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VICO

1. Giusnaturalismo e realismo politico: ragione, diritto, storia e politica


Seconda metà del 600.
In questo periodo si afferma:
• il primato della ragione di contro alla tradizione e qualsiasi forma di autorità: la ragione esprime
l’unico, valido, criterio di giudizio e, per quanto riguarda la politica, la ragione è in grado si scomporre e
ricomporre la società, è in grado cioè di fornire tutte le regole per organizzare e regolare al vita sociale
degli individui;
• diritto come espressione della ragione, cioè consapevolezza che hanno gli individui dei fini che
intendono perseguire con la società: pace, garanzia dei loro possessi, il benessere, garanzia delle loro
libertà fondamentali;
• il consenso degli individui, espresso nella forma giuridica del contratto, è l’atto di fondazione della
società politica, che esiste solamente in quanto è stata ed è voluta dagli individui (il giusnaturalismo è la
riduzione della società alla volontà ed alla ragione dell’individuo);
• la società politica, lo “stato”, in quanto enti di ragione, si liberano dalla soggezione o dalla tutela che
la chiesa aveva esercitato su di essi - la filosofia, la politica, il diritto divengono autonomi rispetto alla
religione: la regione deve sovrintendere alla stessa organizzazione ecclesiastica, in quanto, solamente ciò
che può essere giustificato sul piano della ragione può essere oggetto di cittadinanza del nuovo stato, che
si è costruito dopo la drammatica esperienza delle guerre di religione.

Il dottrinarismo politico di ispirazione giusnaturalistica riduce, pertanto, l’autorità al potere politico, unica
fonte di qualsiasi obbligo: il potere politico detiene il monopolio della forza e del diritto, perché si fonda
sull’unico principio di legittimazione, il consenso degli individui, che lo costituiscono mediante il contratto
sociale.
Il giusnaturalismo propone così una concezione razionalistica e pangiuridica della società politica, che si
distingue nettamente da quelle correnti di pensiero politico che si erano ispirate invece al realismo politico
degli autori italiani, per i quali lo stato è un’”entità” politica autonoma, che non può essere in alcun modo
ridotta alla volontà ed al consenso dei singoli, anzi che si impone agli stessi individui: la “ragione” degli stati
deve essere riferita al corso degli avvenimenti politici (rapporto politica-storia), solo con un’attenta analisi
dell’esperienza storica possiamo renderci conto della vera essenza dello Stato.

Il rapporto storia-politica ha una originale e profonda interpretazione in Giambattista Vico. La Scienza


nuova di Vico nasce proprio dall’esigenza di risolvere criticamente la ragione giusnaturalistica, per fondare
invece la ragione storica e pervenire così ad una concezione politica, che colga il fondamento reale degli
Stati, e che possa servire di orientamento del governo della società.

2. Il De ratione studiorum e il fondamento della politica.


Uno dei primi scritti di Vico è Metodo degli studi del nostro tempo (1709) dove la politica - come scienza e
arte di governo - è riferita alla prudenza, o saggezza politica, che consiste nella capacità di saper valutare,
di volta in volta, le situazioni in quel che hanno di peculiare, onde saper usare i mezzi adeguati ad esse. Ma
le situazioni, a loro volta, sono il risultato dell’attività umana, determinata dall’arbitrio dell’uomo e quindi
caratterizzate dall’incertezza.

Vico ripropone così il problema della politica nei termini del pensiero classico, come riferimento alla
prudenza o alla saggezza, cioè come conoscenza delle cose probabili: la scienza della natura tende a una
conoscenza unitaria che si esprime mediante un principio che ci consente di spiegare la realtà, mentre la
politica cerca di conoscere le cose per individuare le possibili cause di esse e scegliere poi la più probabile.
La scienza della natura si esprime sul piano di una ragione tutta matematica, che formula un giudizio così
rettilineo da precludersi la conoscenza dei singoli fatti, che hanno invece tanta importanza nella vita politica.
Questa ragione, tutta matematica, non si rende altresì conto che va riconosciuto un valore non solo al
principio razionale che caratterizza la mente, ma anche alle passioni, che dominano invece il campo del
concreto agire umano e quindi della politica. Queste passioni devono orientate verso quei fini che la mente
pone sul piano del vero, il che è possibile solo con l’eloquenza, colei che sa commuovere ed entusiasmare gli
animi.

3. La critica alla ragione cartesiana e la nuova fondazione del sapere: la conversione del vero e del fatto. Il
rapporto fra il vero e il certo.
Nel Metodo degli studi del tempo nostro, Vico aveva dichiarato la propria insoddisfazione nei confronti della
filosofia di ispirazione cartesiana, in quanto finiva per privilegiare la scienza della natura e col modellare la
ragione sulle scienze esatte, ponendo al margine della cultura scientifica gli interessi più umanistici e
discipline come la politica.
Nel De antiquissima Italorum sapientia, Vico rileva il criterio sul quale fondare la ragione: deve essere
individuato tenendo conto della distinzione fra il vero e il fatto e della successiva reciproca conversione del
vero e del fatto. Ciò significa che si può avere una versa scienza solamente delle cose che noi facciamo: la
scienza deve, perciò, preoccuparsi di individuare il modo in cui le cose che intendiamo conoscere si
generano.
Quindi, solo Dio ha una versa scienza della natura, in quanto creatore dell’universo; l’uomo può avere
solo una conoscenza limitata, solo degli elementi estrinseci.
Nel Diritto Universale e nella Scienza Nuova, è vera la considerazione che Vico fa è che la vera conoscenza
scientifica è la storia, in quanto è fatta dagli uomini.
Vico svolge e dimostra l’intimo esso che sussiste tra storia e politica.
Afferma il primato della politica sulle scienze della natura. La politica, come attività volta a fondare e a far
sussistere lo Stato deve, innanzitutto, considerare la reciproca conversione del vero e del fatto, resa possibile
dalla mediazione del certo, che è una parte della verità, quella che può essere conosciuta dall’uomo nelle
particolari condizioni storiche in cui si trova, e che ha la funzione essenziale di dare stabilità, continuità al
libero arbitrio e quindi alla volontà.
Per Vico, la conoscenza del vero avviene mediante l’autorità, che consente al fare dell’uomo di consistere
come mondo umano e di costruire e far sussistere lo Stato. È l’autorità che garantisce la continuità del
processo storico, mediante cui si formano le società politiche.

4. Il concetto di autorità. La genesi dell’autorità nell’uomo: dominio, tutela e libertà. Le forme di autorità e
il concetto di forza. La storia come mondo umano e il fare degli uomini. Il principio delle eterogenesi dei
fini.
L’autorità è connessa al fare dell’uomo, come principio costitutivo della sua umanità e personalità.
L’uomo è sapienza, volontà e potenza, ma, a motivo della sua originaria corruzione, queste tre facoltà
divergono tra loro e la volontà pretende di dominare la ragione: da questa pretesa si genera la cupidigia, da
cui scaturisce l’amore in se stessi. La cupidigia è eccitata dalle cose finite, corporee, di cui sentiamo la
mancanza, che si impongono agli uomini per il tramite dei sensi. La conseguenza è che i sensi, che sono stati
dati all’uomo per la difesa della vita, vengono assunti invece come arbitri, in grado di giudicare il vero delle
cose: la ragione sottomessa ai sensi non è più in grado di riconoscere il vero.
Corruzione dell’uomo = servitù della ragione, dominio della volontà, ribellione dei sentimenti alla ragione.
Nella corruzione, l’uomo vuole affermare se stesso e, allo stesso tempo, nega se stesso.
Come riesce l’uomo ad esprimere la sua razionalità in questa contraddizione?
L’uomo, dotato di mente (essenzialmente spirituale) e corpo (finito, materiale), a volte, senza saperlo,
nonostante quello che fa e che pensa, cerca di unirsi a Dio e ricerca, pertanto, costantemente la verità.
La ragione è per Vico tensione ed aspirazione verso il vero, che anima qualsiasi forma di conoscenza (vis
veri).

Le tre facoltà dell’uomo (ragione, volontà, potenza) sono intimamente connesse fra loro: in ciascuna di esse
sussistono le altre, ognuna di esse può attuarsi solo se, implicitamente, realizza le altre due.
Le tre facoltà si esprimono nel fare dell’uomo: come dominio, in quanto diritto di usare le cose secondo
ragione; come tutela, in quanto diritto di difendere la nostra vita e di provvedervi; come libertà, in quanto
diritto di determinare le nostre azioni. L’autorità è costituita dal dominio, tutela e libertà.
Il primo modo in cui si manifesta l’autorità è la forza, cioè l’energia con cui l’uomo si realizza come unità
sussistente. La forza si presenta, inizialmente, come l’inalienabile diritto dell’uomo alla vita e come dominio
delle cose necessarie alla sua vita, come tutela alla sua vita, come libertà contro ogni forma di asservimento.
Nella forza sussistono il dominio, la tutela e la libertà, i principi costitutivi dell’ordine che sottrae l’uomo
all’anarchia dell’istinto e delle passioni. La forza non è un dato fisico ma si genera nell’interiorità dell’uomo
che sola può disciplinare e indirizzare il movimento del corpo. L’uomo si distingue dagli animali e dai bruti
in quanto si muove e non subisce con passività gli impulsi che riceve dall’esterno.
Vico distingue forza e violenza: la forza è l’energia umana con cui si fa valere la ragione, la giustizia, il
diritto; la violenza promana dal predominio della volontà sulla ragione, dalla cupidigia, dal dominio dei sensi
sulla ragione, è negazione della ragione, della giustizia e del diritto, non fonda la società ma la
strumentalizza e la sfrutta.

La società si costituisce in quanto esprime una forma di partecipazione degli uomini alla verità alla giustizia,
all’equità che si esprime, per Vico, nell’essenziale principio di buona fede, nel presupposto cioè che la parola
dell’uomo esprime la verità, per cui gli uomini devono credere vicendevolmente a quello che dicono.
La crisi del principio di buona fede si riflette sull’intero ordinamento civile e politico e determina la
degenerazione della politica nella lotta delle fazioni.
La forza ha, al contrario, come fine ultimo la fondazione e la conservazione dello stato.

5. La genesi storica della società politica: la famiglia, il gruppo gentilizio: le genti maggiori e le genti
minori.
L’essenza della società politica si esprime nella sua genesi storica: occorre quindi analizzare il processo di
formazione della società con riferimento all’uomo primitivo che vive allo stato di natura. Quest’ultimo non
ha la ragione sufficiente per poter usare la formula giuridica del contratto. Non è diverso dalle bestie:
conduce una vita errabonda e ferina vivendo nella promiscuità. Nell’uomo primitivo la ragione è sprofondata
nel corpo, rinchiusa nell’istinto. Tali nature non riescono a stabilire alcun rapporto tra loro.

La genesi del movimento attivo dell’uomo che gli consente di uscire dalla vita bestiale è connessa a due
fondamentali modi di avvertire e conoscere la realtà che si fondano sulla religione e sulla fantasia, sulla
capacità che ha l’uomo di vivere una particolare esperienza e di raffigurarsi questa stessa esperienza. La
prima esperienza religiosa di uomo primitivo deve essere commisurata alla sua immane natura. Si esprime
nel terrore religioso che l’uomo prova in occasione di un fenomeno naturale, il fulmine. Il terrore religioso
rinserra gli uomini primitivi nelle grotte e li sottrae alla loro libertà bestiale. Li induce a cercare di
interpretare le manifestazioni del cielo, i fulmini, il volo degli uccelli, per conformarsi al volere della
divinità.
Il primo rapporto da cui si origina la sua umanità è quello che l’uomo stabilisce con Dio.

Al terrore religioso è connesso un altro sentimento da cui si generano tutte le regole che disciplinano il
comportamento dell’uomo: il pudore, per cui l’uomo non si accoppia più con la donna davanti ai suoi simili
ma poiché teme Dio si nasconde nelle grotte trattenendo con sé la sua compagna. Si esprime così il vero
rapporto umano: l’unione dell’uomo con la donna, che diventa stabile, diventa matrimonio. Lo scopo del
matrimonio è di certificare la prole: la certificazione dei rapporti tra genitori e figli è il presupposto di ogni
tipo di società.

Il timore di Dio e il pudore generano la pietà verso i defunti, in virtù della quale l’uomo si riconosce nel suo
simile e riconosce quest’ultimo come uomo. L’uomo non abbandona il morto ma lo seppellisce.
Il timore di Dio, il pudore e la pietà verso i defunti si manifestano nelle prime 3 istituzioni dell’umanità: la
divinazione, i matrimoni e le sepolture. Sono le esperienze iniziali ed originarie mediante cui l’uomo si
umanizza, si esprime cioè come autorità, come attuazione della volontà (in quanto disciplina il suo istinto
vitale con il matrimonio), della sapienza (grazie alla divinazione ed alla religione degli auspici, che gli
consentono di formulare regole che disciplinano il suo comportamento), della potenza (dato che le se energie
non vengo dissipate in una vita errabonda e ferina). Si realizza così la prima forma di autorità che Vico
chiama monastica: l’uomo che vive con la sua compagna e con i suoi figli non riconosce al di sopra di sé
alcun superiore se non Dio, e si considera assoluto signore delle cose e degli esseri che vivono con lui.

Il processo di evoluzione del gruppo familiare è promosso dall’esigenza di procurare i mezzi di sussistenza.
Le famiglie primitive scendono dai luoghi più alti verso le pianure e coltivano la terra: nasce così la prima
delle arti umane, l’agricoltura, a cui si dedicano quei gruppi umani che per aver espresso una forma di culto,
per contrarre nozze, per osservare il rito delle sepolture, costituiscono le genti maggiori.
A queste si contrappongono le genti minori che sono formate da gruppi umani che continuano nella vita
ferina propria dell’orda primitiva. Questi uomini invadono i campi coltivati dalle genti maggiori che parte ne
uccidono e parte ne conservano in vita a patto di coltivare la terra: il rapporto servo-padrone esprime la
genesi della società politica e si fonda sulla forza.

Con la tutela si costituisce la famiglia vera e propria che è formata dai genitori, dai figli e dai famoli, cioè
dai clienti che in cambio della protezione lavorano i campi e prestano i servizi per la famiglia e per il gruppo
gentilizio cui appartengono. Si forma il primo nucleo “politico” composto da individui non uniti dal vincolo
di sangue ma assoggettati al dominio dell’assoluto potere sovrano del pater familias. Si esprime così la
seconda forma di autorità, quella del pater familias, che non riconosce alcun superiore se non la divinità, la
cui volontà è conosciuta solo dal padre di famiglia.

Il rapporto tra genti maggiori e minori, tra nobili e clienti è la premessa per intendere il processo storico-
politico che portò alla costituzione della società politica e alla terza forma di autorità, quella che si esprime
nello stato. Le società primitive del periodo delle cosiddette monarchie familiari sono caratterizzate da
ammutinamenti di famoli contro i nobili. Dal conflitto tra genti maggiori e minori nasce la prima forma di
comunità statale: i gruppi gentilizi - i padri di famiglia si riunirono mettendo in comune i propri averi e
nominarono un capo comune, il re, per guidarli nella lotta contro i famoli ammutinati. Si costituì la prima
comunità politica mediante l’unione di più gruppi gentilizi: terza forma di autorità, quella dello stato. Le
prime città furono costituite dai soli eroi, la classe aristocratica, l’unica in grado di organizzare una forza
armata.

6. La fondazione dello Stato e il conflitto fra le genti maggiori e quelle minori. Le leggi agrarie. Stato,
autorità e sovranità.
Lo Stato ha bisogno dei servizi che possono essere prestati dalle genti minori: il lavoro dei campi non viene
più considerato come un atto di assoggettamento servile, ma è affidato alle genti minori.
La rivolta delle genti minori è risolto con una prima concessione: il cosiddetto dominio bonitario dei campi,
sempre revocabile da parte del gruppo gentilizio.
È questa, per Vico, la prima legge agraria che regola i rapporti politici tra le due classi che, comunque, non
risolse le tensioni fra genti maggiori e genti minori. Le genti maggiori cercavano di riprendersi quello che
avevano concesso, ma di contro a queste pretese la plebe ottenne, a tutela e garanzia del “dominio bonitario”,
l’istituzione dei tribuni della plebe, che avevano il compito di rappresentarla e di far valere le sue pretese nei
confronti della classe aristocratica.
L’emanazione della legge delle XII tavole rappresenta la seconda importante vittoria che la plebe riportò nei
confronti dell’aristocrazia: infatti il motivo ispiratore della famosa legge fu quello di garantire alla plebe la
proprietà privata, propria degli aristocratici.
Ma la proprietà delle genti minori, alla morte del proprietario, ritornavano all’originario concedente
aristocratico in quanto la plebe non aveva diritto di disporre per testamento il patrimonio, dato che non
potevano sposarsi e i loro figli non venivano considerati legittimi. A tal fine la plebe pretese e ottenne il
diritto di contrarre nozze solenni, partecipando agli auspici dei nobili e conquistando la piena cittadinanza.
Ottenuta la ragion privata degli auspici, cioè quanto attiene al dominio, alla libertà, alla tutela, i plebei
conseguirono la “ragion pubblica” cioè furono ammessi al consolato, ai sacerdozi, al pontificato e alla
censura.
Il processo della formazione della repubblica romana termina con la parificazione della plebe alla nobiltà. E
con la connessione alla plebe del potere sovrano di fare le leggi.
Il dominio, la tutela e la libertà sono le fasi del processo storico di formazione e sviluppo delle società
politiche. Il dominio è caratteristico delle monarchie familiari, la tutela è la ragion politica delle aristocrazie,
la libertà è il risultato di un processo storico in cui la ragione eroica delle classi dominanti si venne
umanizzando sotto pressione delle richieste delle genti minori. La ragione, la filosofia e le discipline che
sono a questa connessa, le scienze in generale, comparirono solo quando la società politica perse il suo
carattere eroico ed acquistò invece quello corrispondente “all’umanità tutta dispiegata”.

Per Vico, il punto più alto cui perviene lo stato, concepito proprio come una totalità vivente, cioè come
l’istituzione che rende possibile la piena esplicazione dell’umanità dell’uomo, si realizza quando si perviene
ad una reale compartecipazione tra politica, leggi e ragione quale si esplica nella filosofia e nelle discipline
scientifiche. Lo stato può essere concepito come un uomo in grande in quanto non è altro che l’originaria
autorità naturale dell’uomo.
Lo stato deve essere concepito come un entità che consiste nel diritto. La prima legge universale è l’uomo, la
seconda è quella del pater familias, che precedono lo stato e in esso si integrano.
Lo stato di Vico è, quindi, lo stato-sovranità di Bodin: un tutto al quale l’individuo deve la sua esistenza, è
l’autorità verso cui convergono tutte le altre autorità che sussistono nell’ordine civile.
Lo stato è definito da Vico con diretto riferimento al concetto di Dio: come Dio, lo Stato si giustifica da sé, e
proprio in ciò consiste la sua sovranità; nello Stato ragione, volontà e potere si convertono l’una nell’altro: è
una volontà che si immedesima con la ragione e si esprime pertanto nel diritto e che non conosce alcun
ostacolo alla sua realizzazione e quindi è anche somma potenza. Lo stato, nella sua unità e nella sua
assolutezza, si esprime alla fine come forza, che per realizzarsi come tale deve necessariamente riconoscere
l’esistenza di un principio e di un ordine superiore in occasione della sua massima manifestazione, cioè la
guerra.

7. Il problema della crisi, della decadenza e della fine delle società politiche.
Le società politiche nascono, crescono, maturano e decadono sino alla distruzione (Vico riprende la teoria
classica dello sviluppo ciclico delle costituzioni – Polibio). La religione è il fondamento della società
politica: l’uomo si toglie dal suo stato errabondo quando riconosce un’entità superiore che lo domina e lo
governa. La ragione ritrova la sua energia nella religiosità, nella fantasia che la alimentano e che le
consentono una presa vitale sulla realtà.
La crisi dell’ordine politico si determina allorché la libertà ha perso l’avvertenza del suo fondamento etico-
religioso, dei principi oggettivi che segnano un confine sicuro tra libertà, licenza e arbitrio ed è vista in
funzione dell’utilità dei singoli individui o delle fazioni che riescono a impadronirsi del potere. Tra la ragione
e l’ordine politico c’è un nesso vitale: come la ragione è promossa dall’ordine politico in quanto ne
costituisce la sua più vera legittimazione, perché la ragione riconosce quella verità che è a fondamento della
società politica, la ragione è coinvolta nel processo di decadenza e disarticolazione società e ne diventa una
delle cause principali in quanto impedisce che gli individui possano comunicare tra loro il vero e l’equo che
fanno consistere la società politica.
La situazione di anarchia che si determina può avere 3 soluzioni:
1. Il popolo può consentire che tutti i poteri vengano concentrati nelle mani di uno solo che con la forza
delle armi garantisca pace e sicurezza. Il monarca rende tutti uguali nei suoi confronti, difende il popolo
dai potenti e garantisce al popolo la libertà naturale;
2. Quando i popoli non consentono che un monarca concentri in sé tutti i poteri, è destinato a essere
governato da altre nazioni che l’hanno sottomesso. Chi non è in grado di governare deve essere
governato da chi ne è capace;
3. Crisi dell’ordine politico e della civiltà che investe la società umana che è dominata dalla cupidigia dei
beni materiali. Questo genera nella società la violenza, la ferocia, la crudeltà che scatena gli uomini gli
uni contro gli altri in lotte che hanno fine solo quando tutto viene distrutto e l’uomo viene riportato alle
condizioni iniziali tipiche dello stato di natura.
Le società politiche, la cui organizzazione si fonda su una civiltà che ha fatto della raffinatezza dei sensi la
sua ragione di vita, non possono che autodistruggersi, autoannientarsi, affinché gli uomini possano ritrovare
la loro originaria natura, la loro originaria semplicità che consentiva loro di essere “religiosi, veraci e fidi”, sì
che, vera araba fenice, la società umana e l’ordine politico possano rinascere dalle loro ceneri.

8. La teoria dei corsi e ricorsi storici. Ragione, politica e storia in Vico.


La storia classica, in particolare quella romana, consente, secondo Vico, di intendere i principi costitutivi
delle società politiche, le fasi essenziali del loro processo di formazione storica, le cause del loro interno
dissolvimento politico, della loro “morte”. Una morte che è la premessa della loro rinascita in una nuova
forma di mondo umano, di civiltà, ispirata al Cristianesimo, che con nuove lingue, nuovi costumi, tradizioni,
leggi ed istituzioni ricostruisce una nuova società politica sui principi della natura umana, quali si erano
precedentemente espressi.
Lo stato moderno ha una lunga genesi storica, lo studio del processo storico mediante cui si formano gli stati,
coerentemente con la tesi della conversione del vero e del fatto, non ha un fine meramente teorico, ma anche
pratico: deve suggerire i provvedimenti idonei a perfezionare la costituzione dello stato e ad eliminare le
cause della sua eventuale decadenza.
In questa prospettiva acquista una particolare rilevanza la polemica vichiana nei confronti del razionalismo e
dell’utilitarismo del Seicento e del Settecento, la sua radicale diffidenza nei confronti dell’autosufficienza
della ragione, come fondamento della società politica. La sua convinzione di fondo è che la ragione è
alimentata dalla religione, che è l’esperienza originaria su cui si fonda l’umanità dell’uomo. Di qui la sua tesi
dell’intimo nesso fra religione e società.

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