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Giustizia e uguaglianza in Platone, Aristotele e nell’articolo tre della Costituzione italiana

Già dall’antichità, l’uguaglianza e la giustizia hanno costituito dei problemi fondamentali, ma anche
controversi della realtà umana. Nel corso dei secoli l’uomo ha infatti affrontato queste tematiche,
interrogandosi sul loro significato e dando loro un’interpretazione che ritenevano più appropriata
per il loro tempo, in virtù di una regolata convivenza sociale, dove il singolo individuo era ed è
evidentemente tenuto a stare. Con la nascita della filosofia, queste questioni sono divenute via via
sempre più dibattute; lo scopo del filosofo è infatti quello di porsi domande e, attraverso un
processo intellettuale, cercare di capirne la risposta, che vada aldilà del superficiale, cogliendone
così i tratti più profondi e nascosti. I due principali pensatori in questo ambito sono stati Platone e
Aristotele, che hanno ampiamente analizzato la questione, mostrando il loro rispettivo punto di
vista. Per Platone i due temi dell’uguaglianza e della giustizia sono strettamente connessi tra loro e
vengono trattati nel dialogo la Repubblica. Nella scala di valori platonica la giustizia assume però
un ruolo dominante sull’uguaglianza, evidente indice del contesto sociale in cui il filosofo si
trovava a vivere, caratterizzato da una forte disuguaglianza, in cui i diritti civili e politici erano
riservati agli adulti liberi, rimanendone così escluse le donne, gli schiavi e gli stranieri.
Preliminarmente è bene precisare che, per Platone, la giustizia riguarda sia il singolo individuo sia
lo Stato. In entrambi i casi essa è armonia; nel singolo individuo fra le tre funzioni dell’anima
(razionale, irascibile, concupiscibile), nello Stato fra le tre classi sociali (filosofi, guerrieri,
lavoratori). Quest’armonia consiste nel predominio di una determinata componente sulle altre; nel
singolo sarà l’anima razionale ad assumere questo ruolo, nello Stato la classe dei filosofi. Pertanto
l’individuo e lo Stato possono essere definiti giusti solo quando ciò si verifica. Inoltre, a ogni
funzione dell’anima e a ogni classe, Platone riconosce tre virtù caratteristiche: la saggezza, propria
dell’anima razionale e dei filosofi; il coraggio, tipica dell’anima irascibile e dei guerrieri; la
temperanza, propria dell’anima concupiscibile e dei lavoratori, ma comune anche alle altre due
funzioni dell’anima e alle altre due classi. Qui si inserisce la giustizia, comprendente tutt’e tre le
sopraddette virtù, la quale, nell’individuo singolo, si realizza quando ogni funzione dell’anima
svolge esclusivamente il proprio ruolo, e, nello Stato, quando ciascun cittadino svolge correttamente
il proprio dovere, avendo solo ciò che gli spetta. Dall’organizzazione in classi dello Stato ideale
platonico deriva una forte diseguaglianza tra i cittadini, dal momento che è ben netta la differenza
tra i governanti, che costituiscono una ristretta cerchia aristocratica, e i governati, vale a dire coloro
che rientrano nella classe dei lavoratori e che sono totalmente esclusi dall'esercizio del potere
politico. I governanti esercitano il loro potere senza che i governati abbiano alcuna possibilità di
controllarne la correttezza. Tuttavia Platone ammette una certa mobilità sociale, in virtù della quale
un cittadino nato in una classe inferiore, mostrando qualità appartenenti ad una classe superiore,
dovrà essere innalzato ad essa, e viceversa. Ciò però avverrà raramente, poiché solitamente i figli
assomigliano ai genitori e da essi ereditano per l’appunto la classe di appartenenza. Un ultimo
indice di antiegualitarismo caratterizzante Platone riguarda, a mio avviso, la sua concezione di
parità di genere; pur riconoscendo alle donne una completa uguaglianza rispetto agli uomini,
legittimandone quindi la partecipazione alla vita politica, il filosofo limita questa uguaglianza a
quelle appartenenti alle prime due classi, escludendone di fatto le lavoratrici della terza. Inoltre,
nelle Leggi, in cui viene delineato uno stato meno idealistico e più realistico, il ruolo delle donne
viene fortemente ridimensionato perché, sebbene esse siano ammesse a partecipare alla vita politica,
possono svolgere solo alcune funzioni, mentre restano escluse da quelle di esclusiva competenza
degli uomini. In conclusione, sebbene lo Stato ideale platonico preveda un barlume di uguaglianza,
rappresentato dalla mobilità sociale, più teorica che pratica, e una limitata parità di genere, ritengo
che esso sia profondamente diseguale e che, in un certo senso, identifichi la giustizia con la
disuguaglianza.  
Come Platone, anche Aristotele sostiene la tripartizione dell’anima: razionale, sensitiva e
vegetativa. Inoltre, egli riconosce due tipi di virtù: etiche (o morali) e dianoetiche (o razionali). Le
virtù etiche, che prenderò in considerazione per capire l’ideale aristotelico di giustizia, non sono
altro che la «disposizione a scegliere il giusto mezzo adeguato alla nostra natura, quale è
determinato dalla ragione, e quale potrebbe determinarlo il saggio». Con questo, il filosofo intende
affermare che l’uomo deve escludere dal suo comportamento i due estremi viziosi dell’eccesso e del
difetto, preferendo a questi la loro via di mezzo. Per fare un esempio, interrogatosi su ciò che si
deve o non si deve temere, l’uomo dovrà scegliere il coraggio, come giusto mezzo tra i due estremi
che sono la viltà e la temerarietà, così come lo è la temperanza tra l’intemperanza e l’insensibilità,
la liberalità tra l’avarizia e la prodigalità, la magnanimità tra la vanità e l’umiltà, e la mansuetudine
tra l’irascibilità e l’indolenza.  In quest’ambito si inserisce perfettamente la giustizia, poiché essa è
la principale delle virtù etiche. Intesa nel suo significato più generale è la conformità alle leggi:
l’uomo e il cittadino giusto sarà quello rigorosamente rispettoso di esse. Parallelamente la giustizia
assume anche un significato più specifico, quello dell’agire in vista di un guadagno, e viene scissa
da Aristotele in commutativa e distributiva. La prima riguarda i rapporti privati tra singoli individui,
la seconda quelli pubblici tra lo Stato e il cittadino. La giustizia commutativa concerne infatti la
sfera dei contratti (la compravendita, il mutuo, il deposito ecc.). Essa regola lo scambio dei beni del
medesimo valore, senza tenere conto delle condizioni economiche e sociali dei singoli contraenti.
Essa coincide quindi con l’uguaglianza, per il semplice motivo che equipara  tutti i cittadini. Nella
giustizia commutativa rientra anche quella riparatrice, consistente nella riparazione a cui ha diritto
un cittadino che ha subito un danno a causa del comportamento fraudolento o criminoso da parte di
un altro. La giustizia commutativa mira, quindi, a pareggiare i vantaggi e gli svantaggi nei rapporti
privati tra cittadini. Quella distributiva consiste invece nella ripartizione dei beni e degli onori tra i
cittadini, in base ai loro meriti. Il criterio meritocratico varierà a seconda del tipo di Stato in cui essi
vivono. In uno Stato aristocratico esso sarà costituito dalla nobiltà; in uno timocratico o censitario
dal livello di reddito; in uno democratico dal semplice possesso della cittadinanza. Da quanto detto,
risulta quindi che, per Aristotele, la giustizia coincide con l’uguaglianza solo nell’ambito della
giustizia commutativa, restandone totalmente esclusa quella distributiva, nella quale la giustizia
coincide pertanto con la disuguaglianza.
A questo punto risulta evidente che Aristotele condivide la medesima posizione antiegualitaria di
Platone, rispetto al quale, però, si mostra molto più radicale, soprattutto nei confronti delle donne,
delle quali ribadisce la profonda inferiorità intellettuale e biologica rispetto agli uomini. Dal punto
di vista dell’inferiorità intellettiva, nella Politica scrive:

«Tutti hanno le varie parti dell'anima, ma in misura differente, perché lo schiavo non ha affatto la
facoltà deliberativa, la femmina ce l'ha, ma incapace e il fanciullo ce l'ha, ma imperfetta.»
(Politica, 1260a, 13-14)

Per quanto concerne il punto di vista biologico scrive:

«[…] il maschio è portatore del principio del mutamento e della generazione, […] la femmina di
quello della materia.»; Poiché «[…] la prima causa motrice cui appartengono l’essenza e la forma
è migliore e più divina per natura della materia, il principio del mutamento, cui appartiene il
maschio, è migliore e più divino della materia, a cui appartiene la femmina.» (Historia animalium,
libro VII)

In conclusione, se in Platone vi è una certa attenzione nei confronti del concetto di uguaglianza, con
la concezione di una scarsa mobilità sociale e di una limitata parità di genere, in Aristotele questa è
assente, eccezion fatta per la giustizia commutativa. 
 Arrivati a questo punto, dopo aver affrontato i temi della giustizia e dell’uguaglianza nella filosofia
antica, è giunto il momento di fare un salto nella modernità, cercando di capire come ai giorni
nostri, nello Stato italiano, venga intesa la giustizia, approfondendo poi la diversa concezione di
questa rispetto al mondo ampiamente descritto fino ad ora. Come tutti noi sappiamo, il 2 giugno
1946 fu indetto un referendum mediante cui ogni elettore poteva votare la scelta di continuare a
mantenere uno Stato monarchico o dare vita a una repubblica. La seconda alternativa prevalse sulla
prima e, da quel momento, l’Italia divenne una Repubblica democratica. Alla base di questa vi è
ovviamente la Costituzione, il complesso delle norme fondamentali dell'ordinamento dello Stato
che ne definiscono la struttura e stabiliscono i diritti ed i doveri fondamentali dei cittadini. Essa è di
primaria importanza, a questa tutte le leggi sono infatti subordinate, tanto che non possono essere
approvate se contengono o si basano su elementi contrari alla Costituzione, se sono cioè ritenute
incostituzionali. Tra i 139 articoli da cui è composta, il terzo recita: 

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese.»

Con la lettura del primo comma, si può comprendere come lo Stato fondi l’applicazione delle sue
norme sull’uguaglianza. Ogni individuo è per natura biologicamente diverso, ma la sua diversità
non comporta un differente trattamento di fronte alla legge. Vengono quindi specificate le
condizioni che potrebbero essere motivo di discriminazione di un individuo rispetto a un altro: il
sesso, la razza, la lingua, la religione, l’opinione politica, le condizioni personali e sociali. Questo
elenco è basato sull’esperienza storica; bisogna infatti considerare il periodo storico
immediatamente antecedente al referendum costituzionale, caratterizzato dal regime totalitario
fascista, fondato sulla disuguaglianza. Ne sono esempi la negazione del diritto di voto alle donne, la
promulgazione delle terribili leggi razziali, l’assenza della libertà di culto religioso e della
possibilità di coltivare un’opinione politica differente da quella imposta dallo Stato. Con la
Costituzione tutti godono invece degli stessi diritti civili e politici, e la diversità di ognuno non
comporta né privilegi né limitazioni nei diritti stessi. Un’uguaglianza concepita in questo modo è
definita formale, diversa da quella rinvenibile nel secondo comma, dove essa è sostanziale. Qui 
viene spiegato come lo Stato non debba costituire elemento passivo ma, al contrario, si debba
impegnare affinché eventuali disuguaglianze ostacolanti l’effettivo esercizio dei diritti civili e
politici vengano assolutamente sanate. Lo Stato assume pertanto funzione sociale  e mira a garantire
un’uguaglianza non soltanto formale, cioè di fronte alla legge, ma anche sostanziale, vale a dire nel
concreto, dinanzi all’effettive condizioni di vita di ognuno.

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