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RANUCCIO BIANCHI BANDINELLI

INTRODUZIONE ALL'ARCHEOLOGIA CLASSICA COME STORIA DELL'ARTE


ANTICA
Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) un archeologo, storico dell'arte e politico. Dopo l'interruzione
conseguente alle vicende belliche, riprese l'insegnamento all'Università di Firenze nel 1944, ma l'anno
successivo si trasferì a Roma per assumere la carica di "direttore generale delle antichità e belle arti", che
mantenne fino al 1947, occupandosi del restauro dei monumenti danneggiati dalla guerra. Fu nominato
socio nazionale della risorta Accademia dei Lincei.

Avvertenza
Secondo Bandinelli la storia dell'arte non interessava più agli studiosi delle nuove generazioni, che erano
influenzati maggiormente dalla sociologia e da un tipo di ricerca rivolta solo alla tecnica e alla
classificazione. Com'è nato questo libro? L'editore Laterza gli chiese di poter accogliere nella sua biblioteca
Universale questa Introduzione che dal 1950 girava sotto forma di dispense universitarie. Essa non intende
presentare l'archeologia nel senso più contemporaneo, con tutti i suoi metodi d'indagine e le sue tecniche
di ricerca sul terreno, ma vuole dare qualche chiarimento in merito all'ARCHEOLOGIA
“WINCKELMANNIANA”, cioè intesa come STORIA DELL'ARTE GRECA E ROMANA, incentrata sul problema
quindi storico-artistico, ereditato dalla filologia e oggi diventato quasi un ramo collaterale della disciplina.

L'Archeologia classica era un ramo della SCIENZA DELL'ANTICHITÀ, formatasi nel XIX sec. nelle università
tedesche, e tendeva a formare una scienza unitaria, sintesi di tutto quanto riguardasse l'antichità classica.
La specializzazione che si verifico sempre più nel XX sec. ha rotto quell'unità che era il suo maggiore valore
culturale. La ricerca archeologica insieme a quella etnologica si è estesa ad ogni età e ad ogni luogo.
L'antichità classica è solo uno dei suoi argomenti, spesso addirittura trascurato ma ciò non è ammissibile
perché si tratta di una civiltà in cui il pensare storicamente era il criterio più alto del comportamento
umano, mentre se la tecnica viene presa a modello, è in gioco la libertà razionale del pensare ed agire
umano. Solo il pensiero storico può opporsi ad un tale dominio, che finisce spesso per diventare dominio
delle forze politiche che controllano le tecniche. A maggior ragione è utile sottolineare che LA STORIA
DELL'ARTE È UNA SCIENZA STORICA.

Prefazione: L’archeologia come scienza storica


La parola archeologia veniva usata dagli antichi col senso letterale di discorso, indagine, sulle cose del
passato, antiche. Su tutti gli aspetti, dunque, delle età che ci hanno preceduto.
Un esempio viene fornito da Tucidide, il quale, nell’introduzione della sua opera, detta appunto,
Archeologia, fa un preciso esempio di deduzione storica da un dato archeologico. Egli sostiene che le isole
del Mar Egeo fossero abitate, in età remota, dai Fenici e dai Cari e ne fornisce la prova nelle salme
rinvenute in quei luoghi, riconducibili ai cari, riconoscibili dall’armatura sepolta con essi, metodo di
sepoltura tuttora utilizzato da quel popolo. In questo caso suppellettili e rito funebre, chiari elementi
archeologici, diventano supporto di una tesi storica. Questa unità della ricerca storica si frantumò
quando il termine archeologia fu applicato allo studio delle antichità in sè e per se stesse, avulse
dal contesto storico che le aveva prodotte, abbassandole a mero oggetto di curiosità e limitando
il riferimento al mondo greco e romano, cioè a quella che diciamo "antichità classica".

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Questa ricerca minuta e priva di metodo degenerò nell'archeologia antiquaria, nelle dispute
individuali che riempirono le Accademie sorte nell'Europa della Riforma e dell'età barocca e
specialmente in Italia.
Questo modo di intendere l’archeologia, propria del ’700, fu smentita dal Winckelmann nell’opera "Storia
delle arti del disegno presso gli Antichi" pubblicata nel 1764, doveva costituire l'atto di nascita
dell'archeologia moderna. Da allora l'archeologia ebbe come tema precipuo lo studio dell'arte
classica e compì un salto di qualità: da erudizione fine a se stessa, mera curiosità accademica e
letteraria, divenne un prima ricerca e distinzione cronologica delle varie fasi dell'arte del mondo
antico e ricerca delle supposte leggi che presiedessero al raggiungimento della Bellezza assoluta
nell'Arte.
Si cessò di disegnare l’antichità come un tutto omogeneo e indistintamente diverso dall’età moderna. Per
questo si introduce in questi studi due esigenze di ricerca: storicistica l’una; di definizione artistica l’altra.
Fu la seconda ricerca a prevalere per oltre un secolo ed infatti gli accademici, che studiavano la storia
dell’arte antica, provavano un incomprensione verso tutto ciò che non corrispondeva ai canoni di quel
classicismo che Winckelmann aveva scorto nelle sopravvivenze della scultura antica. Questi concetti
permasero anche quando fu chiaro che la scultura antica non era vera scultura greca ma era costituita
dalle copie più o meno infedeli di quelle opere che la tarda cultura ellenistica, rivolta nostalgicamente al
passato, aveva ritenuto essere più nobili. Dunque si continuò a studia l’arte antica sulle copie e su questa
via si continuò anche quando gli archeologi inglesi, tedeschi e francesi ebbero dato inizio alla scoperta
degli antichi centri dell’Asia Minore e della Grecia ed ebbero portato alla luce le opere d’arte originali della
scultura greca. Infatti l’archeologia venne intesa essenzialmente quale storia dell’arte greca basata sulle
fonti letterarie, mentre lo scavo archeologico di derivazione winckelmaniana fu posta in crisi e superata da
due fattori:

 Storicismo: che era andato affermandosi negli ultimi due decenni dell'Ottocento. Fece una sua
prima apparizione, negli scritti del massimo rappresentante della scuola viennese, Alois Riegl, il quale nel
suo volume, "Industria artistica tardoromana", egli si oppose alla opinione comune degli altri studiosi
che consideravano l’arte successiva all’età degli imperatori Antonini (cioè, posteriore agli anni 80 del II
secolo d.C.) un fenomeno di decadenza, dimostrando invece che essa era espressione di un gusto diverso,
che doveva essere valutato per sé e non, come si era fatto prima, in confronto con l’arte greca. Tuttavia il
linguaggio critico di Riegl apparve così insolito agli archeologi winckelmanniani che ci vollero solo molti
anni affinché l’impostazione della scuola viennese venisse accolta e fruttificasse. Intanto lo storicismo
veniva invaso da nuovi correnti, tra questi quella di Max Weber che vide chiaramente che la storia è
opera degli uomini e quindi si sforzò di ricondurre la ricerca storica dalle astrazioni dei principi universali a
quello che poteva apparire concreto processo e concatenamento di fatti. Su questa via la ricerca storico-
artistica del mondo antico si è enormemente allargata nell’ultimo quarto di secolo. Liberatosi dall’obbligo
neoclassico, la stessa arte greca non è apparsa più un modello fisso e immutabile ma è stata storicizzata e
vista in un quadro più ampio e se ne è avviata una più coerente e razionale comprensione. Al tempo
stesso, la storicizzazione della ricerca artistica aveva aperto la via alla comprensione delle civiltà estranee
al mondo classico: dall’arte mesopotamica, quella egizia, dell’arte iranica e dei popoli delle steppe, che si
riconobbero non solo nei loro valori intrinseci ma anche negli elementi costitutivi della civiltà artistica
europea. Questo ripensamento del periodo tardo-antico dimostra che la ricerca storico-artistica, se
rettamente condotto quale interpretazione di un fatto sociale, può avere un alto significato di indagine
storica. Noi vediamo, infatti, che l’arte figurativa, nonostante sia in continua mutuazione, non compie mai
salti improvvisi, vi è sempre un tessuto connettivo che prepara ed unisce le varie esperienze. Perciò, se noi
riusciamo a leggere ed interpretare un fenomeno artistico questo avrà un valore di documento sociale e
storico. Dunque l’archeologia non è più, come lo era nella scia di Winckelmann, soltanto storia dell’arte
ma piuttosto essa diviene un settore dell’archeologia. E qui si introduce il secondo punto:

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 Archeologia come documentazione per mezzo della ricerca di scavo sul terreno. Un tempo gli
archeologi classici, fieri del loro legame con la filologia, ironizzavano sull’attività degli studiosi di preistoria,
chiamandola “scienza degli analfabeti” perché priva di fonti scritte. Ora sono proprio questi analfabeti a
rinnovare la ricerca archeologica. Costretti a ricostruire tutto sul dato oggettivo, gli studiosi di preistoria
hanno sviluppato metodi di scavo di estrema oculatezza ben sapendo che ogni scavo archeologico
distrugge una documentazione accumulatasi nei millenni. L’archeologia ci ha insegnato che non si sono
doppioni superflui ma ci ha anche confermato che non ci sono pezzi unici; infatti la produzione di
manufatti da parte del uomo ha una continuità ed una variazione che si susseguono per secoli, che si
interrompe solo per cause di estrema gravità. Così si è andato perfezionando lo scavo stratigrafico con
l’esatta osservazione delle varie successioni e lo studio dei reperti ceramici, anche privi di ornamento.
Accanto a questa tecnica di scavo si sono associati tecniche scientifiche, quali le indicazioni cronologiche
mediante il rilevamento di carbonio C/14 residuato nei materiali organici e l’esplorazione mediante la
fotografia aerea attraverso la diversa colorazione della vegetazione delle strutture sepolte. Fu proprio la
combinazione di questi metodi ch si sono avuti risultati di enorme importanza storica nell’esplorazione
dell’Anatolia. La data storica più remota, attingendo solo ai dati epigrafici ed astronomici, è quella della
fondazione della I dinastia dell’Egitto, attorno al 3100 a.C. Invece oggi possiamo risalire sino alle prime fasi
dell’associazione umana in comunità stabili e datarle tra 8000 e 7000 a.C. Ma il luogo più importante è
quello di Catal- Huyuk in Anatolia la cui vita si è potuta seguire attraverso 13 strati archeologici per un
periodi di 3000 anni. Si è potuto constatare l’esistenza di una civiltà complessa e avanzata composta da
vere e proprie città, della estensione di 12 ettari, con case a pianta rettangolare. Si sono rinvenuti utensili,
resti di stroffe tesssute in lana, ma anche sorprendenti pitture sulle pareti interne delle case con scene di
combattimenti di animali e caccia e nei livelli più recenti immagini in argilla di una dea madre
antropomorfa accompagnata da una figura maschile con aspetto, in parte, di animale. Si è potuto, quindi,
constatare che è nata nel vicino oriente quella “rivoluzione neolitica” che ha portata un profondo
mutamento nelle strutture della società primitiva: infatti l’uomo raccoglitore di cibo ne diviene produttore
e ciò gli permise di costruire insediamenti stabili. Questa rivoluzione si compì nel territorio posto tra
l’altopiano anatolico e i deserti dell’Asia centrale, tra il Caucaso e le alte terre della Palestina, facendo
naufragare le tesi secondo le quali la Mesopotamia e l’Egitto fossero le culle della nostra civiltà. Dunque
l’archeologia si è maturata a vera e propria scienza storica, non più scienza ausiliaria della storia. Anziché
sulle fonti scritte essa si basa sui dati materiali che una civiltà produce, accumula e lascia dietro di sé e ciò
non vale solo per l’età preistorica, chiamata così perchè mancano le fonti scritte ma che nonostante ciò gli
uomini ebbero in essa una storia, ma anche per le età più vicine poiché le fonti letterarie sono sempre in
doppio modo parziali, nel senso che:

 si limitano a determinati periodi

 rappresentano sempre una determinata interpretazione dei fatti, spesso una determinata
corrente di interessi

Il dato archeologico è imparziale ma bisogna saperlo interpretare. Intanto è avvenuto più volte che molti
problemi storici siano emersi proprio solo attraverso l‘indagine archeologica; sono stati spesso gli
archeologi a proporre problemi storici, perchè, spinti dal metodo comparativo e dal contatto diretto con i
documenti materiali, vengono condotti a porsi problemi concreti di produzione e quindi di associazione
( cioè di Storia). Si pensi ai dintorni di Roma, a Livinio non si è avuta soltanto la conferma della antichità di
una leggenda- quella della venuta di Enea-, ma la documentazione di contatti del Lazio (Roma)con il
mondo greco in età molto arcaica. Infine possiamo affermare che tra storici dell’antichità e archeologi, gli
uni non possono fare a meno degli altri: il dato archeologico va confrontato, ogni volta che ciò è possibile,
con il documento storico e il dato storico, a sua volta, con quello archeologico, creando così una scienza
storica.

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Premessa
Il volume è stato scritto con un duplice scopo:
 tracciare brevemente la storia di un particolare aspetto di questa disciplina per definire
meglio i problemi scientifici odierni
 stabilire un rapporto positivo con l'archeologia e la nostra cultura attuale.
In origine il termine archeologia indicava genericamente notizie sui tempi antichi, ma col tempo
ha cambiato significato. Vi è stata un'archeologia ottocentesca essenzialmente filologica che
giunge sino alla prima guerra mondiale, un'archeologia puramente storico-artistica nel periodo
intermedio e un archeologia essenzialmente storica, con particolare interesse per la preistoria,
dal 1945 in poi. Se prima indicava l'antichità classica oggi ha un senso molto più generale.
Il libro si concentra sull'archeologia winckelmanniana, cioè classica, relativa all'antica Grecia e
all'età romana. Nel Rinascimento si ebbe una ricerca appassionata del mondo antico, ma volta
alla conoscenza di quell'arte antica considerata il limite da raggiungere e ritrovare e un esempio
nel quali riconoscere se stessi ed esprimere i nuovi tempi. Era dunque una ricerca con valore
attuale, non storico, quindi non si trattava di archeologia.
Accanto ad essa nascono gli antiquari, gli studiosi degli usi e dei costumi, della mitografia. La
loro interpretazione dei monumenti figurati e la ricostruzione dei costumi degli antichi
avvenivano con sfoggio di erudizione, ma senza metodo e senso critico. In epoca moderna gli
studi d'antiquaria si basarono soprattutto sull'epigrafia e quindi sulla ricostruzione delle norme e
delle leggi che regolavano la vita civile e religiosa e della prosopografia, cioè la definizione delle
personalità storiche menzionate negli epigrafi e le loro funzioni ufficiali. In tal modo questi studi
si distinsero nettamente da quelli archeologici, sempre più rivolti al fatto artistico. Nella prima
metà del Settecento, una fitta schiera di uomini si dedica all'antiquaria, favorita da mecenati
ecclesiastici e secolari, che amavano raccogliere oggetti di scavo, essendo l'opera d'arte
considerata solamente come un documento: una statua togata interessava per lo studio della
toga e del costume etc. Gli antiquari finirono per cercare nei monumenti soprattutto una
conferma a determinata ipotesi, in contrapposizione ad altre ipotesi, dando vita a dispute
puramente accademiche. Va riconosciuto loro almeno il merito di aver conservato il ricordo e la
documentazione grafica di monumenti oggi scomparsi.
Il classicismo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento segnò l'inizio dell'archeologia.
Nonostante l'idealizzazione dell'Antico e il principio di imitazione dell'arte antica insito nel
neoclassicismo, fu in quel periodo che furono poste le basi per una conoscenza storica
dell'Antichità. Essa divenne il modello politico della borghesia, divenuta la classe al potere dopo
la rivoluzione francese, che vi trovò esempi di libertà, autonomia e razionalismo, come ve li
aveva trovati gli intellettuali umanisti secoli prima.

Winckelmann
La nascita dell’archeologia, che studia i monumenti come opere d’arte in se stesse e come documento di
civiltà e cultura, possiamo attribuirla a Johann Winckemann, il quale venuto a Roma nel 1755 della nativa
Sassonia prussiana con una conoscenza molto vasta della letteratura antica, cercò di costruire per la prima
volta una vera storia dell’arte con l’opera “Storia delle arti del disegno presso gli antichi”. Il merito di
Winckelmann è quello di aver trasportato lo studio dell’arte antica dalla mera erudizione e dalla disputa
accademica ad una prima ricerca e distinzione cronologica di varie fasi dell’arte del mondo antico, alla
comprensione dell’opera d’arte in se stessa ed al ricavarne elementi di vitale interesse per il proprio tempo.
Winckelmann scriveva, infatti, di cercare di scoprire << l’essenza dell’arte >> cioè le supposte leggi che
regolano la perfezione di un’opera d’arte e ne fanno un esempio di Bellezza; era cioè alla ricerca di
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un’Estetica assoluta. La ricostruzione della cronologia è uno dei problemi che, nel campo antico, offriva ed
offre maggiori difficoltà data l’incertezza e la lacunosità della tradizione. Poiché l’archeologia è considerata
uno degli strumenti fondamentali dell’indagine storica è evidente che il riconoscere, attraverso i dati
esteriori, indizi cronologici diviene essenziale. Dall'altra parte essa è anche indispensabile per poter dare un
giudizio riguardo un’opera d’arte che sia storico e non solo dettato dal gusto personale. Infatti occorre
vedere se l’opera in questione apre una nuova strada oppure se sia opera di un artista che si inserisce
passivamente in una corrente determinata. Dunque la comprensione dell’opera d’arte ha inizio con la
fissazione della cronologia che diventa assai più difficile per quanto riguarda il campo antico (rispetto
all’arte medievale e moderna) poiché la fissazione della cronologia può oscillare tra diversi secoli.

Al tempo del Wickelmann l’arte antica di presentava come un ammasso di opere di scultura, di statue
frammentarie, di sarcofagi ornati, trovati per caso soprattutto a Roma senza che ci fosse criterio di
cronologia tranne che per alcune opere di età imperiale romana, rimaste in vita e databili per se stesse,
come per esempio le colonne di Traiano e di Marco Aurelio , documentate dalle iscrizione
dedicatorie. Si ricordi che la statua equestre di Marco Aurelio, oggi in Campidoglio, che era sempre
rimasta in piedi attraverso tutte le vicende della Roma medievale, deve la sua preservazione al fatto che
si riteneva raffigurasse Costantino (imperatore cristiano), o anche Teodorico. A riconoscervi Marco
Aurelio furono gli umanisti per confronto con le monete. Il mondo dell’arte antica appariva come un
blocco unico senza prospettiva storica (cioè senza distinzione fra i secoli della Grecia e quelli di Roma).
Occorreva dunque trovare un criterio per stabilire una cronologia. Le fonti antiche riferivano la
cronologia dei maggiori artisti ma occorreva trovare un criterio per identificare le opere di questi artisti
con attribuzioni meno causali. Ma ancora più complicato era il problema delle statue trovate in Roma, le
quali, per la maggior parte, erano copie di età romana da originali di greci perduti. In genere il copista di
età romana è un copista di età commerciale: ad Atene e a Roma si era formata una specie di industria,
un artigianato specializzato e spesso tecnicamente abilissimo. Ma in genere tali copie avevano funzione
puramente decorativa; erano copie dozzinali che davano un riflesso di uniformità a tutte le opere. Il
principio che si potesse usare il criterio dell’analisi stilistica per fondare una cronologia nacque solo con i
criteri proposti dal Winckelmann. Ma occorse quasi un secolo perché venisse riconosciuto come il più
sicuro ed infallibile. Fu proprio Winckelmann a introdurre il criterio stilistico e l'indagine formale
dell'opera d'arte, distinguendo tra 4 grandi fasi:

1) stile antico (periodo arcaico 8 sec-5 sec)

2) stile sublime (periodo classico 5 sec. Morte di Alessandro Magno; Fidia + successori, cioè V + IV
sec)
3) stile bello (periodo tardo-classico- inizio ellenismo; da Prassitele a Lisippo + alcune opere
“ellenistiche”)
4) stile della decadenza (periodo tardo ellenistico fino all’età imperiale romana)

Il Winckelmann non trascurò di ricercare e coordinare le notizie sulle opere d’arte tratte dalle fonti
letterarie. L’elemento più innovativo per il criterio secondo il quale lo studioso deve capire l’intima essenza
dell’opera d’arte e della sua bellezza.

Il gusto neoclassico ha come punto di partenza l’opera dei Winckelmann, la quale univa teoria alla pratica,
l’esposizione storica alla dimostrazione e sembrò risolvere il mistero della bellezza antica. Inoltre il suo stile
era vibrante ed elegante. Questo criterio lo aiutò ad uscire dalla << antiquaria >> e a superarla, ma
rappresenta anche un limite di essi perché, mutato il criterio estetico, muta tutta l’impostazione e la
valutazione dell’opera d’arte e ci si accorge che ciò che su di esso si era costruito non era la storia ma un
mito del proprio tempo. Tale mutamento è avvenuto con particolare lentezza nell’archeologia. Con l’inizio

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dell’Ottocento si hanno le prime campagne di scavo; tale fase militante dell’archeologia culminerà nei
decenni dopo il 1870 e porterà alla luce una larga messe di opere greche originali.

Intanto si sviluppava, attraverso la critica delle copie di età romana, la fase << filologica >> dell’archeologia.
Nè archeologi filologi e nè archeologi militanti si preoccuparono di rivedere il criterio estetico che il
Winckelmann aveva posto. La parola d'ordine era di raccogliere materiale da costruzione per un futuro
edificio storico; perciò lo spirito informatore della storia dell'arte greca e romana rimase immutato fino al
nostro secolo. Questo avvenne anche perché il giudizio estetico del Wincklemann coincideva con i giudizi
trasmessi della fonti letterarie antiche, ma le fonti classiche (Plinio e Pausania) sono tarde e si rifacevano ai
numerosi testi del tardo-ellenismo, i quali possedevano una cultura conservatrice e rivolta al passato che
vedeva proprio nell’arte passata i valori di libertà ed indipendenza distrutti una prima volta da Filippo di
Macedonia e poi da Alessandro. Nasce così una cultura che possiamo definire neoclassica (neoattica), per
la quale di tutta la scultura dell’ellenismo non si doveva tener conto, intendendo per ellenismo il periodo
apertosi dopo la morte di Alessandro (323 a.C.). Questo ha contribuito al sorgere ed il perdurare del
concetto stabilito da Winckelmann che la storia dell’arte antica avesse avuto uno svolgimento parabolico,
che tocca il suo culmine nel periodo aureo con Fidia, per poi decadere.

E di questo grandissimo Fidia in realtà non si conosceva nulla; esso era un’entità astratta magnificata dalle
fonti letterarie. C’è voluto il lavoro critico dei primi decenni del nostro secolo per mettere in luce che tale
giudizio non poteva avere alcun valore storico né assoluto, ma solo quello di un giudizio relativo all’età in
cui venne a formarsi. Sono nati molti equivoci da questa convinzione: come l’idea che l’arte greca sia
essenzialmente l’arte volta all’idealizzazione del vero, mentre oggi si può affermare che essa, più di ogni
altra arte del mondo antico, era rivolta alla ricerca di un sostanziale realismo. Essa, infatti, è l’unica che
abbandona la ripetizioni di schemi figurativi fissi e simbolici, l’unica che inventa lo scorcio, la prospettiva e il
colore locale, per afferrare l'aspetto realistico delle cose. Essa si pone precocemente sulla via del
naturalismo per realizzarlo, pienamente, nell’età ellenistica. Tuttavia naturalismo non è verismo e nelle
opere, l’artista si proponeva sempre di esprimere un'interpretazione in parte culturale ed in parte
soggettiva. Per lungo tempo, dunque, ha avuto valore la suddivisione wincklemanniana dell’arte antica in
periodi collegati tra loro da una linea parabolica di svolgimento.

Pur riconoscendo i grandi meriti di Winckelmann l’errore di quella costruzione parabolica fu avvertito molto
presto. Il primo fu Federico Schlegel, uno degli iniziatori del movimento di idee che porterà allo
storicismo. In un quaderno di note scrisse che << per misticismo estetico Winckelmann ha errato e solo in
questo egli ha trovato seguito >>; con misticismo estetico egli intendeva sottolineare il fatto che
Winckelmann ha veduto l’arte greca attraverso un processo di idealizzazione dell’arte stessa, quasi volta a
creare dei modelli di astratta perfezione, basati sulla bellezza formale assoluta, l'assenza di pathos, il
prevalere della forma scultorea su quella pittorica. Ci vorrà più di un secolo perché questa visione fosse
accantonata.

Da questa visione sono nati molti equivoci come quello che l'arte greca fosse rivolta essenzialmente
all'idealizzazione del vero, mentre secondo Bandinelli essa fu rivolta più di ogni altra arte del mondo antico
alla ricerca di un sostanziale realismo: fu l'unica ad abbandonare la ripetizione di schemi figurativi fissi e
simbolici, ad inventare lo scorcio, la prospettiva e il colore locale per afferrare l'aspetto realistico delle cose.
Essa si pone così precocemente sulla via del naturalismo (non nel senso di verismo cioè con fotografica
imitazione della realtà) per realizzarlo pienamente nell'età ellenistica.

Alla luce di quella concezione solo le opere artistiche che rispecchiano l'ideale della bellezza assoluta
possono essere considerate vere opere d'arte greca, mentre tutte le altre che si differenziano da quel
ideale sono considerate o preparatorie rispetto ad esso o manifestazioni di decadenza. Restava quindi
preclusa una valutazione assoluta, di per se stessa, di ciascuna delle fasi artistiche che precedono e seguono
l'età classica.
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Ci furono anche delle concrete conseguenze culturali, tra cui due casi esemplari:
 quando Lord Elgin staccò i marmi del Partenone di Atene (poi venduti nel 1819 al British Museum
di Londra), la cui decorazione era attribuita dalle fonti letterarie alla direzione di Fidia, gli
archeologi negarono che i marmi potessero avere una tale origine e addirittura che fossero opere
greche, pensando fossero copie di età romana, il che significava attribuirli al periodo ritenuto dal
Winckelmann di massima decadenza. Fu Canova che, nonostante fosse permeato di teorie
neoclassiche, con la sua sensibilità per la qualità artistica capì ed affermò di trovarsi di fronte a dei
capolavori degni del nome di Fidia.

 Qualcosa di simile si ripeté anche in tempi più recenti quando nel 1877 il governo tedesco fece
condurre i grandi scavi nel santuario di Olimpia. Quando questi marmi furono rinvenuti, delusero
gli archeologici che li giudicarono opere d’arte provinciale, di una scuola secondaria. Si criticò, per
esempio, il soggetto nella figura dello stalliere seduto che si tocca il piede con il mano, gesto che
alla falsa visione che si aveva della sublima arte greca apparve troppo realistico e volgare; gesto
invece di possente interpretazione poetica della realtà.

Questi due episodi dimostrano che l’immagine che la critica archeologica si era fatta dell’arte greca non
corrispondeva alla realtà e che quindi occorreva accostarsi alla comprensione di quest’arte con concetti
diversi. Ciò nonostante restano innegabili i meriti del Winckelmann che può essere considerato il padre
dell’archeologia intesa come storia dell’arte. Un uomo che ha sfidato gli antiquari romani sprezzanti di ogni
ingegno e progresso, che ci mostra anche la sua personalità di intellettuale romantico che agisce
soprattutto sotto la spinta di un desiderio di gloria personale.

La prima edizione dell’opera fondamentale del Winckelmann fu pubblicata a Dresda nel 1764. Ebbe una
seconda edizione, dopo la morte dell'autore, a Vienna a cura dell'Accademia di Bele Arti e col titolo "Storia
del disegno presso gli antichi" ne fu pubblicata a Roma nel 1783 la traduzione italiana. Essa è
fondamentale per comprendere il metodo tenuto dal Winckelmann:

1) Primo libro: origini delle arte e delle differenze presso le varie nazioni. Nel primo capitolo, dopo
aver considerato l’idea generala delle arti del disegno, nota che simile ne è l’origine presso i diversi
popoli, dunque lo stile arcaico ha punti di contatto presso le varie genti dell'antichità. Nel secondo
capitolo tratta dell’influenza del clima sulla figura e sullo spirito umano per spiegare le eccezionali
capacità artistiche dei greci

2) Secondo libro: dedicato alle arti del disegno presso Egizi, Fenici e Persiani

3) Terzo libro: studia le arti del disegno presso gli Etruschi ed i popoli confinanti, considerando più
arcaica e primitiva l'arte etrusca di quella greca

4) Quarto libro: studia le arti del disegno presso i Greci e l’idea del bello da essi rappresentato

5) Quinto libro: il Bello considerato nelle varie figure dell'arte greca, cioè come e quanto questa idea
sia stata realizzata nelle singole opere

6) Sesto libro: tratta del panneggio, con uno studio di carattere formale e antiquario al tempo stesso

7) Settimo libro: dedicato alla parte tecnica: meccanismo della scultura presso i greci e della loro
pittura

8) Ottavo libro: offre una sintesi dei progressi e della decadenza dell’arte presso i Greci e i Romani,
analizzando i tre momenti dello stile antico, dello stile sublime e della decadenza.

Notiamo che si parla sempre e solo di arte greca e non romana. Sarà solo nel 1895, con Wickhoff, che si
incomincia a parlare di arte romana come un’arte che presenta nuovi autonomi elementi di originalità.
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Statua trovata ad Anzio alla fine del XV secolo, custodita dapprima nel giardino del palazzo del cardinale
Giuliano della Rovere e trasportata poi al Belvedere del Vaticano, ove si trova tuttora. Fu restaurata dal
Montorsoli, che ne integrò le parti mancanti (mano sinistra, avambraccio destro, parte superiore del
puntello e varie parti del panneggio e delle gambe). Per circa quattro secoli rappresentò una delle statue
più famose ed ammirate dell'antichità: Winckelmann vi vide incarnato "il più alto ideale dell'arte fra tutte le
opere antiche", e rilevava, nella mancanza di vene e di tendini, il segno di uno spirito divino.

"La statua dell'Apollo di Belvedere è la più sublime tra tutte le opere antiche che fino a noi si sono
conservate; il complesso delle sue forme e 'l suo atteggiamento mostra la grandezza divina che lo investe".
E' uno straordinario brano di prosa molto diverso da quello che poi troviamo nella generazione seguente di
filologi che useranno un genere di prosa asciutta e oggettiva, ma anche estremamente noiosa. Il maggior
pregio è il tentativo di trasmettere con le parole la sensazione dell'opera d'arte. I punti che meritano
maggior rilievo sono: la teoria << della linea ondulata >>, nata nell'ambiente inglese e riconosceva la
bellezza della linea mossa e dei contorni ondeggianti, e l'opera d'arte come un tonico, per l'effetto che
produce sullo spettatore.

Archeologia filologica
La filologia come indagine e sistemazione dei testi letterari e della loro trasmissione manoscritta era sorta
nel periodo del tardo ellenismo; nel mondo moderno essa può dirsi nata quando Friedrich August Wolf,
nel 1777, chiese e ottenne di essere immatricolato, diciottenne, all’università di Gottinga come studiosus
philogiae e non, come voleva la consuetudine, studiosus theologiae. Da quel momento la filologia fa il suo
ingresso nella nomenclatura universitaria ufficiale in Europa. Essa si ffermò particolarmente in Germania e
si divise in due rami:

 la grammatica comparata

 la critica dei testi

Fu appunto il metodo utilizzato per la critica dei testi quello che indirizzò la ricerca archeologica volta a
ricostruire la storia della scultura greca. Dopo il Wincklemann inizia, così, il periodo filologico. E' proprio la
scuola filologica a scoprire per la prima volta che il Wincklemann non aveva mai visto originali greci ma solo
copie di età romane. Fra i primi studiosi di questo periodo bisogna ricordare l’Overback, il Friederichs ed il
Brunn. Dal 1830 e per un secolo, l'archeologia diviene una scienza diretta dalle scuole di studiosi tedeschi.
Lo studio delle antichità greche fu ampiamente favorito dallo Stato prussiano poiché la Germania, nella sua
rapida ascesa alla testa delle nazioni europee durante il secolo scorso, vide in se stessa l’erede diretta della
civiltà della Grecia. Il Friederichs identificò in una serie di copie il Doriforo di Policleto, cioè la statua che
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era considerata il canone della formazione classica; il Brunn, basandosi sulle fonti letterarie, tracciò la
prima vera storia dell’arte greca. L'Overback raccolse e classificò il materiale iconografico-mitologico e
pubblicò i testi letterari basandosi sulle citazioni fatte nell'opera del Brunn, formando così una raccolta che
rimane ancora oggi indispensabile strumento di lavoro, nonostante le sue lacune con assenza di tutte le
fonti relative all'architettura. È proprio la scuola filologica a scoprire che Winckelmann non aveva mai
visto originali greci ma solo copie romane perché la maggior parte di sculture esistenti a Roma era appunto
copie di età romana di originali greci.

In questo periodo, dunque, ci si volge con metodo critico allo studio dei testi antichi e se ne traggono fuori
tutte le notizie relative agli artisti, cercando di mettere d’accordo le varie fonti e di correggere
filologicamente i testi corrotti. Da questo doppio processo di indagine artistica e di esame filologico deriva
l’ipotesi che forma il nucleo di tutte queste ricerche:

 da una parte abbiamo una serie di copie romane di originali greci, di sculture, che dovevano essere
le più famose ed apprezzata dall’antichità;

 dall’altra una serie di menzioni di opere di grani artisti greci, descritti dalle fonti antiche.

E’ da supporsi che le due serie, quella delle sculture conservate e quella delle opere menzionate dalle fonti,
debbano coincidere, essendo entrambe il riflesso delle liste di nobilia opere. Il problema che si pone agli
studiosi è pertanto di indentificare le une nelle altre, mettendo d’accordo monumenti e fonti e questo
costituisce il tema fondamentale della scuola filologica.

Si parla di archeologia filologica non solo perché parte come dato essenziale dalla fonte
letteraria antica piuttosto che dall'opera d'arte, ma anche perché cercò di ricostruire l'originale
greco attraverso le varie copie di età romana, allo stesso modo in cui si cerca, attraverso l'analisi
critica, di stabilire la versione migliore di un testo antico, la più prossima al testo originale.
Questo metodo è servito a porre le basi della ricostruzione di quanto era possibile ricavare in
fatto di documentazione dalle tarde fonti letterarie. Tuttavia esso ebbe anche due effetti
“collaterali”:
 concentrò la ricerca su questo problema addirittura da trascurare gli originali dell'arte
greca, soprattutto nel caso fossero mutilati
 perse di vista lo studio della qualità artistica dell'opera d'arte a favore dell'iconografia
artistica

Partendo dal concetto di questo parallelismo tra copie conservateci e notizie delle fonti, la prima
identificazione fu quella dell’Apoxymenons di Lisippo in una copia in marmo allora scoperta (nel 1849) e
ora conservata nel Vaticano. Questa identificazione sulla base della descrizione di Plinio fu resa più
facile per l’atto stesso compiuto dalla figura, che si pulisce con lo strigile (non essendo ancora entrato
nell’uso il sapone, che si conobbe solo dopo il contatto con i popoli barbarici, per lavarsi si usava ungersi
con olio e con una polvere finissima di pomice e per togliersi dalla pelle l’impasto untuoso che così si
formava, si adoperava lo strigile cioè una specie di lungo e stretto raschiatoio a doccia ricurvo, e
abbondante acqua).

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Questa statua, corrispondente alla descrizioni delle fonti, fu di facile identificazione e molto utile per quelle
successive di altre opere. L’identificazione dell’Apoxymenons insegnò che le statue in bronzo potevano
essere copiate in marmo, ma che qualche traccia tuttavia rimaneva della tecnica diversa usata. Elemento
assai evidente nella traduzione in marmo di un originale in bronzo è quello dei puntelli: la statua creata in
bronzo si regge anche se è fuori del suo equilibro statico; il copista, invece, passando dal bronzo al marmo,
deve aggiungere per la statica della statua dei punti di appoggio: un tronco d’albero, una colonnetta, o , per
sorreggere parti completamente libere o eccessivamente traforate, deve ricorrere a vari puntelli di raccordi
che uniscono, per esempio, il braccio proteso al fianco; ripieghi tecnici che disturbano la composizione
originale, ma che si rendono necessari per la statica della figura. Perciò, dove ci sono puntelli, le statue non
sono originali, ma copie: fu questo un primo esteriore criterio di classificazione.

In seguito, l’identificazione più importante fu quella compiuta da Friederichs del Doriforo di Policleto,
partendo da una replica del Museo di Napoli. Il Doriforo di Policleto era stata la creazione statuaria che
risolse il problema centrale dell’arte greca, nel passaggio dall’età arcaica all’età classica; quello, cioè, di
rappresentare la figura virile ignude e sante, ben proporzionata, ferma, non impegnata in una azione
precisa, ma tale da avere la possibilità di movimento. Nel periodo arcaico il Kouros, cioè la statua virile
ignuda, non rappresentava un determinato personaggio, né una divinità. Il kouros, =fanciullo e così la kore,
suo omologo femminile, può essere dedicato in un santuario come offerta, essere eretto sopra una tomba
come memoria senza alcun rapporto di né di contenuto, né, tanto meno, fisico con la persona
dell’offerente o con la divinità cui è offerto. Lo stesso tipo, però, può essere usato anche per l’immagine di
culto della divinità, e allora ciò che lo caratterizza sono gli attributi che gli vengono posti in mano. Altrimenti
il kouros e la kore sono astratte immagini. Nel processo di secolarizzazione dell’arte, tra la fine del VI secolo
e la metà del V secolo a.C., il problema fu di non uscire da questo tipo di figura, ma di darle la possibilità del
movimento, arricchendola di plasticità e costruendola con un sistema equilibrato di proporzioni. Questa
ricerca dura per tre generazioni e trova la sua soluzione con Policleto, soluzione che rimane, poi, fissa e
canonica per tutto lo svolgimento dell’arte antica. Per tutto il IV secolo ed oltre si hanno variazioni della
statua <<canonica>> di Policleto, del Doriforo, da lui stesso illustrato con uno scritto intitolato << canone
>>, cioè regolo.

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Ancora in età romana l’Augusto detto di Prima Porta non è altro che il Doriforo, vestito di corazza e con
braccio sollevato, e le statue imperiali della tarda antichità ancora ripeteranno lo stesso schema
compositivo. L’identificazione del Doriforo fu dunque molto importante per conoscere una norma
fondamentale dell’arte greca. Essa fu dovuta a Friederichs, il quale identificò il Doriforo in una copia del
Museo di Napoli. Come poté Friderichs giungere all’identificazione?

 Egli notò anzitutto che di questo tipo di statua atletica ci sono numerosissime repliche; perciò
doveva trattarsi di una statua famosa. Da ciò deriva anche la sicurezza che non si tratta di un
originale, ma di una delle tante copie.

 L’originale era in marmo o in bronzo? Attraverso lo studio accurato della capigliatura, Friderichs
giunge al convincimento che doveva trattarsi di un bronzo. Quindi si dovevano togliere i puntelli,
come aggiunte della copia.

 Studia allora la composizione della figura, che è armoniosa e rivela che l’artista cercava l’equilibrio
delle varie parti della figura: da una pare la gamba è tesa, l’altra è leggermente flessa e in
corrispondenza all’impiantarsi della figura si ha lo spostarsi del busto e della testa per creare
l’equilibrio della composizione; quindi analizza il chiasma, cioè le masse del corpo composto ad X
che creano il senso di equilibrio ed al tempo stesso di possibilità di movimento nella statua non
impegnata nell’azione. Analizzando tutti questi elementi, il Friederichs trova una rispondenza tra
questo equilibrio e quello descritto dalle fonti rispetto a Lisippo che fu il perfezionatore di questo
tema. Qui si nota, però, una forma più dura, in cui è presente qualche traccia di arcaismo. Perciò
non può essere Lisippo, del quale era già stato identificato l’Apoxyomenos. Si risale quindi dal IV al
V secolo, il che concorda con l’epoca in cui le fonti pongono Policleto che, in quel tempo, non osò
andar oltre, nel movimento delle figure.

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Tra tutte le statue raffiguranti il Doriforo, viene riconosciuta giusta la ricostruzione del copista di Napoli, che
aveva messo in mano alla statua una lancia (Doriforo= portatore di lancia). Riassumendo tutti questi
elementi di indagine stilistica e delle fonti, il Friderichs arrivò dunque all’identificazione del Doriforo.

Procedendo con sistema analogo a quello del Friederichs, altri studiosi cercarono di identificare numerose
copie con gli originali descritti dalle fonti. Una parte maggiore dell’archeologia dell’Ottocento è impegnata
in questo lavoro con tanto zelo e con tale passione, che si finì per studiare più le copie di età romana che gli
stessi originali che venivano messi in luce nello stesso tempo nelle varie campagne di scavo. La tendenza a
costruire una storia dell’arte greca tutta sulle copie trovò la sua massima espressione nel Furtwaengler,
dotato di una piena conoscenza diretta di tutti i musei del mondo e di una formidabile memoria visiva, ebbe
mano particolarmente felice nelle identificazioni, anche se non tutte le sue ricostruzioni sono ancora oggi
accettate dagli studiosi. (Tra le più discusse è quella della Athena Lemnia di Fidia, ricostruita congiungendo
la testa Palagi del Museo di Bologna con un torso del museo di Dresda).

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Il pericolo maggiore di tale impostazione di studi era dato dal fatto che si finiva per ricostruire l’arte greca
attraverso le copie, trascurando gli originali anche là dove essi esistono e si perpetuava, attraverso le copie,
una visione fredda e accademica: la visione neoclassica. Così si parla dell’Athena Lemnia ricostruita dal
Furtwaengler per studiare la personalità di Fidia e si pongono in secondo piano i rilievi del Partenone.
Questa impostazione del problema dell’arte greca, e il metodo in essa seguito, può dirsi prettamente
filologica, non tanto perché parte, piuttosto dalle fonte letterarie antica che non dall’opera d’arte, ma
perché attraverso le varie copie di età romana si cercò di ricostruire il testo originale delle opere greche.
Questo metodo è servito a porre le basi della ricostruzione di quanto era possibile ricavare, in fatto di
documentazione, dalle tarde fonti letterarie. Ma esso ha avuto due effetti:

1) Quello di concentrare la ricerca su questo problema a tal punto di trascurare gli originali dell’arte
greca; e c’è voluto quasi mezzo secolo per uscire da questa posizione e capire che un originale,
anche se mutilo e di qualità secondaria, e pur sempre più prezioso, per farci capire il linguaggio
artistico del suo tempo, di una copia d’età romana.

2) Quello di perdere di vista lo studio della qualità artistica dell’opera d’arte a profitto della
iconografia artistica, equivoco che ancor oggi riaffiora negli studi di archeologia.

In alcuni casi le prime dimostrazioni sono rimaste definitive, come, per esempio, quelle delle identificazioni
dei donari dei sovrani pergameni per le vittorie sui Galati, dovute a Brunn, che fu, tra gli studiosi di arte
antica della seconda metà del secolo XIX, quello più dotato di intelligenza critica dell’opera d’arte. E,
riconosciute le figure come immagini di barbari, il Brunn le collegò con la notizia di Plinio circa gli artisti
che avevano celebrato le battaglie condotte contro i Galati vittoriosamente da Attalo I. Più tardi, a questo
raggiunto punto fermo della storia dell’arte ellenistica, egli aggiunse il riconoscimento del cosiddetto
<<piccolo donario di Attalo>>, sulla cui datazione si discute ancora.

Nel 1514 erano state scoperte a Roma figure di combattenti scolpite in grandezza ridotta, un po’ meno circa
due terzi del vero, e si erano spiegate in senso romano: gli Orazi e i Curiazi. Queste sculture erano poi state
disperse, 4 a Napoli con la collezione Farnese, 3 a Venezia, e il Burnn vi riunì anche una statua del Vaticano
e una del Louvre. Tutto questo complesso fu ricollegato dal Brunn, che vi aveva riconosciuto una unità
stilistica, con il passo di Pausania che descrive un dono del re Attalo dedicato all’acropoli di Atene,
composto di quattro gruppi di figure alte circa 90 cm raffiguranti una Gigantomachia, la Amazzonomachia,
la battaglia di Maratona e la vittoria di Attalo sui Galati. Ma poi occorre alla documentazione passare alla
storia. In altri casi, invece, talune attribuzioni, che furono faticosamente raggiunte e poi apparvero per
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qualche tempo assicurate, sono tornate a essere messe in dubbio, contribuendo a far scadere la fiducia in
quella ricerca combinatoria e attribuzionistica che aveva costituito, nell’ ambito dell’archeologia filologica,
la principale o almeno la più ricercata attività degli studiosi. Uno di questi casi è diffusamente descritto da
Andreas Rumpf ed è la vicenda della cosiddetta <<Eirene e Ploutos>> di Kephisodotos.

Questa statua raffigurante una donna che tiene un bambino appoggiato al suo braccio sinistro, pervenuta
attorno al 1760 nella raccolta della Villa Albani a Roma, fu dal Winckelmann interpretata come "Giunone
Lucina", ma dallo stesso più tardi definita "Ino-Leucotea con piccolo Bacco". Ennio Quirino Visconti
respinse l’attribuzione del Winckelmann; la statua fu portata a Parigi da Napoleone e successivamente fu
ritenuta un originale greco dell’età di Fidia, poi attribuita al IV e interpretata come Gea.

Due altri studiosi ritennero di collegare sia la moneta che la statua a due passi di Pausania dove viene
menzionata una statua esistente di Atene, raffigurante Eirene (la Pace) con il fanciullo Ploutos (la
ricchezza) sul braccio, opera di Kephisodotos. Anche qui intervenne il Brunn dimostrando per prima cosa
che si trattava di una copia di età romana e non di un originale e che il suo stile lo collocava nel trapasso fra
V e IV secolo. Alla fine fu il Rumpf a proporre una interpretazione definitiva dell’opera, identificandola
come <<Tyche> e di attribuire l’originale a Prassitele stesso, padre di Kephisodotos.

Vediamo così come una ricostruzione storico-artistica basata sull’analisi stilistica possa scuotere i
fondamenti anche di attribuzioni puramente filologiche che sembravano costruire una certezza. Dunque
l’archeologia filologica costituì una prima base di chiarimento e di ordinamento del materiale monumentale
superstite; ma scadde quando divenne mero gioco attribuzionistico con fini più di carriera accademica che
non di concreta ricerca storica. Per esempio, se prendiamo la ricostruzione del "Doriforo di Policleto" fatta
da Friederichs, con essa egli ha stabilì senza dubbio una cosa importantissima, quando dimostrò che si
trattava di una copia del <<canone>> di Policleto, e ciò permise la classificazione di molte altre statue che a
quel modulo si erano ispirate. Sorse così la tendenza a prendere la copia o, piuttosto, la ricostruzione in
gesso fatta combinando le varie copie, come misura dell’arte di Policleto. Anche per la pittura antica si
cadde nello stesso equivoco, quando, ad un certo punto, si pretese di ricostruire la pittura classica andata
perduta per mezzo della pittura di età romana solitamente detta <<pompeiana>>, perché, dato il carattere
della distruzione subita da Pompei e da Ercolano, solo qui è possibile ritrovarla conservata.

La scuola filologica, dunque, riconobbe giustamente in una serie di quadri, inseriti come pitture decorative,
nelle pareti delle case di Pompei, delle riproduzioni, più o meno fedeli, delle pitture originali greche, che in
parte corrispondevano a quelle descritte dalle fonti. Ma si trascurò il fatto che quelle pitture davano

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innanzitutto testimonianza dell’arte del tempo nel quale furono eseguite e che si potevano, risalendo da
esse, ricostruite non tanto le singole pitture perdute, raramente copiate con fedeltà, quanto i problemi
formali che erano stati affrontati dalla grande pittura greca, a patto di saper interpretare intelligentemente
criticamente le fonti. Anche qui si tentò di ricostruire gli originali attraverso le varie interpolazioni. Ma se
difficile è trovare un criterio per giudicare la veridicità del testo, ancor più difficile era tale operazione nel
campo della pittura. Quando fu fatto questo lavoro di esegesi artistica per la pittura antica, ci si basò su
alcuni criteri, che, poi, sono apparsi fallaci. Per esempio, si partì dal concetto che nella pittura greca non
potessero esserci sfondi paesistici, perché si considerava che essa seguisse gli stessi criteri formali,
accademici, di chiarezza lineare e di equilibrio plastico e compositivo, che l’estetica winckelmanniana aveva
attribuito (erroneamente) alla scultura, considerata l’arte maggiore della civiltà greca. Seguendo questo
concetto, là dove nelle pitture pompeiane si apriva uno sfondo, si affermava che si trattava di una
interpolazione romana. In qualche caso, interpolazioni di questo genere sono accettabili, ma la pittura di
paesaggio risulta ormai chiaramente essere una conquista ellenistica.

Queste fonti, perciò, hanno trasmesso una immagine dell’arte greca fissata su canoni estetici che sono veri
soltanto in parte, perché ci danno conoscenza di un periodo limitato e di un punto di vista determinato.
Invece, la critica filologica accettò come elemento di giudizio quello che risultava dalle fonti antiche, come
esso era già stato accettato da Winckelmann per la coincidenza tra il suo gusto neoclassico e quello delle
fonti antiche che sono prevalentemente d’indirizzo classicista. Come reazione a questo errore di
impostazione critica si manifestò, nel secondo quarto del secolo XX, la tendenza a trascurare la tradizione
delle fonti antiche e a guardare alla pittura pompeiana direttamente, con lo stesso occhio con il quale si
considererebbe una pittura a noi contemporanea, e a considerarla unicamente come <<pittura romana>>.
Ma già il libro di Pirro Marconi, "La pittura dei Romani", del 1929, che era opera di un giovane archeologo
di buona preparazione, conteneva, accanto a felici osservazioni, gravi incomprensioni ed errori. Del tutto
inaccettabili, perché fondate sull' ignoranza della consistenza storica della pittura greca e dei suoi problemi.

Tra i fondatori della scuola filologica dell’archeologia, va posto in particolare evidenza il Brunn che, pur
basando le proprie indagini sulle fonti letterarie e la ricostruzione degli originali attraverso le copie, fu
quello che dimostrò di possedere un fine intuito artistico. Egli perciò seppe formulare giudizi più adeguati
dei contemporanei e anche di molti studiosi successivi. Oltre alle copie vere e proprie c’era da tenere conto
di una varietà infinita di imitazioni con varianti. L’esempio citato della statua onoraria di Augusto trovata a
Prima Porta che non è altro una variante travestita del Doriforo di Policleto, mostra come queste varianti
venissero eseguite con estrema facilità e libertà. Diventa quindi una vera impresa il classificare tutte le
varianti e le derivazioni per ricostruire gli originali dell’arte greca del V e del IV secolo. Non si curò, invece,
di usare queste copie e varianti per studiare il gusto di età romana, dell’età cioè alla quale queste copie
appartengono; ma tale problema non apparve interessante dato che si ebbe come unico scopo di
ricostruire l’arte greca, la sola ce appariva culturalmente feconda ed <<educativa>>.

Il Furtwaengler ha riunito le principali indagini e ricerche nella sua opera principale Capolavori della
scultura greca, considerata a lungo l’ultima parola sull’arte greca. Ma è pur singolare che questa storia
della scultura greca non tratti che di copie di età romana. Il Furtwaengler ha lasciato anche traccia durevole
negli studi sulla ceramica greca: con un disegnatore assai abile egli pubblicò una raccolta di grandi tavole
con il disegno dei vasi dipinti più belli, accompagnata da studi monografici vaso per vaso. Quest’opera sta a
fondamento degli studi sulla ceramica greca, particolarmente di quella attica dei secoli VI e V, la quale, oltre
al suo valore intrinseco, è documento basilare per ricostruire lo svolgimento stilistico dell’arte greca dello
stesso tempo. Ma quest’opera ha prodotto anche un equivoco, in quanto il Reichhold, per quanto
disegnatore abilissimo, rimase sempre inferiore all’originale e soprattutto i suo disegni hanno la freddezza
delle copie. Data la maggior facilità di riprodurre un vaso da questi disegni sviluppati sul piano, piuttosto
che affrontare le difficili riproduzioni fotografiche della superficie curva e lucida del vaso, si diffuse l’idea

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della ceramica greca come accademica, fredda, sostanzialmente lontana da quella degli originali. Gli studi
esclusivamente rivolti alle copie romane e le copie moderne della pittura vascolare, hanno contribuito a
perpetuare troppo a lungo una visione falsata dell’arte greca.

Il Winckelmann ed i suoi contemporanei avevano instaurato una relazione precisa e determinata con
l’arte greca, che era per loro il culmine della perfezione; perciò avevano con quest’arte un rapporto vivo,
anche se questo non può essere più il nostro, basato come era su criteri estetici molto diversi dai nostri.
Noi, invece, non abbiamo più una relazione viva con l’arte greca: siamo disposti a riconoscere alcune sue
opere come sommi capolavori ma per sentito dire, essa ci appare piuttosto misteriosa. Ma nessuna opera
d’arte può sentirsi vicina e può comprendersi effettivamente, se la nostra sensibilità e la nostra cultura non
ci pongono in grado di risentire come viva la problematica che accompagnò la creazione di essa. Attraverso
la conoscenza delle posizioni critiche via via assunte dagli studiosi e la critica di esse, deve essere possibile
creare tra noi e l’arte greca una relazione viva. Già la diffusione delle fotografie di sculture greche originali e
il progressivo storicizzarsi degli studi archeologici hanno avviato un nuovo rapporto fra la cultura odierna e
l’arte della Grecia Antica. Numerosi scritti di artisti e di critici moderni compresi nei movimenti della
cosiddetta prima avanguardia nel primo trentennio di questo secolo hanno effettivamente negato e
viturpato l’arte greca. Ma, esaminando questi scritti, vediamo che la polemica contro l’arte greca non fu in
realtà contro questa, ma contro l’immagine che di essa avevano diffuso gli archeologici dell’Ottocento,
immagine formatasi a contatto non degli originali, ma delle copie romane. Ci si oppone in realtà alla visione
fredda, classicistica dell’arte greca. Una delle tenaci conseguenze dell’equivoco winckelmanniano fu quella
di considerare l’arte greca come un’arte idealistica, che rifugge dalla realtà. Invece la caratteristica
essenziale dell’arte greca è proprio quella di essersi messa sulla via della comprensione della realtà e
dell’espressione dell’energia vitale concentrata nella forma della natura. Questa stessa tendenza alle forme
essenziali, astratte, si trova nell’arte egiziana, nell’arte della Mesopotamia, nell’arte assira. Invece l’arte
greca affronta la realtà e in conseguenza di questa sua posizione realistica, che è unica del mondo antico,
scopre alcune norme che saranno poi fondamentali per l’arte europea: scorcio, prospettiva, color locale ed
effetto luministico in pittura. Non dobbiamo infatti considerare l’arte greca fondamentale per la civiltà
europea solo per l’architettura e la scultura. Anche la pittura greca pose i problemi di fondo della pittura
europea. Noi leggiamo per esempio, che tra le varie immagini di Alessandro Magno, dipinte da Apelle
unico pittore autorizzato a ritrarlo dal vero e noto per averne saputo mettere in evidenza il colorito roseo
ed i capelli biondi, vi era un quadro, nel quale Alessandro appariva come Zeus, col fulmine in mano, e che
questo dipinto appariva singolare, perché la mano che reggeva il fulmine <<sembrava uscir fuori dal
quadro>> e l’eroe era rappresentato di colorito assai scruto, colo petto inondato di luce. Anche attraverso
la grossolana descrizione di Plinio si capisce che in questo quadro l’artista aveva affronta il problema del
chiaroscuro ed un problema luministico, per cui aveva dovuto rappresentare il corpo scuro per dar risalto
con la luce al fulmine impugnato nella mano. Problema piuttosto molto complesso, che si può intuire
attraverso le fonti, senza che tuttavia si possa giungere a giudicare dello stile del grande artista vissuto nella
seconda metà del secolo IV.

Le fonti letterarie
La scuola filologica fece fare progressi decisi, nella parte documentaria, agli studi di archeologia intesa
questa come storia dell’arte antica. Ma fece perdere alla nostra cultura il contatto col problema, così vivo
per il Winckelmann e i suoi contemporanei, di intendere ciò che l’arte greca significa per noi. La scuola
filologica prese come punto di partenza le fonti letterarie, ricercando nel patrimonio monumentale
soprattutto la conferma alle notizie e alle valutazioni critiche date dalle fonti letterarie antiche. Anche le
grandi campagne di scavo intraprese nell’Ottocento imponevano d’altra parte la necessità di una buona
conoscenza e di un continuo controllo delle fonti letterarie. Dobbiamo pertanto rivolgerci a tali fonti ed

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averne una conoscenza più vicina e diretta, per sapere il valore che possiamo ad esse attribuire e l’uso che
possiamo farne. Le fonti sono molteplici, dirette ed indirette.

 Le fonti dirette sono costituite dagli scrittori che ex-professo con cognizione di causa si nono
occupati di cose d’arte;

 Le fonti indirette, dalle opere letterarie nelle quali è contenuta la menzione di un’opera o le notizie
su un artista, o sono espressi giudizi critici.

Le fonti per noi più importati, perché le più ampie, sono la "Naturalis Historia" di Plinio e la "Periegesi
della Grecia" di Pausania. Quanto alle altre fonti esse sono state raccolte dall’Overback e pubblicate in
un volume intitolato "Le fonti letterarie antiche per la storia dell’arte greca e romana". Questa è una
raccolta quasi completa dei passi tratti dalla letteratura greca e latina, nei quali si trova un accenno ad
un’opera d’arte. Bisogna usarlo tuttavia con cautela, considerandolo piuttostocome indice che come un
testo, perché le fonti citate dall’Overback si riducono a dei passi con la solo citazione dell’opera d’arte,
mentre spesso nel contesto dell’opera il passo acquista un significato ben più preciso. Occorre quindi
sempre risalire dall’Overback alla lettura del testo integrale.

Plinio
Plinio il Vecchio con la sua Naturalis Historia rimane la nostra fonte più completa e preziosa, nonostante
tutti i suoi limiti. In una lettera di presentazione della sua opera all’imperatore Vespasiano, Plinio mette in
risalto la novità della sua opera, che raccoglie 20.000 notizie e dati di fatto relativi a tutto il mondo della
natura e degni di memoria, prese da una quantità immensa di volumi, alcuni anche poco noti.

E’ una posizione che sta tra una mentalità scientifica, in quanto vuol rendere preciso conto delle sue
letture, ed un impostazione dilettantistica, in quanto riconosce egli stesso di non essere uno studioso di
professione e di raccogliere piuttosto la curiosità. Come procedesse nel suo lavoro ce lo dice suo nipote
Plinio il Giovane, egli descrive lo zio come un uomo molto intelligente ed incredibilmente studioso, che
leggeva continuamente e faceva notare al suo segretario tutto ciò che leggeva. Si vede così come è nata
questa opera, attraverso la lettura di molte opere da cui via via egli prendeva quello che gli pareva
interessante; è un’opera nata da un grande schedario di notizie, poi messe insieme.

I libri della Naturalis Historia che ci interessano particolarmente sono XXXIV, XXXV, XXXVI, che affrontano
questioni artistiche partendo da notizie relative a certi aspetti della natura: dopo aver parlato delle pietre,
dei marmi e della loro natura, viene trattata la scultura; dopo i metalli, il bronzo e la metallurgica; dopo le
terre colorate, la pittura. Plinio raccolse così ciò che si conosceva nella sua epoca delle arti figurative, ma
senza rivederle e coordinarle, come risulta da alcune contraddizioni tra le notizie. Oltre al problema della
traduzione in latino di espressioni retoriche del tardo ellenismo, le contraddizioni sono dovute al fatto che
Plinio attinse a scritti del tardo ellenismo (seconda metà del II sec. a. C.) di carattere retorico, accomunati da
una visione nostalgica e retrospettiva del passato e delle antiche glorie, a seguito della perdita di
indipendenza e libertà prima sotto il dominio macedone e poi sotto quello romano.

Tale è l’impostazione che Plinio trova nelle sue fonti, tra le quali la principale è Apollodoros ateniese,
autore di una cronaca enciclopedica in versi che elencava avvenimenti e personaggi del tempo della guerra
troiana e 1040 anni dopo di essa, cioè al 44 a.C. Per quanto riguarda l’arte, viene fatta allora l’esaltazione di
Fidia e Prassitele e dopo Lisippo si vede iniziare la decadenza. Tra le altre fonti di Plinio c’è però anche
Xenokrates ateniese, scultore egli stesso e, oltre che scrittore di cose d’arte, discepolo di Lisippo, vissuto
alla metà del III secolo. Per lui, Lisippo, rappresenta il massimo punto d’arrivo dell’arte greca e dobbiamo
tener presente che da Lisippo deriva la spinta iniziale verso lo stile che diciamo ellenistico. C’è quindi uno
sfasamento tra le opinioni di Xenokrates e quelle di Apollodoros, ma Plinio le riferisce sullo stesso piano.

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Perciò bisogna rendersi conto, volta per volta, della fonte da lui usata, per comprendere il valore della
notizia riferita.

Pausania
L’altra fonte principale per la conoscenza dell’arte antica è Pausania, che visse nel II secolo dell’era volgare.
La sua opera rientra in un genere di scritti del tardo ellenismo, i cui autori venivano detti <<periegeti>>, cioè
descrittori di viaggi, autori di guide per il forestiero che visitava i grandi santuari, dove i secoli avevano
accumulato edifici, opere d’arte e leggende. Nell’età del tardo ellenismo, la Periegetica diviene un
<<genere>> coltivato volentieri in armonia con quelle tendenze retrospettive. Fra i molti scritti periegetici
quelli che ci sono conservati quasi al completo sono appunto quelli di Pausania. Della sua Periegesi della
Grecia ci restano dieci libri, forse lasciati interrotti dall’autore. Quest’opera segue un ordine geografico
molto chiaro: comincia, infatti, dall’Attica, passa nel Peloponneso, facendo un giro da sinistra a destra e,
chiusa la spirale, passa all’Arcadia, quindi alla Beozia, ecc.. Considerava la Periegesi come un libro di lettura,
fornendo la conoscenza dei luoghi e dei monumenti, pretesto per ricapitolare in modo variato la storia della
Grecia, intercalandovi narrazioni mitologiche. Quest’opera è certamente stata composta per la massima
parte a tavolino, sfruttando opere di argomento localmente più ristretto, dei periegeti precedenti, e così le
opere di storici, ma anche le opere dei poeti fino ai mitografi più tardi. Per alcune delle località descritte è
sorta però la questione se Pausania abbia visitato le zone personalmente, oppure no. Non era di per sé
necessaria la conoscenza diretta delle località, dato lo scopo prefissosi; ma è certo che alcuni luoghi di
maggiore importanza li ha visitati come l’Acropoli di Atene e i santuari di Olimpia e di Delfi. Realmente in
questi luoghi si è potuta riscontrare spesso una precisa rispondenza tra il testo di Pausania e quanto è stati
messo in luce dagli scavi.

Luciano
Di tutt’altro carattere come fonte per la storia dell’arte sono gli scritti di Luciano di Samosata, vissuto al
tempio degli Antonini, unico e ultimo fra i tardi scrittori del mondo greco che dimostra di avere gusto e
sensibilità artistica. Luciano non è un compilatore, ma uno scrittore fornito di cultura e di un discernimento
personale, che parla di opere d’arte che egli ha veduto e che egli descrive esprimendo le proprie sensazioni
e il proprio giudizio. Così quando menziona il quadro dipinto da Aetion, "Le nozze di Rossane e
Alessandro", si fa premura di dire che <<il quadro si trova adesso in Italia, e io l’ho veduto>>; e così quando
parla del quadro di Zeusi, "La famiglia di Centauro", ci dice che ritiene che il quadro, portato via da Silla, ai
trovasse sopra una nave che affondò al Capo Melea, ma che egli ne ha veduto ad Atene una copia
accuratamente fatta sull’originale. Queste precisazioni attestano che la sua documentazione è degna di
fede. Ma per il resto, anche Luciano partecipa al culto per l’età lontana della grande civiltà artistica della
Grecia e non menziona se non opere di artisti famosi dell’età classica.

Ateneo
Un’altra fonte va ancora menzionata in modo particolare ed è, per taluni passi, Ateneo. Nato in Egitto, a
Naukratis, poi vissuto ad Alessandria e a Roma verso la metà del III secolo d.C. compose un’opera erudita
intitolata "I dotti a convito", dove i convitati intrecciano colloqui che danno modo all’autore di raccogliere
un ampio ammasso di notizie, per noi spesso preziose, di carattere enciclopedico. Tra queste vi sono due
lunghe descrizioni, documenti di grande interesse per conoscere lo splendore delle corti ellenistiche e
profusione di suppellettili in metalli preziosi lavorati.

Numerose sono le fonti di età bizantina. Esse ci danno informazioni talora assai utili come dati di fatto, ma
nulla che possa contribuire alla valutazione dell’arte greca. Dal punto di vista documentario, dobbiamo
ricordare anche le iscrizioni, che conservano firme di artisti, o documenti o decreti.

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Le scoperte e le grandi imprese di scavo
Lo studio dell’arte antica è un tessuto composto di tre fili diversi:

1) la conoscenza delle fonti

2) la conoscenza dei materiali reperiti nello scavo

3) il criterio metodologico per portare quelle nozioni a giuste conclusioni storiche

Winckelmann, quando iniziò la sua opera, si trovava di fronte ad un vero caos di opere d’arte, uscite in
gran parte dal suolo Roma e non ancora identificate. Egli scrisse la storia dell’arte greca senza aver mai
veduto opere originali, e solo copie di età romana. Però, subito dopo, la scoperta della Grecia e delle opere
originali greche si andò sempre più sviluppando.

Nel Settecento era sorto a Londra un gruppo di uomini di diversa provenienza, dotati di mezzi di fortuna, i
quali fondarono la <<Società dei Dilettanti>> (dilettanti nel senso migliore della parola, cioè di amatori
d’arte). Questi cominciarono a finanziare viaggi, e poi ad accodarsi a spedizioni fatte dal governo inglese,
specialmente nell’Asia Minore, con intenti colonialistici. Non era ancora un’attività di scavo, ma di scoperta.

Dal 1738 al 1766 erano stai intrapresi in Italia gli scavi di Ercolano, e dal 1748 quelli di Pompei, che
portarono alla luce inattesi tesori di pittura, e misero di moda uno <<stile pompeiano>>. Ma gli scavi di
Ercolano furono presto abbandonati per le gravi difficoltà che essi presentavano, essendo stata Ercolano, a
differenza di Pompei, investita da una colata di fango caldo che poi si è indurito rendendo difficilissimo lo
scavo; i lavori furono in seguito ripresi dolo l’unificazione italiana.

Una delle prime e più discusse acquisizioni fu quella dei marmi del Partenone legati dalla tradizione al nome
di Fidia e dalla storia della cultura al nome di Lord Elgin, che aveva ottenuto il permesso dal governo di
Costantinopoli (la Grecia allora era occupata dai Turchi) per far eseguire disegni e calchi per
l'insegnamento degli artisti. Il permesso fu però distorto e la spedizione fu trasformata in una spoliazione,
in un'asportazione dal loro luogo d'origine, che da un certo punto di vista è sempre un atto lesivo di un
contesto storico. D'altronde senza i varo trasferimenti avvenuti negli ultimi secoli (l'arte egiziana dopo la
spedizione di Napoleone, l'arte classica greca con i marmi di Elgin, quella arcaica greca e mesopotamica con
le spedizioni inglesi in Asia Minore, l'arte ellenistica con l'Ara di Pergamo trasportata a Berlino) la cultura
odierna sarebbe diversa e molto meno ricca di conoscenze. Il caso del Partenone fu molto particolare
perché esso era già stato manomesso quando era stato trasformato in una chiesa cristiana, e poi in
moschea, schiantata da bombardamenti; i suoi marmi erano usati dai Turchi per farne calce da imbiancare;
insomma all'epoca di Egin le sculture erano state abbandonate ed esposte ad ogni pericolo, umano o
naturale. Esse provocarono aspre discussioni tra gli artisti che le ammiravano e gli antiquari, pervasi delle
teorie winckelmanniane, che le ritenevano mere imitazioni dello stile classico; Canova ne riconobbe il
valore e si rifiutò di restaurarle. Ad ogni modo i marmi furono acquistati dal Parlamento inglese e divennero
parte del British Museum, accentuando ancor più l'interesse per l'arte greca.

Nel 1809 furono iniziati i primi scavi nel Foro Romano. Nel 1811 invece fu condotta una spedizione all'isola
di Egina, dove furono scoperti i resti di un tempio, le cui sculture presenti nel frontone furono vendute a
Luigi di Baviera ed esposte nel Museo di Monaco. Si trattava dei primi marmi che si conobbero del periodo
arcaico, ma essi furono restaurati e completati senza riguardo da Thorwaldsen, emulo danese di Canova,
ma più accademico di lui, che non usò alcun rispetto per il documento (i restauri poi furono tolti nel 1967).
Quasi contemporaneamente furono intrapresi gli scavi di Selinunte, che misero in luce i resti dei templi ed
alcune delle metope doriche che sono tra le più antiche che si conoscono.

19
Ripresi dopo il 1860 gli scavi a Pompei, essi diedero sempre più notizie e una documentazione sicure sulla
vita e i costumi del mondo romano, copie romane di sculture greche ma soprattutto resti di pittura antica
originale. Secondo Wickhoff l'arte greca non conosceva il problema dello spazio, quindi tutti gli sfondi delle
pitture dovevano essere interpolazioni degli artisti romani (e in ciò starebbe anche una delle innovazioni
dell'arte romana, non più considerata coincidente a quella greca). Oggi sappiamo che gli sfondi prospettici e
le premesse di paesaggio sono già presenti nell'arte ellenistica e che l'arte romana li ha fatti propri: la
pittura illusionistica di Pompei deve essere considerata la continuazione e lo svolgimento in età romana
della pittura ellenistica.

Nel 1809 furono eseguiti i primi scavi nel Foro Romano, detto fino allora Campo Vaccino perchè luogo di
pascolo e campo di fiera. Sono stati rinvenuti elementi importanti per la storia di Roma più che monumenti
artistici. Un ulteriore ampliamento dell’orizzonte storico relativo al bacino del Mediterraneo è stato
compiuto dopo la seconda guerra mondiale.

Nella seconda metà dell'Ottocento si organizzarono le grandi spedizioni di scavo da parte di Inglesi,
Francesi e Tedeschi. I primi sono gli scavi di Samotracia, spedizioni a carattere internazionale, tanto che la
famosa Nike andò al Louvre. Al tempo stesso furono iniziati gli scavi ad Atene, al Dipylon dove apparvero
per la prima volta i vasi in stile geometrico, facendo luce sulle origini dell'arte greca, allora del tutto
sconosciute. Ad essi seguirono gli scavi ad Olimpia iniziati da Curtius, tenendo conto dei riferimenti offerti
da Pausania. Nello stesso tempo furono iniziati gli scavi ad Efeso da parte degli Inglesi, dopo aver
identificato con grande fatica il sito dal famoso tempio di Artemide. Sempre negli anni Settanta fu iniziata
anche l’esplorazione di Pergamo, già identificata da studiosi inglesi. L’esplorazione fu promossa, anche
questa, dal Curtius.
Abbiamo così tre grandi centri di carattere diversissimo:

 ad Olimpia, dal periodo arcaico al periodo omano;

 ad Efeso, dal VII secolo all’età tardo antica e bizantina;

 a Pergamo, dal periodo post-alessandrino fino al periodo romano.Qui si scoprì la scultura


ellenistica in una sua fase particolare, definita dal Wickhoff “barocco ellenistico”, e fu messa in luce tutta
una città, con i problemi urbanistici dell'epoca.

Le scoperte che ebbero maggiore successo, anche al di fuori del campo archeologico, furono senza dubbio
quelle di Schliemann. Questi, che da modeste origini era divenuto un ricco trafficante, fin da ragazzo,
quando era apprendista in un modestissimo negozio, si era innamorato di Omero, cui credeva ciecamente.
Su questa cieca fiducia nel testo di Omero, lo Schliemann, fra lo scetticismo di tutto il mondo accademico,
nel 1871 iniziò gli scavi nella Troade, dove non solo scoprì Troia, la cui ubicazione era discussa, ma anche
confermò la realtà della distruzione per incendio per le tracce evidenti che di questo trovò nei resti di uno
degli strati di insediamento posti in luce. Scavò allora anche a Micene, dove scoprì quello che egli chiamò il
tesoro di Atreo e la tomba di Clitennestra, mettendo in luce, con uno splendore di oggetti d’oro di squisita
fattura, la civiltà pre-ellenica di cui fino ad allora si era ignorata la presenza.

Alle scoperte della civiltà pre-ellenica hanno contribuito anche studiosi italiani con la missione di scavi a
Creta. L amissione inglese dell’Evans si concentrò sullo scavo e sul restauro del palazzo di Knossos. Palazzo
grandiosissimo ed intricatissimo, che ci riprova come la leggenda del Labirinto, edificato per Minosse,
mitico re di Creta, avesse un fondamento nella realtà storica e che fu conosciuto dai Greci già in rovina. Gli
scavi italiani invece hanno messo in luce, nella località di Phaistos, nella parte meridionale dell’isola, un
palazzo meno sontuoso, ma più chiaramente distinguibile nelle varie fasi di costruzione

Un passo importantissimo fu compiuto nel 1953 con l’avvenuta decifrazione del più recente degli alfabeti
cretesi, quello detto lineare B da parte dell’architetto inglese Ventris. Con la collaborazione del filologo
Chadwick egli confermò che la lingua usata in numerose piccole tabelle di creta, coperte di segni di lineare
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B, era quella greca. Il che significava che l’ultima fase della civiltà cretese si era svolta, come quella
micenea, dopo l’espansione della popolazioni di stirpe ellenica. Altre conferme sono venute da tabelle con
disegni di cavalli e di asini e relative iscrizioni da Knossos.

Verso la fine dell'Ottocento fu approfondita la conoscenza dell'Acropoli di Atene tornata a mostrare a poco
a poco il suo aspetto originale con la demolizione delle costruzioni che l'avevano trasformata in fortezza sin
dal Medioevo. Dalla demolizione di queste fortificazioni emerse così tanto materiale da poter ricostruire i
Propilei e il tempietto di Athena Nike che sorgeva sul bastione. Al tempo stesso venne posta in luce tutta la
documentazione dell'Acropoli arcaica, grazie alla scoperta della cosiddetta “colmata persiana”.
Di fronte a queste continue scoperte, la ricostruzione erudita delle grandi personalità artistiche tradizionali
passò in secondo piano rispetto alla ricerca delle grandi linee di svolgimento dell'arte greca e
l'individuazione delle singole “scuole”.

Ricerche teoriche e storicismo agli albori del Novecento

Fra l’ottocento ed il Novecento, si trova una figura di studioso che va posta in particolare evidenza:
Emanuel Loewy, autriaco, fu il primo a coprire una cattedra di archeologia classica all'Università di Roma,
e forse il primo archeologo che cerca di riprendere quello che era stato uno dei motivi della effettiva
grandezza del Winckelmann, cioè la ricerca attorno all’essenza stessa dell’arte, cioè attorno alle questioni
fondamentali che presiedono allo svolgimento dell’arte in genere e in particolare dell’arte greca. Egli cerca,
cioè, di porre lo studio dell’arte antica sopra un fondamento teorico generale. Due sono i suoi studi
fondamentali: 
 la persistenza iconografica: mentre l'accentuazione della personalità artistica, capace di produrre
da sé un'opera d'arte distaccata dal contesto sociale di appartenenza è una cosa moderna, nell'arte
antica l'artista è, ed è considerato dalle fonti, un artigiano, formatosi in un patrimonio di tradizioni
tecniche e iconografiche, tipico di ogni bottega. Gli artigiani di talento vi aggiungeranno piccole
varianti, espressioni della loro personale genialità, ma proprio per la presenza di una forte
tradizione artigiana, la persistenza degli schemi iconografici nell'arte antica è fortissima. Loewy per
primo mise in evidenza tale persistenza, mostrando anche le connessioni con l'arte del Medio
Oriente: quando si studia una determinata rappresentazione bisogna esaminare da dove proviene
lo schema iconografico e cercare i precedenti; solo successivamente si può stabilire la posizione
storica dell'opera e valutare il contributo personale dell'artista. Tuttavia egli non tenne conto di un
altro aspetto, cioè la distinzione tra schemi iconografici e forma-contenuto artistico (ad es. nell'arte
etrusca si ha una permanente tradizione iconografica greca, rivestita da un'espressione formale del
tutto differente).

 il rapporto arte greca-natura: il problema della rappresentazione della realtà e del vero, cioè del
modo in cui l'immagine naturale viene trasformata in immagine artistica. Winckelmann aveva
formulato il concetto di idealizzazione delle forme reali, cioè della selezione del più bello, del
migliore per costruire una forma ideale che stesse al di sopra del contingente della natura, come le
idee platoniche alla realtà. Questa formulazione subì una prima revisione alla fine dell'Ottocento in
base alle tendenze positivistiche che ebbero eco anche negli studi di archeologia.

Anzitutto ci fu il danese Julius Lange, che definì alcune leggi della concezione artistica del periodo arcaico,
tra cui fondamentale è quella della frontalità: qualsiasi immagine riprodotta dall'artista subisce una specie
di schiacciamento, come un fiore messo a seccare, perde volume; la figura non ha profondità, si muove
come tra due lastre di vetro ed è tagliata in due parti uguali e simmetriche da una linea verticale che passa
attraverso il culmine della testa e l'ombelico; ad esempio in un viso di profilo, l'occhio non è visto di profilo
ma di prospetto. Si tratta di convezioni che secondo Lange dominano qualsiasi arte primitiva e si ritrovano
in qualunque civiltà antica (molto evidenti ad es. in arte egiziana). Egli, partecipe del comune equivoco che

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l'arte fosse la miglior riproduzione del vero di natura, ritenne quindi la frontalità una conseguenza
dell'incapacità di avvicinarsi al vero, di qui la necessità di tipizzare la varietà del reale. Alla base vi era
ancora il pregiudizio settecentesco di provvisorietà dell'arte arcaica rispetto a quella classica, con in più una
connotazione evoluzionistica tipica dell'epoca.

Verso un miglior modo di interpretazione fece un passo notevole Loewy; egli si sganciò dalla visione del
Lange e comprese che la frontalità arcaica non era dovuta ad incapacità, ma ad un preciso processo di
concezione dell'atto artistico: l'artista primitivo non opera affatto imitando un certo oggetto della natura,
ma crea seguendo un ricordo, un'immagine mentale, che gli presenta l'oggetto sotto l'aspetto più semplice,
più chiaramente leggibile, e questo aspetto è quello per cui l'oggetto si presenta nella sua massima
estensione e nella sua forma più caratteristica. Perciò l'artista primitivo non farà mai un piede che sia visto
di punta e non di profilo, e l'occhio lo farà sempre come visto di faccia, con forma ellittica, una forma più
chiara che quella della veduta di profilo, perchè di profilo se ne vede solo una parte. Lo scorcio sarà già il
risultato di una riflessione e di una volontà razionale esercitata sull'immagine spontanea. Tale indagine
psicologica del Loewy lo avviò a sganciarsi dalla concezione della incapacità dell'artista, e a capire che la
concezione dell'arte arcaica era dovuta al particolare linguaggio dell'artista ed era legata ad un determinato
mondo e tempo.

Un suo scolaro, Alessandro Della Seta, si occupò del problema del superamento della legge della
frontalità nell'arte greca, attribuendolo allo sviluppo della conoscenza anatomica e finendo per porre lo
sviluppo generale dell'arte sotto l'etichetta della ricerca anatomica.  Si  ha, senza dubbio, un arricchimento
di dettagli anatomici nel passaggio dall'arcaico al periodo classico, ma l'osservazione anatomica serviva a
differenziare i piani nel chiaroscuro; ed è con l'inserire di elementi chiaroscurali, che si rompe la frontalità
del mondo arcaico, e si cerca di raggiungere la piena corporeità di una figura che si muova nello spazio non
delimitato. In ogni caso con questi tre studiosi, siamo in un ambiente che ha tuttavia superato in parte il più
stretto filologismo tedesco, ma compare un orientamento dell'archeologia verso l'interpretazione del fatto
artistico.

Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, inizia una nuova fase degli studi archeologici, il cui
processo si accelera dopo la prima guerra mondiale, quando l'interruzione degli scavi e la chiusura dei
musei indussero gli studiosi a riflettere sul materiale già esistente e raccolto. Diventano presupposti
fondamentali di tutte le ricerche:
 il prendere in considerazione solo gli originali piuttosto che le copie, per affrontare determinati
problemi frontali, più che per compilare la storia di tutta l'arte greca.
 La storicizzazione di tali materiali raccolti

Un'influenza diretta sugli studi di archeologia ebbero in particolare le teorie formulate da quella che fu
detta la “Scuola viennese”. Attorno al 1895 a Vienna furono particolarmente in evidenza due studiosi,
Wickhoff e Riegl, entrambi storici dell'arte medievale e moderna, che si sono occupati di storia dell'arte
antica per chiarire i rapporti con quella dei secoli successivi.

Riegl nell'opera “Problemi di stile”, aveva cercato di chiarire le leggi generali che sembrano presiedere alla
creazione dei motivi ornamentali, liberando la storia dell'arte dal concetto biologico di decadenza. Si
accorse:
 dell'insufficienza della concezione positivista che considerava i fatti artistici come dovuti ad
un'evoluzione automatica, paragonabile a quella biologica (ad Semper, che fu anche creatore dello
stile eclettico con cui furono costruiti la maggior parte dei parlamenti, musei, palazzi di giustizia e
stazioni ferroviarie dal 1870 al 1914)
 dell'impossibilità di comprendere tanti secoli di arte sotto la definizione di decadenza, in
contrapposizione a cui introdusse il concetto di volontà d'arte o teoria del gusto: ogni epoca della
storia determina un proprio gusto e lo esprime in determinate manifestazioni artistiche, per cui non
è lecito confrontare il gusto di un epoca con quello di un'altra e giudicarlo alla luce di un presunto
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gusto classico o esemplare. Rifiutando poi anche il condizionamento dello stile al materiale, alla
tecnica e alla funzione pratica dell'opera d'arte, aprì la strada all'idealismo estetico.

Nonostante ciò, egli rimase legato ad una concezione antistorica che inquadrava la storia dell'arte in una
linea evolutiva predeterminata e che gli derivò dalle scienze naturali. Così distinse tutta l'arte dell'antichità
in tre periodi: tattile-ravvicinato o miope (arte egizia), tattile a vista normale che situa le forme in una
ragionevole distanza ambientale (arte greca classica), e ottico-illusionistico (età romana del tardo impero).
Il rischio della sua concezione è l'abolizione di ogni giudizio di valore: se non si deve valutare un'opera
perché appartiene al gusto del proprio tempo, è facile poi passare all'affermazione che ogni opera
corrisponde al gusto del suo autore. Viene insomma superata la distinzione tra arte e non-arte. Inoltre se è
esatta l'affermazione che ogni epoca produce un'arte diversa (trova giustificazione nel mutarsi della
società) e che per giudicarla storicamente non bisogna riferirla ad un presunto modello d'arte, Riegl però
trascurò del tutto lo stretto rapporto tra arte e società, poiché pose il gusto come un deus ex machina che
regola tutto, senza chiedersi come esso si sia formato. Il vero problema è comprendere perché gli artisti di
un determinato periodo abbiano voluto fare in un certo modo e non diversamente, e quali siano le
necessità che creano il nuovo gusto.

Wickhoff, in stretto contatto con le idee del Riegl, si trovò di fronte al problema di pubblicare un famoso
manoscritto purpureo della Genesi della Bibbia, adorno di miniature, ritenute allora del IV sec e di fattura
campana, per certa supposta parentela con la pittura pompeiana. Wickhoff affrontò il problema di come si
fosse giunti al genere di pittura mostrato dalle numerose illustrazioni del codice, che sembravano essere in
una relazione di continuità e variazione con la tradizione ellenistica (allora conosciuta tramite la pittura
pompeiana).
Fece quindi una sintesi dello svolgimento dell'arte romana, e per primo la considerò autonomamente da
quella precedente: i Romani sono stati gli eredi del patrimonio artistico ellenistico, ma hanno prodotto
elementi artistici nuovi e originali. Tra questi Wickhoff insistette soprattutto sull'elemento coloristico nella
pittura, anche a causa del suo interesse per l'Impressionismo francese.
Questo interesse lo indusse a porre troppo in risalto la tecnica impressionistica dell'arte romana in
contrapposizione al classicismo dell'arte greca, vedendola accentuarsi sempre più nei secoli successivi al
classicismo augusteo. Questo elemento romano a suo parere è il protagonista del trapasso tra arte antica e
arte medievale, che già Riegl aveva individuato nel trapasso dalla visione plastica alla visione ottica.

L'originalità dell'arte romana viene dunque sostenuta in pieno e individuata in 3 forme artistiche, di cui
soprattutto le ultime due preludono all'arte medievale: 

1) il ritratto realistico
2) la concezione spaziale e prospettica
3) la narrazione continuata: che consiste nel disporre vari episodi di una narrazione storica o
mitologica, uno accanto all'altro sullo stesso sfondo paesistico, e senza nessun distacco, senza
nessun elemento figurativo di separazione; come nella Colonna Traiana, mentre era considerata
tipica dell'arte greca la suddivisione in episodi staccati, come nella decorazione templare dorica.

In un primo tempo nessun archeologo si accorse delle tesi rivoluzionarie di Wickhoff, ma quando divennero
note, la sua teoria fu accolta senza remore e senza nessuno spirito critico. Per questo è necessario
esaminare attentamente la sua visione: il ritratto romano si basa su premesse sociali, politiche e religiose
diverse da quelle che videro il tardo sorgere del ritratto nell'arte greca. Sicuramente non si tratta di
imitazione, ma probabilmente sono stati artisti greci al servizio del patriziato romano a far sorgere il filone
della ritrattistica repubblicana. La “scoperta” della spazialità pittorica in realtà risale sicuramente all'arte
ellenistica, ma la questione emerge già nella ceramica proto-attica, come segno distintivo dell'arte greca
rispetto a quelle del bacino mediterraneo. Per quanto riguarda la rappresentazione continua, essa ebbe
radici nella pittura ellenistica, ma fu sviluppata e resa forma compositiva corrente durante l'età romana,
dove servì egregiamente alla tematica narrativa e celebrativa delle imprese militari e civili.
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Secondo Wickhoff la novità della rappresentazione continua è connessa con il diverso punto di vista in cui si
pone lo spettatore: quello greco è estraneo alla scena e vede da un punto esterno le figure che si muovono
parallelamente al fondo del rilievo, piano come un muro; invece nei rilievi romani egli si trova nello stesso
spazio delle figure, perché alcune vengono verso di noi, altre si allontanano etc (“illusionismo ottico”).
Wickhoff non si rese conto che l'illusionismo spaziale prosegue, nella pittura pompeiana, fino a che vi
giungono apporti vivi dall'ellenismo, sia come imitazione di opere del passato, sia come svolgimento
dell'arte ellenistica che continua a Pompei e a Roma per opera di artisti greci. Non vide che, cessato questo
apporto, l'arte romana da un lato rinuncia a collocare le immagini in uno sfondo oggettivato e spazialmente
definito, dall'altro esaspera la tecnica “a macchia”,  che non è semplice impressionismo, ma distruzione
della forma plastica dell'immagine, avviò all'astrazione e al simbolismo del segno.

Si entra dunque, con la scuola i Vienna, in una nuova fase della storia dell’arte antica. Anche la storia
dell’arte antica, infatti, rivolge adesso la sua attenzione a fatti formali; ci si comincia a persuadere che
attraverso la lettura della forma artistica si può arrivare a stabilire la cronologia elle opere più esattamente
che attraverso i documenti; e che è lecito arrivare a valutazioni critiche anche in contraddizione con quelle
delle fonti letterarie antiche. Ci si pose ora  in  modo autonomo il problema formale dell’opera d’arte. Si
arriva così ad estendere e approfondire quanto Giovanni Morelli aveva già scoperto nella storia dell’arte
moderna, quando richiamò l’attenzione degli storici dell’arte su quelli che furono detti gli <<elementi
morelliani>>  cioè sul fatto che ogni artista ha un specie di cifrario, usa nelle sue opere particolari secondari
sempre uguali. Questi particolari tecnici e pratici possono effettivamente aiutarci ritrovare e a determinare
a paternità di un’opera d’arte, anche dove manchino i documenti per stabilire il nome dell’artista. Se, come
punto di partenza per arrivare allo ricostruzione storica delle opere d’arte, la classificazione è utile, anzi è
indispensabile, la si deve considerare solo come lavoro preliminare e preparatorio. Il vero problema storico
comincia dopo.

Problemi di metodo- La storia dell'arte come interpretazione storica della forma

L'indagine stilistica si è affinata in conseguenza dell'impostazione teorica del fatto artistico, iniziata da Riegl
e Wockhff e proseguita da Wolfflin, che definì le categorie dell'arte utilizzando una nomenclatura (forma
plastica, ottica, coloristica, aperta, chiusa etc), che divenne il linguaggio comune dei vari storici dell'arte. La
loro indagine iniziava con l'astrazione dalla posizione cronologica o storica dell'opera, la esaminava nella
sua qualità artistica e ne fissò le caratteristiche formali, rendendo possibile stabilire poi la loro collocazione
in base alle variazioni qualitative.
Come in ogni artista si può scoprire un processo di svolgimento che può essere studiato nelle sue opere,
così esiste uno svolgimento della forma artistica da una generazione all'altra. Se dell'arte greca il primo
aspetto non può essere studiato, è possibile invece determinare il processo di sviluppo formale dei vari
periodi.

SITUAZIONE IN ITALIA (1920-1940) e POSIZIONE DI BANDINELLI:


L’Italia aveva sentito poco l'eco della scuola viennese e per niente quello di Wolfflin, rimanendo alla fase
filologica. Bandinelli voleva inserire la posizione teorica degli studi di storia dell'arte antica nella corrente
storiografica di Benedetto Croce (il cui idealismo era la filosofia più diffusa all'epoca) e arrivare a
comprendere la storia dell'arte nella sua concretezza e nelle personalità che la costituiscono. La definizione
di una personalità artistica era stata particolarmente trascurata (per influenza di evoluzionismo biologico),
ma egli si rese conto che per rompere con i residui dell'estetica di Winckelmann era necessario occuparsi di
tale problema, ponendo in risalto il carattere autonomo di alcuni aspetti del fatto artistico. Per questo si
inserì inizialmente nella via segnata da Croce, ma presto si accorse della necessità di un suo superamento:
l'identità tra giudizio critico e fare storia è insostenibile se si prende in considerazione la produzione
artistica antica, così legata all'artigianato e alla trasmissione di tecniche particolari. Far consistere il fine
della ricerca storico-artistica nel determinare il grado di poeticità di un'opera attraverso l'analisi del suo
contenuto-forma, è insufficiente di fronte al legame strettissimo tra le opere d'arte antiche e le premesse

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sociali e politiche che ne determinarono la creazione. Anzi invece di creazione artistica che non conosce
limiti alla propria intuizione poetica, bisogna parlare di produzione.

Comunque la metodologia storica crociana ha insegnato agli studiosi a non cadere in certe interpretazioni
mitologiche e irrazionali, antistoriche, come quelle che si diffusero all'epoca in Germania con la scuola
morfologico-culturale, secondo la quale ogni civiltà esprime un determinato aspetto del mondo e l'uomo
viene afferrato da determinati aspetti dell'esistenza a cui egli allora dà forma. Tra gli esponenti di questa
corrente teorica vi fu Erenst Buschor, che divise il cammino dell'arte in 6 cicli, rigorosamente successivi
nell'ordine prestabilito e chiuso ciascuno in sé (ogni civiltà passa necessariamente attraverso questi 6 cicli e
dopo il sesto il ciclo rincomincia da c apo) e che riduceva la comprensione storica dell'opera d'arte ad
incasellarla nel ciclo ad essa pertinente.
Invece storia dell'arte = definire le singole opere nella loro storicità individuale e legarle alla storia della
cultura definendo il rapporto di ognuna di esse con il loro determinato ambiente. Riconosciuto il forte
legame delle tradizioni artigianali, per ogni opera d'arte antica bisogna cercare:
1) da quali schemi iconografici preesistenti discende e se ne introduce di innovativi;
2) da quali premesse ideologiche, in modo programmatico o meno, ne è determinato il contenuto –
per rispondere a questo quesito è necessario allargare la conoscenza alle situazioni culturali in
senso lato (pensiero filosofico e religioso, istituti giuridici, condizioni sociali ed economiche...)
La definizione delle personalità artistiche dei “Maestri”, che è degenerata sempre più nel corso del secolo,
ha ragione d'essere solo se l'opera è di eccezionale qualità e se da essa discendono altre opere, anche
minori, oppure se è possibile costituire un gruppo di opere che abbiano caratteristiche sufficienti da essere
assegnate alla stessa mano o almeno alla stessa officina.

Una ricerca di storia dell'arte si deve articolare in questi gradi:


 classificazione e inquadramento cronologico dell'opera d'arte, mediante una ricerca filologica, con
l'ausilio di testi letterari ed epigrafici e del materiale archeologico di ogni specie, confermata da un
riconoscimento delle qualità stilistiche esteriori dell'opera d'arte, degli “elementi morelliani”
(Giovanni Morelli sottolineò che ogni artista ha una specie di cifrario, usa nelle sue opere dei
particolari secondari sempre uguali che possono aiutare a determinarne la paternità)
 l'indagine più storica, che sulla base del materiale classificato cerca di giungere alla ricostruzione
dello svolgimento della produzione artistica e ad individuarne le forze motrici che determinano
quello svolgimento, forze che hanno le loro radici nella società.
Infatti secondo Bandinelli, l'arte è sempre espressione della libertà dei gruppi socialmente attivi in
un determinato periodo storico. Non parla di gruppi dominanti perché ci sono stati periodi storici
che videro la compresenza di più correnti artistiche, indirizzi e gusti diversi, ognuna delle quali non
è casuale, ma fa capo ad un gruppo sociale, che agisce entro la compagine della società dell'epoca.
Quando l'uno o l'altro di questi gruppi diventa politicamente egemone, vi è invece una ricostituità
unita artistica (es. età di Augusto o quella di Costantino).

L'importanza dei fattori sociali etc non deve però far dimenticare la distinzione tra storia sociologica
dell'antichità e storia dell'arte antica: la prima usa le opere d'arte come documenti per la ricostruzione della
storia sociale di un'epoca, la seconda invece è centrata sull'analisi formale dell'opera d'arte e tiene conto
solo dei rapporti sociali alla base della nascita dell'opera. C'è ancora chi critica tale concezione della storia
dell'arte per motivi differenti:
 gli idealisti vi vedono lo spettro del marxismo, e in nome dell'autonomia e individualità della
creazione artistica, rifiutano ogni contaminazione da parte della sfera economica e politica, ma non
capiscono che considerare il condizionamento della produzione della vita materiale sul processo
della vita sociale e spirituale non equivale per nulla a ridurre la storia e l'arte a meri fattori
economici.
 I marxisti invece accusano tale storia dell'arte di formalismo, senza vedere che essa tiene in
considerazione anche lo svolgimento concreto della storia.

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Come afferma Argan, l'opera d'arte è stratificata: anzitutto vi è il sedimento di nozioni che l'artista
ha in comune con la società di cui fa parte (è come il linguaggio storico e parlato di cui si serve il
poeta); poi vi è lo strato “professionale”, legato al gusto, cioè le idee sull'arte e le preferenze
artistiche, le conoscenze tecniche, le norme o tradizioni iconografiche etc, solitamente comuni alle
artisti della medesima cerchia culturale; infine vi è il contributo personale e innovatore dell'artista,
che rimane spesso imprevedibile e non analizzabile – la storia dell'arte si arresta concretamente a
questo punto.
Infatti l'evento artistico è sempre il prodotto storico di una civiltà, ma al contempo è sempre
l'espressione di un bisogno indistinto e istintivo della natura umana. Infatti l'arte a differenza della
tecnica e dell'organizzazione umana non conosce progresso ed in ciò risiede l'universalità del suo
linguaggio. Se l'archeologia pone l'indagine formale del prodotto artistico al servizio di un
accertamento della cronologia e della ricostruzione delle sfere di contatti commerciali (da cui si
possono dedurre anche conclusioni di storia economica e politica) perché il suo fine è la
ricostruzione della storia attraverso i documenti materiali di una civiltà o di una cultura, il fine
specifico della storia dell'arte è chiarire la formazione dell'opera d'arte nell'esperienza in atto e la
sua sopravvivenza, cioè i suoi collegamenti con la cultura figurativa che la circonda.

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