? Non esiste in una siffatta situazione
alcun codice scritto che guidi l'uomo e “tocca alla coscienza di ciascuno formarsi in ogni caso particolare il giusto giudizio morale”,
partendo dal presupposto che la legge naturale, pur non mutando in sé, assume forme sempre più basse mano a mano che si abbassa
l'ambiente sociale, rendendo morali alcuni atti prima immorali (Maritain fa l'esempio dei monasteri che nella seconda guerra
mondiale procuravano documenti falsi agli ebrei).
4 ll quarto capitolo è dedicato ai diritti umani sui quali “uomini divisi da opposte concezioni teoriche possono giungere ad un accordo
puramente pratico” sia pure divergendo del tutto sulla loro giustificazione razionale degli stessi. Essendo possibile raggiungere un
accordo sui principi pratici comuni (non speculativi), sarà possibile formulare anche principi di azione comuni. Nonostante molte
teorie sul diritto naturale siano state confutate dal positivismo, questo fatto non può portare a rigettare una riflessione filosofica su di
essa come d'altra parte il fallimento di una teoria sul diritto positivo non porta alla fine di quest'ultimo. Il concetto di legge naturale è
stata infatti stravolto dalla modernità. Il razionalismo ha deformato il concetto di legge naturale trasformandola in “un codice scritto
applicabile a tutti di cui ogni buona legge dovrebbe essere una trascrizione e che determinerebbe a priori le norme della condotta
umana” e conoscibile in modo concettuale e razionale. La legge naturale è stata laicizzata al punto tale che con Kant si è giunti a farla
derivare dalla stessa la libertà umana. Da tale autonomia discenderebbero i diritti naturali che vengono concepiti in maniera illimitata
e infinita (sganciati da ogni norma oggettiva) e che esprimono l'indipendenza assoluto del soggetto. Ma questa concezione si è
rivelata fallimentare, mettendo in pericolo gli stessi diritti umani che su di essa si fondavano. Si passa a delineare “il concetto
autentico di legge naturale”, senza più le incrostazioni razionalistiche, i cui suoi padri vanno rintracciati nella scolastica del 600, in
Tommaso, nei Padri della Chiesa, in Cicerone e in Sofocle. Posto che esiste una natura umana comune a tutti gli uomini e che
ciascuno ha il potere di determinare i fini da perseguire, ognuno deve accordare i propri fini con i fini della natura umana. L'ordine
secondo il quale la ragione umana deve agire per essere in concordanza con questi fini è la legge naturale. Ogni essere infatti ha la
propria legge interna ossia "la sua normalità di funzionamento”come ha la propria essenza. La legge naturale insomma è "un modo
proprio nel quale, in ragione della sua struttura e dei suoi fini specifici, ogni cosa esistente deve raggiungere la pienezza del suo
essere" oppure può definirsi anche come "la formula ideale dello sviluppo di un determinato essere”e comporta un'obbligazione
morale in quanto è un “ordine sia ideale che ontologico". Di conseguenza ogni divieto morale affonda le proprie radici nella natura
umana. La legge naturale però non è un codice scritto e quindi non è infallibilmente definita per tutti i casi e per tutte le situazioni.
Gli uomini conosco la legge naturale a gradi diversi: l'unica conoscenza che è certa di essa in ogni uomo di ogni tempo è il principio
secondo il quale bisogna evitare il male e fare il bene. La conoscenza di essa infatti si è gradualmente accresciuta nel corso della
storia anche grazie alla Rivelazione. Tale conoscenza non è astratta e teorica come un teorema di geometria ma per inclinazione cioè
una conoscenza “oscura, non sistematica, vitale, che procede per esperienza tendenziale per connaturalità e nella quale l'intelletto, per
formare un giudizio, ascolta e consulta quella specie di canto prodotto nel soggetto dalle vibrazioni delle sue tendenze interiori". La
legge naturale ci assegna sia i nostri doveri che i nostri diritti il cui ultimo fondamento risiede nella legge eterna di Dio. Ma una
filosofia che riconosce solo il fatto, non può giustificare il concetto di diritto perché non lo riconosce come valore anteriore e
superiore al diritto positivo Si passano a definire i diritti naturali, dopo aver distinto fra legge naturale, legge positiva e diritto delle
genti. Il diritto positivo non è un semplice ricalco di quello naturale visto l'immensa varietà di situazioni. Quanto al diritto delle genti,
esso è intermedio fra i due: è conosciuto per deduzione razionale ma ha come contenuto cose appartenenti al diritto naturale sia le
conclusioni necessarie di esso. Il diritto positivo si invece ricollega al diritto naturale in maniera contingente e transitoria ma solo
grazie ad esso assume la forza di legge. Esso determina ciò che il diritto naturale lascia indeterminato. Diritti fondamentali e
strettamente legati al diritto naturale sono il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della propria perfezione. Anche il diritto
alla proprietà e al suffragio dipendono dal diritto naturale ma le loro modalità particolari sono regolate dal diritto positivo. I diritti
umani sono poi inalienabili poiché “sono fondati sulla natura stessa dell'uomo" ma questo fatto non implica che essi siano diritti
illimitati. Inoltre i diritti umani sono strettamente legati al bene comune: la limitazione di alcuni diritti (assolutamente non limitabili)
come il diritto alla vita o alla felicità infatti procurerebbe danni al bene comune al contrario la limitazione di altri come quello di
associazione o di libera espressione in alcuni casi limitati è necessaria proprio per tutelare il bene comune. Anche i diritti umani
assolutamente non limitabili sono suscettibili di limitazione “se non quanto al loro possesso, almeno quanto al loro esercizio":
chiedere di esercitare uno di questi diritti hic et nunc senza curarsi della struttura sociale inumana che impedisce l'esercizio di questi
diritti, seppur legittimo, non è possibile in alcuni casi poiché causerebbe ingiustizie ancora peggiori. In questo caso non resta che
riformare la società per rendere possibile ad ognuno l'esercizio dei propri diritti fondamentali. Maritain critica poi la tendenza a “a
gonfiare e a rendere assoluti i diritti sui quali si concentra la nostra attenzione, rendendoci così ciechi riguardo ad ogni diritto che
venga a controbilanciarli". È stato il caso dei diritti "sociali" che si sono nell'800 contrapposti e scontrati con i diritti "liberali". Ma
questo scontro fu originato solo da motivazioni ideologiche e la contrapposizioni fra le due classi di valori è superabile.
5 ll quinto capitolo tratta della "fede secolare democratica": Essendo venuto meno sia il modello di stato sacrale medioevale sia
quello razionalista e neutro dell'età moderna, bisogna secondo Maritain, fondare una democrazia personalistica e pluralistica, che non
escluda l'ispirazione religiosa e che si fondi su una fede temporale la quale non sia né religiosa e neppure una sorta di "religione
civile" ma che unisca tutti i cittadini in "un comune credo umano, il credo della libertà" senza distinzione di credo religioso o
filosofico. L'oggetto di questa fede, che si esprime in una "carta democratica", non è speculativo ma puramente pratico, non cerca di
imporre a tutti la propria visione religiosa o filosofica dei diritti umani ma si accontenta di una convergenza nella conclusioni
pratiche mentre le giustificazioni teoriche degli stessi possono anche essere opposte e divergenti. L'adesione ai valori della carta
sarebbe comunque ancora più forte in presenza di un popolo “penetrato di convinzioni cristiane”. Si passa a trattare
dell'atteggiamento da avere con l'“eretico politico”, cioè con colui che “spezza le credenze e le pratiche democratiche comuni” : nei
confronti di questo fenomeno si esclude l'uso della censura e si preferisce fare affidamento su processi di autoregolamentazione
interni alla società e sull'educazione. Lo Stato in nessun caso può occuparsi delle “cose dell'intelligenza”, visto la natura pratica ed
esteriore al vero, non ideologica della carta democratica. L'educazione alla libertà e alla carta democratica spetta prima di tutto alla
famiglia poi in maniera ausiliaria e nei principi pratici allo Stato e alla Scuola. Gli insegnanti non potranno spiegare i valori della
carta democratica senza ricorrere alla tradizione culturale a cui appartengono salvo cadere in un insegnamento “di formule astratte,
libresche, esangui e separate dalla vita”. Quanto al rapporto fra scuole private e Stato Maritain afferma che"lo Stato dovrebbe aiutare
lo sforzo educativo compiuto dalle diverse istituzioni private"anche se non dal punto di vista finanziario. L'ultima parte del capitolo è
dedicato al concetto di autorità: l'autorità è "il diritto di guidare e di comandare “, non può essere disgiunta dal potere, è un'esigenza
della legge naturale e deve essere obbedita in coscienza se agisce giustamente. Si fanno poi alcuni chiarimenti di alcuni punti già
trattati nel secondo capitolo:si riafferma che il popolo dispone dell'inalienabile diritto all'autogoverno e che i governanti dispongono
di una vera e propria autorità e non sono semplici strumenti del popolo. Il popolo, pur disponendo del diritto all'autogoverno, non lo
esercita se non in casi limitati e investe di questo potere per partecipazioni uomini da esso scelti. Quale rapporto devono avere poi
questi ultimi nei confronti del popolo?Secondo Maritain i governanti devono “educare il popolo e stimolarne la consapevolezza
mediante il metodo stesso che si attua nel governarlo, in modo da ottenere in risposta a ogni tappa progressiva, ciò di cui è stato reso
di volta in volta consapevole e che ha il desiderio di veder realizzato:penso ad una vera opera educativa, fondata sul rispetto del
popolo e sulla fiducia in lui, e nella quale gioca in ruolo di “agente principale”, tutto il contrario, cioè, dei procedimenti degradanti
che gli inculcano delle idee con puri artefeci propagandistici e con tecniche pubblicitarie" .Bisogna essere attenti e dare voce a ciò
che vi è più profondo e durevole nel popolo, ai suoi bisogni e alle sue richieste collettive, ai suoi più “intimi intendimenti” senza
badare invece all'eventuale (viste le premesse, necessariamente transitoria), impopolarità su questioni contingenti. L'ultimo tema
affrontato è quello delle “minoranze profetiche”, cioè quella spinta vitale, quel fermento profetico, fondamentale nelle democrazie, il
cui compito è quello di “risvegliare il popolo, di spronarlo a qualcosa di meglio che non siano le quotidiane faccende di ciascuno, alla
coscienza di un compito sovra individuale da assolvere”.Queste minoranze profetiche devono risvegliare e servire il popolo, non
forzarlo ad “essere libero”, e non utilizzarlo ai propri fini.
6 Il sesto capitolo è dedicato ai rapporti fra Stato e Chiesa sia nei principi immutabili che nelle applicazioni concrete. Il corpo politico
deve rispettare “la legge del primato spirituale”, subordinandosi, non come mezzo, ma come avente la propria dignità, seppur
inferiore, ai valori sovra temporali. La Chiesa, poi, anche per il non credente, deve godere “di quel diritto alla libertà che fa tutt'uno,
non solo con il diritto di libera associazione, ma anche con il diritto di credere liberamente nella verità riconosciuta dalla coscienza “e
per il credente “la libertà della Chiesa esprime l'indipendenza stessa del Verbo incarnato”. In base a queste considerazioni il primo
principio da formulare è “la libertà della Chiesa di insegnare, predicare e adorare;la libertà del Vangelo, la libertà della Parola di
Dio”.La Chiesa è quindi autonoma dal Corpo politico e lo trascende ma non può essere separata da esso perché il risultato sarebbe di
spezzare in due la persona umana. Deve bensì cooperare e collaborare con esso. L'applicazione storica di questi principi dovrà basarsi
sul principio analogico. Dopo aver distinto la società sacrale del medioevo fondata sulla fede religiosa e contrassegnata dall'utilizzo
della forza a servizio della giustizia e la società secolare contemporanea fondata sulla netta separazione fra sfera religiosa e politica e
sull'ideale della conquista della libertà, Maritain illustra il suo ideale di laicità: -lo Stato deve abbandonare l'agnosticismo dello Stato
liberale e deve lasciarsi ispirare dello spirito del Vangelo; -la superiore dignità della Chiesa sarà puramente spirituale e risiederà
esclusivamente nel “pieno esercizio della sua superiore potenza di ispirazione capace di penetrare ovunque” ; - lo Stato, pur senza
concedere privilegi che infrangano l'uguaglianza, riconoscerà la necessità di alcuni adattamenti della legge a funzioni e stati di vita
diversi (vedere esonero dagli obblighi militari per i religiosi); -lo Stato si occuperà di affari religiosi solo in relazione al bene comune
e potrà riconoscere una confessione religiosa la cui attività sia di preminente importanza per il bene comune; -lo Stato coopererà con
la Chiesa in primo luogo con la promozione della dignità umana e in secondo luogo assicurandole la piena libertà e chiedendo la sua
assistenza “in tutte le attività che tendono ad illuminare la vita e gli spiriti” per contribuire al bene temporale; – viene elogiato il
modello americano di separazione fra stato e chiesa. Maritain conclude invitando le forze che amano la libertà a unirsi con la Chiesa
nella comune battaglia per la dignità umana:”Nel corso di venti secoli di storia, predicando il Vangelo alle nazioni ed ergendosi
davanti alle podestà carnali per difendere contro di esse la libertà dello spirito, la Chiesa ha insegnato agli uomini ad essere liberi.
Oggi forze cieche che da duecento anni le hanno dato l'assalto in nome della libertà e in nome della persona umana deificata, lasciano
infine cadere la maschera. Ora si presentano per quello che sono .La loro sete e asservire l'uomo. I tempi attuali, per miserevoli che
siano, hanno di che esaltare coloro che amano la Chiesa e amano la libertà. La situazione storica da essi affrontata è definitivamente
chiara. Il grande dramma del nostro tempo è il confronto tra uomo e lo Stato totalitario, il quale non è altro che il vecchio e bugiardo
dio dell'impero senza legge che esigeva per se l'adorazione di tutte le cose. La causa della libertà e della Chiesa si incontrano nella
difesa dell'uomo”.
7 Il settimo capitolo è intitolato “ il problema dell'unificazione politica del mondo” e affronta il tema della “organizzazione politica
del mondo”. Le considerazioni di Maritain sono le seguenti. -Tutte le nazioni sono ormai interdipendenti dal punto di vista
dell'economica ma questa interdipendenza economica non accompagnata da un'unificazione politica ha aumentato i conflitti; -
Bisogna abbandonare il concetto hegeliano di stato persona e lo stesso concetto di sovranità che comporta un'anarchia dal punto di
vista internazionale; -Il tomismo stesso insegna che "là dove né la pace né l'autosufficienza possano essere conseguite da una forma
particolare, non è più quella forma particolare bensì una forma più vasta a costituire una società perfetta" cioè un Autorità mondiale;
-Bisogna evitare di creare un super stato mondiale una sorta di “impero mondiale”, senza un corpo politico a cui rispondere ma
semplicemente sovrapposto agli stati; -Al contrario degli imperi del passato che hanno tentato di unificare gli uomini con la guerra,
Maritain afferma che “se un giorno potrà fondarsi una società politica mondiale, ciò sarà dovuto ai mezzi della libertà. È coi mezzi
della libertà che i popoli della terra saranno portati a una comune volontà di vivere assieme”. Tutti gli uomini non saranno allora uniti
per paura ma perché tutti si impegneranno per lo stesso compito: la conquista della libertà; -Questo comune compito non potrà che
portare ad un livellamento e ad una redistribuzione della ricchezza a livello mondiale. -La comunità dei popoli dovrà diventare un
solo corpo politico unito da amicizia civica e le nazioni diverrebbero di diritto ciò che ora sono già di fatto cioè corpi politici
imperfetti. -Il primo passo può essere la creazione di un consiglio di saggi indipendente come somma autorità morale mondiale.
PRIMO LEVI Capitolo I, Il viaggio: Primo Levi si trova nel campo di transito di Fossoli, vicino Modena. Da qui i
prigionieri vengono trasportati in treno in Polonia, attraversando prima il Brennero e poi l’Austria. Le condizioni che i
prigionieri sono costretti a sopportare nei vagoni sono disumanee molti muoiono già prima dell’arrivo. Una volta
ad Auschwitz i prigionieri vengono fatti scendere, divisi sia per sesso che per età o condizioni fisiche: spesso è
semplicemente il caso di trovarsi in una fila e non in un’altra a determinare la condanna a morte o la salvezza di un
essere umano. I selezionati salgono su degli autocarri dove vengono confiscati loro tutti gli averi.

Capitolo II, Sul fondo: All’arrivo i prigionieri vengono lavati e rasati, ricevono le divise e sono tatuati con un numero di
riconoscimento sul braccio (Levi è così il prigioniero 174517). Vengono radunati e contati nella Piazza d’Appello, di
cui viene data una descrizione. L’autore fin da subito capisce che l’unico modo per sopravvivere è seguire le regole del
campo e evitare questioni: il tutto rimane scolpito nella memoria per l’agghiacciante scritta che accoglie i
deportati, Arbeit macht frei (in tedesco: “Il lavoro rende liberi”). Il capitolo descrive pure la struttura e la disposizione
dei diversi edifici del campo, così come la gerarchia che regola la vita dei prigionieri.

Capitolo III, Iniziazione: Il capitolo si concentra su due problemi fondamentali: il cibo e la lingua. Come è difficile
procurarsi da mangiare - e pertanto il pane è un fondamentale oggetto di scambio - ugualmente è difficile comprendersi
nella babele di linguaggi che affollano il campo, tanto che Monowitz appare agli occhi del protagonista una riedizione
moderna e perversa della biblica Torre di Babele 1. Levi passa poi a descrivere l’igiene del campo, del tutto assente, e
l’incontro avuto al lavatoio con un conoscente, che gli ricorda che smettere di lavarsi equivale a cominciare a morire.

Capitolo IV, Ka-Be: Il capitolo prende il nome dall’abbreviazione (dal tedesco Krankenbau, “ospedale”) con cui è
designata l’infermeria del campo. Levi è condotto qui per curare una ferita al piede: può quindi godere di una tregua di
venti giorni, con cibo assicurato e riparo dal freddo. Tuttavia, durante la convalescenza, confrontando il numero che ha
tatuato sul braccio col numero relativamente esiguo dei prigionieri di Monowitz, capisce che gran parte dei deportati
devono essere morti, e che il destino nel campo è, per gran parte degli uomini, senza speranza. Ciò gli viene
confermato anche da altri deportati ebrei, che però ostentatno disprezzo nei confronti del protagonista, che non parla la
loro lingua.

Capitolo V, Le nostre notti: Levi, terminata la convalescenza, viene assegnato al Block 45, dove trova il suo
amico Alberto. Racconta le sue notti - che poi sono le notti di tutti i prigionieri - divise tra gli incubi e la veglia, in un
sonno che non può mai essere considerato tale. I due sogni ricorrenti sono quelli di non essere creduto una volta tornato
a casa e di vedersi sottratto il cibo.

Capitolo VI, Il lavoro: Il lavoro assegnato a Levi è trasportare le traversine di legno per la costruzione della ferrovia.
L’autore non è avvezzo ai lavori pesanti e non è di forte costituzione, così rischia più volte di soccombere al lavoro. Per
fortuna è affiancato da un compagno di camerata, il francese Resnyk, che lavora in coppia con lui aiutandolo in più
occasioni.

Capitolo VII, Una buona giornata: Il capitolo si concentra su un momento di rottura della routine infernale del
campo: in un giorno sereno, la razione di cibo per ogni prigioniero è il doppio del solito. Tuttavia l’angoscia della
morte non abbandona gli internati, che all’orizzonte vedono il fumo delle ciminiere di Birkenau che bruciano i cadaveri
dei morti (per lo più, donne, anziani e bambini).

Capitolo VIII, Al di qua del bene e del male 2: L’analisi dei commerci tra i prigionieri sono regolati da una sorta di
borsa clandestina e prevedono gli scambi di beni di prima necessità come vestiti, cibo e utensili. Ad esempio, il valore
dei vestiti scambiati varia in base al cambio della biancheria organizzato dai tedeschi. Spesso è necessario avere
degli scambi con i civili, ma questa è una pratica rischiosa poiché essere scoperti significa venir mandati a lavorare
nelle miniere di carbone.

Capitolo IX, I sommersi e i salvati: In un capitolo fondamentale di Se questo è un uomo 3 Levi fa una distinzione tra i
“sommersi” e i “salvati”, corredandola con le storie di quattro prigionieri. I sommersi, o “musulmani” (dal
tedesco Muselmann, probabilmente per analogia tra un uomo collassato a terra dallo sfinimento e un fedele islamico in
preghiera), sono coloro che si attengono pedissequamente alle regole ufficiali, finendo per essere i primi a indebolirsi
e morire. I salvati invece sono coloro che lottano per la sopravvivenza cercando di emergere e guadagnarsi una
posizione di lavoro privilegiato, come quella di Kapo (ovvero, di comandante e controllore di altri internati).

Capitolo X, L’esame di chimica: Nel campo viene istituito un laboratorio di chimica. Primo Levi e Alberto
inizialmente partecipano trasportando cloruro di magnesio, poi, in seguito ad un esame, sono ammessi a lavorare nel
laboratorio. L’esame è particolarmente difficile perché è solamente in tedesco, ma superarlo significa garantirsi un
lavoro importante all’interno del lager e quindi una pur minima possibilità di sopravvivenza.

Capitolo XI, Il canto di Ulisse: Levi, durante il trasporto di una cisterna di zuppa, cerca di ricordarsi i versi canto
XXVI dell'Inferno di Dante per recitarli ad un compagno francese, Jean Picolo. Lo sforzo di trasmettere ad un
ascoltatore straniero il significato e la profonda bellezza del canto dantesco diventano, nel contesto assurdo ed alienante
del capo di concentramento, una metafora dell’esperienza della prigionia.  

Capitolo XII, I fatti dell’estate: Sul finire del secondo conflitto mondiale, i bombardamenti alleati costringono a
interrompere i lavori nel campo. Se da un lato le vaghe notizie del nuovo corso che sta prendendo la guerra accendono
una pallida speranza nei prigionieri, dall’altro il timore maggiore è quello di venir bombardati. Levi conosce Lorenzo,
un civile italiano che gli porta del pane risvegliando in lui un minimo di fiducia.

Capitolo XIII, Ottobre 1944: L’arrivo dell’inverno e la quantità di prigionieri che sono arrivati nel campo implicano il
ripetersi delle selezioni per il crematorio, temute da tutti i deportati. Una domenica pomeriggio tocca anche a Levi
parteciparvi: si tratta di spogliarsi e fare una corsa davanti a un funzionario che delibera la sorte del prigioniero.

Capitolo XIV, Kraus: Levi descrive le condizioni del lager, che con l’inverno sono peggiorate, e fa il ritratto di un
prigioniero, Kraus.

Capitolo XV, Die drei Leute vom Labor (in tedesco, “Le tre persone del laboratorio”): Levi viene scelto
come specialista per il laboratorio di chimica. Lavorare in laboratorio significa poter passare la giornata al caldo ed
entrare a contatto con oggetti utili per il baratto. Il personale civile del laboratorio (tra cui anche tre donne) conversa
liberamente della propria vita nel mondo libero, generando un contrasto paradossale con le condizioni dei prigionieri.

Capitolo XVI, L’ultimo: Il capitolo è per gran parte dedicato alla figura di Alberto (cui corrisponde la figura reale di
Alberto Dalla Volta, un giovane ebreo bresciano che nel campo diventerà il miglior amico dello scrittore), che è una
figura ricordata per l’ingegno e l’inventiva, nonché per la capacità di adattarsi alla tremenda vita del campo. Viene poi
raccontata l’impiccagione a scopo dimostrativo di un prigioniero che aveva partecipato a un assalto a un forno
crematorio e a cui i prigionieri sono costretti ad assistere. Prima di morire il prigioniero grida: “Compagni, io sono
l’ultimo!”.

Capitolo XVII, Storia di dieci giorni: Con l’avanzata dell’Armata Rossa i nazisti decidono di evacuare i prigionieri
sani e lasciare al loro destino i malati. Levi, che ha la scarlattina, rimane in infermeria, mentre Alberto parte per quella
che sarà la marcia della morte: di fatto, i tedeschi sterminano i prigionieri rimasti nel corso dell’esodo. Levi si dà da fare
per aiutare i prigionieri che stanno peggio; ormai al campo sono rimasti solo i prigionieri malati, che danno fondo alle
scorte per sopravvivere mentre i bombardamenti russi si avvicinano al lager. Alcune baracche vengono colpite e,
mancando i tedeschi, non ci sono più acqua, elettricità o riscaldamento. Il gelido inverno polacco fa morire molti
prigionieri e impedisce ai vivi di seppellirli. Levi e alcuni altri prigionieri riescono ad organizzarsi in una baracca e a
sopravvivere fino all’arrivo dei russi: è il 27 gennaio 1945 4.

1
 L’episodio della Torre di Babele è descritto in Genesi, 11, 1-9.

2
 il titolo del capitolo è un’evidente citazione capovolta di un’opera di Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886),
che sviluppa alcuni temi di Così parlò Zarathustra. Questo capitolo dimostra come l’uomo del campo di
concentramento sia programmaticamente ridotto al nulla, e non un Freigeist (“spirito libero”) come nella filosofia
nietzschiana.

3
 Il titolo verrà poi ripreso in un famoso saggio di Levi del 1986.

4
 Per commemorare tutte le vittime dell’Olocausto nazista, nel 2005 il 27 gennaio è diventato il Giorno della Memoria.

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