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Capitolo) I nemici di Scarpetta

La Napoli del suo periodo e passaggio da pulcinella a Felice


Napoli della metà del Novecento vive una situazione in cui la tendenza attoriale si fonde
con la tradizione di un teatro dialettale ancora legato a maschere e a tipi fissi che però,
grazie a Eduardo, comincerà pian piano ad allontanarsi dalle solite tematiche pur restando
sbilanciato verso la farsa. Si tratta di un modo di concepire il teatro che verrà contrapposto
al teatro d’arte secondo la concezione di Salvatore Di Giacomo, e a un teatro di stampo
nazionale o addirittura europeo, proiettato verso il moderno; abbiamo una concezione non
solo attoriale ma anche autoriale, e a tal proposito Roberto Bracco afferma come il compito
dell’arte sia unificare, a differenza dei dialetti che invece dividono. È uno dei più critici verso
Eduardo, colpevole di essere il campione di un teatro evidentemente dialettale, e quindi
eccessivamente localizzato. Se quei personaggi tipici della farsa napoletana, per Scarpetta,
erano ormai scoloriti, perché avevano cambiato aspetto e animo, questo non bastava a
Bracco che li considerava ancora presenti: nel 1904 aveva manifestato la sua ostilità verso il
teatro di Scarpetta.

FELICE SCIOSCIAMMOCCA: è una maschera del piccolo borghese povero, ma ambizioso,


con il quale Scarpetta aveva sostituito Pulcinella, per adattarlo ad un pubblico che voleva
vedere attori e non maschere sul palcoscenico. Nei suoi Cinquant’anni di palcoscenico
sostiene come la comicità venga ricercata soprattutto nella società borghese, che seppur
umile, non è quella squallida plebe napoletana. In un certo modo cerca un lato da cui
difendersi da coloro che gli andavano contro. Salvatore Di Giacomo sottolineava la
presenza di due teatri napoletani, rifletteva sulla tendenza del pubblico al divertimento e
che sull’obiettivo, che non era creare un teatro drammatico stabile napoletano, ma una
drammaturgia napoletana che puntasse l’attenzione ad una napoletanità ricca di
sentimento e un'altra espressione della fisionomia partenopea.

Mario Mangini riassume la posizione di Scarpetta verso il teatro d’arte-> in un libro dal
titolo Eduardo Scarpetta e il suo tempo, con la prefazione di Eduardo De Filippo ( 1961 ).
Scarpetta sosteneva che il teatro dialettale napoletano non poteva essere che un teatro
comico, mentre il teatro d’arte non era vitale e interessante. Ci sono numerose criticità nel
teatro di quell’epoca e Bracco, allora, elabora ed esprime la problematicità della propria
posizione e precisando come Scarpetta abbia solo ridotto dal francese, senza aggiungere
nulla di significate, o essersi limitato a conferire una connotazione partenopea alle opere
francesi. Una polemica questa che portava avanti da tempo, già nel gennaio del 1888 lo
accusò di portare avanti un teatro misto con colpi ad effetto stucchevole, e in occasione di
Girolino e Pirolè al Teatro Sannazzaro disse che la commedia presentava una forte analogia
con una commedia francese. A queste accuse Scarpetta rispose con una lettera, a lui
inviata, e che quest’ultimo pubblicherà sul quotidiano Corriere di Napoli affermando di non
aver mai nascosto le sue fonti, l’idea li accomuna ma è una sua opera autonoma. Bracco,
dopo questa lettera, incominciò a scrivere nuovamente << meglio un riduttore applaudito
che un autore fischiato >>. Il testo teatrale passa attraverso Scarpetta attore e grazie a lui
prende vita, in una maniera sempre diversa, perché la performance attoriale è il filtro
attraverso cui l’opera si manifesta al pubblico; tiene conto degli attori e delle loro capacità
comiche, ecco perché molto spesso venne accusato di disorganicità a prima lettura.
Raramente la comicità, nelle commedie di Scarpetta, nasce da una situazione, che diventa
comica nel momento in cui l’attore può sviluppare il proprio gioco scenico ( il personaggio si
attenua per lasciare spazio all’interpretazione dell’attore comico ).

Egli, in Cinquant’anni di palcoscenico, distingue il semplice tradurre dal ridurre: trovandosi


difronte ad ostacoli nel trasportare situazioni dall’ambiente originale ad uno
completamente diverso, così il ridurre diventa un ricostruire. Fare una traduzione semplice
non avrebbe creato divertimento nel pubblico, ed ecco perché scrive da capo prendendo
come esempio l’ambiente parigino. De Filippo, nella prefazione, parlando dell’operato di
Scarpetta afferma come il teatro non sia fatto da un uomo solo, qualcuno semina affinché
altri possano raccogliere.

Scarpetta seguì una strada già tracciata, da Antonio Petito, il trasformatore di pulcinella che
lo liberò da una rozzezza per adattarlo ad un pubblico più esigente. Pulcinella, sotto la sua
maschera, è portatore di un nuovo personaggio, legato ancora alle origini ma che si
appropria di atteggiamenti più attuali; Petito aveva avviato la trasformazione del teatro
popolare napoletano, proseguito poi da Scarpetta che capì come essa non era più adatta ad
attrarre il pubblico borghese. Nel principio degli anni ’70 dell’Ottocento, Scarpetta entrò
nella sua compagnia e ne restò fino alla sua morte, avvenuta sulle scene, e proprio grazie a
lui si formò sotto tutti i punti di vista, come quella attoriale, e in particolare sotto il punto di
vista della scrittura ( autoriale). Petito, allora, ha avuto il merito di aver indirizzato il giovane
Scarpetta verso una tipizzazione meno distante della realtà storico-sociale a loro
contemporanea, con il nuovo protagonismo della società borghese nella drammaturgia. La
base permanente del profilo di autore di Scarpetta è l’acquisizione della figura comica, poi
man mano continuò ad aggiornarsi, diventando esperto nell’attingere nella miniera
inesauribile dell’attività teatrale napoletana, rielaborava i materiali basandosi sulle risorse
degli attori a disposizione, e si persuase che fosse necessario la dinamica del libero scambio
e che rientrasse nella normale prassi teatrale ( ciò portò uno scontro con gli autori letterari,
sostenitori del diritto d’autore )-> la società generale degli autori di Marco Praga si formò
da poco, e portò avanti questa tesi. Scarpetta si recò nella villa di D’Annunzio chiedendogli il
consenso nell’utilizzo della sua tragedia per generare una parodia, e lo stesso D’Annunzio
ne fu onorato, ma poi sobillato da Praga decise di denunciarlo. Nessun autore aveva potere
di esercitare il controllo sulla diffusione della propria opera, le leggi erano state emanate
per la tutela della proprietà intellettuale nel 1865, ma la situazione era fuori controllo.
Petito e Scarpetta pagavano degli autori fantasmi che non apparivano nel testo, e che in
cambio di denaro accettavano di restare nell’ombra, come Giacomo Manulli e Minichini, e
tutto ciò è stato portato a conoscenza perché Petito ha lasciato tracce varie, nell’archivio
del Banco di Napoli, di bonifici a loro favore. Si tratta di una pratica diffusa e spesso
alimentata dalle difficili situazioni economiche in cui questi autori si ritrovavano.

Il panorama napoletano tra fine ‘800 e inizio ‘900 passa ad un ruolo subalterno dell’Italia
post-unitaria, ed è in questo clima che sforna grandissimi attori.

Aprile 1904-> Scarpetta, mentre lavorava al Teatro Valle di Roma, ebbe l’idea di parodiare
la tragedia pastorale di D’Annunzio, lavorando sui 3 atti e interiorizzandoli molto.
D’Annunzio non gli volle scrivere l’autorizzazione, ma gliela accordò soltanto verbalmente.

Nel momento in cui venne annunciato il debutto, iniziarono ad arrivare lamentele alla
prefettura di Napoli, ma, nonostante ciò, lo spettacolo proseguì, nonostante l’esordio fu un
vero e proprio disastro ( i patuti d’annunziani hanno urlato ). Scarpetta fu accusato di non
aver scritto una parodia ma una contraffazione dell’opera, e da quel dicembre egli sostenne
di aver iniziato la sua via crucis. Scarpetta vinse la causa per inesistenza di reato poiché
l’opera Il figlio di Iorio vide una trasformazione di genere, ed essendo una parodia ricorreva
ad effetti di estraniamento rispetto al registro della tragedia pastorale-sacra di D’Annunzio.
La perizia CROCE-ARCOLEO osservò come Scarpetta non abbia attuato una contraffazione
dell’opera di D’Annunzio, poiché la parodia è di un’esistenza propria. Il giudice decretò la
vittoria di Scarpetta, affermando l’inesistenza di reato, nel giugno 1908. La sentenza venne
pubblicata e commentata da tutti, sia in Italia che all’estero; durante un banchetto in suo
onore lesse dei versi scritti, dal titolo, A causa mia del 15 luglio 1908, aggiunti poi nella sua
biografia: <<mi sono sognato tutto questo e ora mi sono svegliato?>>. La figlia di Iorio,
allora, è l’esempio più eclatante di riscrittura a scopo umoristico di un classico di
letteratura; il testo di D’Annunzio viene trasfigurato dall’inventività di Scarpetta che ne
evidenzia l’intenzione parodistica, e quindi pone il testo del primo alla luce. Ciò che balza
agli occhi, però, è l’accanimento contro Scarpetta.

IL FIGLIO DI IORIO

La vicenda di D’Annunzio è articolata in tre atti ed è ambientata in Abruzzo rurale,


patriarcale e superstizioso, durante il giorno di S. Giovanni: nel primo atto viene mostrata la
casa di un mietitore di nome Lazzaro, ove si trovano la moglie e le figlie con i loro sposi.
Tutti insieme aspettano i parenti per festeggiare le nozze, ma entrambi gli sposi appaiono
affranti perché è come se avvertissero un’ombra aleggiare sul loro matrimonio, irrompe
nella casa una giovane sconosciuta triste e impaurita che sta sfuggendo ad un gruppo di
mietitori che volevano abusare di lei ( questi mietitori sono impazziti per il vino e per il sole
cocente ). Questa ragazza, di nome Mila è la figlia del mago Iorio, considerata strega e
prostituta; riesce a fuggire ma lo sposo si appresta a scacciarla ma viene fermato dalla
propria sorella e dalla visione di un angelo apparso dietro la povera Mila. Alla fine, il
giovane pone una croce di cera sulla soglia della casa, con un coro, e i mietitori difronte
questo simbolo religioso, indietreggiano. Nel frattempo, arriva Lazzaro, padrone di casa,
ferito e sanguinante. ( fine primo atto )

Il secondo atto si apre in una caverna montana, con un ceppo di noci che raffigurano una
figura di un angelo, e sono insieme lo sposo e Mila che si innamorano, e sono avvinti da un
legame puro e profondo, tant’è che vuole portarla via, ma la giovane vuole andare via da
sola. Parleranno con una specie di santone che gli prevede una tragedia; in seguito, Mila
incontrerà la sorella del giovane che la pregherà di lasciarlo tornare a casa. Mila è tutt’altro
che una strega, è una ragazza buona e generosa che acconsentirà al suo ritorno, e si
prepara ad andarsene via da sola. Qui, arriva Lazzaro ( padre dello sposo ), ed è
completamente folle di desiderio per Mila tanto da minacciarla per unirsi a lui, ma giunge il
figlio che, nel vedere il proprio genitore avventarsi su Mila, genera una colluttazione che
raggiungerà la morte del padre. ( fine secondo atto )

Sulla scena appare il cadavere di Lazzaro, regna un’atmosfera di tristezza, e il figlio si


appresta ad essere condannato a morte, ma mentre sta per essere ucciso Mila si addossa la
colpa dell’uccisione, tutti la accolgono favorevolmente, e lo stesso giovane, offuscato, si
scaglia contro di lei. Alla fine, Mila verrà condannata alle fiamme. ( fine terzo atto )

LA FIGLIA DI IORIO

La commedia scarpettiana è divisa, invece, in due atti ( perché la terza non si apprestava
alla parodia ). Tra le differenze abbiamo i personaggi, che vengono scambiati di sesso, Mila
che rappresenta l’oggetto di desiderio, diventa Torillo, un giovinastro cencioso. È
ambientato a Pozzuoli e non in luogo di montagna. I toni sono totalmente diversi. Il finale
tragico viene modificato nella parodia, con il ferimento della vecchia, madre di Alice. La
gioia delle nozze, però, è uguale in entrambe le opere ma con aggiunte e modifiche che le
rendono differenti. Il ritmo è diverso, in D’Annunzio più lungo, in Scarpetta più veloce. Si
può notare un cambiamento di notevole importanza: Alice, così come Aligi, quando entra in
scena, saluta la famiglia ma la diversità corrisponde nella risposta del padre Nicola rispetto
alla madre di Aligi ( capisce che c’è qualcosa di strano nel comportamento della figlia, che
confiderà le proprie perplessità-> Alice ha sognato un angelo inviato dalla Madonna e
desidera tornare a lavorare nella campagna ). Se la madre di Aligi risponde con un tono
pacato, Nicola adotta un tono più forte “ che ti passa per la testa”. In entrambe le opere il
momento della benedizione viene vissuta con superstizione e paura. Il primo atto termina
in maniera uguale, mentre il secondo atto riprende molte scende della commedia di
D’Annunzio: Il padre di Aligi lo vede come un possesso, tanto da fargli qualunque cosa, e lo
stesso vale per la madre di Alice; questa scena è vissuta con molta agitazione in entrambe
le opere, con la differenza che con D’Annunzio rappresenta la fine del secondo atto per poi
iniziare il terzo, con Scarpetta rappresenta la fine del secondo e ultimo atto.

PRINCIPALI DIFFERENZE TRA LE DUE OPERE

D’Annunzio presenta Mila-> come una donna provocante, e il giovane si chiama Alici. La
madre rappresentava la vestale di usi abituali di una famiglia abruzzese ( luogo natio di
D’Annunzio ). Lazzaro era un uomo violento e prepotente anche con la propria famiglia, che
accecato per la passione morirà ucciso dal figlio. La passione viene descritta da D’Annunzio
con metafore e figure retoriche che rendono pesante il testo. Ornella, sorella di Aligi che
aiuterà Mila, cambierà di genere. I mietitori abruzzesi sono stupratori e impazziti durante la
festa di S. Giovanni. L’intreccio vede Aligi che uccide il padre per difendere il padre. Mila si
dichiara colpevole “la fiamma è bella”. La realtà è mitica, quasi senza tempo. Il pubblico
era affascinato da quei personaggi lontani dalla propria realtà. I nomi dei personaggi sono
tipici dei pastori di un mondo arcaico. C’è un linguaggio aulico. La didascalia iniziale vede la
“terra d’Abruzzo”. I particolari sono descritti minuziosamente ( espansione di aggettivi ).
L’atmosfera è diversa, con Aligi e Mila che si baciano e tremano per il peccato commesso.

Scarpetta presenta Torillo -> uomo che infastidisce le donne ma in un modo che provoca
riso. Il giovane sposo si trasforma in una sentimentale donna di nome Alice, in questo caso
è il padre di quest’ultima, Nicola, a rappresentare gli usi abituali, un uomo goffo e
credulone con una moglie innamorata di Torillo. Lazzaro diventa una vecchia lussuriosa e
grottesca che rincorre il desiderio erotico che le sfugge. Il dialogo tra Torillo e la vecchia è
più ironico, con il giovane che cerca di sottrarsi a questo desiderio ( ti do tanti di quei pugni
che ti rimando a letto svenuta, che invece gode di essere oggetto dei suoi pugni e calci ).
Ornella diventa Cornelio, affettuoso e servizievole. I mietitori si trasformano nelle lavandaie
lussuriose di Bacoli e Pozzuoli, quasi impazzite per il lavorare sotto il sole cocente. Alice
quando vede la madre tentare di sedurre Torillo corre e le dà un pungo sul naso. Torillo,
però, si offre alle manette della pubblica sicurezza in quanto gli viene promessa una
scodella di fave “la fava è bella”. La realtà è del suo tempo, di una campagna. Il pubblico si
rispecchia nella realtà rappresentata, attratto dall’azione scenica e dalle dinamiche verbali
che si scatenano. I nomi dei personaggi riflettono la Napoli popolare. Ciò che sconvolgerà le
nozze sarà l’entrata in casa del figlio di Iorio. C’è un linguaggio quotidiano, con numerose
espressioni di lingua napoletana. Sono stati aggiunti elementi e situazioni non presenti
nella tragedia, perché si vogliono sottolineare le usanze e le superstizioni del popolo
napoletano “l’azione è a Pozzuoli”. Gli oggetti sono descritti con un numero ridotto, ma
essenziale, di parole ( uso di aggettivi molto esiguo ). L’atmosfera è diversa, con Torillo e
Alice che si baciano, ma c’è un tono di sbigottimento e paura.

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