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STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE

CAP. 3 – PLATONE

In Platone diventa centrale il problema del fondamento oggettivo della conoscenza, cioè dei
rapporti che sussistono fra questa e la verità. L’esigenza morale della ricerca della verità diventa
filosofia intesa come conoscenza dell’universale. La filosofia è l’impegno a cogliere al di là degli
avvenimenti, le ragioni e i motivi della crisi, poiché solamente la filosofia riesce ad individuare
l’essenza della realtà. La polemica socratica nei confronti della riduzione della politica a retorica
diventa in Platone una radicale contrapposizione tra le due.
Con esso si fonda la politica come scienza, come una conoscenza sistematica che riconduce ad un
principio unitario i dati. Il sapere scientifico ci rinvia all’idea, l’archè, il principio origine di tutte le
conoscenze che si acquisiscono a livello dell’esperienza. L’idea, “l’eidon”, è il principio che ci
consente di vedere intellettualmente e quindi di fare e riconoscere le figure, materialmente
diverse l’una dalle altre, ma tutte uguali perché corrispondenti alla loro immagine ideale.
Solo al livello dell’idea la politica perviene alla consapevolezza di ciò che essa veramente è: la
Politeia.

La Repubblica è il dialogo in cui viene individuata e dimostrata l’essenza ideale della politica e
viene scritto negli anni della sua piena maturità, essendo un testo più volte rivisto e corretto. Si
compone di dieci libri, inizia con una discussione sulla giustizia.
Il problema della politica si concentra sul concetto della giustizia: Platone (attraverso Socrate)
critica le definizioni secondo cui la giustizia consiste nel “rendere ciò che si pul aver preso da
qualcuno” o “corrispondere a ciascuno ciò che gli è dovuto”. Interviene quindi Trasimaco
affermando che la giustizia è l’utile di chi o coloro che governano, non è altro che la ragione per
cui abbiamo e conserviamo il potere. Non esista quindi la giustizia, ma tante giustizie per quante
sono le forme di governo, ognuna interessata a giudicare in funzione della propria conservazione.
La giustizia si identifica quindi con la politica, ovvero gli interessi consolidati intorno al potere e si
esprime in una dimensione meramente positiva-empirica.
Platone critica anche questa posizione, criticandone la mancanza di un fondamento scientifico.
Infatti per lui chi sa quello che fa (cioè ha piena consapevolezza del risultato ultimo delle sue
azioni, non può che fare il bene. Il male in politica deriva quindi dall’ignoranza. La Repubblica
indica i principi sui quali si basa una politica scientifica.

Il concetto di giustizia non è più ricercato nella prospettiva dell’individuo singolo ma in quella della
comunità politica, lo Stato, che deve essere concepito come un uomo in grande (concezione
organicistica: la assume come una realtà sussistente).
La società si costituisce perché l’uomo non basta a se stesso, ha bisogno, per la sua sopravvivenza
fisica, dell’aiuto dei suoi simili, per ottenere quei beni che gli altri producono e che da solo non
riuscirebbe mai ad avere (principio della divisione del lavoro e della necessaria interdipendenza che
si istituisce tra le attività).
Produzione e commercio esprimono le diverse categorie sociale in corrispondenza delle attività
svolte: i contadini, gli artigiani, gli operai e i commercianti.
A questa categoria ve ne deve essere aggiunta una seconda, che si occupi esclusivamente della
difesa dei beni e della comunità: la categoria dei custodi che si divide in altre due: quella dei
custodi-guerrieri e quella dei custodi-reggitori, cioè dei politici.

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Per capire quali persone debbano appartenere a quale categoria bisogna riorganizzare
radicalmente la polis, eliminando le due istituzioni che non consentono di governare
scientificamente: la famiglia e la proprietà, istituti che si frappongono fra l’individuo e lo Stato. La
famiglia costringe l’individuo a svolgere un’attività che spesso è contrastante con le attitudini, e
che invece mira al rispetto delle tradizioni e del prestigio. La proprietà invece rende immodificabili
queste posizioni di potere. La proprietà è anche la causa del male più grave, la distinzione tra ricchi
e poveri, in continua lotta.
Eliminando questi due istituti sarà possibile attuare un ordinamento collettivistco che consentirà
di riconoscere la natura degli individui e di collocarli nella classe adatta. Tutti gli individui avranno
un’educazione comune (pubblica!), impartita dai custodi, in modo che possano indirizzarli alle
attività conformi alla loro natura.

La giustizia si realizza quando ciascun individuo svolge solamente l’attività che corrisponde alle sue
predisposizioni naturali.
Le tre funzioni principali (produzione, difesa e governo) trovano analogia nella struttura
dell’uomo, in cui coesistono tre anime: quella concupiscibile, che presiede alla vita biologica,
quella irascibile, che esprime la forza e l’anima razionale che deve sovrintendere all’attività
dell’uomo e governare le altre due.
Il problema politico si riduce a trovare una costituzione che renda possibile il governo della
ragione nella comunità, il cui presupposto è il governo della ragione nell’individuo.
Alle tre anime dell’individuo corrispondono le tre classi della società.
Ogni anima ha la sua particolare disciplina, cui corrisponde una virtù: la saggezza, la fortezza e la
temperanza. Quest’ultima rende possibili i rapporti tra governanti e governati.
La giustizia si realizza in ciascun individuo come ordine interiore, che informa tutte le attività del
soggetto e le coordina con quelle degli altri membri della comunità.
La conoscenza filosofica perviene all’idea dalla quale derivano tutte le altre, l’idea del bene, il
fondamento del principio della giustizia.

Lo Stato Platonico è uno Stato di ragione, governato dalla razionalità. Il bene supremo dello Stato
è la sua unità sostanziale, a tal fine si dota di un ordinamento collettivistico ed è governato dai
custodi filosofi, che ispirano i loro provvedimenti al modello dello Stato perfetto. Assumono
particolare importanza il sistema educativo e la politica demografica, che deve mantenere la
popolazione della città sempre costante (5350).

Per la politica demografica viene proposto un severo controllo delle nascite (eugenetica). Il
matrimonio privato viene sostituito da un matrimonio di Stato. L’unione dell’uomo e della donna
può essere consentita solo dai custodi, mentre si è in età di procreare. Superata tale età le unioni
sono libere (a parte ascendenti/discendenti).
Inoltre per Platone dovrebbe esistere la piena parità di diritti fra uomini e donne.
(collegamento con il modello del kosmos spartano)

Anche la Polis Ideale non si sottrae al processo di trasformazione, decadenza e corruzione, che
inizia quando i custodi sbaglieranno i calcoli. La Polis passerà attraverso le forme di governo che
corrispondono alle fasi degenerative: dall’aristocrazia, propria della città ideale, alla timocrazia, il
governo dei forti, che allontanano i saggi dal potere, all’oligarchia, il governo che si fonda sulla
ricchezza, alla democrazia, che si fonda sulla maggioranza dei non abbienti (opinione mutevole),
alla tirannide, la pessima tra tutte (governo della retorica).

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Questo processo rappresenta la crisi del razionale e l’emergere dell’irrazionale, sino a che
quest’ultimo si sostituisce in toto al primo. La ragione può dispiegarsi solo a patto di una continua
lotta da parte dell’uomo contro l’irrazionale, che appartiene alla sua natura più intima e si
presenta come istinto vitale del piacere.

L’analisi di Platone si sofferma quindi sulla democrazia e sulla tirannide.


La forma di governo si corrompe quando viene assolutizzato il principio che ne costituisce il
fondamento, cioè la libertà, nel caso della democrazia. La libertà però, quando viene assolutizzata,
legittima qualsiasi forma di arbitrio, che determina anarchia. All’estrema libertà, divenuta licenza,
segue necessariamente l’estrema servitù: la tirannide.
La Repubblica si conclude con un richiamo al problema religioso: la sopravvivenza dell’anima
(metampsicosi). La libertà dell’individuo, che sembra negata sul piano politico, dove appare una
predeterminazione della natura, è affermata invece sul piano religioso: la vita che viviamo è il
risultato di una libera scelta della nostra anima.

La politica come scienza si compone di due parti: l’una teorica (la Repubblica), l’altra pratica, che si
riferisce in particolare all’attività di governo (Il Politico). Essa, con riferimento al re-filosofo, viene
identificata con l’arte regia. Per Platone il governo non si basa tanto su forze materiali, ma deve
avvalersi soprattutto dell’intelligenza e che debba essere sostenuto da forza spirituali.
Il politico deve progettare la sua “opera” politica, che non viene realizzata da lui ma da sottoposti.
Per questo motivo la politica, in quanto arte o scienza di governo, sovrintende a tutte le arti
particolari. Lo scopo fondamentale dell’arte regia è quello di stabilire vincoli saldi fra quanti vivono
nella polis, annodare nel tessuto sociale i saggi, i forti ed i temperanti, componendo questi
caratteri in modo che ne risulti un tutto armonico.
Per Platone esiste una misura che si riferisce alla politica: la giusta misura. Essa si esprime nel
conveniente, nell’opportuno, nel dovuto e in tutte le altre “determinazione che vengono ad essere
intermedie fra gli estremi”. La politica è anche la scienza della giusta misura.

Platone ritiene che l’arte regia, esercitata da un re-filosofo pervenuto al grado supremo della virtù,
può sostituirsi alle leggi. Le leggi inoltre non possono prevedere tutti gli avvenimenti.
Platone riafferma l’ideale pitagorico di una scienza (politica in questo caso) che rende migliori gli
uomini e la comunità. (infatti essa è al disopra delle leggi e delle tradizioni).
L’arte regia è l’idea dell’arte di governo: quando viene praticata da un politico che non ha le virtù
del filosofo, si trasforma in un duro dispotismo, completamente soggetto alle passioni.
Per Platone nella classificazione delle forme di governo non bisogna servirsi di un concetto
estrinseco, ma di uno intrinseco: che è quello della maggiore o minore conformità alla costituzione
ideale. Avremo quindi la monarchia del re-filosofo, poi la monarchia vera e propria che si ispira
all’arte regia, e quando viene rifiutata la tirannide. Il governo dei pochi che seguono l’arte regia è
l’aristocrazia, l’oligarchia è invece la costituzione in cui i pochi non si uniformano ai precetti
dell’arte regia. Uguale per la democrazia (due tipi di governo).
Le leggi risultano quindi una copia imperfetta dell’arte regia. Il principio che legittima le
costituzioni scritte, è che bisogna governare nel rispetto delle leggi, ma avendo sempre di mira
l’ideale dell’arte regia.
Infine per Platone dato che tutti i governi non rispettano questo principio di legalità, è meglio
vivere in democrazia, dove la spartizione del potere in piccole parti non permette di fare né cose
particolarmente “buone” né “malvagie”.

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CAP. 4 – ARISTOTELE

Aristotele continua l’indagine sul problema del fondamento scientifico della politica, che è una
delle quattro discipline in cui si articola la scienza dell’uomo (le altre sono la psicologia, o scienza
dell’anima, l’etica e la retorica). L’opera politica fondamentale di Aristotele è la Politica, una
raccolta delle 148 costituzioni greche; appartiene al terzo gruppo degli scritti aristotelici redatti
per la scuola istituita da lui stesso ad Atene.
Nel primo libro si conclude l’indagine sulla Polis. Essa è connaturata all’uomo, in quanto esso è
uno zoon politicon, un essere politico, la cui umanità si esprime tutta nella sua politicità.
L’uomo, in quanto perviene alla nozione del giusto e dell’ingiusto, è l’entelecheia della koinonia
(comunità) politica, il principio che spiega il processo di costituzione della polis. La prima forma di
koinonia è la famiglia, vengono poi il gruppo parentale, la tribù, il villaggio ed infine la polis
(processo storico di formazione cui le fasi corrispondono a diversi tipi di aggregazione umana).
Nella famiglia sussistono i tre tipi di comando ed obbedienza, sui quali si fonda anche la polis:
padre-figlio, marito-moglie, servo-padrone. Essi si distinguono a seconda della gerarchia naturale
delle intelligenze: abbiamo quindi tre tipi di autorità (archè).
La giustificazione della schiavitù è data da questa gerarchia: il rapporto servo-padrone sancisce la
tutela del servo e il dovere del padrone di fargli conseguire la felicità.
Aristotele è quindi convinto che il sistema di comandi-obbedienze debba essere fondato sulla
natura, cioè debba riflettere la gerarchia che si istituisce naturalmente fra tutti i partecipanti alla
comunità, a motivo delle diverse capacità intellettuali. Quindi chi comanda deve possedere la virtù
etica nella sua perfezione.
Il governo della famiglia viene definito con il termine economia, mentre la produzione della
ricchezza è indicata con il termine di crematistica. La prima trova un limite nelle necessità ed
esigenze della famiglia, mentre la seconda non ne incontra alcuno. Per Aristotele quando l’attività
economica non è finalizzata alla comunità nel cui ambito si esplica, diventando fine a se stessa
pone in crisi l’ordine naturale.
Per quanto riguarda invece la pluralità delle forme secondarie di socialità, tutte poste dalla natura,
lo Stato le deve mantenere in sé, rispettandone la propria autonomia (in contrasto con la tesi
platonico secondo cui tra Stato ed individuo non deve sussistere alcun diaframma).
In Aristotele invece la natura si presenta come un tutto articolato, dove ogni manifestazione della
natura ha il suo autonomo fine e la sua precisa ragion d’essere.

Il principio dell’unità non può essere preso nel suo significato letterale; perciò il collettivismo di
Platone è irrealizzabile, in quanto in contrasto con la struttura della società, basata su una pluralità
di forme di socialità in cui gli individui sono diversi per il diverso grado di partecipazione alla virtù.
La famiglia e la proprietà sono ora due istituti fondamentali, in quanto presupposto del processo
di articolazione della società. Inoltre la concezione platonica della società non tiene conto
dell’effetto negativo dell’ineliminabile cattiveria umana, infatti permane sempre un istinto
egoistico, che spinge gli uomini a sottrarsi all’impegno comune e ad approfittare degli altri.
Per Aristotele la miglior forma della proprietà è quella privata, integrata dalla comunanza dell’uso,
quindi con riferimento anche alle esigenze della collettività.

Lo studio della politica è distinto in quattro grandi parti: la prima tratta della costituzione migliore,
la seconda studia come realizzarla, tenendo conto delle condizioni reali, la terza si occupa della
costituzione vigente, la quarta analizza la costituzione più adatta a tutte le città.
“Non bisogna considerare solo il governo perfetto, ma anche quello praticamente attuabile.”

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La costituzione migliore è quella in cui ogni cittadino può meglio provvedere alla sua prosperità
materiale ed alla sua felicità. La polis deve quindi essere definita come una comunità di simili.
L’ordinamento politico della città deve essere informato al principio che tra gli eguali vi deve
essere compartecipazione di diritti e di beni, tranne il caso che vi sia qualcuno che “emerge in
modo eccelso per virtù e capacità pratica”, alla cui volontà è giusto obbedire.

La guerra deve essere combattuta avendo sempre di mira la pace. L’istinto del dominio non può
essere il fine della nostra vita, perché il comando è legittimo solo se esercitato nei confronti di
quelli che la natura destina ad obbedire. Infatti esiste una gerarchia naturale nell’ambito della
quale vengono disposti tutti i rapporti di comando-obbedienza.
La stratificazione sociale (in classi sociali) si fonda sui compiti che debbono essere assolti dalla
comunità: agricoltori, artigiani, guerrieri, benestanti, sacerdoti, magistrati. I rapporti fra le diverse
classi debbono informarsi ai principi che si desumono dall’ordine (taxis) della natura.
Nella polis devono essere proporzionate le parti, al fine di armonizzare gli individui e le attività.
Il senso del limite deve presiedere alle attività: la proporzione, la misura, l’armonia sono i principi
sui quali si fonda l’ordine della città.
Il territorio deve essere scelto in modo da garantire alla città l’indipendenza economica e la difesa,
deve essere fertile ed avere uno sbocco sul mare, deve consentire la “simultaneità della visione”.
Per la popolazione il legislatore deve preoccuparsi della sanità della stirpe mediante le leggi
matrimoniali, che debbono essere informate ai criteri dell’eugenetica. La popolazione deve essere
proporzionata alle esigenze della città, che si riassumono nell’autarchia. Le categorie sociali
debbono essere proporzionate ai compiti fondamentali e la popolazione deve avere un limite, con
cui gli individui possono conoscersi reciprocamente e possono condurre una vita politica
autosufficiente.
I popoli possono essere divisi in tre razze, con caratteristiche determinate dal clima freddo,
temperato o caldo. Solamente la stirpe greca compone armonicamente il carattere dei popoli
nordici e di quelli asiatici.
L’educazione e l’istruzione devono essere affidate allo Stato.

L’elemento più importante ai fini della costituzione è il cittadino, cioè chi può essere eletto alle
magistrature. La virtù del cittadino consiste nel saper comandare e nel saper ubbidire, che è
connessa con la capacità di autocontrollo propria dell’uomo libero, dotato di virtù intellettiva. Tale
virtù non va confusa con la virtù politica (aretè forensis), requisito di chi deve assumere le
supreme decisioni politiche: è sufficiente che il cittadino sia dotato di buon senso.
La cittadinanza non andrebbe ceduta alla classe operaia, in quanto segnerebbe l’inizio di quel
processo di involuzione della democrazia.
Il governo è il potere sovrano, che può essere detenuto da uno, da pochi o da molti, che possono
utilizzarlo nel rispetto della comune utilità o del proprio interesse. Nel primo caso avremo le tre
costituzioni perfette (monarchia, aristocrazia e politeia, la democrazia dei liberi); nel secondo le
tre forme degenerate (tirannide, oligarchia e la democrazia della moltitudine o demagogia).
La politeia è la miglior costituzione in quanto la cittadinanza viene riconosciuta solo a coloro che,
per condizioni sociali, possono conseguire la virtù del cittadino. Fra i liberi vige il principio
dell’uguaglianza. Il potere non si fonda su una gerarchia ordinata dalla natura, ma essendo tutti
uguali, si basa sul loro consenso.
Le sei costituzioni ricordate non sono esaustive, sono modelli, cui possono affiancarsi altre
sottospecie (Aristotele distingue tra costituzione materiale e formale).
Emerge un’ispirazione aristocratico-elitaria, infatti egli è convinto che solo in una categoria di
persone sia possibile esprimere l’armonia e concordia di intenti.

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Nell’ambito della città Aristotele distingue le seguenti categorie: gli agricoltori, gli operai, i
commercianti, i guerrieri ed i politici. La democrazia perfetta esclude le categorie lavoratrici dal
governo della città. In contrasto con Platone accetta la “teatrocrazia”: la maggioranza
dell’assemblea esprime sui provvedimenti che riguardano il governo della città un giudizio più
attendibile di quello dei singoli. La “massa” invece può deliberare sui normali affari pubblici e
partecipare alle elezioni dei magistrati ed esercitare un sindacato sul loro operato. Così facendo la
democrazia si realizza come il giusto mezzo tra l’aristocrazia e l’oligarchia.
(Aristotele denuncia l’involuzione della democrazia ateniese.)
Il principio fondamentale cui deve ispirarsi l’ordinamento politico della città è la sovranità della
legge, che deve essere superiore a qualsiasi cittadino. Negata tale sovranità, le maggioranze
esercitano un potere più assoluto di quello di un tiranno.
Tale principio trova attuazione solo in una costituzione che si basi sulla classe media, che è
veramente libera dal punto di vista economico, morale, ed intellettuale. Essa mantiene l’equilibrio
fra i ricchi e i poveri. Per la promozione di tale classe Aristotele suggerisce una politica orientata a
sostenere le classi meno abbienti.

Nel libro V della Politica vengono studiati i conflitti sociali, che sboccano nella trasformazione
violenta delle costituzioni. Il presupposto dell’analisi è che l’ordinamento deve essere considerato
come il fine ultimo della politica, in quanto scienza dei mezzi più idonei a conservare il potere.
Tali conflitti sono determinati dalla ineguaglianza e dal desiderio di attenuarla. I fattori che
provacono l’insorgere delle rivolte sono tre: morale-ideologico, le convinzioni che giustificano
l’insurrezione, lo scopo che si intende conseguire, le occasioni che consentono di iniziare la rivolta.
Essa è il risultato di una serie di eventi che sboccano nella trasformazione violenta della
costituzione, dovuta all’alterazione dell’equilibrio demografico delle classi ed allo spostamento
delle ricchezze.
Le aristocrazie e le oligarchie finiscono per le lotte e le divisioni interne, promosse dai ricchi che
non hanno potere.
Occorre distinguere il regno dalla monarchia: il primo si fonda sul consenso dei sudditi, la seconda
esercita un potere indipendente da tale consenso.
Le cause principali della fine delle tirannidi sono l’odio e il disprezzo: il primo è suscitato dagli atti
crudeli del governo e il secondo dal genere di vita (dissoluto) che conduce il tiranno. La tirannide
può essere conservata con due politiche opposte: esercitare un controllo costante e totale sui
cittadini oppure conservare la sostanza del potere imitando la forma del governo monarchico.
L’uccisione del tiranno viene considerata come meritoria.
Le trasformazioni violente della politeia e della democrazia sono provocate dalla mancata
osservanza del diritto, per cui si determina una situazione di illegalità generalizzata.
Sono necessarie delle norme che consentano all’assemblea di allontanare dalla polis color che
possono assumere l’iniziativa di una modifica della costituzione.
Infine uguaglianza e libertà, nella democrazia, non vanno intesi come possibilità per ciascuno di
fare ciò che vuole: in tal caso si degenera nell’anarchia.

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CAP. 7 – S. AGOSTINO

Nel De civitate Dei vengono confrontate la civiltà greco-romana e la religione cristiana. La politica
viene valutata nella prospettiva di una concezione teologico-filosofica della storia universale ed ha
un preciso riferimento alla concezione ciceroniana della respubblica ed ai rapporti fra l’Impero e la
Chiesa. Vi sono due “modi di vivere, due mondi umani, due popoli, due città” che risalgono alle
origini della storia del genere umano, costituiscono il punto di riferimento della storia universale e
con l’avvento del cristianesimo sono diventati visibili. La Civitas Dei è costituita da colora la cui vita
è ispirata all’amor Dei, la Civitas Terrena è formata da colora che ispirano tutte le loro azioni
all’amor sui.

L’amore è il vincolo che unisce gli uomini nelle due città, esso è il principio dinamico della volontà
che la spinge a volere. Esso è un’energia che tende a conseguire una serie di beni secondo un
determinato ordine. Amare se stessi significa conseguire tutti i beni terreni che possono darci
soddisfazione, in modo che il nostro animo non sia più turbato. La soddisfazione è uno stato di
pace con se stesso, l’amore di se stesso significa pertanto il desiderio di stare in pace con se stessi.
Proprio tale desiderio spinge l’uomo a uscire dalla propria individualità e a stabilire rapporti di
sociale convivenza. Per stare in pace con se stessi bisogna stare in pace con gli altri, in un cerchio
che si allarga sempre più.
La pace è una caratteristica della natura dell’uomo, è la ragion d’essere della società umana.

Il fine ultimo della politica è quello di conseguire, mantenere, garantire la pace. Essa si riferisce alla
totalità dell’uomo. Vi sono due paci: quella della Città celeste e quella della Città terrena. La prima
è eterna, la seconda è insidiata dalle passioni mutevoli degli uomini.
La pace rinvia quindi all’ordine che la rende possibile, che “assegna ogni cosa al suo posto”. Tale
ordine trova la sua fonte e la sua leggitimità in Dio, nella sua legge, la legge eterna. Tale legge è
costitutiva della coscienza dell’uomo. Le leggi positive e le istituzioni derivano da tale prima norma
e non sono altro che una sua interpretazione, a secondo delle diverse situazioni e circostanze.

Per Cicerone la repubblica è la “cosa” del popolo e il popolo non è una moltitudine di individui, ma
la loro unione mediante il vincolo del diritto e della comune utilità: il diritto è espressione della
giustizia.

Per s. Agostino lo Stato deve essere definito come la cosa del popolo, ma il popolo deve essere
concepito come l’unione degli individui fondata sulla concorde comunione delle cose che essi
amano. Solo l’amore può stabilire un rapporto d’unione reale, una comunione di sentimenti. (fa
della moltitudine una unità).
Si avverte che gli uomini non sono bestie, ma creature razionali: non è più consentito il dominio
dell’uomo sull’altro uomo.
Lo Stato è costituito da: un’associazione di individui, un capo che comanda, un patto sociale, una
serie di convenzione precedentemente concordate: il potere di governo si fonda quindi sul
consenso dei cittadini. Il rapporto di comando e di obbedienza, tra il re e i sudditi, sembra un vero
e proprio contratto. Si rileva quindi la distinzione fra potere e dominio: il primo si esercita sulle
creature razionali, il secondo su quelle irrazionali.
C’è una corrispondenza fra l’oggetto dell’amore l’ordine della società politica: quanto più il primo
corrisponde alla virtù tanto più l’ordine politico sarà stabile e lo Stato sarà in grado di garantire la
sicurezza. Le tradizionali virtù terrene (temperanza, prudenza, fortezza, saggezza) anche se non
illuminate dalla fede cristiana, ma perseguite con costanza, possono far sussistere un ordine

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terreno, e quindi un corrispondente ordinamento politico. Quindi un popolo che sia moderato e di
buoni costumi deve avere il potere di eleggere i propri magistrati.
Ma se l’oggetto dell’amore non è consono alla virtù, entra in crisi l’armonia e la concordia. In tale
situazione il popolo non è più in grado di autogovernarsi: si rende necessario come unico rimedio
che il governo venga assunto su iniziativa di una persona dotata di virtù e di autorità, o da una
ristretta aristocrazia.

Il motivo della crisi risiede nella natura dell’uomo, che è intimamente contraddittoria: l’uomo
proprio perché ama se stesso aspira alla pace e vuole l’ordine che vi corrisponde, ma le cose che
desidera e i fini che si pone spesso contraddicono questa aspirazione.
L’amore scaturisce nell’uomo da un sentimento indefinito del bene assoluto, cioè di Dio: l’uomo
che vive nella e per la città terrena, senza alcun pensiero per quella celeste, non riesce a
riconoscere il vero oggetto di questo desiderio e persegue i beni terreni, che nono possono
soddisfare il suo desiderio di felicità. Di qui l’insoddisfazione e l’inquietudine che sospingono
l’uomo alla ricerca continua di nuovi beni.

La storia consenti di comprendere la genesi della potenza romana, la sua affermazione e la sua
decadenza. S. Agostino distingue tra amore per la gloria e amore per il dominio: nel primo caso il
cittadino anteponeva al bene privato quello pubblico. Dopo la morte di Augusto cominciò a
subentrare l’amore per la potenza e per il dominio: inizia il declino delle antiche virtù.
Al cristianesimo quindi non può essere addebitata la decadenza dell’Impero Romano.

La città di Dio “vive come pellegrina nel mondo”, ma si serve della pace terrena come di un bene
che appartiene all’ordine della creazione divina ed è quindi impegnata a promuoverla.
Viene abbracciata una concezione cristiana del potere, come autorità posta da Dio con specifici
compiti, per i quali tutti sono tenuti ad obbedire. L’obbedienza cristiana nei confronti del potere
non è assoluta, ma incontra un limite indicato dalla coscienza del singolo per le questioni di
carattere spirituale e di fede, sulle quali lo Stato non può intervenire. Risalta la questione della
guerra: al cristiano non è concesso l’uso delle armi e deve rifiutarsi di combattere.
Infatti i precetti divini debbono essere interpretati con riferimento alla situazione: il precetto
fondamentale della legge eterna è che sia conservato l’ordine naturale, ovvero che sia conseguita
e conservata la pace anche nella città terrena. La guerra deve essere il rimedio estremo per
mantenere la pace.

Nel corso della polemica contro la Chiesa Donatista s. Agostino approva l’intervento della
legislazione imperiale e dei relativi provvedimenti per le questioni attinenti all’unità della Chiesa.
Tali leggi rientrano in una funzione positiva dell’autorità, che è quella di indirizzare la ragione
verso la conoscenza della verità. Ma l’applicazione di queste leggi va eseguita con clemenza: non si
deve reprimere nelle forme delle leggi imperiali, ma bisogna dare la possibilità al singolo di
ricredersi.

s. Agostino risulta pessimistico nei confronti della politica (concezione realistica): il peccato e il
male segnano il limite della politica. Essa non può essere l’assoluto dell’uomo: lo stato che si
assolutizza diventa “stato-dominio”. Lo Stato non è però destinato al male, esso rappresenta,
nell’ambito dei beni terreni, valori altamente positivi (in quanto rappresenta lo sforzo di togliersi
dal condizionamento di mali terreni).

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CAP. 8 – S. TOMMASO

La traduzione in latino della Politica di Aristotele fu un fatto decisivo per la ripresa degli studi
politici. S. Tommaso accoglie l’eredità aristotelica ripensandola, alla luce dei valori cristiani e delle
nuove esigenze del suo tempo.

Nel Commento alla Politica di Aristotele si rileva che la politica debba essere considerata come
scienza autonoma: il campo della filosofia si estende a ciò che può essere conosciuto con la
ragione e fra i vari oggetti che la ragione conosce vi è la città, considerata come un tutto. La
particolare disciplina che studia la città come un tutto è la scienza politica, ed è autonoma
collegandosi alla filosofia (ragione) ed all’etica (comportamento degli individui). La politica non è
una scienza speculativa, ma una scienza pratica: va considerata come la scienza che si riferisce
all’azione degli uomini e che ha per oggetto i comandi, le disposizioni e gli ordini (scienza
dell’agire). È la scienza che presiede al coordinamento di tutte le altre discipline che riguardano le
attività che si svolgono nella società. La politica viene considerata anche nella prospettiva cristiana
dell’ordine, quale insieme dei rapporti istituiti dalla ragione dell’Uomo. La politica viene
considerata come l’ordine voluto dalla ragione dell’uomo per raggiungere i propri fini della sua
natura: in ciò risiede la differenza tra ordine politico e naturale.

L’uomo è l’artefice della comunità politica, con l’intento di conseguire i beni essenziali ed i beni
morali, che solo la società gli può offrire e che gli sono essenziali per realizzarsi compiutamente
nella sua naturale umanità, per raggiungere la perfetta sufficienza della vita. Quest’ultima non
rappresenta la felicità, ma la completa realizzazione dell’uomo che è data solamente dalla
partecipazione al bene assoluto, Dio.
L’uomo viene definito come un animale sociale (no animale politico): il problema della felicità
riguarda solo l’individuo e non più lo Stato.
S. Tommaso definisce la civitas un tutto, una unità-totalità: non è però una unità assoluta, ma una
unità d’ordine, dove le singole parti hanno una sfera d’azione distinta dal tutto e il movimento di
questo risulta dall’armonico coordinamento dei movimenti delle singole parti. (NO connessione
organica individuo-società, ma connessione d’ordine).
Così viene riconosciuta la libertà come caratteristica essenziale dell’uomo, in quanto capacità di
autodeterminazione razionale.
La civitas ha quindi un suo fine: il bene comune (l’ordine nella pace).
La natura del potere politico: l’unità d’ordine e quindi la pace possono essere conseguiti se
sussistono nella comunità più persone che dirigono i comportamenti dei singoli verso il bene
comune, altrimenti la società si disarticola in gruppi e fazioni, dato che i singoli mirano sempre
all’interesse particolare. (il potere non è superiore alla comunità, ma ne dipende).

La ragione ha una preminenza sulla volontà: l’obbligatorietà della legge scaturisce dalla sua
razionalità. Il potere politico trova quindi un limite nella ragione. La legge è “un ordinamento della
ragione in vista del bene comune, promulgata da colui cui spetta il governo della comunità”. Essa
ha il compito di regolare e disciplinare il comportamento degli individui in vista del bene comune,
e dato che esso riguarda l’intera comunità la legge deve essere deliberata dalla comunità. (??)
Esistono vari tipi di legge: quella positiva, quella umana, quella eterna, quella divina e quella di
natura. Quest’ultima si manifesta nella spontanea inclinazione dell’uomo ai fini razionali, e grazie
ad essa è in grado di cogliere la distinzione fra il bene e il male. Tale legge, pur essendo immutabile
ed uguale per tutti, trova diverse formulazioni ed applicazioni.

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La legge umana si distingue in diritto delle genti e diritto civile: entrambi derivano del diritto
naturale ma il primo riguarda la convivenza in generale mentre il secondo dipende dalle particolari
esigenze degli Stati. È caratterizzata da mutabilità e generalità.
La legge umana è necessaria per il fatto che gli uomini non si adeguano spontaneamente ai
precetti della ragione: l’uomo è succube di passione e vizi. Tale legge non può contraddire la legge
di natura (limite di tale legge). Rimane fermo l’obbligo per il cristiano di rifiutare l’obbedienza alle
leggi che contraddicono quella divina.

Tiranno è chi governa anteponendo il suo interesse personale a quello generale e chi ha
conquistato il potere con la violenza. La tirannide è la pessima tra le forme di governo: è il trionfo
della passione. La rivolta nei confronti del tiranno non è un diritto ma un fatto: l’oppressione
diventa intollerabile che determina inevitabilmente una reazione. La rivolta (solo quella attiva
viene giustificata) rimane comunque un episodio grave per il turbamento che arreca all’ordine
della società. Tale diritto di resistenza deve quindi essere sottoposto ad una procedura giuridico
costituzionale: la forma di governo corrispondente è quella mista (monarchia, aristocrazia e
democrazia). Il potere è coartato e disciplinato dalle leggi della comunità. Il re deve quindi
sottostare a tali leggi (limite del potere regale).
Il diritto a deporre il principe viene giustificato anche sulla base del patto intercorso fra il popolo e
il principe: il tiranno viola il patto e scioglie nel contempo i sudditi dal vincolo di fedeltà.
(il problema del controllo del potere politico inizia a prendere un rilievo costituzionale).

CAP. 9 – DANTE

Per Dante l’Impero e la Chiesa sono i due costanti punti di riferimento affinché l’uomo possa
pervenire alla salvezza eterna. Religione e politica, pur essendo distinte, costituiscono la premessa
necessaria perché l’uomo possa togliersi dalla “selva selvaggia”: la realtà politica del suo tempo è
vista come un disordine totale.
Tale crisi dipende dalla corruzione della chiesa, diventata istituzione. (i papi politici sono dannati
nell’inferno). Nella Monarchia Dante individua le ragioni che giustificano l’autonomia e
l’indipendenza dell’Impero nei confronti della Chiesa. (indagine sul fondamento dell’autorità
politica).

La politica è uno studio sistematico dell’attività pratica, delle azioni. Il fondamento dell’ordine
politico è dato dalla fine della vita dell’uomo: la ricerca della verità e lo sviluppo delle capacità
intellettuali. Affinché l’intelletto, nato in potenza, si traduca in atto è necessaria la collaborazione
fra tutti gli uomini. Ciò può avvenire se fra gli uomini regna la pace, che deve sussistere tra tutte le
collettività. Per tale pace universale serve un superiore ordine politico, l’Impero, che abbia unità di
direttive per coordinare l’attività dei singoli.
L’uomo, spinto dal desiderio di conoscere, è portato a superare la cerchia della propria particolare
società in forme sempre più ampie di associazione: l’Impero è il termine ultimo delle forme di
società e realizza il principio dell’unità del genere umano. L’impero è considerato come la
necessaria coordinazione di tutti i tipi di comunità minori, ognuna di esse autonoma e
indipendente nella propria sfera di competenze, ma subordinata all’Imperatore per le soluzioni dei
vari conflitti tra comunità.

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Il fondamento e la legittimità della Monarchia universale si basano inoltre sulla giustizia e sulla
libertà, la prima principio costitutivo di ogni aggregazione umana. Tutte le ingiustizie, anche
suddito-governante, devono essere risolte con giustizia, serve quindi una giurisdizione superiore
(l’impero). Il monarca, avendo conseguito tutte le aspirazioni, non può essere fuorviato dalla
cupidigia.
La libertà consiste nella facoltà di giudicare i desideri e le passioni senza esserne condizionato:
essa si attua in un ordine politico retto, informato alla razionalità universale.
Con l’Impero non viene imposta una legislazione unica, ma si tratta di accettare la legge
dell’Impero quale regola che disciplina gli interessi universali.

Dante vede con prestigio l’Impero Romano. La nascita di Cristo e la sua predicazione sono la
dimostrazione della volontà divina di unificare le genti.
Il diritto è concepito da Dante come proporzione fra cose e persone nei rapporti umani: è la vera
espressione dell’ordine mediante cui si organizza la società. Il popolo romano ha pienamente
meritato l’impero.

Per quanto riguarda i rapporti Impero-Chiesa, il monarca non riceve la sua autorità dal potere
spirituale. La chiesa infatti non può disporre del potere temporale, che non gli viene concesso
neanche da Cristo, che ha esplicitamente rinunciato ad ogni forma di dominio temporale.
L’uomo ha due fini, la perfezione terrena e la felicità eterna: la prima può essere raggiunta solo se
l’uomo svolge la sua attività secondo le virtù morali ed intellettuali; per il secondo fine l’uomo
deve seguire gli insegnamenti della Rivelazione. Affinché l’uomo possa operare secondo le virtù
terrene, premessa per capire la Rivelazione è necessario che l’uomo sia sottratto alle passioni.
(prima affermazione del primato e dell’indipendenza del sapere).
CAP. 10 – MACCHIAVELLI

Il suo pensiero è connesso alla sofferta esperienza della crisi politica degli stati italiani del ‘400,
messa in luce dalla discesa di Carlo VIII in Italia. Le opere maggiori di Macchiavelli sono il Principe
ed i Discorsi, con l’obbiettivo di ispirare il programma pratico ed i mezzi atti a garantire la stabilità
politica dell’Italia, caratterizzata da una crisi dell’etica civile e da corruzione degli ordini.
Il disordine, dipendente dall’inefficienza dello stato, va ricondotto alla natura dell’uomo: l’animo
umano permane identico nella storia, e da esso dipende la dialettica (storica) di ordine-disordine
(l’ordine nasce dall’esperienza del disordine). L’uomo vive in uno stato di perenne incontentabilità
che lo spinge a volere sempre di più: ciò lo porta ad oscillare tra la noia e il dolore (noia poiché il
bene non soddisfa l’uomo).

Esiste una contrapposizione netta fra quel che si deve fare e quello che si fa.
La prospettiva politica classica diventa analisi e descrizione del comportamento politico quale
effettivamente si realizza. La politica diventa criterio di interpretazione della storia, e questa indica
in concreto come si determinano le situazioni politiche, da cui è possibile trarre le regole per
l’azione politica. La politica non può che considerare la verità effettuale delle cose.

La politica consiste nello studio dei mezzi mediante cui l’uomo viene sottratto al disordine: l’ordine
si oggettivizza come Stato. Macchiavelli è il primo autore che usa la parola “Stato” nel senso di
comunità politica; nel senso che essa ha una sua autonoma ragion d’essere: lo “stato è dominio
che imperio sopra gli uomini” e si realizza nel comando che esercita su coloro che sono
assoggettati al suo potere. Lo stato come forza è la verità effettuale della politica e va considerato

11
in termini di potere, cioè nei modi con cui esso è conquistato e mantenuto. La forza mantiene gli
uomini uniti nella società, generando l’ordine.
Macchiavelli abbandona il punto di vista giuridico-politico, in quanto sono le condizioni di fatto che
assumono un rilievo preminente.

Tra gli stati si distingue tra principato e repubblica: il primo è caratterizzato da unità di comando
(in un solo individuo)(il governo assoluto è solo una possibile forma del principato), la seconda da
l’autorità del popolo.
Macchiavelli è sostenitore della costituzione mista (?).
Egli propone una nuova classificazione delle forme di potere e delle “politiche” che vi
corrispondono. I principati vengono divisi in ereditari o nuovi, i nuovi possono essere al tutto nuovi
oppure misti, costituiti cioè in parte da domini ereditari e in parte da nuovi territori conquistati.
I principati possono essere conquistati o con le armi proprie o con quelle altrui, o con la virtù o con
la fortuna. Tali distinzioni consentono di individuare le situazioni tipiche dello studio della politica.
Infatti l’attività di governo non può conformarsi a regole di condotta dedotte da principi assoluti,
ma a norme di comportamento dettate dalle situazioni particolari.

Ogni atto politico con cui si modifica una precedente situazione per modificare/mantenere il
potere ne determina una nuova, che offre diverse possibilità di scelta.
L’azione politica è necessitata dalla situazione in cui si trova chi opera, e necessitante, in quanto
crea una nuova situazione che costringe ad operare delle scelte: il politico è prigioniero degli
avvenimenti e deve evitare le situazioni avverse. Le situazioni politiche non vengono mai giudicate
stabili.

Gli stati partecipano della stessa natura degli uomini, cioè tendono ad estendere il loro dominio.
L’analisi della politica di Luigi XII mira a mettere in luca la “necessaria” concatenazione degli
avvenimenti, dettata da scelte errate. Il programma politico del Re doveva fondarsi sulle regole
proprie della instaurazione del dominio in una provincia straniera, regole da ricavarsi tramite l’uso
della storia. Le azioni politiche debbono essere tutte coordinate al fine che si intende conseguire,
bisogna adottare strategie obiettive coronate da successo in casi analoghi.

Vengono analizzate le regole del principato nuovo, nel Principe, che riguardano il comportamento
che il principe deve mantenere nei confronti della parola data: cioè se i patti con le potenze
straniere lo vincolano nella sua azione e se la morale e i valori religiosi delimitano il suo potere nei
confronti dei sudditi. Affinché il principe venga lodato dai sudditi deve porre attenzione ai “vizi che
gli tolgono lo Stato”: è meglio essere parsimonioso anziché liberale.
Per quanto riguarda il rapporto principe-sudditi egli deve evitare l’odio e il disprezzo, in quanto il
primo vince il timore che il potere incute ai sudditi e il secondo poiché spezza il vincolo che unisce
principe e sudditi. La politica non si svolge più sul piano della ragione, ma su quello delle passioni.
Solo la forza e l’accortezza sono i principi cui devi ispirarsi li principe, poiché gli unici atti a
disciplinare le passioni e asservirle ai fini dello Stato.
Esistono due modi di governare: il primo con le leggi (tipico delle bestie) il secondo con la forza:
quando il primo non basta bisogna ricorrere al secondo. La forza però deve essere accompagnata
dalla accortezza (i trattati possono non venire rispettati).
Il principe deve saper dissimulare, cioè trovare giustificazioni convincenti della mancata
osservanza dei patti sottoscritti.
Si opera una netta distinzione tra gli interessi politici e principi fondamentali della morale (primato
della politica sull’etica e sulla religione).

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Ai fini politici non c’è nessun bisogno che il principe sia pietoso, leale o fedele: l’importante è che il
principe sembri essere tale e che sembri essere attento osservante della religione. Ciò poiché la
maggioranza degli uomini non è in grado di distinguere ciò che appare da ciò che è e quindi giudica
in base alle apparenze. (Pessimismo)
In politica l’essere non corrisponde al sembrare, nella società il nostro agire assume significati
diversi da quelli che gli sono propri, assumendo un nuovo aspetto e apparendo rivolti a fini diversi
da quelli propri o voluti. L’azione va considerata in due ambiti: quello privato e quello pubblico
(sociale, politico). Solo nel primo sussiste uguaglianza fra essere e sembrare.
Simulazione vuol quindi dire considerare attentamente il modo in cui il nostro agire si “presenta”.
Contraddizione della politica: proprio a questo punto l’etica e la religione vengono riaffermate, sul
piano della simulazione. La società non può sussistere senza che questi valori vengano
riconosciuti.

L’uso della forza, che significa “entrare nel male”, è imposto dal principe solamente dalla
situazione di necessità, in cui è in gioco la vita dello Stato. Ogni stato ha diritto ad esistere e la
necessità prescrive allo Stato il comportamento più adatto per difendere la propria vita.
Macchiavelli propende per una concezione “naturalistica” della storia, cioè il corso degli
avvenimenti umani segue il ciclo naturale degli esseri viventi (nascita, crescita, morte, rinascita)
(movimento ciclico compiuto dalle costituzioni). Gli uomini non riescono a orientare la storia
secondo i loro propositi, il politico può però inserirsi autonomamente nel corso degli avvenimenti,
sfruttando le occasioni favorevoli e predisponendo gli opportuni mezzi per evitare quelle
sfavorevoli. Il fatto che il principe debba essere dotato di “virtù” indica la concentrazione di tutte
le sue energie sul fine della politica: la conquista e la difesa del potere.
La virtù si contrappone alla “fortuna”, che indica l’indeterminatezza propria degli avvenimenti ed è
connessa con la tendenza al disordine.
La virtù può (quasi !) sempre contrastare la fortuna e a volte sottometterla: la politica è la
possibilità dell’uomo virtuoso farsi artefice della storia.
(sembra una concezione deterministica ma non lo è!)
L’uomo si trova ad operare in situazioni che non ha potuto de determinare né prevedere: il suo
grado di virtù finisce col corrispondere alla tendenza generale che si manifesta nella storia.
In ultima analisi Macchiavelli rimane convinto che la storia è fatta dagli uomini e, quale
esplicazione della loro virtù, consente al politico di restaurare lo Stato.

L’esortazione rivolta a Lorenzo dei Medici affinché assuma l’iniziativa di liberare l’Italia dallo
straniero, mediante la costruzione di uno stato forte, dimostra la traduzione reale del suo pensiero
in un programma politico.

La distinzione politica-morale-religione è il nucleo problematico della concezione dello Stato:


emerge un contrasto tra il principe e i discorsi. Nel primo la politica (del principato nuovo)
asservisce ai suoi fini i valori tradizionali, nel secondo emerga l’esigenza di dimostrare sulla base di
quali ordini politici e mediante quale precettistica si possa fondare e conservare uno Stato
(repubblicano) fondato sulla libertà del popolo. (meno pessimismo)
Si vuole studiare come il contrasto nobili-plebei (e sinonimi) abbiano giocato un ruolo differente
nella storia di Roma e in quella di Firenze, nel primo caso portandola alla gloria, nel secondo alla
rovina. Al popolo bisogna affidare i poteri necessari per difendere la libertà contro i tentativi dei
“grandi” (?) di instaurare un regime oligarchico. Il vivere libero rappresenta l’ideale politico
supremo che deve animare l’organizzazione politica. Viene affermato che il popolo è in grado di
garantire una stabilità politica maggiore di quella del principato.

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Il problema del fondamento etico-civile della comunità politica: i discorsi trattano i problemi
inerenti allo Stato-comunità e la forza politica viene vista nella sua genesi (non nella sua
attuazione). Il concetto di virtù si amplia e indica anche la capacità di saper disciplinare i propri
comportamenti ai fini del bene dello Stato.
Qui lo Stato si genera da se stesso, nasce e si forma nella storia.
L’organizzazione si struttura su tre livelli connessi: i costumi, le leggi e gli ordini.
I costumi sono le fondamentali istituzioni politiche sulle quali si basa la costituzione dello stato,
l’ordine si riferisce al modo con cui viene esercitato il potere ed al diverso grado di partecipazione
delle persone all’amministrazione (e alle modalità di conferimento delle cariche). Il sistema delle
leggi garantisce la libertà e la “sicurità” (sicurezza e tranquillità, le aspirazioni costanti del popolo).
Per Macchiavelli le leggi devono disciplinare non solo il governo repubblicano, ma anche il
principato: il potere del principe trova un limite in esse, poste a garanzia dei sudditi.
Non bisogna quindi non osservare le leggi, poiché così facendo si rovina la fiducia della collettività.

Per Macchiavelli il senso della comunità, cioè del significato etico che il vincolo sociale assume per
i consociati, si radica nella religione (costumi). Essa è essenzialmente “timore di Dio”, che agisce
sull’animo di ogni cittadino ed è il presupposto all’obbedienza alla legge ed al comando. Grazie ad
essa gli uomini passano dal piano della ferocia primitiva a quello della umanità civile.
L’autorità di Dio è il principio di legittimazione di tutte le leggi umane e delle autorità: se viene a
mancare la religione bisogna sostituire il relativo timore con quello del principe, che si assolutizza
(dando però vita a governi brevi).
La virtù di Roma scaturisce proprio dalla sua religiosità e dalla costanza di saper anteporre il bene
della comunità a quello privato. La corruzione si determina quando non si avverte più l’importanza
dei valori etico-civili e diventano preminenti gli interessi egoistici. Mantenere “incorrotta” la
religione è la cura degli Stati in difficoltà.
Macchiavelli si distoglie completamente dal discorso teologico-filosofico della religione
concependola solo come costume. Viene sottolineato il fatto che la “corruzione” della politica
italiana dipende da quella religiosa: l’atteggiamento mondano della Chiesa si istituzionalizza anche
sul piano politico. Alla Chiesa va attribuita la divisione politica dell’Italia, causa di tutti i mali che
affliggono il popolo italiano. Il cristianesimo va interpretato non come una richiesta di pura
obbedienza, ma come una religione da intendere “virtuosamente”, in modo che ci impegni alla
difesa della dignità e della libertà della nostra patria. Il costante punto di riferimento di ogni azione
politica è lo Stato-patria, la cui indipendenza e libertà devono essere perseguite con ogni mezzo
(primato della politica).

Anche la politica trova un limite: quando essa si presenta come negazione dell’umanità, è
preferibile vivere da privato cittadino che governare la rovina di tutti gli uomini.

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CAP. 11 – BODIN e SUAREZ

La Riforma aveva infranto il principio dell’unità di fede sulla quale si fondava la Respublica
christiana: si tentarono nuove forme di aggregazione ed occorrevano quindi nuovi principio per
regolare ed organizzare la nuova realtà politica.

Bodin. Le guerre di religione avevano suscitato il problema dell’unità dello Stato francese: si
affermava, da parte cattolica, il primato degli Stati Generali sul potere della monarchia (primato
della religione sulla politica).
Le due opere più importanti di Bodin (il Methodus.. e i Sei Libri de la Repubblica) rivendicano
l’autonomia dello Stato di contro alle confessioni religiose. I Sei Libri- sono l’atto di nascita dello
Stato “costituzionale” moderno.

Secondo Bodin la storia non è predeterminata né dalla natura né da Dio: l’uomo è libero e la sua
libertà è il principio che ci consente di concepire la storia come il risultato dell’attività dell’uomo,
che esprime a sua volta gli ideali sui quali si fonda l’ordine civile e politico.
La società di natura fu caratterizzata da una vita umana sostanzialmente ferina: la loro libertà
“naturale” è assoluta a motivo della totale mancanza di alcun vincolo, ma ciò vuol dire anche
assoluta mutevolezza e indeterminatezza della volontà (istinti e passioni). L’uomo comincia a
diventare essere razionale solo quando riesce a mantenere costante la sua volontà, per conseguire
determinati fini. Solo dopo una lunga esperienza storica gli uomini si rendono conto che libertà,
ragione e volontà coincidono, nel senso che l’uomo attua la sua vera umanità quando vuole i fini
che gli sono indicati dalla ragione.
La prima forma di disciplina della volontà è la religione, e lo toglie dalla natura ferina. Nella
religione si radicano gli usi, i costumi, le leggi, le istituzioni e gli ordini (concezione macchiavelliana
che la religione costituisce il vincolo originario delle società politiche). La politica di un organismo
sociale dipende dal fatto che esso si esprime come forza, ma la forza è volontà, in quanto energia
che tende a realizzare il fine indicato dalla ragione. Lo Stato, in quanto forza, è una volontà che si
esprime e realizza tramite le leggi e le sue istituzioni: condizione necessaria affinché le volontà dei
singoli possano realizzarsi come libere.
Lo Stato ha un processo di formazione storico ed è il centro di unificazione delle attività degli
uomini. La storia è caratterizzata da uno sviluppo continuo e costante della razionalità e della
civiltà (progresso).
Il principio che fa sussistere lo Stato è la “summa potestas”: la sovranità unifica gli individui e i
gruppi sociali.

Sei libri—“Per Stato si intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse
famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune” (elementi: famiglia, cose comuni, giusto governo
e sovranità). Ponendo la famiglia come fondamento della società si distanzia dalle concezioni
contrattualistiche. L’individuo è un animale sociale: non può essere considerato dal punto di vista
individuale, ma nel gruppo sociale primario in grado di esprimersi come autonoma unità, la
famiglia, dove si esprimono i tipi di comando e obbedienza.
Distinzione potere pubblico e privato: il primo si esercita dal sovrano e dai magistrati, per il
tramite delle leggi; il secondo viene esercitato dai capi delle famiglie (moglie, figli schiavi e servi: 4
relazioni primarie della famiglia fondate sulla natura).
L’uomo non riconosce nessun potere superiore, se non quello di Dio (ovvero la ragione). La prima
forma di potere è quella che l’individuo esercita su se stesso, disciplinando i sentimenti e
uniformandosi alla ragione.

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Lo Stato si costituisce quando si uniscono più famiglie (per motivi di comune difesa) sotto un unico
potere sovrano, i capi di famiglia perdendo il loro potere diventano cittadini.
Secondo elemento dello Stato è “ciò che è comune alle famiglie e a quanti vivono nello Stato”; ma
per identificare la sfera pubblica bisogna riferirsi a quella privata (proprietà privata cardine dello
stato).
Terzo elemento: la sovranità, che unifica le persone e le cose e le fa sussistere in un’unità reale.
Quarto elemento: un governo giusto, collegato alla sovranità in quanto la presuppone e viceversa.
Lo stato si distingue dai ladri perché deve far valere il principio di giustizia.

La sovranità è “il potere assoluto che non riconosce al di sopra di sé alcun altro potere se non
quello di Dio”. Assolutezzaàil potere sovrano trova in se stesso le ragioni della sua
determinazione. Stato, potere sovrano e forza si identificano: la sovranità è forza, che si presenta
come il comando formulato dal diritto. La forza esprime in sé il principio che la limita: il diritto, che
è la regola con cui la forza deve disciplinarsi, in modo da realizzare l’ordine, che consente la
coesistenza in una armonica unità (lo stato).
L’origine storica dello stato rappresenta il processo di depurazione dalla violenza.

Esistono tre tipi di potere: la sovranità, il dominato (monarchia signorile) e la tirannia. Sono tutti
assoluti, ma solo i primi due sono giusti, mentre il terzo è ingiusto ed a determinate condizioni
legittima la resistenza attiva. Il potere sovrano è la forza per il tramite del diritto, il dominato è il
potere che ritrova i limiti solo nell’etica e nella religione, mentre la tirannia è il potere che non
esprime alcun limite, ma si genera e si mantiene con la violenza.
Il dominio è legittimo in quanto fa valere un principio d’ordine ed è la prima forma di governo che
ritroviamo presso tutti i popoli dell’antichità.

La sovranità è un potere assoluto, perpetuo, perché non può essere limitato, indivisibile, perchè
consiste nell’unità dei poteri, intrasferibile, in quanto delegarla significa spogliarsene,
imprescrittibile, perché attiene all’unità dello Stato.
È caratterizzata dalla potestà di fare le leggi, modificarle ed interpretarle (legislativa).
Altri poteri determinanti per l’esistenza dello Stato:
- Dichiarare guerra e pace
- Nominare e destituire gli ufficiali
- Esame dei giudizi dei magistrati
- Imposizione dei tributi o esenzione
- Concessione di grazie
- Fissare il valore delle monete
- Imposizione del giuramento di fedeltà
(Bodin ammette la consuetudine come fonte di norme giuridiche, ma nei limiti del potere sovrano)
Gli Stati Generali non possono rivendicare alcun potere autonomo nei confronti della monarchia,
in quanto detentrice della sovranità. Hanno il diritto di essere informati e di informare, ma la
decisione spetta unicamente al potere sovrano.
La sovranità riconosce quali limiti i principi del diritto divino e naturale.
Lo Stato sovrano deve essere considerato costituzionale nel senso che la gestione del potere è
sottoposta a limiti. Esistono leggi fondamentali che si riferiscono all’organizzazione politica,
dettate dalla storia, che non possono essere modificate dal re. (ad es. legge salica)
Altro limite sostanziale à la proprietà, di cui il cittadino è privabile solo nei casi previsti dalla
legge. Esso è un diritto assoluto che si fonda sul diritto divino e naturale, inoltre rappresenta una
ulteriore forma di garanzia della libertà civile e sancisce la distinzione fra pubblico e privato.

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L’indivisibilità della sovranità non permette di accettare la costituzione mista, in quanto essa può
che a appartenere ad uno, pochi o molti. (…?)
Qualsiasi tentativo di attuare la democrazia (irrealizzabile) avrebbe determinato un conflitto tra i
diversi centri di potere, che degenera poi in una guerra civile.
La costituzione mista si riferisce alla ratio gubernandi e non allo status civitatis: la sovranità
attiene gli elementi essenziali dello Stato, mentre l’attività di governo può dare attuazione al
principio di giustizia contemperando le esigenze dei pochi e dei molti.
La giustizia può ispirarsi a tre criteri: l’aritmetico (eguaglianza numerica – democrazia), il
geometrico (proporzione – aristocrazia) e l’armonico, contemperamento dei due.
Il problema dell’aristocrazia: per mantenere il potere aristocratico ha una gerarchia sociale rigida,
ciò causa uno stato di tensione con le altre classi sociali.
La democrazia invece misconosce le diversità, risultato dei diversi meriti degli individui.
La giustizia armonica riconosce ciò che spetta per lo status sociale o i meriti, ma ha il fine non di
appianare le tensioni ma quello di far coesistere principi contrapposti.
Per Bodin i prudenti, i forti ed i saggi debbono comandare agli intemperanti.

Lo Stato è al di sopra di ogni conflitto: il monarca deve preoccuparsi solo delle questioni che
attengono all’esistenza dello Stato.
La religione è suo fondamento, e va mantenuta incorrotta, non permettendo la pluralità di
confessioni. Il timore di Dio è il primo freno che mantiene gli uomini nel rispetto delle leggi
(condanna ateismo). Meglio la superstizione all’empietà, anche se essa non equivale alla religione.
Il Cattolicesimo ha ispirato l’unificazione della Francia, perciò va mantenuto.
Le convinzioni religione, però, non possono essere coercite, in quanto la fede è un atto spontaneo:
bisogna seguire l’esempio di Teodosio, che rifiuta di prendere provvedimenti con l’arianesimo.
(la confessione secondaria incapace scomparirà da sola).

Alla sovranità vanno riportati tutti i rapporti della comunità: il rapporto feudale non ha più alcun
valore politico, ma si risolve nel rapporto suddito sovrano.
Viene riconosciuta importanza alle forme di aggregazione secondaria che hanno la funzione di
conservare l’amicizia e la concordia: presupposto di ogni convivenza civile.
Ci sono tre forme di associazione: il collegio, tre o più persone, la corporazione, più collegi, e
l’universitas, l’unione di famiglie, collegi e corporazione di una stessa comunità.
La società deve avere una sua organizzazione che si riferisce alle attività necessarie alla vita
comune, ognuna delle quali deve avere una sua forma associative per mantenere la concordia: si
realizza l’autonomia à piena libertà di associazione (stato al di sopra delle parti).
Ordine: una parte dei cittadini distinta dagli altri per condizione sociale, stato giuridico e sesso.
Tale sistema di associazioni (collegi, etc.) sono istituzionalizzati negli Stati Generali, che si bassano
sulla rappresentanza. (secondo Bodin il Re li “ascolta”)

Suarez. Le sue opere maggiori rispondono alle esigenze di formulare una compiuta risposta ai
problemi posti dalla Riforma. Suarez difende l’autonomia del potere politico e non accettà né la
concezione luterana dello Stato come “spada di Dio”, né la teocrazia di Calvino.
Il diritto naturale costituisce il fondamento dell’autonomia dello Stato e il presupposto per la
costituzionalizzazione del potere politico.
Viene ripresa la concezione tomistica della comunità politica, costituita e posta in essere dagli
individui.

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La sovranità si fonda sul diritto di natura, ed è conseguenza necessaria dell’unione degli individui
in società. L’essenza del potere politico risiede nel comando e, se necessario, nella forza.
L’uomo non possiede tale potere, in quanto non può costringere il suo simile. Perciò il potere non
deriva dai singoli individui, ma promana dalla comunità in quanto unità reale.
Si differenzia la potestas economica (potere del padre di famiglia) con la potestas iurisdictionis
(potere politico): il primo è un potere di direzione, mentre il secondo indica comando e coazione.
La famiglia come gruppo sociale non è una comunità perfetta, in quanto non può assolvere a tutte
le esigenze dell’individuo e del gruppo.
Il potere politico inerisce alla comunità, concepita come unità reale, e costituisce il principio e la
ragion d’essere dell’autonomia, della indipendenza e della libertà della stessa comunità.
La comunità sussiste come un insieme organico ed unitario di rapporti fra tutti gli individui che la
costituiscono, avente una sua ragion d’essere autonoma, che la rende superiore ai singoli.
(rapporto unità-totalità).
La sovranità non è attribuita da Dio ai monarchi, ma dalla comunità. Il potere, dato che attiene al
governo della comunità, deve essere sempre finalizzato al bene comune: la comunità ha il diritto
di resistere con la forza al re che si comporti da tiranno.
Nel costruire la società, l’individuo NON ha ceduto il diritto alla tutela dei propri bene della propria
vita, diritto naturale costitutivo della personalità e intrasferibile.

La forma di governo viene scelta dalla comunità: monarchia, aristocrazia o democrazia vengono
scelte in base alle particolari esigenze. La Democrazia corrisponde all’essenza della comunità, in
quanto il potere politico appartiene alla comunità. Monarchia e aristocrazia trovano il loro
fondamento solo sul diritto positivo umano, la democrazia anche su quello naturale.
La Monarchia è legittimata dall’atto di concessione del potere politico da parte della comunità,
atto irrevocabile à potere assoluto à deve quindi essere interpretato come un “patto” con
determinate condizioni cui anche il monarca deve prestare rispettoà se le viola resistenza attiva.

Il potere politico non può rivendicare una investitura divina poiché sulla base del diritto di natura
esistono norme fondamentali che regolano l’esistenza della comunità. Il potere risulta
“costituzionalizzato” à Deve agire nell’ambito di norme che hanno un valore superiore alla
volontà di chi lo detiene.
Diritto di natura à fonte delle norme del diritto positivo.

Il genere umano va riconosciuto come un vero ordinamento.


La consuetudine è una fonte del diritto, in quanto tali norme possono essere dedotte dal diritto di
natura, in quanto corrispondono alla natura razionale dell’uomo.
Le norme del diritto internazionale consentono la collaborazione fra gli Stati appartenenti a
diverse comunità, senza tali norme non è possibile il miglioramento delle condizioni umane: la
società internazionale integra e completa l’attività dei singoli Stati.
Il diritto di guerra trova disciplina nel diritto delle genti, che sancisce come lecita solo la guerra
giusta, combattuta per difendersi da una ingiusta aggressione à prima di intraprendere la guerra
bisogna tentare di risolvere i conflitti mediante la diplomazia.

18
CAP. 13 – HOBBES

Nella sua speculazione filosofica la politica (collegata con la guerra e la natura dell’uomo) ha un
rilievo centrale, scrive elements of law natural and politic, de cive, leviatano, de corpore, de
homine.

La politica presuppone un iniziale riferimento al diritto o alla legge di natura, secondo il quale
l’uomo deve essere concepito come i “corpi della Fisica”. Come corpo, il suo movimento è
l’essenza, un moto vitale che inizia con la nascita e cessa con la morte.
La tendenza iniziale dell’uomo è mirata al desiderio o alla avversione: il primo ci sospinge verso
determinate cose, la seconda ce ne allontana. Essi mantengono l’uomo in un continuo movimento,
che si attua nell’anima e poi si traduce in attività.
La felicità consiste nel continuo movimento, cioè passare da un desiderio all’altro: il desiderio
dell’uomo comprende tutte le possibilità di godimento che possono verificarsi in futuro.
Le facoltà dell’uomo servono a procurargli i mezzi necessari all’appagamento dei suoi desideri: il
potere dell’uomo si distingue in naturale (corpo e mente) e strumentale (si sviluppa con
l’esercizio).
Natura del potere à tende a crescere, in efficienza, man mano che viene esercitato.

La vita dell’uomo e dei movimenti che la esprimono non è altro che “potere”: l’uomo ha un
desiderio continuo di maggior potere. (come Macchiavelli) l’uomo desidera tutto ma ha mezzi
limitati à insoddisfazione, aggravata dall’insicurezza dell’ordine politico.
Gli uomini sono tutti uguali, in quanto “corpi” naturali, le differenze sono solo esteriori.
L’uomo nello stato di natura ha un potere assoluto su tutte le cose ed è mosso
dall’autoconservazione: tali poteri, assoluti, entrano in conflitto tra loro à lo stato di natura è
caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti.
L’individuo è libero, nel senso che è esente da impedimenti esterni al suo potere: la legge di
natura, regola scoperta dalla ragione, vieta all’uomo di fare ciò che è contrario alla conservazione
della vita e lo sospinge a fare ciò che la garantisca.
È più conveniente (x la conservazione della vita) ricercare un sistema di convivenza con i propri
simili che garantisca la pace, la sicurezza, il benessere e l’appagamento dei desideri.
à bisogna cedere la potestà assoluta e la connessa libertà ad un individuo (o un gruppo) con
l’incarico di governare: si costituisce un corpo artificiale, un corpo politico.
La pace è il fine ultimo della convivenza politica: il potere sovrano è assoluto al fine di mantenerla.
Mediante il CONTRATTO, si dà vita anche ad una persona artificiale o civile, le cui deliberazioni e i
cui atti sono riferiti a tutti. Lo Stato è il potere che sottrae l’uomo alla dispersione ed alla miseria,
proprie delle lotte degli uomini nello stato di natura.

La cessione del potere è un atto irrevocabile: l’uomo non vanta alcun diritto di resistenza. Se ciò
fosse ammesso si distruggerebbe il patto sociale e si tornerebbe nello stato di natura.
Il potere sovrano è (svincolato da limiti e) insindacabile e il sovrano è sottratto a qualsiasi
controllo. Al sovrano compete anche valutare ciò che è necessario per mantenere la pace e per
difendere il paese dai nemici. Deve emanare poi le leggi civili ed evitare conflitti: oltre alla potestà
legislativa gli compete l’amministrazione della giustizia e la scelta degli ufficiali.
Il potere sovrano è anche indivisibile.
Il monarca può avvalersi dell’opera di consiglieri esperti.

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I tipi di costituzione sono tre: monarchia, aristocrazie, democrazia. La costituzione mista non
esiste, in quanto il potere è sempre, in ogni caso, assoluto ed indivisibile.
Le forme di governo devono essere giudicate in relazione alla loro capacità di garantire la pace e la
sicurezza: solo l’unità della condotta politica può farlo, nell’ambito della monarchia: la garanzia
governo efficiente è data dalla coincidenza dell’interesse di chi governa con quello pubblico.
Tale identificazione deriva dal fatto che il sovrano, grazie al potere di cui è titolare, si immedesima
con il corpo politico. Tale coincidenza non si verifica nelle assemblee: per la diversità di opinioni i
problemi non sono trattati in modo realistico, ma in modo da suscitare il consenso della
maggioranza (retorica) à esasperano le divergenze ed i contrasti.
La politica “scientifica” richiede che la formulazione delle decisioni segua ogni accortezza per
ridurre al minimo l’influenza delle passioni e degli interessi particolari: serve unità di comando.
Il consiglio svolge la stessa funzione che esercitano la memoria e la ragione: i consiglieri vanno
però ascoltati uno alla volta, poiché il confronto ridesta l’interesse e le passioni.
Il consigliere è un esperto, specializzato in una particolare attività o settore.

Nello stato di natura non esistono leggi: ci sono solo qualità, comuni alla natura umana, che
predispongono gli uomini a costituire la società –> non esiste criterio per il giusto/ingiusto.
Solo con lo stato e con le leggi positive è possibile trovare tale criterio. La legge deve essere
concepita con riferimento alle norme munite di sanzione.
Nello stato di natura tutti i beni sono comuni, ogni individuo possiede solo ciò di cui si è
appropriato e riesce a conservare con la forza. La proprietà privata, garantita dal diritto all’uso
esclusivo delle cose, trova fondamento solo nella legge positiva à dipende dal potere sovrano.
Il potere sovrano conserva il potere assoluto su tutte le cose, proprio dello stato di natura.
Le leggi positive rappresentano la “misura” della libertà dell’individuo: egli può agire con libertà
solo per le azioni non regolate dalle leggi à la sua sfera di libertà dipende dal diritto.

Vi sono dei casi in cui il cittadino può rifiutarsi di obbedire al sovrano (sola resistenza passiva), ciò
poiché esistono diritti che, in quanto attengono alla conservazione della vita, non vengono ceduti
con il patto (diritto di difendere il proprio corpo e la vita).
Il singolo può rifiutarsi di attentare alla sua vita od al suo corpo, anche a seguito di una condanna,
può rifiutarsi di confessare un delitto, a meno che non abbia assicurazione di non essere
incriminato.

La religione non ha né fondamento né posizione autonoma: l’unità dello Stato richiede che anche
la religione venga subordinata alla volontà sovrana, che fissa le norme per il culto e per
l’organizzazione ecclesiastica.
La religione si riconduce ad una predisposizione naturale, cioè il timore dei fenomeni inspiegabili e
l’ansia per il futuro à l’uomo è soggetto a cadere nelle superstizioni (scambiare credenze x
religione).
La religione è il criterio per interpretare la parola di Dio, vi sono tre modi: nella natura (creata da
Dio), nella rilevazione (grazie ai profeti in contatto con lui). (due mondi.. n’erano 3 ?)
L’individuo nella società di natura ha il diritto di venerare Dio nel modo che preferisce: la pluralità
di culti è una delle cause delle tensioni e dei conflitti.
Il Nuovo Testamento non contraddice l’identificazione del potere politico con quello spirituale,
poiché Gesù dette consigli, non leggi. Bisogna mantenere separate le questioni spirituali: spetta
alla ragione (potere temporale) di giudicare cosa appartiene alle due sfere. Il termine Chiesa indica
la comunità di fedeli, mentre la Chiesa come istituzione si costituisce solo mediante decreto.
Lo stato e la Chiesa vengono quindi ad identificarsi à riduzione religione alla politica.

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Alla Chiesa cattolica viene negata qualsiasi realtà istituzionale/universale.
In uno Stato cristiano, tuttavia, non può esserci contrasto fra il cristiano e l’autorità: il sovrano
(cristiano) è tenuto a far risolvere le controversie dagli ecclesiastici, consacrati ed istituiti secondo
il rito approvato dallo Stato. (delega di un potere che rimane proprio al sovrano).

CAP. 14 – SPINOZA

Spinoza concentrò i suoi interessi sui rapporti tra filosofia, religione e politica col fine di risolvere i
conflitti religiosi e garantire la libertà dell’indagine filosofica. Il suo pensiero è sollecitato dalla
situazione politica olandese.
Il necessario completamento della filosofia è la libertà di pensiero, condizione essenziale affinché
possa esistere lo Stato, la cui esistenza permette alla ragione di esprimersi compiutamente.
Viene criticata la superstizione, e viene posta l’esigenza del mantenimento del popolo nell’ambito
della religione, compito cui deve assolvere lo Stato.
I conflitti dipendono dall’influenza dei teologi e degli ecclesiastici: animati dall’ambizione si
comportano da retori. Tali comportamenti hanno svuotato del suo vero contenuto la religione
cristiana, degenerata in superstizione.

Il Trattato Teologico-Politico è il primo tentativo di interpretazione della bibbia, che va considerata


come un documento storico. Non esiste nessuna differenza fra la religione e la ragione naturale,
che è manifestazione della natura divina. Poiché l’insegnamento dei profeti è formulato con
termini ispirati dall’immaginazione, non bisogna attribuire alle espressioni profetiche un
contenuto razionale.
Secondo la Bibbia il fine ultimo di ogni uomo è considerare la conoscenza di Dio come il sommo
bene: verità che può cogliere solo il saggio e non la massa. La Bibbia ha lo scopo di rendere la
massa partecipe di tale verità.
Esistono due conoscenze di Dio: una biblica, fondata sulle opinioni vere, ed una intellettuale.
Solo rendendosi conto dello scopo della società politica si può definire il rapporto con la religione.

La società politica è condizione necessaria affinché gli uomini possano provvedere ai bisogni
materiali e perfezionare la loro natura: la vita al di fuori della società è caratterizzata da miseria ed
incertezza.
Se gli uomini fossero in gradi di capire che il comportamento deve uniformarsi alla ragione la
società si costituirebbe spontaneamente. Dato che però gli uomini cercano di perseguire il proprio
utile, per fondare la società è necessaria l’istituzione di un potere coattivo, che riesca a controllare
le passioni. La natura umana non sopporta la costrizione assolutaà bisogna temperare il potere.
La religione ha il compito di far sì che gli uomini obbediscano per devozione, non per timore: essa
interviene in ausilio dello stato.
Si distingue tra ragione-filosofia e religione-teologia: la prima ha come oggetto la conoscenza
intellettuale di Dio, la seconda ha come oggetto la pietà e l’obbedienza.

La causa naturale dei comportamenti risiede nell’naturale istinto di autoconservazione dell’uomo.


Nello stato di natura l’uomo si identifica con la sua potenza e gli uomini sono tutti uguali: non può
sussistere bene e male. à tutti i mezzi per ottenere l’utile sono leciti.
(come Hobbes) gli uomini vivono in uno stato di guerra continua, in completa insicurezza. Tale
situazione convinse gli uomini a vedere l’associazione come unico rimedio alla miseria.

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La società si forma grazie alla costituzione di un potere comune, che va esercitato in base alla
volontà di tutti (natura democratica della società politica)
L’uomo perviene alla razionalità quando si rende conto che solo grazie alla comunità può ottenere
un maggior “utile”, essendo la comunità un male minore dello stato di natura.
Nell’uomo permangono però l’istinto e le passioni, che se manifestate con libertà
distruggerebbero la società: è necessario che la società esprima a sua tutela un potere sovrano,
che con la minaccia delle pene costringa gli individui a rispettare le norme.

Il PATTO SOCIALE attua un’unione di individui che collegialmente hanno il diritto di disporre di ciò
che appartiene alla società à problema del rapporto potere sovrano e individui, considerabili
come cittadini (individui attivi) o sudditi (passivi).
Le problematicità di un ordinamento democratico derivano dal fatto che gli uomini non regolano i
propri comportamenti nella società secondo i precetti della ragione à massa perditionis
La prima esigenza dello Stato è quella di resistere a tale disgregazione innescata dalle passioni à
bisogna riconoscere al potere sovrano autonomia ed indipendenza nei confronti dei cittadini.
Vige il principio della assoluta obbedienza alla potestà sovrana: il potere politico è unità di
decisione e comando, garantita dalla sua assolutezza. La potenza sovrana deve poter plasmare a
suo piacimento la massa. (funzione demiurgica nei confronti dei molti) (come macchiavelli)

Spinoza non riconosce la legittimità del diritto di resistenza attiva nei confronti del tiranno.
Utile e ragione coincidono: la società, che ha come scopo l’utile degli associati, è fondata sulla
ragione ed ha come fine la pace e la sicurezza degli associati.
Il potere sovrano è l’unificazione dei poteri dei singoli individui che compongono la moltitudine: se
essa trascura il “bene del popolo” entrerebbe in contrasto con gli individui. Se tali individui fossero
la maggioranza, il potere mancherebbe della sua stessa ragion d’essere (distruzione società).
L’individuo trasferisce al governo il suo diritto di autoprotezione, ma non la sua essenza:
l’individuo si determina sempre secondo le ragioni proprie della sua natura.
Se la politica procura un danno superiore all’utile che si ottiene dalla società e lede gli interessi
della maggioranza, quest’ultime deve contrapporre la sua potenza a quella del governo.
Il patto sociale si fonda sulla reciproca utilità. (diritto di resistenza).
La democrazia rappresenta l’essenza della società politica: realizza la coincidenza dell’utile di chi
detiene il potere con quella della collettività.
Tuttavia la cessione del potere non è totale: l’individuo nel fondare la società si riserva molta parte
della sua potenza, che dipende dalla sua volontà.

Il fine dello Stato è la libertà dell’individuo à l’ordinamento deve permettere all’uomo di vivere in
pace ed in sicurezza per liberarsi dalle passioni e cooperare.
L’individuo conserva sempre il diritto di giudicare secondo ragione, nessun potere può governare i
pensieri dei sudditi à il potere politico non può imporre convinzioni.
La libertà della ragione si riferisce alla libertà speculativa, il cui compito è perfezionare
l’organizzazione politica. Lo Stato che nega tale libertà nega sé stesso. Tale libertà va esercitata
anche nei confronti delle leggi, per perfezionarle.
La storia ha dimostrato che i provvedimenti che miravano a disciplinare le opinioni sono state la
causa dei conflitti e delle lotte civili. Tale libertà incontra dei limiti, i principi su cui si fonda la
comunità: nessuno può diffondere teorie che mirino alla distruzione del patto sociale.

La libertà di pensiero va connessa alla libertà religione. (ricordiamo che il rapporto con la religione
si esplica anche sul piano dell’immaginazione).

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Lo stato ha la più ampia potestà per quanto riguarda le regolamentazioni del culto. Nello stato di
natura inoltre non esiste la religione, che si riferisce esclusivamente alla società umana.
Le motivazioni di ciò risiedono nella Bibbia, che inizialmente conferisce a tutto il popolo di Israele
di interpretare la parola di Dio, poi lo conferisce a Mosè, ed alla sua morte si attua un
ordinamento che prevede un’autorità religiosa (x l’interpretazione parola di Dio) ed una politica,
che possiede l’iniziativa in materia religiosa.
La Chiesa dipende dallo Stato, in quanto essa esiste nell’ambito della società politica e la sua
azione è possibile solamente se la legge statale la riconosce e la disciplina.
La religione è comunque fondamentale, in quanto ispira l’etica civile, sui cui si fonda l’ordine.
Il culto si deve adeguare ai precetti delle leggi civili, per il resto ogni individuo è libero di
interpretare la parola di Dio.
La libertà di coscienza e il libero esame delle scritture si fondano esclusivamente sull’autonomia
della ragione e sulla convinzione che la mente umana, in quanto ragione, è un modo con cui si
manifesta l’intelletto di Dio.

CAP. 15 – LOCKE

Suo obbiettivo era quello di dimostrare come il potere non sia espressione dell’autorità paterna,
ma sia connesso alla natura di ogni individuo: occorre analizzare come si forma la società partendo
dall’individuo inserito nello stato di natura, dove corrisponde all’intelligenza, considerata nella
posizione iniziale, prima di ogni esperienza sensibile.

Lock critica le tesi di Filmer: è impossibile trovare prove sicure per ricostruire la linea primogenita
della discendenza di Adamo, alla quale possa essere riconosciuto il diritto di succedere nel potere
assoluto del progenitore.
Il potere politico va tenuto distinto dalle altre forme di potere, e non deriva da queste. Esso è “il
diritto di far leggi con penalità di morte, e con ogni penalità minore, per il regolamento e la
conservazione della proprietà, e di impiegare la forza della comunità politica nell’esecuzione di tali
leggi e nella difesa della società..il tutto solo per il pubblico bene”.
Esso ha un’origine diversa dalle altre forme di potere, in quanto è la conseguenza della
costituzione della società politica.
Nello stato di natura l’individuo si comporta secondo le sue facoltà costituitive ed uniformandosi
alle regole della legge di natura, che coincide con la ragione dell’uomo à libertà di ogni uomo.
Il potere di ogni individuo è uguale a quello degli altri, ed esso è finalizzato alla conservazione di
ciascun individuo. Vige libertà ed uguaglianza, in quanto siamo tutti creature di Dioà obbligo per
ciascuno di non violare l’autonomia e l’indipendenza dell’altro, ovvero ogni individuo può
respingere, con la forza, l’offesa dell’altro che intende invadere la propria libertà.
Forza/Violenza à la prima è volta alla difesa della legge di natura, la seconda è diretta ad
offendere. (diritto di resistenza attiva, cioè la difesa della libertà-uguaglianza).
Per Locke lo scontro fra gli individui, e il conseguente stato di guerra, implicano necessariamente
la difesa e la restaurazione del diritto di natura (cioè di giustizia), mentre per Hobbes lo stato di
natura è manifestazione stessa della volontà di potenza.
Locke precisa che il potere dell’individuo offeso sull’offensore non è mai assoluto ed arbitrario, ma
deve essere commisurato al danno che ha subito. (per Locke i conflitti allo stato di natura non
possono che terminare con la vittoria della forza sulla violenza.. ?) Nella legge di nature esiste il

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criterio per distinguere l’aggredito dall’aggressore: quest’ultimo dichiara lui stesso di vivere
secondo una norma diversa da quella di ragione.
La schiavitù si fonda sulla forza giusta: nello stato di natura è lecito uccidere chi attenta alla nostra
vita o conservarlo in vita in cambio di servizi à la schiavitù appartiene alla società naturale.
Essa non può essere giustificata come cessione della libertà da parte dello schiavo, in quanto essa
è indisponibile.

Il diritto alla vita implica il diritto al godimento dei beni acquisiti: la proprietà è l’ambito nel quale
si attua la libertà e l’autonomia dell’individuo. Gli uomini debbono essere considerati proprietari
del loro lavoro, cioè delle loro energie fisiche/intellettuali à l’uomo, tramite il lavoro, fa sue le
cose: infatti nello stato di naturale le cose necessitano di essere trasformate per soddisfare i
bisogni. I beni di cui si serve l’uomo per soddisfare i suoi bisogni sono il risultato di un lavoro
“sociale” che necessita di coordinazione. La proprietà diventa quindi la misura della capacità che
l’individuo è in grado di esprimere: l’uso della moneta ha consentito di estendere la proprietà al di
là dei limiti fissati dall’uso personale e dai bisogni del singolo. (la proprietà privata ha un
fondamento etico-religioso)à(appoggia sfruttamento coloniale di Shaftesbury)

La società naturale si attua spontaneamente: ciascun individuo svolgendo la sua attività e


cercando i beni stabilisce rapporti di collaborazione à la tutela della libertà è affidata al singolo
individuo, punto problematico in quanto esso diventa giudice e parte in causa: non può essere
garantita in questo modo una giustizia oggettiva.
La società si forma col fine di stabilire un’autorità al di sopra delle parti che possa amministrare la
giustizia e che tuteli la libertà, l’indipendenza, l’autonomia e la proprietà privata: trova la sua
ragion d’essere nel consenso di chi l’ha costituita.
L’individuo si spoglia a favore della società politica del suo potere esecutivo, cioè del diritto di
difendere con la forza la sua vita.
Conseguenza del fondamento contrattualistico è che le deliberazioni della maggioranza, se
assunte nel rispetto del patto sociale, vincolano la minoranza.
La costituzione che meglio corrisponde al fondamento consensuale della comunità politica è
quella che si articola in tre poteri: legislativo, esecutivo e federativo. Il legislativo è il potere
supremo che formula le leggi che mirano alla conservazione della società; esso deve però essere
sottoposto ai limiti della legge di natura à tale potere deriva la sua autorità dal MANDATO che gli
è stato concesso dal popolo.
Il legislativo va distinto da quello esecutivo, che ha il compito di far eseguire le leggi. La libertà
politica è garantita quando si ha questa separazione affidando i poteri a gruppi diversi.
Il potere federativo si occupa dei rapporti con le altre comunità politiche: ciò è possibile solo se
viene affidato a chi detiene anche il potere esecutivo, in quanto entrambi richiedono l’uso
coordinato della forza politica.
L’esecutivo-federativo è subordinato al legislativo (supremazia Parlamento su Corona).
Il potere che esercita la Corona si fonda sulla legge, che deriva la sua volontà dal Parlamento.

La sovranità della legge è il principio cardinale della società: esecutivo sottoposto al legislativo.
PREROGATIVA: fondamento ed estensione del potere autonomo dell’esecutivo à il principio della
sovranità della legge non va assolutizzato. Sulla base della “prerogativa” la Corona può supplire
alle leggi qualora ciò sia richiesto dalla pubblica utilità.
La prerogativa si fonda sulla mutua fiducia tra le due istituzioni: il popolo rimane quindi l’ultimo
giudice. Esso ha infatti il potere di abolire l’ordine costituzionale per combattere la forza

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oppressiva della monarchia e restaurare la libertà, qualora il governo degeneri in tirannide. (diritto
di resistenza attiva).
La prima forma di tale resistenza riguarda i funzionari ed i magistrati che eseguono disposizioni
tiranniche, che provocano la dissoluzione della società civile à ritorno allo stato di natura ed ogni
individuo può farsi giustizia da sé stesso.
L’epistola sulla tolleranza afferma che il valore centrale su cui deve organizzarsi la società sia
quello della tolleranza.
La fede dell’uomo deve essere spontanea à libertà di culto e di associazione con due eccezioni:
non vi è tolleranza per chi entrando a far parte di una Chiesa diventa suddito straniero, e
nemmeno per chi nega l’esistenza di Dio, fondamento dei rapporti tra gli uomini.

CAP. 16 – VICO (1668-1744)

Nella seconda metà del Seicento si afferma il primato della ragione, che è in grado di fornire tutte
le regole per organizzare e regolare la vita sociale degli individui à il diritto è espressione della
ragione.
Il giusnaturalismo è la riduzione della società alla volontà ed alla ragione. L’affermazione di Lutero
aveva liberato lo Stato dal controllo della Chiesa: la filosofia, il diritto e la politica si rendono
autonomi rispetto alla religione.
Il giusnaturalismo riduce l’autorità al potere politico, unica fonte di qualsiasi obbligo, poiché si
fonda sull’unico principio di legittimazione, il consenso degli individui mediante il contratto sociale
à concezione razionalistica e pangiuridica della società politica, in contrasto con gli autori italiani
che reputano lo Stato “un’entità” non riducibile alla volontà degli individui.
La Scienza Nuova di Vico vuole risolvere criticamente la ragione giusnaturalistica per fondare la
ragione storica, che possa servire da orientamento nel governo della società.

Nel Metodo degli studi del nostro tempo la politica è riferita alla prudenza ed all’accortezza, che
consistono nella capacità di saper valutare, di volta in volta, le situazioni in quel che hanno di
peculiare. La scienza della natura tende ad una conoscenza unitaria, la politica cerca di conoscere
le cose per individuare le possibili cause. La prima però si preclude la conoscenza dei singoli fatti
ed esprime l’assurda esigenza di adeguare tutti i fatti a sé stessa.
Le passioni, che dominano il concreto agire, possono essere orientate solo con l’eloquenza.

Vico ritiene che il principio fondamentale della filosofia cartesiana non costituisce un criterio sul
quale fondare la ragione scientifica: si può dubitare di tutto tranne del pensiero à non è una
certezza assoluta, non appartiene alla scienza ma alla coscienza.
Il criterio sul quale fondare la ragione va individuato tenendo conto della distinzione tra il vero e il
fatto e la successiva reciproca conversione del vero e del fatto (si può avere conoscenza solo delle
cose che facciamo) à la scienza deve individuare il modo con cui le cose si generano à solo Dio
ha una vera scienza della natura, in quanto creatore dell’universo.

La vera conoscenza scientifica si riferisce alla storia, in quanto fatta dagli uomini: tutte le
manifestazioni del fare degli uomini sono collegate fra loro e si compongono in una sistematica
connessione nelle società politiche à primato della politica sulle scienze di natura.

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La politica, come attività volta a far sussistere lo Stato, deve considerare la reciproca conversione
del vero e del fatto, tramite la mediazione del certo, che è la parte della verità conosciuta
dall’uomo nelle particolari condizioni storiche in cui si trova.
La certificazione del vero avviene mediante l’autorità, che consente al fare dell’uomo di consistere
come mondo umano e di costituire e far sussistere lo Stato à il potere politico è solo uno
strumento; è l’autorità a dar continuità al processo storico mediante cui si formano le società.

L’uomo è “fatto” a immagine e somiglianza di dio, perciò è sapienza, volontà e potenza; però a
causa della sua originaria corruzione queste facoltà divergono tra loro: la volontà cerca di
dominare la ragione à si genera la cupidigia e l’amore per sé stessi. La ragione sottomessa ai sensi
non è più in grado di conoscere il vero. (la sapienza dei sensi è la causa prima dell’ignoranza del
vero, da cui scaturisce infine l’infelicità dell’uomo).
La corruzione si esprime in una contraddizione: l’uomo vuole affermarsi e negarsi.
L’uomo è costituito di mente e corpo, la prima spirituale ed infinite il secondo materiale e finito:
l’uomo è perciò un essere finito che tende all’infinito (Dio).
La ragione non è una facoltà compiutamente realizzata, ma è una tensione verso il vero che anima
qualsiasi forma di conoscenza. (la ragione è definita vis veri).
Le tre facoltà dell’uomo (ragione, volontà e potenza) sono collegate e si compenetrano: si
esprimono nel fare dell’uomo: dominio – usare le cose secondo ragione; tutela – diritto di
difendere la vita, libertà – determinare le azioni mediante volontà.
L’autorità è costituita da dominio, tutela e libertà e nell’azione si attua come unità che si toglie
dalle contraddizioni, sì che la sua azione ha una reale consistenza e fonda rapporti (politici) stabili.
Il primo modo con cui si manifesta l’autorità è la forza, che si presenta come inalienabile diritto
dell’uomo alla vita, quindi come dominio delle cose necessarie e tutela. Nella forza sussistono il
domino, la tutela e la libertà.
L’uomo si distingue dai bruti in quanto si muove e non subisce con passività gli impulsi esterni.
Forza/Violenza: la seconda promana dal predominio della volontà sulla ragione e dal dominio dei
sensi. (principio di buona fede: la parola dell’uomo esprime la verità).

La società ha una genesi storica: l’uomo primitivo non si distingue dalle bestie. La ragione è
rinchiusa dentro l’istinto ed i sensi. La genesi del movimento “attivo” è connessa a due
fondamentali modi di conoscere la realtà, che si fondano su religione e fantasia: vivere una
particolare esperienza e “raffigurarsi” quella esperienza.
La prima esperienza religiosa si esprime nel terrore religioso del fulmine. Esso rinserra i “giganti
bestioni” nelle grotte e li sottrae alla libertà bestiale, inducendoli a cercare di interpretare il cielo
(avvertimento presenza divinità)
Al terrore religioso è connesso il pudore, dove l’uomo non si accoppia più a cielo aperto à si
esprime il primo rapporto umano: l’unione uomo – donna. (prima forma di amicizia)
Lo scopo del matrimonio è quello di certificare la prole, il presupposto di qualsiasi società.
Si genera quindi un altro sentimento: la pietà per i defunti.
Questi tre sentimenti si manifestano nelle tre fondamentali istituzioni dell’umanità: la divinazione,
i matrimoni e le sepolture à si realizza la prima autorità, monistica (la famiglia).
Il processo di evoluzione del gruppo familiare è promosso dall’esigenza di procurarsi mezzi di
sussistenza più abbondanti di quelli offerti dalla natura à le famiglie vanno nelle pianure per
coltivare la terra: nasce la prima arte umana, l’agricoltura, cui si dedicano le GENTI MAGGIORI.
A queste si contrappongono le genti minori, che continuano la propria vita ferina.
Il rapporto servo – padrone esprime la genesi della società politica e si fonda sulla forza. Con la
tutela, la protezione delle genti maggiori su quelle minori, si costituisce la famiglia vera e propria,

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che comprende anche i “famoli”. Si forma il primo nucleo politico che comprende individui
assoggettati al dominio del pater familias. Tale nucleo è autosufficiente.
La tutela si fonda sulla religiosità e sulla pietà delle genti maggiori.
La tensione che si crea tra le due genti sfocia in una rivolta delle genti minori à dal conflitto nasce
la prima forma di comunità statale: i padri di famiglia, per difendersi, si riuniscono in “ordini”,
nominando un capo comune.

La nuova comunità ha bisogno dei servizi delle genti minori: la rivolta è risolta con una prima
concessione da parte delle genti maggiori: il dominio bonario dei campi, consentito alle genti
minori sulla base di una concessione revocabile. (prima legge agraria)
Tale legge non risolve però le tensioni à la plebe ottenne l’istituzione dei tribuni della plebe, che
avevano il compito di rappresentarla. Tali tribuni ottennero, con la legge delle XII tavole, il dominio
dei campi. (seconda legge agraria delle antiche nazioni).
Però le proprietà dei plebei, alla loro morte, tornavano all’originario concedente aristocratica, in
quanto la plebe non aveva prole legittima. A tal fine ottenne il diritto di contrarre nozze solenni,
acquistando la piena cittadinanza, ottenendo la ragion pubblica.
La plebe partecipò così all’emanazione delle leggi, che dovevano essere validate dal senato (che
esercitava la funzione di tutela).
La forma di governo repubblicana è così il risultato di un processo storico caratterizzato da lotte di
classi. Il dominio, la tutela e la libertà costituiscono le fasi fondamentali di tale processo: il dominio
per le monarchie familiari, la tutela è la ragione politica delle aristocrazie e sulla libertà si fonda la
costituzione della repubblica popolare.
Il punto più alto cui perviene lo Stato, l’istituzione che rende possibile la piena esplicazione
dell’umanità, si realizza quando avviene la compartecipazione tra politica, leggi e la ragione
filosofico – scientifica. Lo Stato è un’entità che consiste nel diritto: la prima universitas iuris è
l’uomo, la seconda è quella del padre di famiglia, la terza lo Stato, che si fonda su una reale
comunione di vita. Vico riprende il concetto bodiniano di stato come un tutto al quale il singolo
deve la sua esistenza à lo Stato è definito in relazione a Dio: come Dio, esso si giustifica da sé, e
proprio in questo consiste la sua sovranità.

Le società politiche, dopo la piena maturità, iniziano un processo di decadenza (come Polibio).
(ricordiamo che il rapporto con Dio non si origina nella ragione ma nel timore panico).
La ragione comincia a chiudersi nella sua autosufficienza, nella possibilità di legittimare tutta la
realtà che la circonda, assumendo un atteggiamento critico nei confronti delle esperienze che
l’hanno generata e dissolvendo l’insieme dei sentimenti etico-religiosi che vi corrispondono.
La crisi dell’ordine politico si determina quando la libertà perde il suo fondamento etico – religioso
trasformandosi in licenza vista unicamente in funzione dell’utilità del singolo à nascono fazioni.
Vi possono essere tre soluzioni:
- Il popolo può consentire che i poteri vengano accentrati nelle mani di uno solo, al quale è
affidata la potestà sovrana. (ad es: Augusto)
- Se il popolo non consente tale tipo di monarca, è destinato ad essere governato da altre
nazioni che lo sottomettono con la forza (principio del diritto naturale: chi non è in grado di
governarsi viene governato da chi ne è capace).
- La crisi e la cupidigia generano violenza e crudeltà. Esse scatenano lotte che hanno fine
solo quando tutto viene distrutto e l’uomo riportato alle condizioni iniziali.
Le società politiche che hanno fatto della raffinatezza dei sensi la loro ragion di vita, non possono
che autodistruggersi.

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I nuovi popoli hanno la loro origine nel Medioevo, in cui si manifestano nuove energie. Lo stato
moderno tende alla parificazione giuridico-politica delle classi. La teoria dei ricorsi significa che le
categorie politiche formulate con lo studio delle società antiche consentono di interpretare la
dinamica della società moderna. Lo studio di tale processo deve suggerire i provvedimenti pratici
idonei a perfezionare la costituzione.
Radicale diffidenza sull’autosufficienza della ragione: essa è “alimentata” dalla religione, che è
l’esperienza originaria su cui si fonda l’umanità dell’uomo.

CAP. 17 – MONTESQUIEU

Il programma di Luigi XIV era basato sull’ideale della monarchia di diritto divino: lo Stato fa della
volontà soggettiva del sovrano una volontà oggettiva à gli Stati Generali non vennero più
convocati e i Parlamenti furono privati nel 1673 del potere di veto sulle leggi.
L’istanza della riforma dello Stato indica la possibilità di una ricostituzione dell’intero ordine
sociale e politico, sulla base di una concezione sistematica che ne indichi il vero principio
costitutivo.

Montesquieu è polemico nei confronti della monarchia assoluta di Luigi XIV, in quanto il suo
pensiero si basa sul valore della liberta che è il bene che ci fa godere tutti gli altri beni.
Lo Spirito delle leggi è uno studio comparatistico degli istituiti giuridici e politici di vari paesi; si
compone di 32 libri in sei parti: due politiche, la terza illustra i rapporti tra le leggi e la azione, la
quarta si riferisce all’economia, la quinta studia i rapporti leggi/religione mentre la sesta studia la
formazione delle leggi.
Il concetto di legge deve essere fondato su un principio che ci consente di intendere il divero, il
particolare ed il generale à le leggi sono “rapporti necessari derivanti dalla natura delle cose e gli
esseri hanno tutti le proprie leggi”. (leggi positive, di natura, etc.)
Le leggi positive sono poste dalla ragione dell’uomo. Esso, autonomo ed indipendente, è però
sottoposto alle leggi divine e di natura.
Non viene accolta la tradizione giusnaturalistica: la società è un fatto naturale. Nello stato di
natura l’uomo non possiede una ragione attiva, ma solo la predisposizione ad essa; egli è
dominato dagli istinti e dal desiderio di comunicare con i suoi simili. Dalla famiglia si generano i
gruppi sociali primari; il gruppo implica la coordinazione delle attività per raggiungere scopi
preclusi al singolo. La formazione di gruppi sociali distinti e i conseguenti conflitti sono la base di
tre tipi di diritto: diritto delle genti (rapporti tra società), diritto politico (governanti – governati),
diritto civile (tra individui).
I gruppi sociali diventano società politica quando formano un governo (una o più persone che
possono far valere i loro comandi mediante la forza collettiva, costituita mediante l’unione delle
forze particolari. Ciò richiede l’unione delle volontà, che determina la formazione dello stato civile.
Il diritto politico si fonda sulle forze particolari, quello civile sulle volontà.
Esiste un supremo criterio unificatore, in base al quale è possibile individuare le interrelazioni fra
le leggi positive: la ragione. (ma perchhh?)
Le leggi esprimono la necessaria diversificazione mediante cui si realizza l’ordine politico. Esse
devono essere adatte al popolo per cui sono fatte e devono essere in rapporto con la natura e con
il principio del governo. Le relazioni reciproche tra le leggi formano lo spirito delle leggi.
Tali fatti possono essere analizzati secondo tre prospettive:
- La prima considera i rapporti tra leggi positive e costituzione politica.

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- La seconda studia i rapporti tra leggi positive e l’ambiente, nel senso di individuare i
condizionamenti che le leggi subiscono da questo
- La terza è una prospettiva storica.
“La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono” e “nel non essere costretti a
compiere un’azione che la legge non ordina”. Essa deve essere ricollegata alle possibilità materiali:
va riferita quindi alla sfera patrimoniale. Sulla proprietà privata si basano quindi tutti i rapporti
della società civile, in quanto garanzia di libertà. Le leggi che regolano la proprietà decono evitare
che il regime sia rigido, ma aperto in modo da consentire a ciascun individuo, secondo i suoi meriti
di accedere alla proprietà. La proprietà attiene alla sfera del diritto civile: non deve essere quindi
regolata dal diritto politico à nessuno può essere privato dei suoi beni per legge politica.
La libertà filosofica consiste nell’esercizio della propria volontà, quella politica nella sicurezza.
Leggi civili e penali esprimono il contenuto concreto della libertà dell’uomo e sono la base
fondamentale sulla quale si edifica l’organizzazione costituzionale dello Stato.
La libertà civile è la premessa indispensabile per quella politica.

Esistono tre tipi fondamentali di governo e tre costituzioni: la repubblica, la monarchia e il


dispotismo. Nel governo repubblicano il potere sovrano appartiene al popolo e può essere o
aristocratico o democratico. Nella monarchia tale potere è di uno solo, che deve governare nel
rispetto delle leggi fondamentali che delimitano il suo potere, mentre nel dispotismo uno solo
governa a seconda del suo arbitrio.
La “natura” del potere sovrano va distinta dal “principio”: la virtù (amore della patria per il
governo repubblicano democratico ed etica per la moderazione per quello aristocratico), l’onore
(per il governo monarchico), la paura (per quello dispotico).
Tali principi sono il sentimento fondamentale che orienta i comportamenti degli individui e
determina il modo in cui si attua il rapporto comando – obbedienza.
Quando si afferma il primato delle attività economiche apportatrici di agi, la virtù entra in crisi e la
democrazia si corrompe: gli individui diventano avidi.
La virtù è il sentimento mediante cui l’individuo identifica la sua sorte con quella della società à
reale comunione etica. L’onore è il sentimento della propria individualità distinta, ma rapportata a
quella degli altri, ed impegnata nel conseguimento di un fine particolare che si connette
armonicamente a quello generale.

La monarchia si bassa su leggi fondamentali che esprimono una società gerarchizzata ed articolata,
strutturata in “ordini”, ognuno con un suo “peso sociale”. Essa è caratterizzata dalla presenza di
“corpi intermedi” che si pongono fra i cittadini e chi detiene il potere: il comando deve essere
mediato da varie istituzioni che garantiscono all’individuo la libertà. Il più importante di questi
corpi è la nobiltà (aristocrazia di sangue) e l’aristocrazia minore. (ad esse erano affidati i compiti di
comando delle forze armate e di amministrazione della giustizia. Inoltre Montesquieu è un
aristocratico che vuole difendere i [suoi] interessi nei confronti dell’assolutismo monarchico.)
La politica non è fatta dagli individui uti singuli, ma dalle istituzioni, cioè gli individui
organicamente connessi agli interessi generali e permanenti di una data collettività, avendo però
sempre di mira la garanzia della continuità della volontà politica dello Stato. Tale funzione non può
essere assolta dal monarca, in quanto essendo un individuo ha una volontà mutevole. M. afferma
che storicamente chi ha il potere è portato ad abusarne à bisogna che il potere freni il potere: la
sovranità deve essere distinta in tre poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario. Essi sono attribuiti a
tre distinti “corpi sociali”: la libertà politica dipende dalla pluralità delle situazioni giuridicamente
garantite e dal loro reciproco controbilanciarsi.

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Nell’esecuzione della legge bisogna distinguere due funzioni distinte; la prima si riferisce
all’amministrazione pubblica, la seconda attiene all’interpretazione della legge in relazione ad una
questione particolare ed alla sua conseguente attuazione (potere giudiziario che deve essere
indipendente ed autonomo.
Nello Stato costituzionale alla monarchia viene attribuito il potere esecutivo, all’aristocrazia ed al
popolo quello legislativo, alla aristocrazia “di toga” quello giudiziario.
Il potere legislativo va diviso in due camere: la prima di carattere ereditario che rappresenta
l’aristocrazia, la seconda il popolo. Per popolo intende chi gode di una reale indipendenza, ad
esclusione del “popolo minuto”. Il potere legislativo è strutturato su base rappresentativa.

La religione viene considerata in base al bene che se ne ricava per la vita civile. Per M. le religioni
sono valori e credenze che caratterizzano la vita di tute le società e influenzano le usanze, i
costumi e le legislazioni positive.
Essa è un freno per il potere politico à il Cristianesimo ha ispirato i principi del diritto pubblico
europeo, dal quale trae fondamento la monarchia costituzionale. La religione può sostituirsi alle
leggi dello Stato qualora esse siano impotenti, garantendo la stabilità dell’ordine politico.

Vi è un’interdipendenza tra i “fattori materiali” dello Stato e la sua forma di governo: un territorio
ristretto favorisce la costituzione repubblicana, uno medio quella monarchica, quello grande il
dispotismo.

La povertà e la ricchezza dipendono dall’impegno di lavoro: “un uomo è povero non quando non
possiede nulla ma quando non lavora”.
Una “gente” diventa popolo/nazione quando come risultato del suo operare essa assimila i fattori
materiali derivanti dall’ambiente in cui vive: uno “spirito generale”.
Tale concetto di popolo – nazione indica un’unità etico – politica che ha una sua distinta
individualità.

La costituzione politica, le leggi e i principi sono il risultato di un processo storico. Lo stato


costituzionale moderno è il risultato del processo mediante cui si formarono i nuovi stati europei
dopo la caduta dell’impero romano: esso affonda le radici nella società feudale, la cui struttura
particolaristica è la premessa necessario per esprimere poi il sistema delle garanzie.
Annullare i vincoli che legano una società al passato significa privarla della sua personalità ed
annullarla come entità politica reale.
La rivoluzione non è un atto con cui gli uomini si tolgono dalla storia, essa è la conclusione di un
processo storico.

CAP. 18 – ROUSSEAU

Il suo pensiero si ispira agli ideali della libertà e dell’uguaglianza e trova esito nella democrazia.
Vi è un presupposto fondamentale: la contrapposizione fra la società civile e l’individuo, poiché
quest’ultimo nel vivere civilmente nega i principi dell’ordine di natura.
Il progresso delle scienze e delle arti non ha portato alcun progresso; il loro miglioramento ha
aumentato solo la ricchezza che a sua volta ha alimentato l’amore per gli agi. Ciò fa perdere alla
società gli scopi della sua costituzione e il valore della virtù civica.

30
Rousseau contrappone i costumi “rozzi ma naturali”, spontanei, a quelli civili ma corrotti.
Le scienze non educano ad una maggiore ed autentica razionalità, ma portano all’erudizione ed al
nozionismo. (critico nei confronti della concezione illuministica della ragione).

Nel Discorso sull’origine della ineguaglianza sono esposte le cause per cui l’uomo, originariamente
libero e felice, perviene ad una situazione opposta. Nello stato di natura l’uomo è libero ed uguale,
guidato dall’istinto e sollecitato da limitati bisogni naturali à è pacifico, la sua natura si esprime
nell’amor di sé stesso e nella pietà o compassione verso il suo simile.
La civiltà tende ad attenuare tali sentimenti fondamentali, in quanto lo sviluppo della ragione
corrode e dissolve la compassione à la ragione educa solo il sentimento contrapposto dell’amor
proprio. La ragione si forma in un lungo processo storico nel quale si perfezionano la capacità
umana di espressione e di comunicazione e le capacità industriali. La ragione ha un origine sociale:
si perfeziona con la formazione di gruppi sociali sempre più ampi e le relazioni si intensificano.

La scoperta delle arti (ad es. lavorazione pietra, agricoltura) portano l’uomo a formare associazioni
naturali, in cui si esprime la socialità “primitiva” dell’uomo à si creano le prime disuguaglianze,
connesse alle diverse capacità. Tali capacità vengono codificate dall’istituzione della proprietà
privata, che è il moltiplicatore delle ineguaglianze. L’ineguaglianza genera passioni e nasce il
contrasto fra ricchi e poveri.
Lo Stato è fondato su un contratto sociale proposto dai ricchi intelligenti, che raggirarono i più
deboli à la società si fonda sulla coazione e mira al dispotismo.
La storia è considerata da Rousseau come un processo degenerativo che svuota l’uomo della sua
vera umanità e lo trasforma in un corpo artificiale.

Nel Discorso sull’economia politica l’economia viene definita come il legittimo governo della casa
per il bene comune della famiglia. Tale governo va distinto da quello dello Stato. L’economia
privata è indirizzata alla famiglia e deve informarsi ai criteri dell’ordine familiare, quella pubblica o
politica i principi dell’ordine politico.
La società è un corpo organico: nella comunità deve sussistere un principio di unità che conferisce
vita al corpo politico: deve esserci un “io comune al tutto” che renda possibile la sensibilità
reciproca. L’io comune si esprime come volontà generale che mira alla costituzione e
conservazione del corpo politico. Tale volontà esprime il giusto e l’ingiusto – è la fonte della
moralità pubblica e privata e necessità di identità di interessi fra chi comanda e chi obbedisce.
Per esprimere questa volontà generale gli individui devono essere liberi e lo possono essere
solamente grazie alla legge. (primato delle leggi)
Chi governa deve mantenersi fedele alle leggi; l’arte di governo consiste nel saper orientare le
coscienze dei cittadini per far adeguare il loro comportamento alle leggi. È necessario che i
comportamenti dei cittadini siano ispirati alla virtù, che riesce ad armonizzare l’interesse generale
con quello particolare à il cittadino vede l’interesse generale come un suo interesse particolare.
Viene sottolineato il fondamento etico della comunità politica: l’amor di patria, che significa saper
disciplinare i propri desideri e le proprie passioni.
La politica è per Rousseau un fatto pedagogico.
La virtù civile e repubblicana si esprime non solo nella libertà, ma anche nell’uguaglianza, che è
possibile quando le leggi dello Stato impediscono la formazione di profonde disparità sociali,
favorendo la distribuzione della ricchezza. La proprietà privata non viene rifiutata, rimane alla base
dell’ordine politico, in quanto se non vi fossero i beni a garanzia delle persone, sarebbe “facile”
eludere i doveri e la legge. à la proprietà trova però un limite nell’etica civile, che sancisce il

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principio dell’eguaglianza tra tutti i cittadini. Il sistema tributario deve avere un’impostazione
fortemente progressiva.
L’ordine politico (reale) è di fatto finalizzato all’esclusivo tornaconto dei ricchi.
L’agricoltura è l’attività economica primario poiché negli agricoltori si esprimono i valori che sono
a fondamento dell’etica civile. Gli agglomerati urbani sono la causa principale della corruzione
dell’etica comunitaria. L’economia pubblica per Rousseau ha lo scopo di amministrare la ricchezza
prodotta per i fini propri della collettività.

Rapporti fra l’uomo naturale e l’uomo civile: pretendere di vivere nella società civile cercando di
appagare le umane aspirazioni è impossibile. L’uomo naturale è un “intero assoluto”, l’uomo civile
è invece una “unità frazionaria” il cui valoro è in rapporto con l’intero, il corpo sociale.
Il problema politica diventa quello di dare all’uomo una nuova personalità per cui non si consideri
più un assoluto e acquisti coscienza di essere parte di un tutto. La personalità degli uomini deve
essere formata dalle leggi e dalle istituzioni, secondo i fini del legislatore.
La società e le istituzioni negano la naturale libertà dell’uomo – la liberazione dell’uomo deve
essere promossa dall’uomo stesso, che si riconosce originariamente libero.
L’unico principio di legittimità delle istituzioni risiede nel consenso degli individui. La libertà
originaria dell’individuo si realizza nell’atto di volontà con cui gli individui fondano la società
politica. Solo quando l’unità della comunità è espressa da un contratto le volontà dell’individuo e
della legge coincidono. Ubbidendo alla legge, l’individuo ubbidisce a se stesso e il governo non è
altro che l’autogoverno dei cittadini. Il contratto sociale impegna ciascun individui ad alienare tutti
i diritti di cui gode alla comunità al fine di ricostituire l’uguaglianza à riceve la nuova personalità
del cittadino. La proprietà privata non può essere giustificata come diritto personale autonomo,
che la società deve garantire. Il possesso e il godimento di beni è legittimo solamente nei limiti
determinati dal soddisfacimento dei bisogni necessari. In virtù del contratto sociale gli individui
conferiscono alla società tutti i loro possessi e la società glieli restituisce legittimando il possesso e
trasformando il godimento in proprietà privata à essa non è più un diritto assoluto, ma un diritto
sociale informata al principio dell’eguaglianza.

Il sovrano è il corpo politico nella sua unità, e la sovranità corrisponde all’attività di questo stesso
corpo politico e pertanto è la manifestazione della volontà generale. La sovranità è inalienabile ed
indivisibile, non può essere concessa o delegata dal popolo ad alcun individuo od assemblea. (non
accetta la divisione dei poteri di Montesquieu.)
Lo Stato è un ente morale; l’ordine naturale delle cose tende sempre a modificare e corrompere
l’ordine morale à lo scopo di ogni sistema è quello di “snaturare” l’uomo.
Esistono quattro tipi di leggi:
- Politiche o fondamentali, definiscono il rapporto corpo politico nel suo insieme e lo Stato
- Civili, per i rapporti tra individui e tra individuo e Stato.
- Penali, che fissano le sanzioni
- I Costumi, la legge scritta nel cuore.
Alla volontà corrisponde il potere legislativo ed alla forza il potere esecutivo. Il governo è definito
da Rousseau come un corpo intermedio, incaricato dell’esecuzione delle leggi e del mantenimento
della libertà. Le forme di governo sono tre: monarchia, aristocrazia e democrazia.

La migliore forma di governo è la democrazia pura, nella quale il popolo riunito in assemblea
formula e interpreta le leggi e le fa eseguire. Per Rousseau tale democrazia non può sussistere:
occorre individuare i principi della democrazia “reale” à si distingue l’attività legislativa da quella
esecutiva: la prima si riferisce al bene pubblico, la seconda agli interessi particolari. L’attività

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legislativa deve essere esercitata dall’intero corpo politico riunito in assemblee (democrazia
diretta, R. è contrario a quella rappresentativa in quanto la volontà generale è intrasferibile).
L’assemblea non ha diritto di autoconvocazione, è legittima solo quando viene riunita secondo le
forme prescritte (dalla costituzione). L’attività esecutiva è affidata al governo, istituito mediante
una legge che gli conferisci i poteri necessari. Rousseau rifiuta la concezione giusnaturalistica
dell’autonomia del governo. I membri dell’esecutivo sono nominati dall’assemblea vanno
considerati come incaricati (sono funzionari). (primato del legislativo, che discende dalla natura
della legge, che ha è espressione della volontà generale).
L’attività del governo si realizza in decreti di carattere particolare.
La volontà generale non può avere per oggetto che il bene comune: essa non può mai errare a
patto che l’assemblea dei cittadini non si suddivisa in partiti, che debbono essere banditi.
La legge viene considerata nella sua corrispondenza o meno alla volontà generale. La maggioranza
non può che esprimere una decisione e quindi una volontà che si identifica con la volontà
generale, quindi con il bene comune. La minoranza è un fatto del tutto occasionale e non ha
alcuna posizione autonoma da rivendicare; la sua opinione è un errore.
La società antiche ritrovavano nella religione il vincolo che consentiva una completa unione delle
volontà dei suoi associati. Tale tipo di religione non ha più alcun valore, a causa dell’avvento del
Cristianesimo che propone la vera religione dell’uomo, che si esprime nell’interiorità
dell’individuo. Accanto a questa religione vi deve essere la religione del cittadino, cioè i principi
che valgono a garantire il contratto sociale.
Il dualismo tra Chiesa e Stato è risolto riducendo la Chiesa ad una semplice associazione di fedeli.

CAP. 19 – HUME e SMITH

Hume rappresenta la consapevolezza critica del carattere pratico della cultura dei lumi e
sottolinea l’importanza di un’analisi approfondita delle passioni e sentimenti, che possa
individuare quelli più adatti alla vita civile.
La politica è ricondotta ai fatti, alle esperienze convalidate dalla storia, ai dati empirici: essa è
studiata con indagini su problemi della vita politica inglese.
La politica deve ispirarsi allo spirito di moderazione, trovando nelle “dispute il giusto mezzo”.

La filosofia deve indicare il modo con cui la ragione può operare efficacemente nella società,
tuttavia Hume ritiene che dobbiamo interessarci solamente di ciò che rientra nel campo della
nostra esperienza empirica, fondata sulle sensazioni.
Le idee sono il riflesso delle nostre sensazioni o impressioni, quando queste perdono la loro
iniziale vividezza: le relazioni idee-esperienza sono relazioni di fatto, considerabili come situazioni
ricorrenti. Anche la relazione causa-effetto è fondata sull’esperienza.
L’intelletto è pertanto la facoltà che ha l’uomo di descrivere i risultati della sua esperienza.
Le relazioni necessaria possono essere stabilite solo nell’ambito dei principi della matematica e
della geometria.(??)
Il sistema delle idee è quindi il prodotto della società in cui viviamo ed è fondato sulla
consuetudine. Il compito della filosofia è quello di definire l’ambito del nostro intelletto, per non
esprimere giudizi che non trovino riscontro con l’esperienza. L’uomo infatti, oltre ha la facoltà
razionale, possiede l’immaginazione, a cui si accompagna la credenza.

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La politica non può essere fondata su principi eterni.
Riferendosi alle concezioni politiche dei partiti wigh e tory viene osservato che quelle concezioni
ha un valore pragmatico e non contengono alcun principio atto ad individuare la vera natura della
società politica à la politica come scienza si rende conto che le giustificazioni di carattere
filosofico hanno solo un valore di “copertura ideologica”: essa deve basare il suo esame sui fatti
che ne sono il vero supporto.
La storia ci consente di scoprire i principi universali della natura umana, mostrandoci gli uomini
nelle varie circostanze à sussiste una natura umana identica nella storia, che ci consente di
confrontare le diverse esperienze politiche.
La politica, in quanto conoscenza delle situazioni e delle condizioni di fatto propri dei gruppi
umani, deve seguire la stessa metodologia delle scienze della natura à sono inconsistenti le
concezioni metafisiche della giustizia: il suo fondamento è in realtà l’utilità sociale à è giusto ciò
che è socialmente utile. Vi è però un rapporto di reciprocità tra l’utile individuale e quello sociale,
nel senso che l’uno è la premessa per conseguire l’altro. Tale relazione è possibile quando l’uomo
perviene alla consapevolezza dell’utile: deve stabilire un rapporto tra i bisogni presenti e i bisogni
futuri, che devono essere immaginati.
La proprietà privata, che si legittima sull’utilità individuale/sociale, si basa sulla conservazione dei
beni disponibile per la produzione dei beni futuri.
Le relazioni fra gli uomini finalizzate alla collaborazione sono possibili solo se vengono fissate le
regole che garantiscono la proprietà.
La giustizia ha come primo scopo la tutela della proprietà privata. Il secondo scopo è quello di
garantire le promesse e gli accordi, necessari alla collaborazione tra gli individui.
Hume è critico sia della concezione idilliaca della società di natura e delle concezioni
collettivistiche à una società egualitaria è irrealizzabile; se si tentasse di imporla si instaurerebbe
un potere tirannico che genererebbe povertà.

La società politica si forma in un lungo periodo storico, nel quale gli uomini acquisiscono principi e
leggi che sono il frutto di esperienze individuali e collettive. La comunità non si fonda sul
contratto, l’uomo primitivo è incolto e dominato dagli istinti, incapace di pensare ad una ipotetica
società. La società si costituisce mediante la forza. Il governo è formato da un’oligarchia che
esprime i comandi che vengono eseguiti dalla maggioranza. La sottomissione della maggioranza
alla minoranza di governo si fonda sull’opinione delle opportunità di ubbidire ai poteri.
Occorre distinguere quattro tipi di opinione: di interesse, di diritto, di diritto alla proprietà e di
diritto al potere. Il primo indica il senso di vantaggio generale che deriva dal governo. La prima, la
terza e la quarta sono il risultato del processo di interazione che avviene tra gli individui in un
decorso di tempo à solo la tradizione fonda la convinzione del diritto e dà legittimità ai governi.
Le riforme sono comunque auspicabili, se dettate dalla ragione “illuminata”; sono le rivoluzioni
che vanno evitate ad ogni costo. Le innovazioni radicali sono pericolose perché spezzano la
continuità delle generazioni che è la vera struttura portante di ogni ordinamento politico.

Le innovazioni che sono in sintonia con la razionalità sono finalizzate alla libertà civile e politica.
La dinamica della società è ricondotta allo sviluppo della razionalità. La ragione comincia a
manifestarsi con le prime attività empiriche, che sottraggono l’uomo alle passioni (l’invenzione
delle arti). Il progresso delle scienze e delle arti è la premessa per il diffondersi della civiltà.
L’attività economica realizza la dinamica degli interessi fra le diverse categorie sociali. Il lavoro è
l’attività mediante cui si esprime la personalità dell’uomo.
La felicità richiede che si compongano armonicamente l’azione, il piacere e l’indolenza. (le arti
promuovono l’azione).

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Solo le arti liberali che esprimono una forma di conoscenza che si basa sull’esperienza empirica e
permettono di avere controllo sull’attività svolta à la ragione che si sviluppa nelle arti liberali è
l’acquisizione a livello teorico della razionalità propria delle arti meccaniche: le une aiutano le
altre. (il lavoro equivale al sapere scientifico)

Il progresso economico diventa fautore della libertà politica, cioè un principio di dinamica sociale
capace di realizzare le innovazioni necessarie alle nuove esigenze. Il processo di emancipazione dei
membri delle classi meno abbienti fu dovuto al progresso delle arti meccaniche ed al commercio.
Le trasformazioni sociali del medioevo prendono avvio proprio dalla rinascita delle arti e del
commercio à sussiste una corrispondenza tra l’attività economica (arti e commercio) lo Stato
libero: la libertà politica è la premessa con cui possono progredire le arti.
Il dispotismo non può che deprimere il carattere dei sudditi: il popolo sotto un governo assoluto è
schiavo e non può sviluppare la ragione. La libertà è quindi condizione necessaria del progresso e
del diffondersi della ragione e della civiltà: è il principio animatore della società civile.
Il diffondersi dell’industria riflette a sua volta sull’ordinamento politico: esso tende a diffondere la
ricchezza fra le classi sociali, promuove un processo di mobilità sociale e sollecita una reale
collaborazione fra le diverse classi. Hume suggerisce così una politica economica e sociale
finalizzata alla ripartizione della ricchezza nazionale e che tende ad attenuare le distanze sociali.
Libertà: gli individui controllano il potere, in quanto chi lo detiene lo deve svolgere secondo leggi
predeterminate e conosciute. Il governo però deve interpretare anche le esigenze dell’autorità,
che attiene all’esistenza stessa della società civile. Vi sono quindi due principi alla base
dell’ordinamento: quello dell’autorità e quello della libertà. La prima esprime l’esigenza delle
continuità e della tradizione, la seconda l’istanza del continuo perfezionamento della società.

SMITH. La ricchezza delle nazioni pone il problema dei rapporti fra l’attività economica e la società
politica; proponendo uno studio dell’economia come analisi delle leggi che governano
l’organizzazione del lavoro produttivo: l’attività economica, realizzandosi, crea un insieme
sistematico di rapporti tra gli individui.
Vi è un dualismo tra società civile e società politica (naturale e artificiale): la prima scaturisce
dall’attività economica e corrisponde ai rapporti nella produzione, la seconda comprende le
istituzioni poste in essere dagli uomini per difendere l’ordine.
La ricchezza di una nazione, cioè i beni (il prodotto), deriva dal lavoro della collettività. Il lavoro è
considerato come un’attività in cui si esplica la natura dell’uomo e si manifesta la sua personalità.
La razionalità si forma per tentativi che l’uomo fa per rendere più produttivo il suo lavoro.
L’attività economica corrisponde alla natura dell’uomo: il lavoro deve essere considerato la causa
delle relazioni che si istituiscono fra gli individui.
Il principio dell’organizzazione e del perfezionamento dell’attività lavorativa è quello della
divisione del lavoro: ogni individuo svolge l’attività che gli è più adatta. Così facendo si
diminuiscono i costi ed aumenta la produttività à tale principio è la conseguenza necessaria della
tendenza naturale allo scambio. Lo scambio è possibile mediante l’istituzione del “mercato”, che è
essenziale per lo sviluppo dell’intera organizzazione economica.

L’organizzazione produttiva di Smith si fonda sull’industria. Le categorie economiche sono date dai
tre fattori della produzione: il lavoro, il capitale e la terra (la rendita). Il capitale è formato dai beni
che sono sottratti al consumo e che sono destinati alla produzione di altri beni. Esso viene distinto
in capitale variabile e fisso. La funzione del capitale è quella di predisporre i mezzi necessari alla
produzione. Il fine della produzione economica, oltre a quello di fornire i beni necessari, consiste

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nell’aumento della produzione stessa (accumulazione). La produzione annuale viene ripartita
mediante le tre remunerazioni: il salario, il profitto e la rendita.
In tal modo lo status sociale dell’individuo inizia ad essere definito sulla base del ruolo svolto
nell’organizzazione produttiva del lavoro.
Il prezzo è l’equivalente monetario del valore della merce: nelle economie primitive il valore era
dettato dal valore d’uso, che era determinato dalla quantità di lavoro necessario per produrre la
merce. L’introduzione della merce consente di formulare il prezzo nominale delle merci, che si
avvicina a quello reale. Il sistema economico è governato dalla legge naturale della sua
riproduzione: il prezzo deve rappresentare il costo per conservare ed aumentare le forze
produttive.

La società civile non si fonda sul contratto sociale, è il risultato spontaneo e necessario
dell’organizzazione del lavoro. Il costituirsi ed il formarsi della società dipende dallo sviluppo
economico, cioè da come si realizza la divisione del lavoro. A tal fine è necessario che non tutti i
beni di cui si dispone vengano consumati, risparmiandone una parte: l’accumulazione del capitale
è la condizione indispensabile per lo sviluppo economico.
Le forme storiche di società dipendono dalle forme con cui si realizza il processo di accumulazione.
Vi sono tre tappe fondamentali, corrispondenti a tre tipi di attività: la caccia, la pastorizia e
l’agricoltura; che esprimono i primi tre tipi di società naturali. Solo con l’agricoltura si costituisce
un capitale che può avviare il processo di accumulazione.
I rapporti tra gli individui nella società naturale sono regolati da forma di subordinazione naturale.
Esistono quattro forme di subordinazione: la prima si riferisce alla superiorità delle qualità
personali, la seconda scaturisce dalla superiorità d’età, la terza deriva dal possesso stabile della
ricchezza e la quarta è costituita dalla distinzione della nascita.
Il sistema dei comandi e delle obbedienze si fonda su un rapporto di subordinazione naturale che
deriva dal possesso della ricchezza e dalla distinzione con la nascita.
Il potere si fonda invece sull’organizzazione burocratica propria della società artificiale, e trova la
sua legittimazione in una delle tre forme di autorità.
La proprietà, intesa come conservazione dei beni destinabili a capitale, nasce dalla prima
essenziale forma di controllo che l’individuo esercita sui propri bisogni e dalla previdenza che la
accompagna. La proprietà rappresenta che l’ordine civile sia informato al principio della disciplina
delle passioni. I mezzi di cui può disporre una società sono limitati: bisogna non disperderli.

La società artificiale viene presentata come la sovrastruttura di quella naturale (cioè


l’organizzazione produttiva del lavoro). La quantità di beni che viene annualmente destinato allo
Stato non deve intaccare il lavoro produttivo.
Lo Stato viene considerato come l’insieme dei servizi e degli uffici che debbono garantire la pace,
la tranquillità e l’ordine della società naturale: ha una funzione strumentale. I suoi fini sono
determinati dalle esigenze fondamentali della società naturale e devono consistere in compiti che
non possono essere assolti dall’iniziativa dei privati. L’apparato burocratico-amministrativo dello
Stato va finanziato mediante le imposte.
L’amministrazione della giustizia deve essere finalizzata alla garanzia dei rapporti che si
istituiscono alla base della società privata: essa è infatti il risultato di un processo di accumulazione
dei risparmi scaturiti dal lavoro dii più generazioni, e va difesa contro la naturale tendenza “altrui”
di impadronirsene.
Deve essere sancita l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario da quello esecutivo.

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Ogni individuo deve essere riconosciuto libero di esplicare la sua attività al fine di migliorare la sua
condizione, senza arrecare danno agli latri. Nella teoria dei sistemi morali la società è un sistema in
cui le attività dei singoli, lasciate libere di autodeterminarsi, si collegano spontaneamente,
realizzando uno stato d’equilibrio che corrisponde alla migliore utilizzazione delle risorse ed alla
maggiore produzione di ricchezza. Tale mano invisibile realizza il principio dell’eterogenesi dei fini:
nell’conseguire l’interesse privato viene conseguito anche quello collettivo.
Il relativo principio della libera concorrenza, nel rispetto della giustizia, deve informare il sistema
economico e politico: tutti gli individui devono potersi confrontare tra loro. Sulla base di questo
principio vanno abolite tute le leggi che limitano l’attività del lavoro produttivo à vanno abolite le
leggi sui poveri, sui privilegi e sulle corporazioni. Va inoltre evitato il monopolio.
Smith sostiene la liberalizzazione del commercio internazionale.
Il principio della libertà e dell’autonomia va applicato anche ai domini coloniali: Smith riconosce il
diritto delle Colonie americane all’autogoverno ed all’indipendenza. Il domino coloniale va
ristrutturato ispirandosi al principio della collaborazione.
Per Smith (in critica con la pianificazione) è impossibile pretendere di razionalizzare tutto ciò che
compie la mano invisibile.

CAP. 20 – IL FEDERALISTA

Il governo inglese iniziò una politica di confronto con le Colonie, che le privava delle garanzie di
autonomia che avevano. I provvedimenti inglesi determinarono rimostranze da parte dei
rappresentanti delle assemblee coloniali, appellandosi al principio inglese secondo cui i tributi
vanno decisi dai rappresentanti di chi li deve pagare. Il malcontento si trasformò, tra il 1770 e il
1774 in una resistenza sempre più accentuata finché le Colonie si proclamarono Stati liberi e
costituirono una Confederazione: gli Stati Uniti d’America.
Il Congresso continentale, il 4 luglio 1776, approvò la Dichiarazione d’indipendenza, con la quale si
consideravano sciolti i vincoli politici con gli inglesi, veniva affermato il principio dell’originaria
eguaglianza e libertà di ogni uomo e si affermava il diritto a costituire il governo secondo il modo
più idoneo a conseguire la sicurezza e la felicità.
Gli stati si diedero una costituzione scritta fondata sulla tripartizione dei poteri che inizia con una
“dichiarazione dei diritti naturali dei cittadini” à venivano sanciti così i diritti di libertà politica e
civile, di parola, di riunione, di associazione, di stampa, il diritto a istituzioni rappresentative,
fondato su libere elezioni, il diritto alla tutela della vita, della libertà e della proprietà. (modello di
Montesquieu)
Nel 1787 venne convocata una Convenzione a Filadelfia, nella quale avrebbero dovuto partecipare
delegati di tutti gli Stati. Tale convenzione si trasformò in un assemblea costituente, con 55
delegati, che in tre mesi redasse un costituzione proponendo una federazione caratterizzata dalla
presenza di un unico Stato, con una propria organizzazione politico-amministrativa, nel cui ambito
avrebbero continuato a sussistere i tredici singoli Stati con propri specifici poteri.

In occasione del dibattito costituente comparvero sui giornali di New York 85 articoli in difesa della
federazione, scritti da Alexander Hamilton, James Madison e John Jay, poi riuniti, nel 1788, ne Il
Federalista, dove lo Stato federale è presentato come un “progetto” che consentirà di costruire
una grande democrazia repubblicana. Esso è diviso in quattro parti:
- Nella prima si illustra la necessità dell’unione, unica garanzia di prosperità politica

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- Nella seconda si tratta dell’esigenza di stabilire un governo nazionale forte per la difesa
- Nella terza sono esaminati i principi e i poteri su cui si fonda il nuovo ordinamento e i limiti
imposti ai singoli Stati
- Nella quarta si analizza l’organizzazione dei tre poteri: un legislativo distinto in Camera dei
Rappresentanti e Senato, un esecutivo ed un giudiziario.

L’Unione è una comunità, una realtà etico-politica che ha una precisa identità. Solo quando tale
unità opera congiuntamente sarà possibile attuare una politica estera. Jay sottolinea il primato
della politica estera, nella quale si esprime la consapevolezza delle ragioni dell’esistenza dello
Stato, e quindi degli interessi permanenti.
Il campo specifico della politica è l’individuazione di tali interessi permanenti della comunità e lo
studio dei mezzi più idonei a garantirli. Tali interessi vanno distinti da quelli temporanei, per i quali
si richiedono provvedimenti singoli, mentre per gli altri serve una precisa “condotta politica”.
La politica estera richiede infatti orientamenti che presuppongono stabilità e continuità di indirizzo
politico à diffidenza di una politica estera affidata ad un’Assemblea.

Il sistema federale e la costituzione hanno come fine ultimo il “governo della ragione”, che deve
essere garantito contro l’insorgere delle passioni e degli interessi di parte, che possono travolgere
il buon senso del popolo. La democrazia repubblicana deve realizzare un regime che ripartisca ed
equilibri i poteri in modo che nessuno di essi possa varcare i propri limiti.
Il potere più “forte” è quello legislativo, che si rende diretto interprete delle istanze delle masse
popolari (per le quali gli scrittori erano diffidenti, poiché la massa attenua la responsabilità) à
servono organi deliberanti costituiti da un ristretto numero di membri.
La politica va accompagnata da uno studio della natura umana e dal ruolo delle passioni à non
bisogna illudersi che il regime repubblicano solleciti impegno un etico-civile da parte del popolo
sufficiente a spegnere gli interessi particolari, che in realtà sono favoriti dalla libertà. Le cause
invece della faziosità sono collegate alla natura stessa dell’uomo, e l’unico rimedio è quello di
predisporre un sistema costituzionale che non consenta alle maggioranze faziose di subordinare
l’interesse pubblico ai propri fini particolari.

La nuova costituzione va valutata nel suo preciso funzionamento: il Federalista supera il


formalismo proprio del costituzionalismo settecentesco à poiché un governo repubblicano
presuppone uno stato con un territorio limitato, la democrazia americana deve essere fondata
sulla sistematica articolazione dei diversi centri di potere, che consentano la piena attuazione del
principio della sovranità popolare. La democrazia, grazie al federalismo, ha il suo vero fondamento
nello spirito di autonomia, che si attua nel sistema delle ampie autonomie locali. L’ordinamento
federale consente di formare un governo stabile e forte, e nel contempo di limitarlo e controllarlo
mediante i governi dei singoli Stati, a loro volta sindacati delle amministrazioni locali.

Il Federalista sottolinea l’importanza dell’Esecutivo ai fini dell’unità e della stabilità dell’Unione.


L’azione del governo federale trova un freno indiretto nella mancata adesione del Legislativo alle
proposte di legge. Se il presidente violasse le leggi costituzionali, sarebbe sottoposto ad un giudizio
di impeachment, proposto dalla Camera dei Rappresentanti e celebrato dal Senato costituito in
Alta Corte di giustizia. Il legislativo è in tal modo il giudice della legalità e della costituzionalità.
Il legislativo però, caratterizzato dalla larga partecipazione del popolo, tende ad estendere la sua
influenza: va quindi “contenuto” dall’indipendenza e dall’autonomia degli altri due poteri.
La volontà popolare trova nel legislativo la sua diretta espressione à tende a farne il centro di
tutte le decisioni incorporando gli altri poteri. A tal fine il legislativo è strutturato in due assemblee

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con caratteristiche diversa. La Camera dei Rappresentanti rappresenta il popolo americano nella
sua unità, il Senato i singoli Stati, su un piano di parità. Hanno procedure elettorali diverse.
Si ritiene che la Camera sia sollecitata dagli interessi immediati e dall’opinione pubblica, mentre il
Senato ha maggiore distacco ed indipendenza di giudizio, ed è quindi qualificato per individuare gli
interessi permanenti à il controllo della politica estera viene affidato al Presidente del Senato.
Un ulteriore freno al legislativo sono le norme che rendono la costituzione rigida: l’attività
legislativa si deve svolgere nell’ambito e nei limiti fissati dalla costituzione.

Gli autori criticano la democrazia diretta, in quanto si risolverebbe nel dispotismo dell’assemblea.
Nello Stato federale la sostanziale garanzia delle libertà politiche e civili è data dalla pluralità degli
orientamenti religiosi, ideologici e culturali, come dalla diversità degli interessi economico-sociali.
Gli autori colgono anche il problema del rapporto maggioranza-minoranza: possono determinarsi
situazioni in cui la prima usi il su potere per opprimere la seconda à il sistema federale deve
evitare tali situazioni, ponendo garanzie di libertà di cui possono servirsi le minoranze in difesa dei
loro diritti.

CAP 21. – BURKE (1729-1797)

Affrontò le questioni più importanti relative alla trasformazione dello Stato costituzionale in Stato
parlamentare. Riguardo alla questione delle Colonie egli sostenne che il parlamento dovesse
prendere atto che esse sono diventate società politiche autonome, dato il loro livello di
organizzazione sociale e statale.
Burke analizza la società americana, mettendo in rilievo l’importanza ce hanno le tradizioni
religiose, al fine di comprenderne l’ordinamento politico e lo spirito di libertà
Viene rivista radicalmente la vecchia concezione dell’Impero inglese, che deve essere considerato
una comunità in cui tutti i paesi che vi appartengono fruiscano della loro indipendenza ed
autonomi à il regno d’Inghilterra deve svolgere verso le sue Colonie una funzione di guida e di
orientamento (proponeva la trasformazione in Commonwealth).
Durante la messa in stato d’accusa di Warren Hastings, Burke sostenne che una politica di
conquista ha dei limiti ben precisi negli intangibili diritti che debbono essere riconosciuti ai popoli
ed alle istituzioni, in quanto esprimono una civiltà. Il diritto di conquista non giustifica in alcun
modo il dominio tirannico: fra le forme di civiltà non è possibile individuare alcun criterio formale
di superiorità o inferiorità, in quanto tutte sono forme originarie della socialità dell’uomo.
L’Inghilterra deve stabilire con questi popoli rapporti e vincoli che debbano fondarsi sui principi di
una comune giustizia, che va rispettata da tutti.

Burke cerca di precisare il rapporto sussistente fra la Corona, il governo ed il Parlamento, per
individuare i presupposti del suo assenso ai provvedimenti del Governo. I conflitti politici debbono
essere considerati in una prospettiva storico-politica.
In uno Stato costituzionale non si può avere una concezione pragmatica o empirica della politica;
occorre invece pervenire ad un vero giudizio politico, in grado di valutare gli interessi in
corrispondenza della situazione politica nella quale si manifestano, in modo da indicare una linea
politica coerente con i principi del sistema costituzionale inglese.

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Il Discorso sulla mozione di conciliazione con le Colonie è un esempio del metodo seguito da Burke
per formulare un giudizio politico.

Si cercava di concentrare il sistema intorno alla Corona, svuotando la Camera dei Comuni delle sue
funzioni: alla Corona, insieme al governo, faceva capo l’apparato amministrativo, che consentiva al
Re di offrire importanti incarichi. Tale preminenza della Corona porta ad una commistione
dell’attività politica e di quella amministrativa, che dovrebbero rimanere distinte. Tale intervento
della Corona aveva causato la riduzione dei problemi politici a problemi amministrativi: tutta
l’azione dei politici si concentrava sui singoli provvedimenti, causando una disarticolazione del
potere centrale in tanti centri minori.
La distinzione tra politica ed amministrazione si fonda sul fatto che la prima deve individuare i fini
della collettività ed i mezzi adeguati per conseguirli, mentre la seconda si riferisce alla
realizzazione dei fini indicati mediante i mezzi decisi in sede politica. Gli interessi in quanto tali
appartengono all’amministrazione. La politica seguita dalla Corana si fondava su un empirismo che
non riusciva a concepire una visione sistematica ed unitaria degli interessi.
I partiti non debbono essere considerati alla stregua di fazioni che perseguono fini in contrasto con
la collettività, ma come associazioni di individui che hanno una comune concezione politica, sulla
cui base propongono provvedimenti coordinati. Solo tramite i partiti, in quanto portatori di idee
politiche si può esprimere un governo caratterizzato da un vero programma. Esso se espressione
di una maggioranza e confrontato dal consenso dell’opinione pubblica conferisce al overno unità
d’azione. L’opinione pubblica ha una posizione di particolare rilievo, essa è una componente
essenziale del sistema costituzionale che fa del Parlamento un vero organo politicamente
rappresentativo: Burke è contrario a che il mandato parlamentare venga considerato come un
mandato “imperativo”.

Su le Riflessioni sulla Rivoluzione francese, si rileva che gli avvenimenti francesi entrarono nella
politica inglese, dividendo il partito whig al governo in una maggioranza favorevole alla
Rivoluzione francese ed una minoranza (tra cui Burke) ostile alla Rivoluzione à tale contrasto
portò Burke ad uscire dal partito. Più tardi rileva che a volte si impongono scelte contrarie alla
disciplina del partito, in quanto attengono alle nostre convinzioni più profonde ed alla
responsabilità che abbiamo verso la nostra coscienza.
L’analisi sulla rivoluzione si riferisce al periodo compreso tra il 1789 e il 1790, quando l’Assemblea
nazionale aveva varato importanti progetti di riforma. Burke li analizza alla luce degli ideali che
avevano promosso la Rivoluzione in Francia. Critica la concezione secondo cui gli avvenimenti
francesi sono solo una “ripetizione” della gloriosa rivoluzione inglese del 1689. Per Burke sono
diversi in quanto la rivoluzione inglese intese difendere l’antico sistema costituzionale, in quanto il
Parlamento inglese e le relative forze politiche si sentivano inseriti in una tradizione.
La Rivoluzione francese invece mira a ricostituire la società mediante la ragione: la tradizione deve
essere cancellata; essa è la coerente conclusione, sul piano della politica, dell’affermazione
illuministica circa l’assoluto primato della ragione.
La critica alla ragione illuministica viene svolta nel suo primo scritto politico Vindication of natural
society e poi ripresa nelle Riflessioni à la politica è una scienza sperimentale, in quanto insegna a
costruire uno Stato. La politica deve riferirsi ad un tipo di ragione che sia “plasmata”
dall’esperienza à la politica, data la sua complessità, non può essere compresa con i criteri
dell’intelletto analitico. Per comprenderle serve l’esperienza di più individui, in quanto quella del
singolo non basta. La ragione sulla quale si bassa la politica, che viene contrapposta a quella
illuministica, si identifica con la storia, ed è la consapevolezza della intrinseca razionalità della

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storia che si manifesta mediante i costumi, le tradizioni e le istituzioni che garantiscono continuità
al processo storico.

Le istituzioni della società, proprio perché sono risultato di un’esperienza storica, hanno una loro
precisa ragion d’essere: il presente in cui viviamo è connesso intimamente al passato. Il passato
vive nel presente, in quanto testimonia la personalità del popolo e fonda la sua identità.
Le società che rifiutano il passato si “tolgono” dalla storia: credono di rinnovarsi, ma in realtà
realizzano un ordine politico “astratto”, sostanzialmente statico.
La costituzione deve essere concepita come l’espressione dell’esperienza politica di un popolo,
quale si è attuata nella storia. L’univo vero titolo di legittimità del diritto è la prescrizione, cioè
l’opinio iuris che scaturisce dallo spirito generale di un popolo. La costituzione ha una natura
essenzialmente prescrittiva: solo il decorso del tempo può legittimarla. La conclusione è che
l’attività di governo che si ispira al principio della volontà generale finisce poi per pervenire a
risultati opposti a quelli che intendeva conseguire.

Burke è convinto che l’ordine francese dovesse essere riformato e rinnovato: lo Stato che non è
capace di riformarsi non è in grado di conservare ciò che ne costituisce il patrimonio più prezioso.
La tradizione deve essere considerata alla luce della dialettica conservazione-innovazione à le
riforme devono connettersi organicamente con quanto deve essere conservato. La conclusione è
che la politica delle riforme ha dei tempi di esecuzione molto lunghi: il tempo della storia non può
essere accelerato.

La critica verso la Rivoluzione francese evidenza il dislivello che sussiste fra il piano formale ed
astratto delle riforme e quello della realtà politica. I provvedimenti più importanti sono quelli di
natura economico-finanziaria: la liberazione della proprietà immobiliare da tutti i vincoli
aristocratico-feudali e la conseguente confisca dei beni della Chiesa sono volti si ad escludere
l’aristocrazia e l’ordine ecclesiastico ma non sono a favore dell’intero popolo o a favore dell’alta
borghesia, espressione dei nuovi interessi. La nuova classe politica crede che sia possibile
governare il paese con leggi che dovrebbero essere obbedite per la loro intrinseca razionalità: il
potere invece si fonda su una forza che trova la sua disciplina in ideali, valori e principi. Essi si
esprimono nella società con forme che sono efficaci solo se si basano sulla tradizione. La ragione
ha dissolto i sentimenti e non è in grado di porre dei limiti sostanziali al potere, che si manifesterà
prima o poi come forza oppressiva. Il potere si manifesta dapprima come dominio della ricchezza,
creando una nuova classe politica di tipo oligarchico. L’esercito obbedisce solo alle persone con le
quali ha un rapporto di carattere istituzionale, cioè ai propri comandanti. L’armata francese è
quindi una forza autonoma, sulla quale il governo esercita un controllo solo nominale. In Francia,
soppressi i privilegi e le autonomie locali, rimane solo un “corpo intermedio”: l’esercito, che
detiene la sola forza di cui può disporre la nazione.

Il problema per Burke è quello di saper contemperare i diritti assoluti degli individui con le
possibilità storicamente concrete che la società ha di realizzarli, di armonizzare l’esigenza della
libertà con quelle del governo, che richiede limiti e restrizioni.
Lo Stato è l’unità delle istituzioni mediante cui si attua nella storia l’umanità dell’uomo. La libertà e
la costituzionalizzazione della forza politica si fondano sul rapporto che si esprime nella storia fra il
popolo, civiltà e Stato. I fini dello Stato non possono essere in alcun modo riferito a quelli mutevoli
dei singoli individui; i fini dello Stato si realizzano solo nel corso di più generazioni. Lo Stato non è
posto in essere dalla volontà degli individui mediante il contratto sociale, ma scaturisce dalla vita e
dalle tradizioni dei popoli.

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Lo Stato di Burke è uno Stato – Civiltà: chi detiene il potere politico non è altro che amministratore
di un patrimonio di cui non può disporre, ma che deve curare nell’interessi di tutti.
Il presente non può assolutizzarsi, cioè rifondare l’ordine politico.
“Chiunque amministri lo Stato e ne detti le leggi, altro non è che un temporaneo affittuario”.

CAP. 22 – KANT (1724-1804)

Il suo pensiero politico intende indicare i principi su cui basare l’opera di riforma delle monarchie
tedesche, fondate su un ordinamento aristocratico-feudale. Scrive La metafisica dei costumi e la
Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica e Critica del giudizio.
La filosofia indica in Kant le premesse essenziali e i criteri che ci consentono di poter conoscere la
politica, che non può essere scissa dalla ragione, che ne è intrinsecamente connessa e la rende
intellegibile. La conoscenza si fonda sull’esperienza empirica (come Hume), ma le sensazioni in sé
stesse sono un materiale grezzo che viene “plasmato” dalla ragione. Tuttavia sussistono forme a
priori dell’intuizione sensibile (spazio e tempo), concetti e idee dell’intelletto e della ragione che
non possono essere ricavati dall’esperienza empirica, ma che sono le uniche condizioni che
rendono intellegibile l’esperienza. Gli oggetti della nostra conoscenza sono prodotti della nostra
facoltà razionale. La filosofia ha il compito essenziale di precisare i poteri e i limiti propri della
ragione: essa si presenta come una critica, cioè come una revisione sistematica del fondamento
della ragione (orientamento antidogmatico). La conoscenza scientifica, fondata sui giudizi sintetici
a priori, è possibile, a patto che la ragione non registri passivamente i dati che riceve
dall’esperienza empirica: in tal caso la ragione sarebbe un fenomeno della natura.
La ragione, in quanto attività che produce conoscenza, si toglie dal determinismo della natura:
l’atto del conoscere, nella sua essenza, è libertà.
La filosofia kantiana sostiene che la libertà, in quanto fondamento della ragione, deve trovare un
riscontro sul piano politico, come diritto di discussione e di critica riconosciuto a tutti.
A questa libertà appartiene anche quella di esporre pubblicamente alla critica i propri pensieri.

L’idea della libertà costituisce per Kant il punto di passaggio dalla ragion pura a quella pratica.
Deve considerarsi pratico tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà, intesa come l’assoluta
possibilità di autodeterminarsi indipendentemente da qualsiasi movente di carattere empirico,
che non può essere considerato causa determinante di quanto abbiamo deciso. La libertà si
riferisce alla volontà, che deve essere distinta dai desideri che promanano dai sentimenti di
piacere e di dolore. La volontà ha invece per oggetto un’azione avente un valore oggettivo: in essa
forma e contenuto si identificano. Per tal motivo l’oggetto della volontà è la legge morale.
La razionalità è il presupposto di ogni decisione della volontà libera, che si determina
indipendentemente dal condizionamento degli impulsi: solo la razionalità consente
l’individuazione di una massima di comportamento valevole per tutti gli altri uomini. La legge
morale conferisce all’individuo la personalità, che lo rende autonomo ed indipendente dal
meccanismo della natura. La caratteristica fondamentale della legge morale è la sua purezza, dato
che nella sua determinazione non può intervenire alcun elemento che appartenga al mondo della
sensibilità: essa non deve avere alcun rapporto con i nostri impulsi. L’unico sentimento che
corrisponde alla legge morale è quello del dovere.

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La legge morale è il fondamento dell’agire pratico, ciò che lo rende intellegibile. Kant distingue il
bene morale dalla felicità e ritiene che il primo debba avere l’assoluto primato. La felicità è
definita come il “godimento durevole delle vere gioie della vita”, quindi connessa al sentimento.
Essendo essa un bene soggettivo, non può essere predeterminato a priori sulla base di alcun
principio, ma ci viene indicato solamente dalla personale esperienza.
I precetti si riferiscono ai comportamenti degli individui, volti al conseguimento della felicità: la
metafisica dei costumi è quella disciplina, che studia i rapporti fra morale e diritti, la prima che
disciplina le attività “interiori”, il secondo disciplina l’azione esterna.
Nella legge sussistono due elementi: l’obbligo, in quanto si presenta come dovere, e l’impulso, che
determina l’individuo a compiere il dovere. Quanto i due si identificano, ci troviamo davanti alla
legge morale, quando l’impulso scaturisce da un principio diverso dall’idea del dovere abbiamo
una legge giuridica. Alla morale e al diritto corrispondono la volontà e il libero arbitrio: la prima è
la determinazione che si riferisce al principio che regola l’azione, il secondo alla possibilità di
attuare l’azione. La conseguenza è che la volontà è libera, in quanto si adegua al principio secondo
cui deve determinarsi. L’arbitrio può essere detto libero ed opera delle vere e proprie scelta: è la
facoltà che corrisponde alla legislazione esterna, il diritto, che va considerato libero.
Il diritto si riferisce alle azioni esterne degli individui e riguarda i loro rapporti, consentendo la
coesistenza di più individui, cioè di più liberi arbitrii. Il diritto è l’insieme delle condizioni per mezzo
delle quali l’arbitrio di uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale di
libertà. Il principio della libertà consente di individuare la coazione, che si presenta come l’uso
della forza. Per Kant il diritto stretto (cioè quello che regola le azioni esterne) non si fonda sulla
coscienza che ognuno ha di rispettare l’obbligo, ma sulla possibilità di una costrizione esterna che
possa coesistere con la libertà di ognuno secondo leggi generali. La coesistenza degli individui, resa
possibile dal diritto, si richiama alla legge del movimento dei corpi nello spazio, per la quale ad
ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.
La grande divisione del diritto, considerato come scienza sistematica, è quella fra diritto naturale,
che poggia sui principi a priori, e diritto positivo, che promana dalla volontà del legislatore. Il
diritto naturale è uno solo, la libertà, da cui deriva l’uguaglianza, nel senso che tutti partecipano ad
una identica situazione di reciproca coazione.

La società politica è l’unione degli individui mediante leggi giuridiche, formulata nel contratto
sociale. Esso non è un fatto storico, ma deve essere concepito come l’ipotesi che dobbiamo
necessariamente formulare per poter comprendere l’organizzazione politica. Infatti solamente
tale ipotesi permette di garantire la libertà e l’uguaglianza degli individui, in quanto la comune
volontà giuridica sulla quale si fonda lo Stato scaturisce dal consenso degli stessi individui che
compongono la società. La collettività può essere considerata come:
- Stato civile, dato dal reciproco rapporto degli individui riuniti nel popolo
- Stato, che è il tutto in rapporto con ogni suo membro
- Cosa pubblica, l’interesse che lega tutti a vivere nello stato giuridico
- Potenza, riferita agli altri popoli
- Nazione, quando si evidenzia la continuità delle generazioni di un popolo.
Kant accoglie da Montesquieu il principio che la volontà generale si articola in tre poteri: il potere
sovrano, che risiede nel legislativo, il potere esecutivo nel governo, il potere giudiziario nel corpo
dei giudici. Il legislativo rappresenta la premessa maggiore di un sillogismo pratico, il potere
esecutivo la proposizione minore e la sentenza del giudice la conclusione che si ricava dalla prima
e dalla seconda, quando viene riferita ad una questione particolare.

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Il potere legislativo promana dalla volontà collettiva del popolo: la partecipazione degli individui al
potere legislativo avviene tramite un organo rappresentativo, alle cui elezioni sono ammessi
solamente i cittadini attivi, coloro che hanno una reale indipendenza.
Le forme di governo sono tre: autocrazia, aristocrazia e democrazia. La più complessa è quella
democratica, in quanto implica la volontà di tutti per formare un popolo, la successiva volontà del
popolo per formare una repubblica, ed infine una terza volontà collettiva che riguarda
l’attribuzione del potere sovrano ad un determinato corpo politico.

Lo Stato ha il fine di garantire la libertà, l’uguaglianza e l’indipendenza degli individui. La libertà


implica che lo Stato non può assumere il compito di rendere felici i sudditi: la felicità deve essere
ricercata e conseguita da ciascun individuo autonomamente. Ciò presuppone che i cittadini
debbono essere pienamente capaci di vivere la propria vita in modo autonomo ed in grado di dare
un proprio contributo al governo della società. La libertà sollecita la presa di coscienza da parte
dell’opinione pubblica che l’uomo è diventato finalmente maggiorenne. Kant rifiuta qualsiasi
forma di Stato paternalistico.
“L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso.
Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro.”
Bisogna riconoscere ad ogni cittadino l’uso pubblico della propria ragione, cioè la possibilità di far
conoscere le proprie idee mediante la stampa. Non può essere ammesso l’uso privato della
ragione, cioè la facoltà critica del funzionario nei confronti degli atti pubblici che debbono essere
eseguiti per il conseguimento dei fini di interesse generale.

Questa distinzione va applicata anche al campo religioso: bisogna rispettare i principi ma è


riconosciuta la libertà di manifestare la propria opinione. La costituzione della Chiesa non può
essere considerata immutabile, deve adeguarsi alle esigenze di una ragione veramente illuminata.
La religione si esprime nell’atto di fede nell’esistenza di Dio, che è giudice delle nostre intenzioni
ed è pertanto presenta nell’interiorità della nostra coscienza. Lo Stato non ha alcun potere sulla
dottrina e sul culto della Chiesa, può solamente richiedere che i doveri derivanti dall’appartenenza
ad essa non contrastino con le leggi à piena libertà religiosa, ed i cittadini possono dar vita a
nuove forme di organizzazione ecclesiastica.

Lo Stato deve garantire l’uguaglianza e nessuno può imporre niente agli altri se non per il tramite
delle leggi. La delimitazione dell’uguaglianza nell’ambito giuridico-costituzionale significa
abolizione di ogni privilegio. Tutti i cittadini hanno diritto a conseguire la posizione sociale che
corrisponde alle proprie capacità ed al proprio lavoro. L’aristocrazia non può vantare alcun diritto
agli incarichi più importanti e prestigiosi dello stato, ma deve concorrervi con le altre cariche
sociali. In vista di questo fine occorre predisporre una politica di radicale riforma della grande
proprietà: provvedimento legittimo in quanto lo Stato è la fonte del diritto di proprietà privata,
poiché gli appartiene la sovranità sul territorio. Tale relazione non va concepita come un dominio
dispotico, ma come la premessa indispensabile affinché i singoli possano avere un dominio
esclusivo di una parte del territorio. Lo Stato gode del diritto di potere espropriare, dietro
indennizzo, le proprietà necessarie per il conseguimento dei fini pubblici.
Lo Stato esprime nel contempo l’esigenza della conservazione del popolo come tale à non può
essergli negato il diritto di richiedere ai ricchi di fornire i mezzi di sussistenza per le categorie
sociali meno abbienti. (Kant non vuole formare uno stato sociale, ma riportare nell’ambito
dell’organizzazione pubblica il settore della beneficenza). L’individuo in quanto è membro di un
popolo acquista il diritto alla sopravvivenza, che deve essere garantita dallo Stato.

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Kant dichiarò adesione agli ideali di rinnovamento espressi dalla Rivoluzione francese. Tuttavia il
diritto di resistenza attiva non può essere accolto in uno Stato di diritto: il popolo con
l’insurrezione annienta la sovranità, riporta la società civile alla società di natura e si annulla come
popolo. La costituzione però non è rigida, ma flessibile: va continuamente perfezionata dal
sovrano. Può essere ammessa solo una forma di resistenza: quella di rifiutarsi di compiere certi
atti per il potere esecutivo. La rivoluzione può essere riconosciuta, in alcuni casi, come un “dato di
fatto”, quando crea una nuova organizzazione politica. L’illegalità della sua origine e il suo modo di
stabilirsi non possono sciogliere i sudditi dall’obbligo di adattarsi come buoni cittadini al nuovo
ordine di cose. Il monarca però non può essere in alcu modo processato e condannato per gli atti
inerenti alla sua passata amministrazione.

La rivoluzione pone il problema di intendere la funzione che hanno le lotte politiche ei conflitti nel
processo di formazione della società.
Nella storia del genere umano vi è un “filo conduttore”, il principio di eterogenesi dei fini, per cui
gli uomini, ricercando il proprio utile, pervengono a risultati diversi e non previsti, che concorrono
tutti alla formazione di una società fondata sul diritto.
Il fine della natura è che l’uomo si elevi, con le sue fatiche, ad essere degno della felicità. Ciò è
realizzabile solo se si stabiliscono rapporti stabili con altri uomini, condizione necessaria per lo
sviluppo delle sue attitudine. Queste sono promosse da due tendenze opposte che ispirano i
comportamenti dell’uomo: la socievolezza e la insocevolezza. Esse sono il fondamento della
società e il principio della sua dinamica, la causa degli antagonismi che impegnano gli uomini in un
continuo perfezionamento. L’uomo è costretto dalla natura ad entrare in società con i suoi simili;
nello stesso tempo è proprio la società che sviluppa nell’uomo la naturale inclinazione
all’antagonismo col favorire le passioni: se non ci fosse la contrapposizione non sarebbero state
possibili le conquiste della ragione. La storia del genere umano si rende intellegibile solamente se
riconosciamo come termine finale il perfezionamento della società civile, cioè una società di
ragione, in cui le relazioni sono fondate sul diritto. Tale perfezione non richiede una
trasformazione radicale della natura dell’uomo che lo rende un ente di pura ragione (solo dovere):
diventerebbe una società di angeli. Le osservazioni devono tener conto che l’uomo è “un animale
che, se vive fra gli esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone che pieghi la sua volontà e lo
obblighi ad obbedire ad una volontà universalmente valevole, sotto la quale ognuno possa essere
libero. Dalla politica di potenza e di dominio degli Stati moderni scaturiranno le nuove condizioni
politiche che renderanno necessario, secondo Kant, la fondazione del diritto cosmopolitico, che
consentirà di dirimere le controversie fra gli Stati senza ricorrere alla guerra, che è un ritorno alla
società di natura. La fine della guerra tradizionale non dipenderà dalla buona volontà degli uomini,
ma esclusivamente dalla necessità: le guerre moderne implicano un costo sempre più crescente
che non potrà più esser sopportato dalla collettività. I popoli finiranno per entrare in una
federazione di popoli. La forma politica dello Stato corrisponde ad una determinata fase del
progresso civile e giuridico: la società deve essere integrata dall’accordo stabile e permanente dei
popoli, che sia il presupposto di una confederazione di Stati.
Kant precisa che non si tratta di fondare uno Stato federale o cosmopolitico, in cui tutti i popoli ne
formerebbero uno solo. K0associazione dei popoli deve essere considerata come la base del diritto
cosmopolitico: il moltiplicarsi delle relazioni fra i popoli e la sempre maggior reciproca conoscenza
tenderanno a creare una comunità internazionale. Il diritto cosmopolitico sarà il logico e storico
coronamento del diritto pubblico interno e del diritto internazionale.

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CAP. 23 – HEGEL (1779-1831)

Intende la politica come consapevolezza delle ragioni del mutamento epocale che caratterizzò i
suoi tempi. “La filosofia è la storia del nostro tempo appresa con il pensiero”, e si pone il problema
di intendere il nesso fra la natura del pensiero (la dialettica) e la politica à rapporto politica-
storia-filosofia.

I suoi primi interessi riguardano i rapporti tra religione ed ordine politico (Religione popolare e
Cristianesimo, La vita di Gesù, La positività della religione cristiana). Il cristianesimo viene
considerato come un insieme di regole di vita che il credente accetta. A tale cristianesimo,
religione positiva, Hegel contrappone un cristianesimo che si esprime sul piano della pura morale,
delineando la tendenza a considerare religioni, costumi, comunità e Stato come una totalità
vivente, che ha il suo centro unificatore nella religione. La religione viene considerata come il
modo d’essere originario nel quale si fonda ciò che caratterizza una comunità.
La storia del popolo ebraico è l’esplicazione della sua religiosità, che fa tutt’uno con i suoi costumi:
Dio è venerato come il Dio di Israele, il mondo che lo circonda è visto come estraneo ed ostile.
Per tal motivo le vicende politiche di Israele sono intimamente connesse al suo rapporto con Dio:
la perdita dell’indipendenza dipende unicamente dal fatto che Israele si è allontanato dal suo Dio.
Il messaggio di Gesù va visto come il momento deve essere visto come il momento dialettico che
supera la scissione infinito-finito, Dio-popolo. Nella sua predicazione, Dio non è signora, ma padre,
e si istituisce con lui un rapporto d’amore, che opera la riconciliazione del finito all’infinito.
Sono così poste le premesse per il superamento della distinzione kantiana/fichtiana fra religione e
ragione, fra morale e diritto per intendere la religione come l’esperienza vitale del rapporto
dialettico. La dialettica non è altro che la concettualizzazione del rapporto dinamico, della
tensione che sussiste tra finito ed infinito.

La politica si riferisce al problema di intendere il processo con cui gli individui acquistano una
personalità unica diventando popolo. Ne La costituzione della Germania lo scontro con le armate
francesi aveva dimostrato l’inconsistenza e l’inefficienza politica dell’Impero à la confederazione
germanica è lontana dall’essere un vero Stato: vi è una scissione fra l’organizzazione giuridico
costituzionale e le esigenze della collettività tedesca à l’attività dello Stato, che andrebbe
espressa nella politica, si realizza solamente nelle forme del diritto privato, dato che i singoli Stati
godono di indipendenza ed autonomia. Lo Stato germanico è un’associazione di comunità sovrane,
disposte a riconoscere le decisioni comuni solo quando non ledano il proprio interesse.
L’essenza dello Stato consiste nell’unione di una moltitudine di persone per la comune difesa di
tutto ciò che è la sua proprietà. (l’idea della proprietà e della difesa non sono uno Stato).
La riduzione della vita politica ad un complesso meccanismo giuridico ha come risultato la paralisi
dell’attività politica dello Stato. Si è finito col sottoporre la politica, che dovrebbe esprime una
valutazione unitaria degli interessi, alla amministrazione della giustizia. Hegel distingue
nettamente fra politica e diritto: critica la riduzione giusnaturalistico-illuministica dell’essenza
dello Stato al diritto.
L’organizzazione politica germanica è il risultato di un lungo processo storico in cui si sono definite
una molteplicità di norme consuetudinarie che in modo autonomo, senza alcun coordinamento,
tutelando determinati e particolari interessi, hanno dato vita ad autonomi poteri. La Riforma,
spezzando l’unità della fede religiosa della nazione germanica rinsaldò il particolarismo proprio
dell’organizzazione politica dell’Impero. H. apprezzai il principe di Macchiavelli, in quanto è la
prima opera politica in cui è concepita l’idea di Stato come forza. Per H. solo un uomo di
eccezionale grandezza politica può fondare con la forza il nuovo stato tedesco.

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La forza, la potenza, è il momento della fondazione dello stato. Richiamare l’attenzione su questo
punto non significa che tutto debba dipendere da quel potere, concezione che viene rifiutata à lo
Stato deve richiedere la libera partecipazione dei cittadini e degli enti minori.

Ne La costituzione della Germania Hegel esamina l’impotenza dell’impero, rilevando l’inesistenza


di un vincolo sostanziale che unisca le singole parti della confederazione germanica allo Stato,
l’Intero. Esso non è la somma delle parti, ma è ciò che risulta dalla loro reale unità, è pertanto ciò
che fa sussistere le parti nella loro specifica funzione in modo che la loro attività pervenga ad un
risultato unitario. Il compito della filosofia è quello di indicare come deve essere pensato l’Intero.
L’intero, quando si riferisce alla politica, si esprime come eticità, come la totalità dei principi
(modello della polis platonico-aristotelica). Negli scritti successivi viene osservato come la realtà
del individuo possa essere compresa mediante il concetto eticità: questa, come realtà sussistente,
si identifica con il popolo. L’individuo considerato come Io, è un’astrazione, come sono astratti i
diritti naturali. L’individuo esiste nel popolo e per il polo.
Il popolo, a sua volta, è un’individualità e come tale esprime un suo proprio carattere/personalità,
che sono il fondamento del sistema politico, nel senso che tutti gli ordinamenti positivi sono
collegati tra loro in modo da realizzare gli scopi dell’Intero.

La dialettica è il procedimento logico che coglie l’essenza del divenire, del movimento reale per cui
l’Intero si articola, mediante un processo di scissione e contrapposizione. Essa si fonda sulla
convinzione che il movimento scaturisce dalla contrapposizione di due termini che si negano a
vicensa e tramite questa negazione si ricostituisce una superiore unità. I tre momenti sono
l’affermazione, la negazione e la negazione della negazione. La dialettica, come legge del divenire,
ci rende consapevoli che non possiamo assolutizzare uno dei suoi momenti. (il movimento si attua
nella storia).

La politica deve essere concepita come attività, ma no come solo diritto (Kant) o morale (Fichte),
poiché è (la politica) la sintesi dialettica dei due, ed appartiene all’eticità. Se la politica è attività
pratica, deve essere riferita al principio stesso dell’attività, cioè la volontà. L’essenza della volontà
è la libertà, che diventa il valore centrale al quale deve informarsi l’organizzazione della società e
dello Stato. La libertà è l’essenza dell’uomo, e tale idea è venuta al mondo per opera del
Cristianesimo. Il diritto deve essere considerato come la forma dell’autodeterminazione della
volontà che si manifesta all’esterno: è anche la forma con cui si esprime la libertà e il sistema del
diritto è l’ineliminabile garanzia di libertà dell’individuo, in quanto ne definisce il contenuto.
L’individuo manifesta la sua volontà nelle tre fondamentali sfere giuridiche: la proprietà, il
contratto e l’illecito. La prima è il riconoscimento della volontà singola, il secondo è la negazione di
questa particolarità, riconoscendo l’unica volontà dei contraenti; mentre l’illecito è la negazione
del contratto e del diritto. La moralità è la sfera propria delle azioni che vengono indirizzate al
conseguimento del bene e, al contempo, la consapevolezza della libertà dell’interiorità à quando
il soggetto assolutizza la coscienza entra nella sfera del male. L’esperienza del male pone
l’esigenza di determinare cioè che è bene (le leggi). Si perviene così al terzo momento mediante
cui la volontà si determina, quello dell’eticità, che esprime la sfera del dovere che contiene in sé le
due precedenti sfere: quella del diritto e quella della moralità.

Hegel rifiuta la concezione contrattualistica della società: l’individuo, uti singulus, è un’astrazione.
Egli invece nasce in un gruppo le cui funzioni e relazioni sono definite dall’etica, la famiglia. Con lo
scioglimento della famiglia (maggiore età) o con lo scioglimento naturale (morte genitori)
l’individuo acquista la sua piena autonomia che si esplica nella seconda forma dell’eticità, la

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società civile. Essa non è costituita dall’unione di più famiglie, ma dai singoli individui: essa risulta
quindi dal coordinamento e dalla esplicazione degli interessi particolari dei singoli.
La società si fonda sul sistema dei bisogni, sull’organizzazione per soddisfarli e sulle istituzioni
volte a tutelare gli interessi dei singoli. Hegel invece accetta il concetto giusnaturalistico di società
civile, definita come la sfera economica, volta al soddisfacimento dei bisogni: la scienza economica
individua i principi che ci consentono di procedere all’analisi del modo mediante cui si organizza la
società civile. Il sistema dei bisogni, converte l’interesse dei singoli nell’interesse generale
(eterogenesi dei fini ??). Ma ciò non significa che tutti abbiamo diritto ad una eguale porzione del
patrimonio generale. Le principali attività economiche raggruppano gli individui in masse distinte: i
proprietari di terra e gli agricoltori (stato sostanziale), lo stato dell’industria e lo stato generale
(interessi generali). Ogni individuo ha un ruolo sociale, che viene indicato dal ceto cui appartiene;
ciascuno stato sociale esprime una propria forma di eticità. L’organizzazione politica dello stato si
fonda sul rapporto fra gli stati e sul rapporto fra questi e il potere politico.
Occorre riconoscere alla società civile un potere di polizia, ciò di vigilanza e tutale per armonizzare
i diversi interessi (??), tramite cui si evitano le disfunzioni dell’attività economica.
L’organizzazione della società civile trova il suo compimento nella corporazione, cui fanno capo i
ceti sociali; essa è il momento etico proprio della società civile à solo in essa l’individuo acquista
la consapevolezza della dimensione etico-sociale della sua attività.
La società civile ha la funzione essenziale di portare gli istinti e bisogni degli individui dal livello
della rozza immediatezza naturale a quello della razionalità, conferendo così alle esigenze degli
individui la forma della universalità.

Lo Stato è “la realtà dell’idea etica”: tale concetto è connesso a quello della razionalità. Lo Stato è
la consapevolezza del rapporto che lega fra di loro tutte le determinazioni, tutte le sfere che
consentono alla volontà dell’individuo di esprimersi a livello dell’universale. Hegel critica Kant e
Fichte per aver confuso lo Stato con la società civile. L’eticità dello Stato non significa che esso sia
un “assoluto”, in quanto non può comunque prescindere dalla libera attività degli individui.
La costituzione politica si fonda sulla distinzione dei poteri, articolata in: potere legislativo, che
stabilisce “l’universale”, potere governativo, che riporta le sfere particolari sotto l’universale,
potere sovrano, che unifica i due precedenti.
La sovranità è rappresentata da una persona, il monarca, che in virtù della successione al trono
garantisce continuità allo Stato. Per Hegel la sovranità non appartiene né al monarca, né
all’aristocrazia, né al popolo à appartiene allo Stato.
H. sottolinea la differenza fra la distinzione e la divisione dei poteri: la prima implica la sussistenza
di un armonico rapporto fra i poteri, in quanto derivano da un unico principio, la seconda invece
sottolinea la reciproca limitazione, fondata sull’autonomia assoluta dei poteri.
Il monarca, in quanto rappresentante della sovranità, assume le supreme decisioni che si
riferiscono all’unità ed all’esistenza dello Stato.

L’esecuzione delle decisioni del monarca fa capo al potere governativo, costituito dalla pubblica
amministrazione; il cui compito è quello di far valere nella società civile gli interessi dello Stato. Ciò
significa che la società civile deve governarsi da sé, in autonomia; il governativo fa solo da tramite.
Il potere legislativo è costituito: dal monarca, cui appartiene la decisione suprema; dal potere
governativo, che deve consigliare le soluzioni più idonee alla tutela dell’interesse generale; dalle
assemblee degli stati, alle quali compete l’iniziativa delle proposte di legge.
Non può essere ammessa la partecipazione del popolo/dell’individuo al governo dello Stato. La
rappresentanza non deve essere fondata sul rapporto diretto fra popolo e rappresentanti, ma
deve essere mediata dal sistema degli “stati” sociali, le corporazioni. Tale rappresentanza organica

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esprime una classe politica o di governo (classe generale) che è in grado di far valere l’ideale della
razionalità dello Stato, unica garanzia di libertà.
L’assemblea legislativa, che deve essere divisa in due Camere per garantire un più ponderato
esame dei provvedimenti, è una deputazione dei ceti e delle corporazioni. Alla classe aristocratica
viene conferito il compito di rappresentare il momento della stabilità e della garanzia degli
interessi permanenti; classe mantenuta autonoma dall’istituto del maggiorascato.
Tuttavia Hegel ritiene che la costituzione politica debba fondarsi sulla classe media.

Lo Stato deve essere considerato non solamente come sovranità all’interno, ma anche come
sovranità all’esterno, come entità politica autonoma ed indipendente, che si afferma da sé stessa.
Le relazioni fra gli Stati sono regolate dal diritto internazionale, costituito dalle norme fissare dagli
accordi fra gli Stati, che debbono essere rispettate. Tale diritto non riesce però a disciplinare tutti i
rapporti. Ogni Stato ha il diritto di garantire con la forza quanto giudica essere determinante per la
sua esistenza à la guerra deve essere considerata come un fatto transitorio, che non vanifica il
diritto internazionale, ma ammette sempre la possibilità della pace.
Lo Stato deve essere considerato nel processo storico in cui si è formato: Hegel riconosce quattro
periodi nella storia universale:
- L’orientale: lo Stato costituisce una totalità etica naturale e la religione pervade tutte le
manifestazioni di vita dello Stato. L’individuo non ha alcuna possibilità di autonoma
esistenza e le classi sociali sono caste à immobilità dell’ordine politico-sociale, il
movimento si esprime solo mediante le guerre.
- Greco; compare il principio dell’individualità libera. La libertà è intesa come piena
partecipazione alla vita dello Stato.
- Romano; in cui l’individualità trova realizzazione. È il mondo del diritto, della separazione
pubblico-privato, dove l’individuo ha i suoi fini, ma non li raggiunge che non li raggiunge
nell’universale.
- Cristiano – Germanico, l’individuo scopre il valore infinito della sua interiorità, che si
conosce come tale e si adegua all’universale.
La rivoluzione francese è stato un fatto unico, in cui per la prima volta viene espressa l’esigenza di
adeguare la realtà esteriore al pensiero.

CAP. 24 – OWEN (1771 – 1858)

La rivoluzione industriale pose una serie di problemi, punto di riferimento del dibattito teorico –
politico sui rapporti fra sistema produttivo e organizzazione politica, fra società e stato. Si
sottolineava così il nesso fra economia e politica. L’innovazione più radicale fu il macchinismo, la
possibilità di sostituire l’energia prodotta dal lavoro umano con quella della macchina. Il sistema
economico realizzava livelli di produzione prima inimmaginabili, producendo però anche effetti
negativi che ricadevano sulla classe lavoratrice (ad es. l’aumento dei prezzi). Il sistema industriale
induceva i proprietari delle fabbriche a ridurre i costi del lavoro, impiegando donne e bambini. La
disoccupazione fu vista come conseguenza di un processo di sviluppo economico fondato
sull’impresa capitalistica, guidata dal profitto e dalla concorrenza.
Si pose in tal modo la questione sociale, come problema delle misere condizioni di vita della classe
lavoratrice e dei motivi per cui il sistema di produzione industriale generava tale miseria. Nel
giornale inglese Cooperative Magazine comparve, nel 1827, il termine socialist per indicare chi

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sosteneva il principio che i mezzi di produzione dovessero appartenere all’associazione dei
lavoratori. L’elaborazione delle dottrine socialiste era stata accompagnata dai primi tentativi di
dare agli operai una organizzazione in grado di tutelare i loro interessi. (trade unions, cartismo etc)

Owen è il primo teorico della questione sociale scaturita dalla rivoluzione industriale, derivando le
sue idee da un’esperienza diretta della fabbrica. La convinzione di fondo si richiama
all’illuminismo: la fiducia nell’opera della ragione, volta a liberare gli uomini dagli errori. Grazie allo
sviluppo delle facoltà razionali, gli uomini si renderanno conto che le loro sorti dipendono
unicamente dalla solidarietà e che la felicità del singolo dovrà essere proporzionata a quella di
tutti gli altri. La contraddizione fra le enormi capacità produttive del nuovo sistema industriale e la
miseria dei lavoratori dipende dal fatto che la produzione è informata al principio della libera
concorrenza, che spinge le imprese e le aziende, al fine di ridurre i costi, a comprimere i salari.
Tale principio sollecita una produzione incontrollata, che non tiene in conto le capacità di
assorbimento da parte dei mercati e le capacità di acquisto delle classi lavoratrici, con la
conseguenza di saturare i mercati e di determinare crisi di sovrapproduzione. Quando le fabbriche
chiudono i lavoratori perdono capacità di acquisto, bloccando le possibilità di ripresa economica.
Il problema è quello di riuscire ad equilibrare la produzione con il consumo.

La soluzione implica una nuova concezione della società, in vista di una riforma sistematica dei
rapporti sociali, che consenta di sostituire al principio della concorrenza, fondato sulla
competizione alimentata dall’egoismo, il principio della cooperazione, in base al quale le energie
intellettuali e lavorative degli uomini vengono coordinate a fini e risultati che si riferiscono a tutti.
Si tratta di trasformare il carattere degli uomini e di renderlo conforme a tale principio (!). Ciò è
possibile perché la personalità degli uomini è “plasmata” dall’ambiente in cui vivono, e “noi
abbiamo i mezzi per modificare l’ambiente”.
Il primo mezzo è il sistema educativo, che deve essere riformato secondo la pedagogia della
cooperazione. Non deve essere informato alla repressione, ma deve contare sulle naturali
attitudini degli scolari al fine di rendere l’istruzione piacevole ed attraente. La nuova pedagogia
deve essere finalizzata a rendere partecipi i giovani del principio che la felicità del singolo non può
essere scissa da quella della comunità.
Serve inoltre una riforma del sistema sociale, in quanto sistema produttivo. Bisogna seguire il
metodo della gradualità, attuando le riforme lentamente e dimostrando i risultati positivi ad altre
imprese che seguiranno la stessa via. È una riforma graduale che non reclama un intervento dello
Stato, ma che richiede solamente quelle riforme legislative che consentano queste nuove forme di
associazione e di conduzione economica. La prima esperienza era stata attuata nelle fabbriche
tessili di Lanark, dirette da Owen, che ne offrivano una concreta dimostrazione à si aumentò la
produzione e diminuirono i costi. La nuova società doveva costituirsi a partire dalla fabbrica, che
deve essere considerata una vera e propria comunità.

Bisogna evitare la concentrazione della popolazione nei centri urbani e procedere ad una
redistribuzione delle forze di lavoro sul territorio, tramite la costruzione di aziende. Ciascuna di
essa dovrà avere una popolazione tra le 1200 e le 2000 unità che sarà ospitata in un villaggio
costruito secondo una planimetria rettangolare al cui centro vi è una piazza, nella quale saranno
presenti gli edifici per i servizi comuni. Le fabbriche saranno sistemate vicino al villaggio, inserendo
così organicamente la fabbrica nella comunità.
Owen sottolinea gli inconvenienti di una specializzazione del lavoro, che deprime il carattere e
riduce l’intelligenza dei lavoratori à bisogna creare le condizioni affinché nell’ambito della
comunità si possa cambiare attività lavorativa, in modo che venga a cadere la distinzione tra

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lavoro intellettuale e manuale. In tal modo la direzione potrà essere affidata a tutti i lavoratori che
abbiano esperienza e la cui età sia compresa fra i 40 ed i 50. (le uniche distinzioni giuste si
riferiscono all’età ed all’esperienza).
Sulla base dei principi di cooperazione e di mutualità ognuno potrà ritirare dai magazzini comuni i
beni che sono necessari ai suoi bisogni, mentre sarà compito dei dirigenti predisporre le scorte e le
riserve opportune per procurarsi quanto necessita ai membri dell’associazione e che non viene
prodotto in loco, mediante lo scambio del sovrappiù con i prodotti di altre aziende. Si
costituiscono così rapporti fra le singole aziende-comunità.
L’unità di misura per regolare gli scambi sia all’interno che fra le singole comunità è data dalla
quantità di lavoro necessaria per produrre i beni.

CAP. 26 – CONSTANT (1767- 1830)

Alla fine dell’impero napoleonico in Francia tornò l’antica casa reale con Luigi XVIII, che concesse
una carta costituzionale: il monarca, capo dell’esecutivo, nominava il governo; il potere legislativo
era distinto in due camere, quella dei deputati, eletta da un corpo elettorale molto ristretto su
base censitaria, e quella dei Pari, di nomina regia; esse non avevano nessun diritto di iniziativa, che
spettava al re; il potere giudiziario era affidato ai giudici, nominati dal re.
Nell’ambito di questa costituzione assunsero poco a poco i primi partiti: gli ultrarealisti
(aristocratici), gli indipendenti (Constant, liberali), i dottrinari (guizot, monarchici costituzionali), e i
repubblicani (democratici).
La “seconda” Restaurazione accentuò il carattere reazionario e repressivo della Restaurazione e gli
indipendenti e i dottrinari assunsero un ruolo di opposizione al governo. Vi fu tentativo di
restituire poteri alla Chiesa, affidandole le scuole, promuovendo leggi contro il sacrilegio e la
libertà di stampa. Si rafforzò l’opposizione liberale, che conseguì la maggioranza alla Camera.
Dopo tre giorni di combattimenti a Parigi, il re Carlo X abdicò. Fu chiamato al trono Luigi Filippo
D’Orleans, re dei Francesi. La costituzione fu riformata in senso liberale: si riconobbe alla Camera il
diritto di iniziativa legislativa, si sancì la responsabilità dei ministri e si abolì l’ereditarietà della
camera dei Pari; la legge elettorale fu riformata abbassando il censo, allargando il corpo elettorale
alla classe media. Tale periodo si concluse nel 1848, con la rivoluzione del febbraio, che sancì la
fine della monarchia e l’avvento della seconda repubblica.

Constant indagò il problema di individuare il principio sul quale fondare un ordinamento politico in
grado di accogliere le esigenze di profondo rinnovamento politico e civile espresse dalla
Rivoluzione e di garantire, nel contempo, i cittadini da qualsiasi forma di oppressione e arbitrio.
Ritenne che nel corso di questi avvenimenti si è espresso un nuovo sentimento dell’individualità e
della libertà, su cui deve essere riorganizzato lo stato. I suoi scritti hanno lo scopo di difendere
l’individualità in tutte le sue manifestazione. La prima organica esposizione delle sue idee politiche
fu Principi di Politica applicabili a tutti i governi, 1806.
La libertà è intimamente connessa al valore fondamentale che assume nella civiltà moderna
l’individualità, il sentimento della originarietà e dell’autonomia dell’individuo. Tale sentimento è a
sua volta connesso con un’esperienza religiosa, che scopre la coscienza come momento centrale
dell’esperienza che avverto l’infinito, Dio. Il sentimento religioso è connesso con le passioni nobili;
come queste esso non può essere spiegato da un punto di vista meramente razionale: c’è un
sentire che precede la ragione, che ha una sua giustificazione, poiché attiene alla capacità

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dell’uomo di percepire i valori morali e spirituali, che sono altro dalla realtà sensibile ed empirica
regolata dalla ragione. Nella libertà religiosa, e nella libertà di coscienza, è radicata la libertà di
pensiero, che si esprime mediante la libertà di parola e di stampa, che sono le libertà politiche
fondamentali dell’individuo. L’intero sistema costituzionale delle garanzie di libertà dell’individuo
riposa sulla libertà di stampa. Le libertà dell’individuo sono il limite sostanziale del potere politico.
Constant si richiama alla concezione rousseeauviana della volontà generale, che fonda l’unità
politica dello Stato. Tale concetto di volontà va avvolto, poiché con esso si intende che il potere di
un numero ristretto di persone deve essere sancito dal consenso di tutti i cittadini. Non si può
però accettare, da Rousseau, il fatto che la volontà generale si costituisce mediante l’alienazione
di tutti i diritti, per ricevere la personalità del cittadino à la volontà diventa la legittimazione di
una “autorità sociale” illimitata. Ciò trova conferma nella proposta di religione civile, della quale lo
Stato fissa i dogmi fondamentali e che deve essere accolta da ogni cittadino: il tal modo l’individuo
è subordinato al governo.
Distinzione fra la “libertà secondo gli antichi e secondo i moderni”: vi è una contrapposizione fra la
libertà di coscienza e gli ordinamenti politici degli Stati liberi dell’antichità à gli individui furono
interamente sacrificati alla società. Nella città antica il popolo partecipava direttamente
all’amministrazione della cosa pubblica, esercitando direttamente la sovranità. La libertà
consisteva essenzialmente nella possibilità di poter esercitare il potere politico o di influirci.
Nella società moderna il singolo non riesce a percepire l’effettiva influenza della sua volontà.
Le istituzioni moderno mirano a mantenere la pace, hanno una funzione di tutela piuttosto che un
fine di dominio come in passato. Inoltre la schiavitù aveva impresso nei costumi del mondo antico
un carattere di severità e di crudeltà. La libertà degli antichi era ciò che assicurava ai cittadini
partecipazione all’esercizio del potere sociale, la libertà moderna garantisce l’indipendenza dei
cittadini nei confronti del potere.

La libertà individuale deve regolare anche l’attività economico-produttiva, garantendo la libertà


industriale, come per Smith, la libertà d’iniziativa promuove una situazione caratterizzata dalla
migliore utilizzazione delle risorse e dalla giusta ripartizione dei beni prodotti à la proprietà
privata è l’istituzione fondamentale dell’intero sistema economico, e deve essere “libera”, cioè
non sottoposta a vincoli che ne limitino la circolazione. Essendo libera, la proprietà circolerebbe
facilmente: possiamo riscontrare una dinamica economica che promuove mobilità tra classi sociali,
assicurando al merito ed al lavoro il loro pieno riconoscimento politico e civile. Lo Stato ha compiti
ben definiti: la difesa nei confronti dei nemici esterni, il mantenimento dell’ordine pubblico,
l’amministrazione della giustizia come garanzia dei diritti di libertà e l’intervento nelle grandi
opere di interesse pubblico.

Nel Dello spirito di conquista e dell’usurpazione, 1814 viene giudicato l’ordinamento instaurato da
Napoleone tra il 1799 e il 1813. L’impero francese si fonda sulla forza militare, un esercito che per
la leva obbligatoria risulta formato da tutte le classi sociali à perciò l’ordine politico francese è la
proiezione dell’ordine militare. Il fine dell’Impero è diventato così la guerra e la conquista ed ha
riproposto i sentimenti e le passioni proprie della società antica. La politica di guerra e di conquista
ha una conseguenza negativa sull’intera nazione; le giustificazioni del governo per i suoi
provvedimenti militari hanno il fine di suggestionare, più che di convincere. Le affermazioni
politiche e i programmi si svuotano e diventano formule per giustificare le aggressioni.
L’impero fondata sulla forza militare e sulla guerra, non è altro che “usurpazione”, una nuova
forma di governo, che si distingue dal dispotismo: questo nega tutte le libertà politiche, quella le
afferma e le sostiene in modo formale e strumentale, per rovesciare il regime che soppianta.
L’usurpatore svuota di contenuto le libertà e le riduce a strumenti per la formazione di uno spirito

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pubblico a lui favorevole. In tal modo il potere, legittimato dalle leggi e dalle istituzioni, diventa
arbitrio, generando apatia nella società, dato l’impedimento alla manifestazione del pensiero, la
più alta capacità spirituale. L’usurpazione porta alla sua “autodistruzione”.

I diritti fondamentali dell’individuo sono del tutto indipendenti nei confronti dell’autorità politica;
essi sono: libertà personale, giudizio per giuria, libertà religiosa e di industria, inviolabilità della
proprietà e la libertà di stampa. La costituzione deve proibire qualsiasi atto che attenti a questi
diritti, sancendo che gli stessi potere costituzionali non possono sospenderli. Tale indipendenza
dei diritti presuppone che la sovranità popolare non sia concepita come affermazione della
volontà generale, ma come affermazione del primato della legge à in polemica con Rousseau, la
società non è un’entità superiore e distinta dai singoli. Per realizzare questo essenziale principio di
libertà occorre che la costituzione sia strutturata sulla divisione dei poteri à occorre distinguere il
potere del monarca costituzionale, irresponsabile, da quello esecutivo, costituito dai ministri,
responsabili politicamente e giuridicamente. Il primo è essenzialmente un potere neutro: ha il
compito di armonizzare gli altri poteri. Vanno distinti cinque poteri: quello reale, neutro; quello
esecutivo; il potere rappresentativo durevole, la Camera dei Pari; quello rappresentativo
dell’opinione, fatto valere da un’assemblea elettiva, la Camera dei deputati e il potere giudiziario.
Il potere reale risulta limitato dal fatto che la legge deve essere approvata dalle due Camere. Nel
contempo, però, il monarca interviene nel processo legislativo mediante la sanzione: può
destituire il governo, può sciogliere la Camera e dispone del diritto di grazia.
Il difetto delle precedenti costituzioni risiede nel fatto di aver ignorato l’esistenza e la funzione di
un potere neutro, e di aver confuso tale forza equilibratrice con uno dei poteri attivi, con il
legislativo o con l’esecutivo à nel primo caso si è affermata l’onnipotenza della legge nel secondo
il dispotismo. C. ribadisce che la rappresentanza politica debba essere fondata sulla proprietà, non
solo fondiaria ama anche industriale. La libertà non ha vere garanzie quando il diritto elettorale
viene esteso alle categorie sociali che non godono di indipendenza economica.
La rappresentanza deve preoccuparsi di promuovere quel progresso civile e sociale, una delle
migliori garanzie dei diritti individuali.
L’ordinamento politico amministrativo deve essere informato ai principi del decentramento e di
un’ampia autonomia locale, che stabilisca fra i singoli e il potere centrale almeno due sfere, quella
del Comune e quella che raggruppa più Comuni (circondario).
Occorre distinguere tre livelli di interessi, quelli del comune, quelli del circondario e quelli generali
che debbono essere curati dal governo, gli altri due dalle rispettive autonomie. Il governo è
autorizzato ad un intervento sostitutivo solo nel caso in cui gli organi delle autonomie non
svolgono i compiti loro assegnati.

CAP. 27 – TOCQUEVILLE (1805 – 1859)

Il problema politico della società post-Rivoluzione francese consiste nel rapporto fra libertà ed
uguaglianza. La democrazia non deve essere considerata solo secondo principi teorici, ma in
concreto, con riferimento al particolare ambiente in cui si attua. L’indagine sull’organizzazione
costituzionale dello Stato deve essere integrata da quella relativa alle sue più importanti istituzioni
civili e al ruolo delle diverse categorie e classi sociali. T. crede che la democrazia è il fine a cui
tende il processo storico: essa deve essere vista come il “movimento sociale” che caratterizza la

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storia moderna e che ha dissolto l’ordinamento aristocratico – feudale. Qualsiasi tentativo volto a
contrastare l’instaurazione di una democrazia è destinato al fallimento.
I governi europei non si rendono conto che la “rivoluzione democratica” si realizza nelle condizioni
materiali della società. Occorre offrire alla democrazia stessa un sicuro orientamento, che
scaturisca da una analisi politica in grado di comprendere il mondo “rinnovato”.

La “nuova scienza politica” di Tocqueville ha lo scopo di comprendere le trasformazioni in atto


nella società europea. L’analisi politica deve tenere conto dei risultati cui è pervenuta l’indagine
sulle leggi e sulle istituzioni.
La Democrazia in America e L’Antico Regime sono complementari, nel senso che la società
americana esprime lo stesso principio democratico che caratterizza la storia europea à vi è un
collegamento tra la Rivoluzione americana e quella francese: gli emigrati che si stabilirono in
America alla fine del XVII secolo liberarono il principio democratico da tutto ciò contro cui lottava
in Europa, portandolo nel nuovo mondo, dove ha potuto svilupparsi.
L’analisi politica di T punta ad individuare i principi ispiratori dell’etica civile, gli ideali che sono in
grado di orientare i comportamenti degli individui e delle classi.
Gli idali politici presenti nella società moderna sono due: libertà ed uguaglianza; con primato della
prima, in quanto fonda il sentimento originario della nostra individualità. Al sentimento della
personalità corrisponde il modello di società aristocratica, mentre al principio dell’uguaglianza
corrisponde quello di società democratica. La prima ritrova fondamento in una legge strutturale
delle società umane, nel senso che i beni morali di una società si concentrano in un numero
ristretto di persone. L’aristocrazia è il costante termine di riferimento per individuare gli ideali che
caratterizzano la democrazia.

Il modello di democrazia è quello americano, il suo studio inizia con un’analisi accurata delle
origini storiche: anche T. ritiene che la genesi storica esprime la ragion d’essere di una comunità.
Le prime Colonie che si insediarono sul territorio americano erano costituite, per la maggior parte,
da dissidenti religiosi, per poter professare il proprio credo in piena libertà. Religione e libertà
politica e civile si sostennero a vicenda, con reciproche influenze.
Il sentimento della libertà scaturisce dal sentimento religioso e da questo viene alimentato.
In un territorio così vasto le nuove comunità manifestarono subito una tendenza all’espansione:
tutte le categorie sociali si sono impegnate in un comune sforzo di collaborazione, che favorì uno
spirito di solidarietà à si forma una società che tende a trasformare le gerarchie, promuovendo
un sostanziale pareggiamento delle classi, anche sul piano economico.
Le colonie americane sono caratterizzate da un’accentuata mobilità sociale; e a tale principio si
ispira la legislazione americana, che favorisce al massimo la circolazione della ricchezza. La
dinamica della società tende a portare tutti in un vasto ceto medio.
Quando l’uguaglianza si è realizzata nell’assetto sociale essa trasforma anche l’ordinamento
politico: vi sono quindi due modi per far si che gli uomini, uguali sul piano sociale, lo siano anche
su quello politico: o dare a tutti gli stessi diritti, oppure non darli a nessuno.
Vi sono infatti due “tipi” di uguaglianza; una prima che spinge la volontà degli uomini a rendersi
uguali a chi è superiore, che conduce al progresso; ed una seconda che corrisponde alla volontà
degli inferiori di riportare i superiori al proprio livello, che porta decadenza.

Nella democrazia si riscontrano pregi e difetti. Il desiderio dell’uguaglianza trova continue


sollecitazioni, ma mezzi limitati per essere appagato à ciò crea invidia, che orienta le scelte
politiche verso un generale livellamento, sacrificando le capacità ed i meriti migliori.
Il suffragio universale non garantisce i provvedimenti più idonei per gli interessi della comunità.

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La scarsa efficienza, la mancanza di lungimiranza e l’instabilità legislativa-amministrativa
costituiscono i lati negativi del governo democratico, che si basa sull’opinione pubblica, mutevole
poiché esposta alle influenze delle passioni.
La democrazia, mentre si preoccupa di tutelare gli interessi che hanno immediata risonanza
nell’opinione pubblica, tralascia gli interessi “permanenti” della comunità. Essa favorisce un
generale orientamento verso l’agire pratico, quindi verso un sapere che si basa sul buon senso,
atto ad individuare la soluzione dei problemi in termini semplici e pragmatici.
I vantaggi che la democrazia arreca sono superiori, ma non immediati. Nella società americana
opera con forza la virtù civica. Lo spirito civico è inseparabile dall’esercizio dei diritti politici à la
democrazia diffonde fra i cittadini l’idea dei diritti; ne consegue il rispetto per la legge.
La caratteristica più positiva è l’inseparabile energia che sollecita e l’intensa attività sociale che
promuove. Inoltre garantisce l’armonico soddisfacimento degli interessi delle diverse classi sociali.
Affidare la gestione della cosa pubblica ad una sola classe sociale significa danneggiare le altre: la
democrazia invece finisce per comprendere elementi di tutte le classi sociali, contemperando gli
interessi.

Il problema della democrazia riguarda il rapporto tra minoranza e maggioranza. La democrazia non
può essere considerata come la forma di governo che garantisca automaticamente la libertà: in
determinate situazioni la maggioranza può esercitare un potere assoluto (sull’assunto che vi sia
più saggezza tra molti uomini riuniti che in uno solo).
La maggioranza ha un suo processo di formazione, e si manifesta in occasione delle elezioni à è il
risultato dei processi di omogeneizzazione della società ed espressione dell’opinione pubblica.
Il carattere assoluto del suo potere emerge solo se si abbandona la prospettiva politico-giuridica
dello stesso potere, che formalmente rispetta la costituzione: la maggioranza tende ad esercitare
una costante pressione ideologica sui propri avversari e plasma l’opinione pubblica a sua
immagine. Il risultato ultimo dell’influenza della maggioranza è il conformismo, l’obbedienza
meccanica su convinzioni che si accettano, perché trasmesse dall’ambiente sociale in cui viviamo.
La libertà si riduce all’esercizio di una serie di diritti che garantiscono la nostra tranquillità e il
nostro benessere.

Tocqueville studia quindi come il sistema americano riesce a contenere la maggioranza, grazie alla
struttura federale rafforzata da ampie autonomie locali, che riducono il potere
dell’amministrazione centrale. Altro freno è rappresentato dalla particolare posizione riconosciuta
alla magistratura. Il primato del diritto sul potere si afferma nella Suprema Corte federale, che da
giudizi di legittimità sulle leggi. Infine un altro freno indiretto consiste nell’impegno etico-religioso,
che informa tutta la società americana. Le confessioni religiose affermarono il primato della libertà
di coscienza, che in tale società trova un preciso riscontro nella vita civile e politica.

Democrazia in America viene completato da una seconda parte, pubblicata nel 1840, che analizza
l’influenza del principio dell’uguaglianza sul pensiero, sui costumi e sulle leggi.
Tale attenzione ai “difetti” deriva dal fatto che la “rivoluzione democratica è un fenomeno
irreversibile”. Tocqueville coglie i processi involutivi propri della democrazia di massa, connessi
alla tendenziale parificazione delle condizioni sociali, promossa dal processo industriale, che mira
a formare una classe unica. T. rileva una “economicizzazione” della vita sociale e politica, che
svuota quest’ultima dei valori etico-politici, marginalizzando in tal modo le istanze di libertà.
Il sentimento dell’uguaglianza è certamente connesso con quella dell’indipendenza, che è il
presupposto della libertà; ma il processo di industrializzazione tende a trasformare il contenuto
etico del sentimento dell’uguaglianza ed a sostituirvi valori empirici (il desiderio dei beni

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materiali). L’industrialismo reca con sé l’utilitarismo, il pragmatismo e il desiderio del benessere. Il
desiderio del benessere è la caratteristica saliente ed indelebile dell’età democratica.

Il desiderio del benessere tende a condizionare le attività degli stessi individui e ad esercitare
influenza sul movimento intellettuale, sui costumi e sulla politica. Fra gli orientamenti delle società
industrializzate acquista rilievo la tendenza a concentrare l’interesse intellettuale sulle questioni
pratiche, che possono avere un diretto ed immediato impiego nell’industria, per perfezionare la
produzione à prevalenza delle scienze applicate, a scapito di quelle teoriche.
Il pensiero a livello teorico è invece, per Tocqueville, a vera energia dalla quale promana l’intera
attività sociale volta al progresso e al perfezionamento della società e qualora dovesse venire a
mancare la sua influenza si assisterebbe ad un lento ed inesorabile processo involutivo della
società, che non sapendo rinnovarsi diverrebbe statica. I beni morali finiscono così per ridursi ai
godimenti ed ai diletti propri del benessere. La democrazia, promuovendo l’idea del benessere,
favorisce un’etica materialista, che pone le premesse del conformismo democratico che sancisce il
dispotismo della maggioranza. Il tendenziale materialismo ha un’altra conseguenza negativa:
induce l’individuo ad interessarsi solo della sua sfera privata, dissolvendo in tal modo i vincoli
sociali à a tale sentimento del valore assoluto della sfera privata corrisponde l’individualismo.
Esso spinge ogni uomo ad appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte à una volta
creata una piccola società per conto proprio, abbandona quella grande a sé stessa.
L’isolamento degli individui ha come conseguenza il dominio “ideologico” delle masse, che sono
tendenzialmente conservatrici, poiché rifiutano gli atteggiamenti di critica.
L’uguaglianza delle condizioni sociali, la continua ricerca del benessere, il pragmatismo,
l’edonismo, il materialismo determinano nella società un movimento del tutto apparente, che si
riferisce unicamente al livello dell’economia à le masse restano però statiche.

Il processo di involuzione delle società “egualitarie” ha un esito politico – istituzionale, che


conferisce allo Stato un vasto potere di intervento che finisce col controllare tutti i centri di attività
sociali. Così, mentre le condizioni sociali ed economiche si eguagliano, si pongono le premesse per
una cultura del “sociale” che riconosce ala società ogni diritto ed ogni potere. Il potere delle
società democratico egualitarie si presenta come un nuovo “paternalismo”.

Il processo di formazione di un unico potere è sostenuto dal costante processo di


industrializzazione. L’industria richiede comunicazioni e un’organizzazione dei mercati. Lo Stato si
dà pertanto una complessa struttura burocratico-amministrativa à lo stato diventa il arante dei
risparmi ed anche il banchiere/finanziere da cui dipendono tutte le attività industriali. Per tal
motivo mentre l’industria si sviluppa, lo Stato aumenta i suoi poteri, generando rapporti di
simbiosi, che si alimentano a vicenda. Da questo nuovo tipo di Stato scaturisce il nuovo
dispotismo. Il risultato di questa presenza statale è che essa rende sempre meno utile e più raro
l’impiego del libero arbitrio. Gli individui sono svuotati della loro individualità e responsabilità.
Il nuovo dispotismo consiste nel servirsi delle condizioni sociali create dallo sviluppo industriale
per dar vita ad un’organizzazione burocratico-amministrativa che accompagna gli individui fino alla
morte e li plasma secondo i propri intendimenti: questa “servitù” può combinarsi con una forma
esteriore di libertà, riuscendo a legittimare l’assolutezza del nuovo potere sociale con il principio
della sovranità popolare.

L’analisi del processo involutivo delle democrazie industrializzate non deve essere intesa come
l’esito inevitabile: è una tendenza, che deve essere contrastata. Se l’uguaglianza apporterà
“schiavitù o libertà” dipende solo dalle scelte delle nazioni e dalle loro leggi. Occorre rafforzare il

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sentimento di indipendenza, che unito alla libertà politica potrebbe però generare situazioni di
anarchia: essa però è un male minore, contro la quale si possono prendere provvedimenti.
La vera efficace salvaguardia è la religione, che esprime i valori essenziali su cui si fonda la
convivenza civile. Il cristianesimo sottrae gli individui e le masse alla contingenza degli interessi
immediati, riportandoli a ciò che trascende il presente.

CAP. 28 – ROSMINI (1797 – 18559

Rosmini riconsidera la religiosità e la filosofia cattolica. Nei suoi primi studi politici rivolge la sua
attenzione ai problemi posti dalla concezione illuministica della società di Romagnosi e Gioia, che
proponevano una filosofia civile come scienza positiva della società. Rosmini acquista la
consapevolezza dell’intimo nesso fra la teoria e la scienza positiva dei fatti.

Il nesso teoria-scienza va tenuto presente in politica, con l’avvertenza che una teoria presuppone
una concezione della ragione in grado di garantire la validità oggettiva dei risultati cui perviene. Il
razionalismo illuministico si esprime in un empirismo fondato sulle sensazioni, che non è in grado
di sintetizzare una concezione unitaria delle conoscenze à si tratta quindi di ritrovare il principio
che garantisce il fondamento oggettivo della conoscenza, che per Rosmini, è l’idea dell’essere, la
forma della verità, che ci consente di apprendere intellettivamente gli enti reali. L’essere esprime
inoltre il criterio fondamentale della morale.

La politica è l’attività volta a realizzare la società come entità, cioè a fare degli individui e delle
cose una “vivente” realtà. Bisogna distinguerne due parti: una prima teorica che definisce le
ragioni ultime della politica, ed una seconda scientifico-positiva che comprende le scienze
politiche speciali. La filosofia della politica non ha solo un intento speculativo, ma è una “dottrina”,
cioè una concezione sistematica della politica finalizzata all’attività pratica.

Il fine della società politica è l’appagamento degli individui che la formano, la realizzazione del loro
bene eudemonologico, cioè relativo ad ogni singolo individuo, che ne è giudice, distinto da quello
morale, che è invece oggettivo ed universale e non rientra nell’ambito della politica.
L’appagamento investe l’intera personalità dell’uomo à la politica non può essere ridotta allo
studio dell’opinione pubblica, dell’economia o delle istituzioni: deve studiarle tutte e tre.
Le società politiche sono caratterizzate da un continuo movimento, oscillando fra un limite
inferiore ed uno superiore: raggiunto il primo le società si disarticolano, il secondo invece
corrisponde alla loro perfezione, che non si riesce a conseguire.
Rosmini ricorre ai concetti di sostanziale e di accidentale, nel senso che nella società vi è ciò che
attiene alla sua esistenza, la “sostanza”, e ciò che si riferisce al su perfezionamento, “l’accidente”.
Le due regole fondamentali della politica sono:
- Conservare e fortificare ciò che costituisce la sostanza della società, anche a costo di dover
trascurare l’accidentale.
- Non ricercare perfezionamenti a scapito di ciò che è sostanziale.

La società è costituita dalle relazioni degli individui con le cose e dai vincoli che si stabiliscono fra
quelli. Le relazioni e i vincoli sono definiti “sociali”. Il diritto positivo li disciplina ed è definito

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“sociale”, per distinguerlo da quello naturale. Il sentimento su quale si fonda il vincolo sociale è la
benevolenza. La sfera del politico è delimitata dalle tre altre forme di società, che preesistono alla
società politica: la società teocratica, dell’uomo con Dio, la società del genere umano e la società
familiare. L’individuo non può essere risolto nella società o assimilato ad essa.
Per Rosmini i diritti della persona preesistono alla società, perché il diritto scaturisce dall’uomo in
quanto persona, così il compito del legislatore è quello di regolare le “modalità” del diritto.
Nella società occorre distinguere fra la società visibile (materiale) e quella invisibile (spirituale):
alla prima corrispondono i vincoli esterni e visibili, alla seconda quelli interni e invisibili.
L’importanza della società materiale: essa è la condizione dello sviluppo di quella invisibile.
Le reali trasformazioni della società politica avvengono in quella invisibile, che esprime la volontà
comune volta a perseguire il fine della società; se tale volontà cessa, la società politica si riduce ad
un ordine del tutto formale, senza alcuna intima forza di coesione: inizia la disgregazione.

L’unione di più essere in uno stesso posto non forma una società, per la quale servono vincoli
intellettuali e morali, coscienza di un fine comune e dei mezzi con cui conseguirlo: cosa possibile
solo mediante la ragione. La razionalità si esprime nell’ambito della società materiale, che le
fornisce i mezzi e crea le condizioni per crescere. Il processo di unificazione degli individui è
alimentato dalla quantità di intelligenza che la società riesce ad esprimere. Tale quantità è
prodotta da due tipi di razionalità, la ragion pratica delle masse e la ragione speculativa degli
individui, tra le quali deve sussistere un rapporto che le faccia convergere sul fine della società.
La ragion pratica delle masse varia a seconda dell’attività economica prevalente nella società.
Una volta riconosciuto che le attività economico-sociali sollecitano lo sviluppo di tale ragione, si
precisa che il movimento della società si origina nella ragione e da questa passa nella società
materiale. Rosmini sa che la società esercita influenza sulla razionalità: in alcune situazione si inizia
un processo di attenuazione della razionalità in termini di intelligenza, che è all’origine dei processi
di trasformazione involutiva della società.

La riduzione della razionalità a strumento della società materiale è la conseguenza di una politica
basata sulla convinzione che il progresso della società e quindi il movimento che lo sostiene siano
promossi dall’attività economica: la razionalità deve quindi fondarsi sui criteri dell’utile e della
determinazione empirica.
(orientamento ripreso da Gioia, che nel prospetto delle scienze economiche aveva sostenuto che
che il progresso va concepito come sviluppo economico, che è promosso dalla diffusione dei
consumi. L’attività economica deve essere continuamente incentivata da “bisogni artificiali” che,
rinnovandosi continuamente sollecitano il sistema economico ad una produttività sempre
crescente. Le civiltà ed i regimi sono connessi al grado di diffusione dei consumi. Un’economia
industriale, finalizzata ai consumi promuove un orientamento democratico ed una cultura
scientifico-positiva).
Per Rosmini, nella ragione dobbiamo distinguere due facoltà: quella del pensiero, che coglie gli
enti reali, e quella dell’astrazione, che separa dall’ente reale una parte. Quest’ultima ha valore
strumentale, ovvero fornisce i mezzi per conseguire i fini della facoltà di pensiero.
Tali astrazioni sono produttive per la società, in quanto riferite agli enti reali dalla facoltà di
pensiero (l’intelligenza consiste nella capacità di armonizzare la facoltà di pensiero con quella di
astrazione.) (??)
Per trovare i mezzi necessari al soddisfacimento dei bisogni artificiali, le energie intellettuali sono
concentrate sulla facoltà di astrazione, che acquista una decisa prevalenza su quella di pensiero,
finendo per sostituirvisi del tutto à la razionalità della società finisce col diventare la copertura
ideologica dell’irrazionale à inizia un processo di disarticolazione e contrapposizione delle parti

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sociali (tensioni e conflitti). Quando la razionalità si identifica con la facoltà di astrazione, gli
individui assumono i mezzi come fini à ciò condanna gli individui a cercare con nuovi mezzi
l’appagamento, senza conseguirlo à paradosso delle società consumistiche: aumenta la quantità
di beni, migliorano le condizioni sociali ma cresce l’insoddisfazione.
La previsione è una società caratterizzata da uno stato di conflittualità permanente. Effetti
disastrosi ha l’impatto della società industrializzata sulle popolazioni con un’economia di
sussistenza: i bisogni artificiali in questo caso hanno un effetto distruttivo.

La critica dell’economicismo non contraddice il suo liberalismo, che non afferma la centralità
dell’utile ma si riferisce al primato della persona. L’economicismo di tendenza socialista che
presuppone la riduzione dal male a male sociale e la tesi rousseauviana che si debba rifondare la
società in modo di farla corrispondere alla vera umanità dell’uomo sono l’origine
dell’orientamento politico definito perfettismo. Esso si ispira ad un umanitarismo astratto, che
misconosce il reale problema del male. La politica deve assumere un atteggiamento critico nei
confronti del perfettismo e deve evitare i beni che recano con sé mali superiori al bene.
Rosmini non critica il sistema di produzione industriale, che rappresenta uno strumento di
progresso della società. Si tratta di considerarlo per quello che effettivamente è: uno strumento.
Il sistema economico non ha in sé un principio di autoregolamentazione: Rosmini non accoglie le
tesi del liberalismo di ispirazione utilitaristica. R. ritiene che il governo debba seguire un’attenta
politica di sviluppo economico, intesa a fare in modo che esso si svolga con ritmi proporzionati alle
possibilità dell’intera comunità. Occorre promuovere una forma di educazione civile e sociale, per
diffondere la cognizione dei propri interessi. I bisogni artificiali debbono essere proposti in una
determinata misura che non pregiudichi il benessere delle famiglie. Lo sviluppo economico deve
essere informato alla politica dei redditi: i bisogni possono crescere nello stesso modo con cui
cresce il reddito.

La questione fondamentale, per quanto riguarda l’organizzazione politica dello Stato, si riferisce
all’individuazione dei principi che eliminino ogni possibilità di affermazione del “nuovo”
dispotismo (es. rivoluz. Francese). Sulla scia di Tocqueville R riconosce il problema del dispotismo
della maggioranza.
La società civile presuppone tre altre forme di società: quella teocratica, la familiare e quella dele
genere umano; che non sono risolvibili nella società civile. Questa è caratterizzata da un potere
supremo ed universale, finalizzato a regolare la modalità dei diritti di tutti gli associati. La
formazione di questo potere è il risultato di un lungo processo storico.
Il diritto è intimamente connesso al concetto di persona. Coessenziale alla persona è la libertà, in
quanto principio di azione che domina tutti gli atti spontanei. Il diritto ha una connotazione
personalistica, ovvero è insito nell’attività della persona: esso non è posto dal legislatore, non
scaturisce dalla volontà sovrano dello Stato né si basa sul contratto sociale à è l’attività della
persona, quando è rivolta ad altre persone per uno scopo considerato lecito dalla morale.
La proprietà non si riferisce al dominio con le cose esterne, ma deve essere considerata nel
carattere specifico dei diritti e dei doveri giuridici. Due conseguenze derivano dai rapporti
persona-diritto-libertà giuridica-proprietà: la prima si riferisce alla quantità di potere che il
governo può esercitare; esso non può essere considerato una quantità fissa, perché tende a
diminuire mano a mano che gli individui, tramite il progresso, acquistano maggior controllo della
loro sfera personale (le ragioni delle rivoluzioni riguardano l’esigenza di ampliare la sfera di attività
che dipende dalla liberta determinazione della persona. La seconda conseguenza è che il potere
della società non può estendersi ai diritti che fanno capo alla persona, ma solo alla “modalità”
degli stessi, per regolare l’esercizio dei diritti.

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Nella distinzione fra diritti e modalità è essenziale che il potere legislativo non possa disporre in
alcun modo dei diritti degli individui: deve invece disciplinarne la tutela.
I due requisiti essenziali della società politica, l’universalità e la supremazia, debbono essere
ristretti dentro l’ambito della modalità dei diritti: se lo Stato interviene il suo potere diventa
assoluto. Il diritto, la cui essenza è la persona, è il principio costitutivo dell’organizzazione politica
dello Stato, al fine di garantire la libera espressione della persona contro ogni forma di dispotismo.
Lo Stato costituzionale rappresentativo è caratterizzato della divisione dei poteri; inoltre “i diritti
di natura e di ragione sono inviolabili per ogni uomo” (Art 2 del progetto di costituzione). Questa
formula comprende i diritti della “dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, proposta da
Lafayette, di cui ne viene accolto il principio ispiratore: il primato della giustizia sulla politica,
distinguendo fra i diritti dell’uomo e del cittadino: i secondi attengono a precisi diritti
costituzionali. Tale art.2 sancisce il principio che le norme della costituzione debbano valere come
preciso limite giuridico nei confronti dei poteri. Rosmini prevede una suprema corte di giustizia, il
Tribunale politica, con il compito di vegliare sull’esecuzione della costituzione e di garantire i
diritti. Il compito del legislativo è quello di regolare le modalità del diritto e di promuovere lo
sviluppo delle ricchezze. L’attività legislativa e la conseguente attività di governo si basano sulle
risorse economiche della società, che vengono destinate alle spese necessarie per l’organizzazione
politico-amministrativa dello Stato. Una corretta amministrazione della cosa pubblica è garantita
quando le imposte sono votate da coloro che debbono pagarle: la rappresentanza si articola nelle
due Camere dei maggiori e dei minori proprietari, distinte in base al reddito. L’elettorato attivo è
limitato ai cittadini che hanno un reddito soggetto ad imposta: Rosmini è contrario a fissare un
censo alto per il diritto elettorale, come un censo uguale per tutti (i piccoli proprietari si
coalizzerebbero contro i grandi). Il presupposto di questo sistema è che il carico fiscale venga
prelevato sulla base delle imposte dirette, con esclusione dei redditi più bassi di sussistenza,
riducendo al minimo le imposte indirette che gravano sui consumi.
Il suffragio universale favorisce la formazione e la lotta delle fazioni e la corruzione elettorale e
deresponsabilizza gli elettori. Infine esprima una rappresentanza che cerca di realizzare un
socialismo di Stato, che finisce per accresce a dismisura la spesa pubblica, deprimendo la
produzione.
L’esclusione dei non proprietario dall’elettorato attivo, per quanto riguarda le due Camere, è
controbilanciata dall’estensione dell’elettorato passivo a tutti i cittadini.

Rosmini riconosce l’importanza della quesitone sociale, la cui soluzione non può essere realizzata
con riforme radicali della società, che finerebboro con l’annullare i diritti sostanziali dei cittadini.
La soluzione della questione sociale, cioè il progresso civile e politico delle classi lavoratrici, deve
essere promossa dal governo nel senso che deve operare in modo che l’intera società realizzi le
premesse di quel progresso. Lo Stato deve garantire:
- Pronta ed efficace giustizia per tutti
- Concorrenza a tutti i beni sociali
- Facilità di migliorare la propria fortuna
- Lo sviluppo dell’industria e degli studi
- La miglior condizione economico morale
Rosmini riconosce allo stato il diritto di promuovere quelle iniziative economiche, che essendo
necessarie per il progresso sociale, dovessero risultare eccessivamente onerose per i privati. Lo
Stato deve fondare la sua attività di governo sull’opinione pubblica prevalente. Rosmini è scettico
nei confronti dei partiti, che sono un male necessario del sistema rappresentativo: ripone invece la
sua fiducia nel comune sentimento della giustizia, nella ragion pratica delle masse illuminata da

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quella degli individui. Di qui la necessità che l’opinione pubblica si formi mediante il dibattito e il
confronto delle singole opinioni, che si rende possibile tramite la libertà di parola, di stampa, di
associazione e di riunione.

CAP. 31 – MARX (1818 – 1883) e ENGELS (1820 – 1895)

Si interessarono alla questione sociale nell’ottica della filosofia hegeliana, la loro speculazione è
indissolubilmente connessa alla concezione materialistica della storia. Entrambi credevano che il
comunismo, inteso come processo storico di liberazione dell’uomo, non può essere scisso dalla
cultura: filosofia, storia, scienza, economia e politica finiscono per coincidere. La politica, intesa
come studio delle tensioni e dei conflitti fra le classi, diventa una vera e propria scienza della
storia, che ci consente di intendere il nesso sussistente fra gli avvenimenti politici dei diversi paesi,
in quanto compartecipi di un processo di sviluppo storico che ha il suo fondamento nella dinamica
della produzione.

La critica della concezione hegeliana dello Stato muove dalla osservazione di Feuerbach, che nella
dialettica hegeliana occorre invertire i due termini fondamentali, per cui la realtà diventa il
soggetto e il pensiero diventa predicato. Hegel finisce per “rivestire” la immediata realtà empirica
di una figura concettuale che presenta l’essenza dello Stato; si ha quindi una “assolutizzazione” ed
una piena legittimazione filosofico-politica di una empirica realtà politica e degli interessi materiali
che garantisce. Acquista particolare importanza il rapporto società civile – stato. Gli antichi ordini,
che nella concezione hegeliana consentono la mediazione fra soc.civile e stato, nono possono più
svolgere questa funzione. Le caratteristiche della società contemporanea post-rivoluzione
francese si basano sulla trasformazione dei vecchi ordini in vere e proprie classi sociali, fondate
sulla differenza della vita privata dei singoli. L’attività che il singolo svolge nella società civile non
determina più uno status sociale: la società organica del medioevo si è disarticolata nella
moltitudine degli individui, che partecipano alla vita politica in quanto cittadini, cioè con una
qualificazione che prescinde dalla loro attività e corrispondenti status sociali, Per Marx le attuali
classi sociali sono espressione della separazione come legge generale della società: l’uomo è
separato dal suo essere generale, cioè della sua concreta umanità à si determina una scissione
che investe la possibilità sociale di ciascun associato, dalla quale scaturisce l’individualismo.
La soluzione hegeliana cerca di conciliare il sistema medievale degli ordini con il moderno potere
legislativo su base rappresentativa: la contraddizione può essere superata mediante un nuovo
ordinamento della società, che elimini la situazione di atomismo in cui versa, restituendo
all’individuo la sua umanità. Ciò presuppone una trasformazione radicale del concetto di elezione:
essa è il rapporto immediato e diretto, non rappresentativo ma reale, della società civile con lo
stato politico. La contraddizione stato-soc.civile viene così risolta ampliando il suffragio a attivo e
passivo a tutti i cittadini. Solo mediante questa riforma la società civile perviene ad una reale
esistenza politica e si sostituisce allo Stato. Si ha in tal modo la vera attuazione della democrazia,
che è l’essenza di ogni costituzione politica à la costituzione, la legge e lo Stato sono
un’autodeterminazione del popolo, si che lo Stato si risolve nella soc.civile.

Ne la questione ebraica, per la critica della filosofia del diritto di Hegel Marx osserva che il
problema dell’emancipazione non può essere limitato agli Ebrei, in quanto investe la stessa
condizione umana. La critica della religione formulata da Feuerbach va portata a suo compimento:

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se la religione è il risultato dell’alienazione dell’uomo, questi deve liberarsi dall’illusione religiosa
per riappropiarsi della sua umanità. La filosofia nella sua istanza critica deve diventare una vera e
propria forza materiale, in quanto deve porsi come fine quello di muovere le masse à si tratta di
porsi come obiettivo una rivoluzione radicale della società, che consegua la universale
emancipazione umana. La condizione affinché una classe possa promuovere tale lotto è che essa si
renda interprete delle esigenze di libertà dell’intera società. Ma perché una classe possa assumere
questo ruolo, occorre che tutti i “difetti” vengano concentrati in un’altra classe.
Il proletariato accoglie su di sé tutte le oppressioni e le ingiustizie della società; nella sua esistenza
materiale vive la negazione dell’umanità dell’uomo ed esprime per ciò stesso l’esigenza di un
recupero integrale dell’uomo. Marx conclude il suo scritto precisando che la “filosofia trova le sue
armi materiali nel proletariato” e “il proletariato a sua volta trova nella filosofia le sue armi
spirituali”.

Engels sottolinea il fatto che la conseguenza più rilevante della nuova organizzazione economica
capitalistico-industriale è la formazione di una nuova categoria sociale, il proletariato, alla quella
spetta il compito di una trasformazione radicale dell’ordine sociale. L’Inghilterra ha compiuto,
nell’ultimo cinquantennio, una profonda trasformazione dal punto di vista economico sociale, che
deve essere considerata una rivoluzione.
Viene sottolineato che è proprio la rivoluzione industriale che ha svuotato di qualsiasi contenuto
lo Stato e la sua organizzazione politica: la funzione della scienza economica è quella di riportare
nell’ambito delle categorie economiche tutti i problemi della politica. Prima di Smith, e cioè prima
della rivoluzione industriale, l’economia era un ramo dell’attività dello Stato, mentre Smith,
secondo Engels, ha elevato l’economia dello Stato a essenza e fine dello stato (la proprietà è
l’essenza e l’arricchimento il fine dello Stato). Lo Stato diventa un mero rivestimento della
concreta realtà sociale.
Engels svolge una critica radicale della costituzione e delle istituzioni giudiziarie inglesi, per
dimostrare come le libertà politiche e civili siano apparenti e che nascondano il potere reale dei
grandi parti (l’aristocrazia terriera, l’aristocrazia del denaro e la democrazia lavoratrice). La
democrazia esprime la lotta delle classi lavoratrici contro quelle possidenti, ma non è in grado di
risolvere i problemi sociali, se intesa come sistema politico.
Anche Engels ritiene che l’avvento della società socialista dipende dalla presa di coscienza del
proprio ruolo da parte della nuova classe sociale. Le contraddizioni del sistema industriale
capitalistico, le ricorrenti crisi commerciali, provocate dalla sovrapproduzione, la conseguente
concentrazione del capitale in poche mani e la proletarizzazione della media e piccola borghesia,
rendono inevitabile una soluzione rivoluzionaria della questione sociale.

Ne I manoscritti economico-filosofici di Marx è essenziale il rapporto tra economia politica, in


quanto studio dell’organizzazione del lavoro, e la filosofia, che non può essere più scissa dalla
concreta esistenza umana e quindi dall’attività che rende possibile questa esistenza: il lavoro.
Viene evidenziato il rapporto di conflitto latente che sussiste fra lavoro e capitale, e la radicale
contraddizione dell’organizzazione dell’economia capitalistica, che produce ricchezza per i
possidenti e miseria per i lavoratori. L’effetto della libera concorrenza, che finalizza la produzione
alla ricerca del profitto, determina crisi di sovrapproduzione, con conseguente chiusura di
industrie, disoccupazione e caduta dei salari. (secondo Smith il salario è dato dalla quantità di beni
che sono necessari per far vivere il lavoratore e per mantenere i suoi figli à il termine
dell’economia capitalistica è l’infelicità della società).
Il lavoro è la l’energia dalla quale promana la ricchezza e quindi l’intera organizzazione à esse non
sono altro che il risultato dell’alienazione del lavoratore, cioè del trasferimento della sua energia

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nelle merci prodotte. In questo processo di oggettivazione l’uomo si aliena nelle cose che egli
stesso produce. La miseria significa riduzione della ricca e completa personalità dell’uomo, di tutte
le sue capacità, all’istinto bestiale della mera sopravvivenza e quindi alla negazione dell’umanità
dell’uomo e della stessa civiltà. Il lavoro non è più espressione della libera energia creatrice
dell’uomo, in cui si attua la sua compiuta e vera personalità, ma è imposizione.
Tale situazione reca in sì stessa, per un interno processo dialettico, le ragioni della sua stessa
negazione: si perviene al terzo momento della dialettica hegeliana à la negazione dell’economia
capitalistica e della società borghese che ne è l’espressione, è una conseguenza necessaria della
situazione di totale alienazione nella quale si trova la classe lavoratrice. La contraddizione fra
società astratta e reale deve essere risolta nel comunismo, che si instaura allorché il lavoratore
potrà riappropriarsi del suo lavoro.

Nei manoscritti Marx distingue tre forme di comunismo: il comunismo “rozzo”, che si fonda su una
mera soppressione della proprietà privata, il comunismo politico, democratico e “dispotico” che
pur abolendo lo Stato non risolve l’alienazione umana, ed infine il comunismo proposto da Marx,
che attua “l’appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo.
Da questo punto di vista il comunismo si presenta come negazione della negazione, cioè come
negazione del lavoro alienato. “L’intero movimento della storia è quindi l’atto reale di generazione
del comunismo”. La politica, per Marx, è intimamente connessa a questa azione pratica, con la
quale è tolta la proprietà privata: la politica si riferisce quindi all’azione rivoluzionaria, mentre la
politica tradizionale è espressione di un’organizzazione caratterizzata dalla coercizione. Lo Stato si
presenta in Marx come l’istituzione che cerca di risolvere politicamente e non socialmente i
problemi reali della società.

Nell’ideologia tedesca i due autori pervengono ad una prima esposizione sistematica della
concezione comunista. Si precisa la critica a Feuerbach per la concezione del materialismo inteso
come realtà oggettiva: esso va rivalutato come la dimensione umana del processo di divenire
storico. Acquista valore determinate l’attività dell’uomo, in quanto da essa promana la realtà nella
quale si trova l’uomo à la materiale attività produttiva dell’uomo è la sua caratteristica
essenziale. Propria da questa attività inizia il processo storico di produzione delle condizioni
materiali di vita dell’uomo, che sono il presupposto delle altre attività.
L’ideologia è una conoscenza meramente astratta, che serve a legittimare la condizione e lo status
sociale di chi la formula e quindi a nascondere la realtà. L’acquisizione del fondamento ideologico
della filosofia e soprattutto del pensiero e delle dottrine politiche consente di formulare una
“scienza della storia” e quindi di dare alla concezione comunista un fondamento scientifico.

Acquista particolare rilevanza l’economia, intesa come studio dell’attività produttiva per
comprendere le materiali condizioni di produzione, che costituiscono il concreto sostrato di tutte
le altre relazioni della società. Il principio della divisione del lavoro informa il processo di sviluppo
economico. Il principio della divisione del lavoro informa il processo di sviluppo economico: la sua
più importante applicazione riguarda il lavoro materiale e spirituale, che ha il suo corrispondente
materiale-sociale nella distinzione città-campagna. La separazione tra città e campagna può venir
concepita come il principio di uno sviluppo di un’esistenza e di uno sviluppo del capitale
indipendentemente dalla proprietà fondiaria, cioè di una proprietà che trova le sue basi solo nel
lavoro e nello scambio. La formazione di questo tipo di proprietà, il capitale, è stata possibile frazio
allo sviluppo del commercio à presupposto per il sorgere delle manifatture e causa scatenante
del terzo periodo della proprietà privata, cioè la costruzione della grande industria.

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Gli effetti dell’industrialismo sono l’universalizzazione della concorrenza, i moderni mezzi di
comunicazione e il mercato mondiale: la trasformazione di ogni capitale in capitale industriale.
Con la grande industria ogni nazione tende a dipendere dalle altre ed inizia un processo di radicale
trasformazione delle precedenti forme di vita, sì che tutte le relazioni vengono finalizzate alle
esigenze della produzione. Pervenuto al suo ultimo stadio di sviluppo, il sistema industriale rivela
le sue contraddizioni fra le forze produttive e la forma di scambio: la libera concorrenza determina
crisi di sovrapproduzione, caduta dei salari, concentrazioni di capitali, monopoli e miseria dei
lavoratori. Si verifica così la contrapposizione tra capitale e lavoro.
Due sono le necessarie conseguenze; la prima si riferisce alla separazione delle forze produttive
dagli individui che le fanno sussistere (alienazione), la seconda riguarda la formazione della classe
proletaria. Il proletariato deve sopportare tutti gli oneri della società senza goderne i vantaggi e
che spinta a forza fuori dalla società, viene forzata ad una radicale antitesi con tutte le altre classi.
Il risultato della rivoluzione è l’instaurazione della società comunista.
Lo stato nasce dalla contraddizione fra l’interesse del singolo e quello collettivo: le lotte politiche
non sono altro che forme illusorie nelle quali vengono combattute le reali lotte delle diversi classi
tra loro. Lo stato va considerato nella sua materiale realtà, cioè come organizzazione che
garantisce e fa valere il potere della classe dominante: esso è strumento della produzione
capitalistica. Il comunismo si afferma come appropriazione da parte del proletariato di quelle
stesse forze produttrici, rendendo ciascun individuo titolare delle stesse, in grado di poter
partecipare, con la sua attività sociale, alla direzione ed al controllo delle forze produttrici à si
attua la piena e vera libertà dell’individuo, che può realizzarsi come “uomo totale”.
Poiché il comunismo abolisce le contraddizioni fondate sulla divisione del lavoro e sulla proprietà
privata risulta che anche lo Stato viene abolito, sostituito dalla libera organizzazione sociale,
dall’associazione dei liberi lavoratori. La produzione si fonderà su un’organizzazione del lavoro in
cui sia consentita la possibilità di variare le attività lavorative per promuovere ed arricchire le
attitudini e le capacità di ciascuno.

Il pensiero economico di Marx si concentra sull’individuazione delle leggi fondamentali


dell’economia capitalistica per intenderne gli sviluppi. L’apprendimento di queste leggi permette
all’uomo di rendersi conto del modo in cui operano le forze produttive, per poterle governare
secondo un piano razionale.
Il capitale è il complesso dei beni destinati alla produzione e sussiste per la disponibilità da parte
del capitalista di mezzi finanziari. Esso deve produrre per riprodursi à caratteristica essenziale del
capitale è il suo processo di accumulazione. Esso va concepito come una vera e propria potenza
sociale, che tende ad espandersi senza alcun limite.
Per spiegare la formazione del capitale si richiama alla teoria smithiana-ricardiana del valore dei
beni, uguale al lavoro necessario per produrli: il lavoro è una merce che viene venduta dall’operaio
ed acquistata dal capitalista. Il salario dell’operaio corrisponde al tempo di lavoro necessario a
produrre i beni necessari alla sussistenza ed a riprodursi come forza lavoro; l’operaio però lavora
per un periodo di tempo superiore a quello richiesto per la produzione dei beni che gli sono
necessari à si genera un plusvalore di cui si appropria il capitalista e che consente il processo di
accumulazione.
La contrapposizione fra capitale e lavoro, basata sul fatto che il capitale per vivere deve sfruttare il
lavoro, manifesta la radicale contraddizione del capitalismo. Esso, a motivo della libera
concorrenza, spinge all’incremento delle forze produttive ed a una riduzione dei costi: ne risulta
un aumento della produzione, cui però non corrisponde un adeguato aumento dei salari, che sono
contenuti in limiti inadeguati alle possibilità di consumo. I lavoratori disoccupati, generano
concorrenza nel mercato del lavoro, riducendone il prezzo. In tal modo l’aumento della

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produzione non è consumato, determinando una crisi di sovrapproduzione. Le crisi di
sovrapproduzione corrispondono alla fine di un ciclo economico, che caratterizzano il processo di
sviluppo del capitalismo. Per superare la crisi ed iniziare un nuovo ciclo, il capitalismo deve
perfezionare e rinnovare le tecniche di produzione, aumentare il capitale fisso e diminuire quello
variabile, destinato ai salari. Ciò causa la formazione di monopoli e trust internazionali che
conquistano nuovi mercati: ogni ciclo economico dà nuovo impulso alle forze produttive ed allo
stesso tempo acuisce le sue contraddizioni à da una parte una ricchezza “sociale” sempre più
grande, dall’altra un pauperismo sempre più diffuso fra la classe lavoratrice.

Nell’analisi marxiana degli avvenimenti politici francesi fra il 48 e il 51, la politica è caratterizzata
da una molteplicità di forze, che non possono essere ricondotte al piano dei contrasti sociali, ma
che finiscono per confluire nello Stato, che ha una sua corposa realtà istituzionale.
La sovrastruttura politica ha uno spessore istituzionale, ideologico-culturale, giuridico che è
estremamente difficile spezzare. La dialettica delle classi è certamente riconducibile alla
polarizzazione borghesia-proletariato, ma, colta nel suo concreto contesto storico, si mostra
differenziata. La dinamica delle classi finisce per rafforzare l’autonomia dello Stato (ad es
Napoleone). Questo stato trova nel sistema delle imposte e nella corrispondente amministrazione
tributaria i mezzi per affermare la sua autonomia economica, mentre l’apparato burocratico
amministrativo gli consente un efficace controllo degli interessi. La logica della produzione
capitalistica tende ad eliminare la piccola proprietà contadina: disaggregata la sua base sociale, lo
stato si disarticola.
La reale soluzione del conflitto società civile – stato richiede, secondo Marx, la costituzione di un
nuovo potere centralizzato, necessario per realizzare il passaggio dalla società capitalistica a quella
comunista (dittatura del proletariato, sul modello della costituzione giacobina del 1793).

L’instaurazione della comune, avvenuta a Parigi nel 1871, espresse un altro modello di Stato,
alternativo a quello giacobino. La Comune fu difesa da Marx, che la considerò come il primo
esperimento di un potere rivoluzionario da parte del proletariato. Il modello di Stato proposto
dalla Comune riflette indubbiamente più le teorie di Proudhon, che quelle di Marx: rappresenta il
tentativo di realizzare l’autogoverno delle forze produttive, mediante una radicale
democratizzazione dell’amministrazione delle città. Lo stato francese si sarebbe così trasformato
in una federazione di liberi comuni.

Le idee di Marx sul modo con cui si sarebbe instaurato il comunismo, si riferiscono agli
avvenimenti politici europei fra il 1840 e il 1870. È lo stesso Engels a riconoscere, nel 1895, l’errata
valutazione degli avvenimenti storici del 48 da parte di Marx. La stessa costituzione di partiti
socialisti dimostrava la concreta possibilità di una trasformazione legale dello stato borghese in
una democrazia socialista. Il compito che si poneva alla socialdmocrazia, secondo Engels, era
quello di allargare sempre di più la sfera del consenso, che consentisse di operare le riforme
necessarie per instaurare la società socialista. Nel 91 Engels affermò che il passaggio alla società
comunista avrebbe dovuto essere attuato mediante uno Stato democratico repubblicano.
Del problema dei rapporti fra Stato socialista e libertà gli scritti di Marx e Engels non offrono
alcuna precisa indicazione.

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CAP. 32 – JOHN STUART MILL (1806 – 1873)

Tra il 44 ed il 66 le forze politiche e sociali inglesi avevano avviato, pur fra lotte e contrasti, un
processo di modernizzazione delle istituzioni politiche ed amministrative, con il quale si operava
una riforma della vecchia struttura aristocratico-feudale. L’Inghilterra diventò così il punto di
riferimento per chi lottava contro i governi assoluti della Restaurazione. Già nel decennio
successivo a Waterloo cominciarono ad esprimersi all’interno della stessa democrazia, che
deteneva il monopolio della rappresentanza parlamentare, iniziative per proporre il problema
della riforma del sistema elettorale.
La nuova legge elettorale prevedeva la partecipazione della nuova classe media al governo della
cosa pubblica (Reform Bill).
Durante il governo tory di Wellington furono deliberate due leggi con cui si abolì il Test Act, che
vietava ai cattolici ed ai protestanti non conformisti di occupare cariche nell’amministrazione dello
Stato e nelle amministrazioni locali, e si concedeva la parità dei diritti politici ai cattolici.
Nel 1833 fu abolita la schiavitù nell’impero britannico e fu varato il Factory Act, la prima legge sul
lavoro nelle fabbriche, mentre nel 1835 fu approvato il Municipal Corporations Act, la prima
riforma in senso democratico dell’amministrazione locale. Tale modernizzazione continuò nell’età
vittoriana, con l’Anticorns Law, con la quale si abolirono i dazi protettivi del grano, accogliendo il
principio del libero scambio. L’avvento al governo delle forze politiche di ispirazione liberale
(Gladstone) rese possibile la seconda riforma elettorale del 66, con la quale il diritto di voto fu
allargato anche ai lavoratori non salariati. Nel 1884 tale diritto fu ampliati a tutte le classi
lavoratrici.

La sua formazione culturale riguarda l’utilitarismo di Bentham e Carlyle e Coleridge.


Successivamente allargò i suoi studi, riconoscendo una psicologia associativa, acquisendo la
convinzione che la cultura era intimamente connessa con l’individualità. Filosofia, etica ed
economia si presentarono a Mill come le necessarie premesse per svolgere un discorso politico
che tenesse conto dei principali problemi politici del suo tempo.

Mill cercò di definire una vera e propria scienza generale della società, distinta in statica sociale e
dinamica sociale, che consentisse di formulare una dottrina scientifica del progresso sociale;
tuttavia ne mancavano i presupposti.
La morale, il diritto e l’economia pongono in risalto il nesso sussistente tra individuo, individui e
società. Il fine della vita dell’individuo, la felicità, può essere conseguito solamente con un
ordinamento sociale che elimini gli ostacoli materiali e culturali al suo conseguimento.
La morale non è altro che il sentimento della socialità, che induce gli individui ad associarsi. Mill
ritiene che il principio della giustizia reclama la progressiva eliminazione delle ineguaglianze
politiche e sociali, non più giustificate dal progresso della società e che non consentono a
numerose categorie sociali di conseguire la felicità.
I progressi dell’inizio secolo hanno suscitato nelle classi lavoratrici un’aspirazione all’autonomia,
che possono essere conseguite solamente mutando lo status del lavoratore salariato in quello del
lavoratore proprietario. Società corporative e altre forme di associazione sono il punto di arrivo di
un processo di trasformazione dell’organizzazione economica, fondata sulla proprietà del prodotto
del proprio lavoro à la distribuzione della ricchezza e dei ruoli sociali si fondano sul merito.
Mill si rende conto dei rischi insiti in una concezione economicistica della società, che vedrebbe
nell’incremento della ricchezza l’unico fine dell’uomo, che non avverte più la “solitudine”, da cui
scaturiscono le energie morali ed intellettuali. Il nuovo ordine sociale deve invece creare le
condizioni affinché gli uomini non siano più assillati dalla gara per le ricchezze.

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Mill nutre profondo dissenso per le teorie socialiste; riconosce che la concorrenza produce alcuni
mali, ma la sua eliminazione ne determinerebbe di maggiori, in quanto verrebbe a mancare
qualsiasi incentivo all’innovazione à “ristagno”.

I temi principali del suo dibattito sono la libertà ed il governo rappresentativo. Esamina la natura e
i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare: nelle società antiche e medioevali
la libertà era stata riferita alle limitazioni che si era riusciti ad imporre al potere. Con l’avvento
delle costituzioni democratiche, fondate sul principio della sovranità popolare, si è ritenuto che
non sussiste più l’esigenza di individuare e fissare i limiti del potere, dato che il governo è
espressione del libero consenso del popolo. Per Mill le formule di “governo di sé stessi” o “il
potere del popolo su sé stesso” sono sostanzialmente astratte. Il sistema democratico fa derivare
tutti i poteri dalla volontà del popolo; li unifica e li concentra nella maggioranza che si afferma
nelle elezioni. Una volta impadronitasi del potere, la maggioranza tende a conservarlo à da qui
scaturisce la cosiddetta tirannia delle maggioranze. Mill nota che le società contemporanee
tendono ad estendere sempre più il loro potere sull’individuo; ad esempio si assiste alla
concezione comtiana della nuova religione dell’umanità, che dovrebbe sostituirsi in tutto e per
tutto alle religioni tradizionali. Il principio che consente di definire rapporti fra l’individuo e la
società e di stabilire il limite del potere di questa nei confronti degli associati si fonda sull’esigenza
della morale utilitaristica di garantire la convivenza sociale. La società ha il diritto di usare la forza
e di costringere l’individuo ad un determinato comportamento solo quando questo arreca danno
agli altri. Solo l’individuo è l’unico giudice sovrano dei mezzi più adatti per conseguire il suo bene
morale à sussiste una sfera intangibile da parte del governo, nella quale l’individuo esprime con
legittimità la sua libertà. Tale sfera si riferisce innanzitutto alla coscienza ed alla libertà di pensiero.
Altrettanto importante è la libertà delle “tendenze”, cioè la libertà riconosciuta di indirizzare la
propria attività e di svolgerla secondo quanto si ritiene più confacente alle proprie inclinazioni.

Mill pone in risalto l’importanza della partecipazione attiva degli individui alla formazione del
proprio patrimonio culturale: un sapere passivo non forma una personalità à occorre che
l’individuo riscopra da sé stesso le verità che gli vengono proposte. Ciò è possibile solamente
mediante un atteggiamento critico, quale scaturisce dalla libertà di pensiero. Per sviluppare
questa forma di “ragione” non basta un’indagine singola, ma risulta necessario il confronto
dialettico delle diverse opinioni.
La “verità è una questione di combinazioni e di conciliazioni di contrari” à la politica e il sistema
politico si fondano su due partiti, il conservatore ed il radicale. Solo in tal modo si riesce ad
individuare ciò che deve essere veramente conservato/rinnovato.
Particolare rilevanza riveste l’opinione della minoranza: essa rappresenta in genere gli interessi
che sono stati trascurati; i dissidenti esprimono sempre qualcosa che “merita di essere ascoltato e
la verità perde qualcosa col loro silenzio”.
L’elemento principale della felicità umana, e il fattore determinante del progresso individuale e
sociale, devono essere ricondotti allo sviluppo autonomo dell’individualità. Il rischio della società
contemporanea caratterizzata dallo sviluppo economico-industriale è di creare condizioni sociali
che tendono a trasformare l’uomo in una macchina. Tale società è caratterizzata da un processo di
livellamento delle categorie sociali. La conseguenza è che la società ha preso il sopravvento
sull’individualità, di qui la necessità di definire i limiti del potere della società sull’individuo.

Il problema di questi rapporti è affrontato nello scritto dedicato all’analisi delle istituzioni
rappresentative. La tesi di Mill è che la miglior forma di governo deve essere ritrovata fra i vari

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sistemi rappresentativi. Il governo rappresentativo richiede impegno da parte degli individui, che
sollecita le loro capacità intellettuali e morali: perciò bisogna garantire libertà di pensiero.
L’ipotesi che il governo migliore sia quello di un monarca assoluto illuminato non tiene conto che
questa forma di paternalismo politico finisce col privare il corpo sociale delle energie necessaria al
suo sviluppo ed anche alla sua esistenza à si elimina il movimento della società, riducendola in
uno stato di quiete e di immobilità, che costituisce l’inizio di un processo di decadenza.
Devono essere individuate le condizioni che consentono al governo rappresentativo di operare
efficacemente: occorre che il popolo sia disposto ad accogliere tale forma di governo, cioè che il
suo sviluppo morale, civile ed intellettuale sia tale da consentirgli di partecipare alla vita politica.
Il parlamento può esercitare un efficace controllo sull’esecutivo solo se è sostenuto da una solida
opinione e dalla fiducia del popolo.
Ogni sistema costituzionale rappresentativo si fonda sull’equilibrio delle “parti” che lo formano
(Corona, governo, Parlamento) à esistono limiti legali, indicati dalle norme consuetudinarie della
costituzione, cioè della morale politica positiva del paese. Occorre riconoscere all’elemento
popolare una supremazia in tutti i settori dell’attività governativa, corrispondente alla sua forza
reale nel paese: ciò significa riconoscere la più larga partecipazione del popolo alla vita politica.
Occorre anche allargare la partecipazione dei cittadini per quanto riguarda le amministrazioni
locali. Le assemblee parlamentari devono svolgere un’attività di indirizzo e di controllo nei
confronti del governo, rendendosi interpreti dei grandi orientamenti. Per Mill tali assemblee
parlamentari non sono assolutamente idonee a svolgere un’attività amministrativa, poiché essa
richiede una competenza specifica à l’assemblea non è in grado di legiferare, lavoro che
dovrebbe essere svolto da una commissione di esperti che prepara il progetto di legge, secondo le
indicazioni formulate dall’assemblea, alla quale spetta la delibera in merito alla sua approvazione.
In ogni ordinamento costituzionale sussiste la tendenza del “potere prevalente” a diventare
l’unico potere. Si tratta di creare e sostenere un altro potere che possa equilibrare quello
democratico à nella Camera dei Comuni sussiste una minoranza che faccia da freno alla
maggioranza, e dovrebbe essere costituita dalle minoranze intellettuali.
Le assemblee legislative hanno un limite etico – politico che non dovrebbero mai infrangere: non
debbono farsi promotrici di una legislazione di classe; ed è questo il pericolo maggiore al quale si
trova esposto il sistema rappresentativo: l’unico rimedio per evitarlo è quello di fondare la
rappresentanza politica sulla pluralità e dialettica degli interessi.
Mill afferma così il primato del momento etico-politico, mediato dalla cultura, dalla saggezza (la
sofrosune), sugli interessi particolari dei gruppi o delle classi sociali.

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