Bio-politica: la riflessione inizia nella prima metà degli anni ’70. F. segue la trasformazione del
paradigma dell’età moderna: la prima età moderna (‘500/prima metà ‘600) vede l’affermarsi delle
dottrine della sovranità; questa sovranità si esprime attraverso la rivendicazione dell’esclusivo
diritto di vita e di morte da parte del sovrano sui sudditi (questa espressione è puramente
discorsiva e nasconde una realtà diversa da ciò che enuncia); in effetti la sovranità è un fenomeno
umano e non può creare la vita, pertanto il potere di vita e di morte si riduce al potere di uccidere
legalmente i sudditi. Con il trascorrere delle generazioni, dalla seconda metà del ‘600 e dalla prima
metà del ‘700, si nota un cambiamento di paradigma: lo statista più forte non è più quello che
incute terrore, ma colui che esercita il suo potere su una popolazione numerosa e benestante;
l’attenzione della politica si sposta su un piano diverso e il potere politico comincia a cercare di
manifestarsi come creatore delle condizioni che permettono di prolungare la vita e di migliorarne
la qualità (non si orienta alla morte, ma alla vita, al bios).
Questo slittamento si verifica nel XVIII secolo, perché con l’emergere della civiltà dei lumi, della
scienza moderna, con l’uomo che vuole governare e sottomettere le forze della natura, la scienza
comincia a produrre dei saperi specialistici che si orientano al benessere della società (la medicina
da arte si evolve a scienza e dà vita alla particolare disciplina dell’igiene pubblica; si studiano i
vaccini per evitare le epidemie e ridurre la mortalità; si cerca di migliorare le condizioni
economiche; la scienza inizia ad applicarsi all’agricoltura, con maggiore nutrimento e minore
fragilità, e quindi maggiore opportunità di prolungare la vita delle diverse classi sociali). Il
paradigma che si afferma viene denominato da F. come “bio-politica”, politica della vita; da allora i
governanti dei paesi più evoluti cercano la loro legittimazione nella loro capacità di salvare e
rendere migliore la vita dei loro cittadini.
F. si rende conto che l’affermazione di ciò non può dar conto dei fenomeni politici del XX secolo e,
in particolare, del totalitarismo e di forme di governo che si esprimono nella violenta repressione
dell’opposizione e nel terrorismo sistematico e che si dimostrano orientanti allo sterminio
sistematico di una parte della popolazione. Se il paradigma della bio-politica è stabile come
legittimazione, allora non è in grado di spiegare i fenomeni politici più devastanti del XX secolo.
Tuttavia, F. trova la possibilità di collegare anche questi ad esso e di dimostrare che la bio-politica è
collegata con l’emergere del razzismo, che genera il suo opposto, la politica della morte. “lo Stato
totalitario convince i cittadini che per la sopravvivenza, il benessere e la prosperità è necessario
eliminare una parte della popolazione. Questa parte eliminata consentirà al resto della
popolazione di vivere in prosperità.”
Egli scrive che la bio-politica, collegata al razzismo, è al fondamento stesso del totalitarismo. Il
razzismo si manifesta quando a questo ragionamento si aggiunge l’indicazione di quella parte della
popolazione sulla base di caratteristiche ascrittive non scelte; è un modo per stabilire una cesura di
tipo biologico, all’interno di un ambito biologico, e tutto questo permetterà al potere di trattare
una popolazione come una mescolanza di razze e di trattare le specie di cui si è fatto carico nei
sottogruppi che costituiranno le razze; queste sono un’invenzione del potere totalitario. È questa
la prima funzione del razzismo: frammentare quel continium biologico che il bio-potere investe; la
seconda funzione del razzismo: permettere di stabilire una relazione positiva di tipo “più ucciderai
più farai morire” o più efficace “più lascerai morire più tu stesso vivrai””. Il razzismo permetterà di
stabilire una relazione tra la mia vita e la morte dell’altro, che non è una relazione militare o di
scontro, ma una relazione di tipo biologico. La morte dell’altro, nella misura in cui rappresenta la
mia sicurezza personale, la morte della razza inferiore, è ciò che renderà la vita in generale più
sana e più pura.”
Governamentalità: è un neologismo che non ha un significato preciso; è una parola che usa nelle
sue opere della maturità che spiega così: “con la parola ‘governamentalità’ intendo tre cose:
primo, l’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, che permettono di esercitare questa
forma specifica e complessa di potere che ha nella popolazione il bersaglio principale,
nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento
tecnico essenziale; secondo: la tendenza che afferma la preminenza di questo tipo di potere che
chiamiamo ‘governo’ su tutti gli altri (sovranità, disciplina) con lo sviluppo di una serie di saperi;
terzo: il processo, o meglio il risultato del processo, mediante il quale lo stato di giustizia del
Medioevo, divenuto stato amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato
‘governamentalizzato’”.
Abbiamo un problema, perché questa esplicazione del termine non ne spiegano il significato, ne
sono una illustrazione; il termine è il risultato della fusione di due parole, governo e mentalità; F.
non ha semplicemente parlato di ‘mentalità di governo’ perché vuole esprimere un concetto molto
più complesso che ormai è diventato parte costitutiva della mentalità sociale ed è parte
fondamentale della cultura socio-politica; in questo concetto c’è un elemento critico molto
importante che è rivolto soprattutto alla storia delle dottrine politiche; nell’età moderna si è
espresso il concetto di sovranità, cioè potere esclusivo che si esprime nella funzione legislativa; da
Bodin a Rousseau, essa consiste nel potere di dare la legge a tutti senza ricevere la legge da
nessuno e senza contribuire con altri in questa attività; il governo si presenta come un’agenzia del
sovrano, che resta il legislatore. D questo punto di vista, la teoria politica è disgiunta dalla prassi
sociale, e uno studio della politica che si concentri solo sulla teoria perde il reale andamento della
storia politica, perché questa si trasforma con la storia della società.
Accade che, mentre si consolida la preminenza teorica del potere sovrano come potere legislativo,
acquista sul piano della concreta realtà maggiore rilevanza un potere che si definisce esecutivo, ma
che di fatto non si limita ad eseguire gli atti del legislativo ma ha una responsabilità più grande che
riguarda la gestione complessiva della vita sociale. Questa attività di governo si basa su specifiche
competenze e specifici compiti e quello più importante è l’economia politica. L’espressione
economia deriva dal greco ‘oikos’ e ‘nomos’, cioè indica la gestione dello spazio domestico (fino
alla fine del ‘500 indicherà solo questo); con Bodin, si ha l’idea che il capo famiglia diventa
cittadino quando esce dalla sfera domestica, quindi c’è una separazione tra le due sfere. Oggi si
tende a considerare l’economia come una delle principali preoccupazioni dell’azione di governo,
sicché l’economia è diventata un fattore di organizzazione della sfera pubblica e quindi ha
acquisito la caratteristica della politica. Ha come obiettivo il benessere del corpo sociale, il
progresso economico, quindi è una forma di sapere che incide sulla forma di gestione governativa
della società. Col trascorrere delle generazioni, mentre sul piano della teoria si celebra la sovranità
come potere dello Stato, l’aspettativa di benessere e sicurezza, è rivolta al governo. La
trasformazione di un atteggiamento culturale e sociale più pervasivo in direzione della
responsabilizzazione del governo e anche di aumento del potere e delle capacità di intervento del
governo, è il risultato di questo processo che sposta lo Stato da ente di giustizia a ente di
amministrazione e avviene attraverso un cambiamento di mentalità che si chiama
governamentalità.