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- Un altro famosissimo stucco è quello della casa di meleagro di Pompei, dove sono
realizzate a rilievo tutte le architetture, nelle quali vengono inserite delle pitture realizzate
a pittura e in stucco, compare una particolare resa dello stucco, quella della tecnica tipo
Cameo, dove abbiamo delle figure bianche realizzate su sfondi a tinta unita, di solito o
rosso o blu. Questa è una moda che si diffonde molto nell’età neroniana, l’abbiamo anche
nella Domus Aurea, che presenta numerosi esempi di stucco, come nella volta dorata, dove
vediamo un rivestimento che imita un soffitto a cassettoni molto articolato, con riquadri
tondi e figurati, in posizione perimetrale abbiamo una cornice in stucco dipinto policromo.
Il ritratto imperiale
Il ritratto imperiale è un tipo di ritratto ufficiale, che ha la funzione di veicolare, una ideologia, un
messaggio politico, e l’immagine ufficiale dell’imperatore, anche nelle province in cui l’imperatore non si
vedrà mai oppure molto raramente. Questo tipo di ritratto Viene creato in situazioni particolari, come può
essere l'incoronazione,il decennale ecc… per questo chi regna per un breve periodo ha pochi ritratti,
mentre gli imperatori che Regnano per periodi molto lunghi hanno diversi tipi di ritratti.
Ad esempio Augusto ne ha un centinaio, lui infatti ha una carriera politica molto lunga, regna per oltre 40
anni e ne conosciamo molti tipi diversi. Abbiamo un ritratto di Ottaviano giovane,ancora 25 enne che si rifà
ai canoni ellenistici del Ritratto patetico,ora ai musei capitolini, che esprime una volontà di
autoaffermazione e potere, un ritratto diverso da quello che poi diventerà quello ufficiale, che sarà sempre
più idealizzato, si rifarà hai modi dell’arte classica secondo gli stilemi del neoatticismo, quindi molto più
Sobrio e dall’espressione pacata è molto rassicurante. I membri della famiglia Imperiale si rifanno ai suoi
canoni estetici, in particolare Notiamo che riprendono una sua caratteristica, la capigliatura di Ottaviano e
di Augusto si caratterizza per la presenza di una ciocca disposta a tenaglia, che poi è una ripresa della
anastolè di Alessandro Magno.
- Nei suoi parenti, che gli aveva disegnato anche come discendenti, a partire da Marcello,
raffigurato in una statua secondo i canoni classici di Ermes; oppure in Gaio e poi in Lucio,
tutti disegnati come suoi eredi e tutti morti in giovane età, tutti questi propongono nei loro
ritratti i tratti tipici di quello Augusteo, non solo con la riproposizione delle sue
caratteristiche fisiche, ma anche un ritratto idealizzato e sobrio.
- Queste caratteristiche le ritroviamo anche nel ritratto femminile delle donne della Corte
augustea e della famiglia Imperiale, a partire da Ottavia la sorella di Augusto e madre di
Marcello, per passare a Giulia la madre di Gaio e Lucio e poi a Livia, terza moglie, che lo
accompagna in tutta la sua carriera e durante tutto il suo regno, e madre del suo
successore Tiberio, che non era un Giulio, ma un Claudio. Notiamo le caratteristiche del
ritratto neoattico, con questa ripresa dei canoni classici, molto Sobrio e idealizzato e
Notiamo anche la proposizione di una moda nella capigliatura, queste donne gettano delle
Mode dal punto di vista dell’acconciatura. I ritratti femminili sono molto diffusi, Perché le
donne della famiglia Imperiale sono coloro che, proprio per i legami di sangue che
rappresentano, sono le garanti della successione dinastica, per questo a loro viene riservato
un posto importante nella ritrattistica ufficiale.
- Il ritratto di Tiberio non presenta Grandi novità, Si colloca Nella linea del Ritratto Augusteo,
Tuttavia è un ritratto meno idealizzato dove anche le caratteristiche fisionomiche sono
specifiche, ti consentono di individuare con precisione il personaggio, mentre per i membri
della famiglia Giulia questo non è sempre così facile, proprio a causa della idealizzazione del
ritratto.
- Ritratti della dinastia giulio-claudia Con Caligola non vi sono delle sostanziali proprietà,
mentre alcune innovazioni Subentrano con il ritratto dell’imperatore Claudio, con lui
vediamo il ritratto di un uomo di età matura, segnato dall'età, che ritorna ai canoni del
Ritratto ellenistico patetico, con delle forme tendenti al barocco e con degli effetti
chiaroscurali molto accentuati. Questo lo vediamo ancora di più nel ritratto di Nerone, che
presenta una chiara innovazione rispetto al ritratto della primissima età Imperiale,
immagine più realistica; si ripropongono dei forti effetti chiaroscurali; gli stilemi del Ritratto
realistico con una tendenza al barocco; il tutto supportato da una modellato morbido e
levigato.
Con Vespasiano cambiano le cose, abbiamo un fenomeno transitorio nel quale da un lato si esaurisce il
classicismo, nello stesso tempo si crea un chiaro dualismo fra il ritratto privato da un lato, realistico, e
dall’altro un ritratto ufficiale, idealizzato. Da un lato un’immagine quasi volgare, con un forte Chiaroscuro e
una sensazione dei tratti realistici, dall’altro invece abbiamo un ritratto molto più levigato e idealizzato, che
è quello ufficiale.
- È un fenomeno transitorio che scompare sul ritratto di Traiano, dove invece possiamo
notare Come vi sia proprio una fusione tra il ritratto ufficiale e quello privato, quella che
era la caratteristica notata nel ritratto di Vespasiano qua viene meno. Traiano è un
grandissimo condottiero, un imperatore che sale al potere per adozione e che nel fondere il
ritratto privato e quello pubblico da luogo a un famoso ritratto, quello del decennale,
quello dei 10 anni dalla sua salita al potere, dove è rappresentato in semi nudità eroica,a
mezzo busto, con un mantello militare è una fibula che lo trattiene e il balteo, cioè la fascia
di cuoio che sosteneva la spada.
- Per l'età traianea vediamo alcuni ritratti femminili: il ritratto di Marciana, la sorella; il
ritratto della moglie Plotina. Notiamo come anche qui i tratti fisiognomici realistici sono
trattati in modo delicato, sono quasi purificati, c’è un chiaroscuro delicato e morbido, e le
acconciature molto complicate, arricchite con elementi posticci e parrucche. Uno dei
ritratti più belli dell’epoca è il Busto Fonseca, che forse ritrae Vibia Matidia, in cui notiamo
queste caratteristiche di età adrianea.
Le cose nel ritratto cambiano ulteriormente, registriamo delle novità importanti, delle nuove tendenze a
partire dall’età di Adriano. Nel corso del secondo secolo dopo Cristo possiamo notare Come si introduca
nella ritrattistica l’abitudine di incidere alcuni particolari, che prima venivano rese attraverso la pittura, ad
esempio quelli degli occhi, l’iride o la pupilla vengono incisi. Un’altra novità è l’uso della barba, i ritratti
dell’imperatore Adriano esprimono una forte elettrizzazione e una forte tendenza al classicismo, la stessa
barba rimanda a un tipo della statuaria classica, ovvero il tipo dell'oratore e del filosofo. Questo elemento è
un’espressione di fine ellenismo, un’espressione che deriva da una forte impronta e significato culturale.
Con l’età adrianea c’è anche un fenomeno atipico, quello della divinizzazione di un personaggio che non
era un membro della famiglia Imperiale, ma membro della Corte, si tratta di Antinoo l’amasio e il
prediletto di Adriano, il giovane che morì In circostanze piuttosto scure allegato del Nilo nel 130 d.c., poi
divinizzato. Ne abbiamo diverse statue, i cui canoni classici sono evidenti, è presentato spesso in nudità o
semi nudità Eroica, e in varie forme come un Dio, ad esempio la statua in cui lo raffigura secondo un
modello apollineo, che rimanda alla scultura greca classica. Le sue statue si collocano precedentemente
negli anni trenta del secondo secolo dopo Cristo. Canoni classici di età adrianea emergono anche nei ritratti
di Vibia Sabina, che abbandona la complessità e la ricchezza delle capigliature elaborate dell’età
precedente e assume un’acconciatura molto più sobria e semplice, si rifà a modelli classici assumendo
un’aria di espressioni Maestosa, ma anche molto rassicurante.
Il classicismo adrianeo perdura, l’uso della barba durerà circa un secolo, anche i suoi successori ne fanno
uso, con Antonino Pio non abbiamo novità rispetto all’immagine raffigurante dell’imperatore e al modello
classico, possiamo notare un accentuazione degli elementi chiaroscurali, ma in una sostanziale morbidezza
delle superfici. Con i busti di Marco Aurelio e Lucio Vero vediamo che si allunga la barba, che insieme alla
capigliatura vengono lavorati con una sensibilità pittorica, diventano degli elementi fortemente
ornamentali, abbiamo un uso sapiente del trapano corrente. Questa sensibilità pittorica che possiamo
riscontrare nella ritrattistica, sono elementi che ritroviamo anche con Maggiore accentuazione nei ritratti
di Commodo, dove vediamo ancora questo perdurare della caratteristica dell’incisione degli occhi.
Vediamo nel ritratto dell’imperatore come Ercole dei chiaroscuri molto accentuati, il paziente uso del
trapano e una decorativismo virtuosissimo dell’acconciatura e della barba, con un gusto che potremmo
definire barocco.
I canoni della scultura dell’età degli Antonini viene portata avanti anche da Settimio Severo, fine del
secondo secolo dopo Cristo, epoca incomincia a presentare dei problemi alle frontiere, quella dei Severi in
particolare sarà un epoca piuttosto travagliata dal punto di vista delle pressioni ai confini, ma anche poi dei
conflitti interni. Se da un lato Settimio Severo si richiama ancora ai canoni classici della statuaria
precedente, Tutto cambia con Caracalla, assume un taglio corto, come la barba, ha uno sguardo torvo e
crudele con una forte carica espressiva, la forte carica Patetica che esprime drammaticità e una forte
tensione nel movimento, si considera un’espressione di tempi di forte crisi politica; dall’altro anche
espressione di un cambiamento delle forme del potere con una tendenza Maggiore verso l’assolutismo.
Ricordiamo come Caracalla, che prende il nome da un tipo di vestiario di origine Gallica, giunse al potere
tramite l’assasinio del fratello Geta, che in un famoso tondo raffigurante Settimio Severo, Julia
Domna(moglie), Caracalla e Geta, viene eraso. Abbiamo un busto di Julia Domna con un’acconciatura
molto elaborata, questa massa di capelli che diventano anche un elemento decorativo e con questa
espressione del volto ieratica, Notiamo anche gli occhi come attraverso questa lavorazione diventano un
elemento di Attrazione magnetica dello sguardo. Questo lo vediamo negli ultimi rappresentanti della
dinastia dei Severi, in particolare del Ritratto di eliogabalo, che era di origine siciliana e fu acclamato dalle
truppe orientali, ma dura in carica soltanto 4 anni e fu assassinato. Venne acclamato dopo una breve
parentesi di Macrino, era sacerdote del dio del sole, nel ritratto eliogabalo possiamo notare questa
situazione molto forte dello sguardo, l'attenzione di chi guarda è concentrata sugli occhi che si
ingrandiscono, diventando intensi e magnetici. Questo tratto lo vediamo nel ritratto di Alessandro Severo,
raffigurato con un taglio molto corto di tipo militare, quando e rapidi tratti incisi a indicare gli elementi della
capigliatura. Con gli anni 30 del terzo secolo inizia un periodo di forte crisi a livello polittico, un’epoca di
Forte tensioni, che alcuni storici hanno definito di anarchia militare, un periodo molto travagliato che dura
circa 50 anni, a partire dal 235 fino all’epoca di Diocleziano del 284, in cui prese il potere ed inizia la
tetrarchia. Gli anni del III secolo sono travagliati, si esprime attraverso il ritratto, che si carica di espressione
di dolore morale, un esempio è il ritratto di Filippo l’Arabo, forte espressionismo ,che esprime un dolore e
un’angoscia, qualcuno l’ha definita l’età dell’angoscia. Lo vediamo anche nel ritratto dell’imperatore Decio
caratterizzato da un forte espressionismo e da questa concentrazione sullo sguardo, con gli occhi ingranditi
oltre la norma, questo disfacimento del rigore formale e del viso conferisce un’espressione Patetica ed
esprime una forte tensione, angoscia del vivere.
Le cose cambiano con Diocleziano, sale al potere nel 284 e si supera la crisi degli Imperatori, che si sono
succeduti acclamati dall’esercito dalle legioni, Oppure dalla guardia pretoriana, invece con lui si riafferma
l’autorità Imperiale, propone un nuovo sistema di governo che è basato sulla tetrarchia e che garantisce
stabilità, si parlava presenza e sulla collaborazioni di 2-augusti e due cesari, li vediamo rappresentati nel
gruppo dei Tetrarchi alla base del campanile di piazza San Marco a Venezia, realizzati in porfido, sono
quattro personaggi volutamente indistinguibili, perché devono simboleggiare unità del potere; anche se
vediamo che i 2 personaggi più vecchi portano la mano sui Cesari, hanno un abito militare con la mano
sull’elsa della spada e hanno una fissità dello sguardo che è proprio la caratteristica di questa fase della
media tarda età Imperiale. La ritroviamo anche nel ritratto di Diocleziano, che esprime nei tratti sofferti
dell’epidermide l’età avanzata, una grande concentrazione e autoritas, la fermezza del l’uomo al comando,
che garantisce la stabilita dell’impero.
Fissità dello sguardo e frontalità, raggiungeranno il massimo con i ritratti di Costantino, ad esempio i
famosi pezzi dell’aaccolito di Costantino, che si trovava nell’abside ovest della Basilica di Massenzio a
Roma, vediamo come imperatore che era seduto in trono come dio, in realtà si fa intermediario fra l’uomo
è Dio. Fissità dello sguardo e degli occhi magnetici sovradimensionati, una rigidità è una frontalita che
indicano il distacco sovrumano dell’imperatore. Riproviamo molti di questi tratti in statua di un imperatore
non ben identificato, del quinto secolo dopo Cristo, in bronzo, alta 5 m, che proviene da Costantinopoli,
esprime una grandissima forza emotiva e una tensione, l’imperatore sempre raffigurato con corazza, il
Globo in una mano e la Lancia nell’altra. È un’immagine forte che esprime l’autoritarismo.
Lezione 12
Il rilievo storico-narrativo
Il rilievo storico narrativo è un espressione della scultura Romana, insieme al ritratto, che all’inizio del 900
fu considerata una creazione originale dell’arte romana. Oggi sappiamo che ebbe dei modelli già in epoca
Greco-ellenistica, sappiamo anche che i romani svilupparono questa forma di arte dando luogo a delle
creazioni del tutto originali: ad esempio i rilievi delle colonne coclidi di Traiano e Marco Aurelio, con rilievo
narrativo che si sviluppa in modo spiraliforme a ricordare la forma di una conchiglia. Il rilievo storico
narrativo è un tipo di rilievo che presenta una narrazione di eventi e fatti, di norma di interesse pubblico,
sono fatti reali oppure ricostruzioni di fatti accaduti, o raffigurazioni simboliche e allegoriche.
Una caratteristica è il fatto che si opera alla base una selezione di eventi e scene, che vengono raffigurate in
una sequenza, che ha una funzione didascalica, il fregio normalmente si sviluppa in modo continuo oppure
paratattico.
I romani sviluppano questa forma artistica in maniera anche molto originale, ma ci sono dei precedenti in
epoca greco-ellenistica :
- ad esempio nell’ultimo quarto del V secolo avanti Cristo Il caso del tempio di Atena Nike,
sull’acropoli di Atene, che in un rilievo nel fregio presenta una scena di battaglia fra greci e
persiani, si riferisce alla battaglia di platea combattuta durante la seconda guerra persiana,
nel 479.
- Un altro esempio di fregio di età ellenistica, è quello dell’altare di Pergamo di Eumene II,
eretto per celebrare la vittoria di attalo sui Galati, il fregio presenta un rilievo di carattere
narrativo, con una serie di episodi e scene dove Telefo, personaggio mitologico a cui a
Pergamo era riservato un culto eroico, diventa il protagonista delle varie dei vari episodi
che si susseguono su questo rilievo.
Non si tratta di un’invenzione e di una creazione romana. Gli episodi realmente avvenuti sono raffigurati
raramente, è più facile trovare in questo tipo di rilievi, delle rappresentazioni simboliche e allegoriche,
anche raffigurate secondo schemi fissi. Questo genere di raffigurazioni non riguarda soltanto le grandi
composizioni, Ma si ritrovano anche in piccolo formato nelle Arti Minori, ad esempio nella toreutica, si
fanno portatori di un messaggio anche polittico, propagandistico e ufficiale:
- un esempio è la Gemma Augustea, in onice, conservata a Vienna, dove viene raffigurata la
glorificazione di Augusto seduto accanto a Roma, Incoronato da Oicumene,
impersonificazione del potere universale, è un’immagine simbolica, che si fa portatrice del
messaggio Imperiale.
- Un altro esempio, in onice, è il cosiddetto grande Cammeo di Francia, c’è una
raffigurazione che possiamo definire generica,è realizzato secondo uno schema fisso, dove
abbiamo nella parte bassa raffigurati i barbari prigionieri, quii abbiamo la grandezza di
Roma, è un'esaltazione della famiglia Imperiale; in alto abbiamo i personaggi divinizzati; al
centro abbiamo un episodio della corte imperiale dove sono raffigurati Tiberio e la madre
Livia.
- Un altro esempio di toreutica è una tazza d’argento del tesoro di Boscoreale con il trionfo
di Tiberio sul carro.
Spesso si usano temi allegorici, e anche raffigurazioni realizzate secondo degli schemi fissi, spesso anche
tratti da modelli originali della Grecia classica o di ambito ellenistico, un esempio importante e tra i più
antichi, risalente anche all’età repubblicana, è il monumento di Lucio Emilio Paolo a Delfi, situato nel
santuario di Apollo, è un fregio con battaglie che celebra la vittoria di Pidna, 168 a.C. Lucio Emilio Paolo
sconfigge i macedoni e secondo Plutarco Il condottiero trasformò un monumento equestre, già predisposto
per il re persio che venne sconfitto, del quale Ne rimangono pochi elementi, Fra Questi il rilievo con la
raffigurazione di una battaglia, fra romani e macedoni; un pilastro sul quale si doveva trovare una statua
equestre; la base del plinto con un cavallo impennato. Sono tutti i modelli tratti dall'ambito greco-
ellenistico e dove il condottiero si raffigura equiparandosi a un sovrano ellenistico.
Secondo l’opinione di Bianchi Bandinelli, un grande esempio di arte Eclettica romana, dove le conquiste
dell’arte ellenistica si combinano con i tratti più tipici e le espressioni più tipiche della romanità si trovano
nella Ara Di Domizio enobarbo, fine del secondo secolo avanti Cristo. Monumento che in realtà
non doveva essere un’ara e non aveva a che fare con la famiglia degli enobarbi, era una base destinata a
sostenere delle statue, Nettuno, Anfitrite, Achille e le Nereidi, ora perdute;la prima del suo genere in
ambito Romano; da questo monumento smembrato, i cui elementi furono rinvenuti nell’area del tempio di
Nettuno, nella zona del circo flaminio, sono quattro le lastre che sono finite in parte a Monaco di Baviera in
parte a Parigi. Questa base era composta su tre lati da un rilievo che si rifà ai canoni stilistici, si tratta di un
rilievo con tiaso Marino, cioè un corteo Marino dove sono presenti le posizione e anfitrite su carro,
preceduti da un corteo di divinità marine, tritoni e Nereidi; è un rilievo che si può definire classicheggiante,
realizzato secondo gli stilemi neoattici. Un quarto lato però raffigura un rilievo che si può definire
pienamente Romano, di carattere storico narrativo, dove compaiono dei magistrati e una processione con
degli animali Condotti al sacrificio, si ritiene che venga qui rappresentato un lustrum censorio, una
cerimonia che concludeva i 5 anni dell’attività dei censori, e realizzavano un sacrificio espiatorio per tutta la
popolazione; alla base c’è un iniezione didascalica è un impostazione narrativa verosimile, caricata in parte
di simbolismo e pienamente romana. La mano che ha eseguito questi rilievi sembra la stessa, c’è una
commistione fra le conquiste ellenistiche e le esigenze dell’arte romana,il messaggio romano, questo dopo
la conquista della Grecia.
Una cosa importante da sottolineare è che molto verosimilmente alla base del rilievo storico narrativo
dovevano esserci le pitture, in particolare quelle trionfali, che purtroppo noi abbiamo perso. Queste pitture
trionfali costituivano genere di pittura che veniva realizzata per le processioni, i cortei E in queste
raffigurazioni venivano ritratte scene di battaglia, luoghi e città conquistati, era una sorta di carta
geografica relativa alle conquiste fatte dall’esercito Romano, questo tipo di pittura influenzò molto il
rilievo storico narrativo.
- Un esempio che si può avvicinare a questo genere di pittura, in un affresco di una tomba
sull’ esquilino terzo secolo avanti Cristo, raffigura una narrazione di fatti verosimilmente
storici, una narrazione su 4 registri, notiamo anche che è priva di ogni azione di tipo
paesaggistico, che poi entreranno Nella pittura romana per influenza del mondo ellenistico,
vi notiamo dei personaggi, un certo Marcus Fabius e Marcus Pagnus, ma non si conosce la
vicenda precisa.
- Un Altro esempio importante che raffigura una scena condotta secondo i criteri del rilievo
storico narrativo, un fregio del Tempio di Apollo Sosiano, nell’area del circo Flaminio
vicino al teatro di Marcello, di cui ne sopravvivono Tre Colonne con capitello corinzio. Dalla
cella di questo tempio proviene un fregio che raffigura una processione Trionfale, si è
pensato al trionfo di Augusto del 29 avanti Cristo, ciò che importa è che si tratta di una
scena di trionfo che ritrae prigionieri e un trofeo, realizzato con uno stile elegante e pulito,
che riflette le tendenze del primo periodo dell'età augustea, e lo sviluppo di questa
tradizione del neoatticismo, con riferimento a un tema Romano, ma con stilemi che si
rifanno all'epoca classica.
- Una delle massime espressioni di questo genere scultoreo è l’Ara Pacis Augustea,
monumento votato Dal Senato nel 13 avanti Cristo e dedicato nel 9. Era un monumento
che celebrava il ritorno di Augusto Dalle campagne e dalle spedizioni militari in Gallia e in
Spagna, e mirava con una serie di messaggi propagandistici a esaltare la chiusura delle
guerre e l’esaltazione dell’instaurazione della pace, la Pax Augustea, l’apertura di una
nuova Età dell’oro, un’epoca di pace e prosperità. Quest’Ara è raffigurata come un recinto
quadrangolare, all’interno Si vede anche il tavolato ligneo sormontato da una serie di
festoni, all’interno vi era l’altare vero e proprio su una serie di gradini e intorno un recinto
con due aperture, raggiungibile attraverso una scalinata. Questo recinto si imposta va su un
alto plinto, un podio, e presentava una ricca decorazione all’esterno. La decorazione interna
del recinto ha un rapporto totalmente estraneo con quella esterna
in basso c’era uno zoccolo decorato con rilievi i tralci d’acanto, che si dipartono
simmetricamente da un cespo centrale; questi fregi di elementi vegetali sono stati
approfonditamente studiati e si ritengono rappresentare un simbolo di prosperità,
la ricchezza anche vegetale indica prosperità ed è simbolo della ricchezza
raggiunta nell’età Aurea augustea.
Al di sopra si trovano dei fregi in particolare due fregi lunghi con la
raffigurazione della processione inaugurale e quattro riquadri con scene
mitologiche allegoriche, che si caricano di messaggi politici propagandistici: Enea
che sacrifica ai Penati, il lupercale, la raffigurazione di Tellus ( simbolo di ricchezza
dei frutti della Terra e prosperità) e Roma ( esaltazione della personificazione di
Roma).
Lungo i lati più lunghi lunghi cortei con i personaggi della famiglia Imperiale : un
esempio è il rilievo del lato Sud con la processione dedicatoria, non è un rilievo
non storico, ma ricostruisce una processione, è narrativo, in cui sono presenti
personaggi che nel 9 non esistevano più, come Agrippa raffigurato al centro del
fregio(spalla destra di Augusto, condottiero e costruttore, secondo marito della
figlia Giulia, padre di Gaio e Lucio), mentre Augusto guidava la processione;
vediamo anche i giovani membri della famiglia Imperiale, oltre ai membri
femminili, garanti della successione Imperiale. Si tratta di una processione
raffigurata in modo molto Sobrio e equilibrato, secondo i canoni classici.
Due dei quattro rilievi corti che affiancavano le aperture sono di carattere
allegorico simbolico, vediamo la Saturnia Tellus, simbolo di ricchezza e prosperità
dei frutti della Terra; poi abbiamo un rilievo di Enea che sacrifica i Penati
(fondatore di Roma), personaggio significativo nell’esaltazione di Roma e della
casa Imperiale.
Abbiamo progetto portato avanti negli ultimi anni, che nel nuovo spazio museale dedicato all’
Ara Pacis, denominato l’Ara com’era è finalizzato a ricostruire anche i colori originali di queste
pitture, che attualmente sono prive di colori, ma in origine dovevano essere ornate da
pigmenti vivaci.
Storia dell’archeologia
Esamineremo le tappe della storia della disciplina archeologica, dall’epoca rinascimentale per arrivare ai
giorni nostri. Archeologia, termine formato da due parole greche, arkaios,che significa antico e logos Che
significa discorso, ma anche studio e indagine sulle cose antiche. Questo termine già compare nel primo
libro delle storie di Tucidide, dove tratta della storia della Grecia dalle origini per arrivare ai suoi giorni.
Nell’antichità con l’archeologia si intendeva una narrazione storica di fatti antichi. Col tempo abbiamo visto
che il significato è cambiato, abbiamo visto che l’archeologia come la intendiamo oggi è una disciplina
giovane, ha solo un paio di secoli, la svolta nella storia dell’Archeologia si registra nel secolo dei lumi, nel
700. È importante ricordare le tappe che precedono quell’epoca, perché la disciplina archeologica andò
soggetta a diverse trasformazioni nel corso dei secoli. Nel corso del tempo la considerazione del passato e
l’interpretazione delle fonti si è trasformata, in particolare la considerazione delle tracce materiali del
passato è andata soggetta a cambiamenti, è passato molto tempo prima che l’archeologia potesse
diventare una disciplina autonoma, dotata di proprie Teorie e metodologie. Per molto tempo il concetto di
archeologia è coinciso con quello di collezionismo ed antiquaria, anche la nozione stessa di riscoperta
archeologica è mutata, se inizialmente significava ricerca e scoperta dell’ oggetto di pregio, o raro, nel corso
degli ultimi anni del 900 l’indagine del passato ha incominciato a interessarsi anche alle testimonianze
dell’uomo tipiche dell’oridinario oggetti di uso Quotidiano. Archeologia come la intendiamo oggi è una
scienza che studia il passato dell’uomo e le sue interazioni con l’ambiente, a partire dai manufatti e dagli
oggetti, dalle tracce materiali che l’uomo ha lasciato nel corso del tempo.
Parla di questo approfondimento relativi a questa evoluzione della disciplina il testo di Bianchi Bandinelli
‘L’introduzione all’archeologia’. Lui Individua quattro periodi fondamentali nella storia dell’Archeologia,
come disciplina autonoma a partire dal 700, in particolare in primis l’archeologia Winckelmanniana ,
archeologia estetica settecentesca; l’archeologia ottocentesca, quella filologica, che si colloca verso la fine
dell'800 e i primi del 900; l’archeologia storico-artistica, che si colloca tra i due conflitti mondiali; Infine si
parla di archeologia storica, dopo la fine della seconda guerra mondiale in poi.
Noi andiamo a vedere le radici di questa disciplina, focalizzando l’attenzione fin dalla fine del
quattordicesimo secolo, con la nascita dell’Umanesimo e lo sviluppo del Rinascimento, si sviluppò una
visione fra gli uomini colti e gli studiosi, che considerava L’epoca classica come un modello di riferimento
culturale, parallelamente a questa si sviluppa un’attenzione particolare nei confronti del mondo antico e
delle evidenze che rimanevano del mondo stesso, le antiquitates. Studiosi, Dotti e ricchi Signori si
accendono di passione per le antichità, incominciano a raccogliere oggetti e, reperti e a formare dei nuclei
di collezioni archeologiche. Un oggetto emblematico da questo punto di vista, simbolo di questa tendenza
nuova al collezionismo è la tazza Farnese, in realtà è un piatto usato per le libagioni in sardonica, materiale
molto pregiato, è un oggetto di fattura Alessandrina nel II/I SEC. A.C. , prodotto dell’artigianato artistico
ellenistico. Proviene dall’Egitto e forse approdò in Italia con Ottaviano. Questo famoso reperto era in
possesso di Federico II di Svevia, XIII secolo, poi nel 400 fu acquistata da Lorenzo il Magnifico e più tardi
passò nelle collezioni della famiglia Farnese, da qui in fino al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Un oggetto di fattura notevole che rassicura una scena di carattere allegorico, una delle teorie è che si
tratta di una raffigurazione del Nilo e dei suoi benefici, allegoria della fertilità e della ricchezza dei frutti che
porta il Nilo con le sue pieghe. Oggetto molto significativo dal punto di vista del collezionismo che si
sviluppa fin dal XIII- XIV sec.
Nel periodo rinascimentale, a partire dal 400 si conoscono degli appassionati di antichità, che durante i
loro viaggi commerciali, incominciarono a raccogliere oggetti, ma anche testimonianze, e a documentare
attraverso appunti scritti e disegni i monumenti che capitava lo preparo nel corso dei viaggi.
- Un personaggio molto importante da questo punto di vista è Ciriaco D’Ancona, un
mercante, Ma era anche un umanista e un conoscitore delle Fonti
antiche,un’appassionatao di antichità e grande viaggiatore, Atene, Costantinopoli, i suoi
documenti sono molto importanti per gli studiosi attuali punto fu considerato dai
contemporanei Pater antiquitatis, padre delle antichità. Fra i suoi documenti, c’è il disegno
del prospetto del Partenone con delle annotazioni, ad Atene nel 1436, riuscì ad
identificare con esattezza il monumento.
- Un altro importante umanista nello stesso periodo documentò monumenti e
testimonianze antiche a Roma, Flavio Biondo, storico attento, interprete delle Fonti
antiche e osservatore della realtà che lo circondava e dei monumenti, delle Rovine che
emergevano a Roma, di cui si era persa la memoria dell’ identità. Nel Quattrocento
pubblica diverse opere, uno in particolare dedicata a Roma è la Roma instaurata, dove si
occupa di topografia antica e tardoantica, ma osserva anche i monumenti da vicino.
Un’altra opera importante sono le storie in 32 libri, che tracciano una storia dell’Europa di
circa 1000 anni, dal quinto secolo dopo Cristo fino ai giorni suoi, prendendo in
considerazione fonti primarie, per la prima volta con lui si usa il termine Medioevo.
In quell’epoca Roma in particolare era una città molto frequentata, non solo da studiosi appassionati di arte
e collezionisti, Ma anche dagli artisti, i giovani artisti andavano a Roma per vedere i monumenti, una sorta
di formazione, Perché i monumenti antichi erano considerati come normativi, degli esempi e dei modelli da
seguire. In quel periodo viene scoperta la Domus Aurea, casualmente da alcuni curiosi appassionati di
antichità, che nella fine del 400 si calano dall’alto nelle grotte, nelle volte dipinte della domus e ne
osservano le pitture imitandole, diedero inizio alla moda delle grottesche, Raffaello è il capofila di questa
moda. Molti artisti come Pinturicchio, Ghirlandaio, Giovanni da Udine osservarono queste Grotte, alcuni di
essi lasciano la traccia della loro vita e finendo o dipingendo i loro nomi sulle volte della Residenza di
Nerone. Questi artisti documentavano i monumenti, è rimasto un patrimonio inestimabile di disegni e di
rilievi in diverse raccolte, archivi e collezioni, sono documenti che ancora adesso sono utili agli studiosi,
perché spesso riportano lo Stato del monumento all’epoca in cui fu documentato, che a volte il corso nel
tempo sono spariti o deteriorati, questi disegni sono molto importanti per la loro ricostruzione.
Un esempio è il disegno della Basilica Emilia a Roma di Giuliano da Sangallo, di lui va ricordato a proposito
un aneddoto che riguarda il rinvenimento nel 1506 del Gruppo del Laocoonte, e raccontato da Francesco,
suo figlio, quando a seguito di questa scoperta Papa Giulio II mandò Michelangelo e Giuliano, che
lavoravano al tempo in Vaticano, a dare un’occhiata a ciò che era stato scoperto, Francesco che era portato
in spalla dal padre, ricorda che il padre quando vide questo gruppo statuario esclamò ‘Questo è il laocoonte
a cui fa riferimento Plinio il Vecchio’. Interessante perché ci mostra come questi artisti impegnati di cultura
umanistica erano anche molto Preparati sulle fonti antiche, e riconobbero il gruppo statuario del laocoonte
e figli, di cui parlava Plinio il Vecchio, dicendo che lo aveva visto nella Domus di Tito e che attribusce a
Gesandro,Polidoro e Atenodoro. Statua molto importante anche perché costituì parte del primo nucleo per
la formazione dei Musei Vaticani. Il 400 è importante perché è il secolo della nascita di grandi Musei, in
primis i Musei Capitolini, che precedono di alcuni decenni i Musei Vaticani, nel 500, fondati da Giulio II nel
506, ma aperte al pubblico sono nel 700. I Capitolini nel 1471, la sede dei musei nella michelangiolesca
piazza del Campidoglio, nacquero da un nucleo di statue Bronze raccolte da Sisto IV, tra le quali la lupa
Capitolina, e vennero li raccolte.
Fra il XVI e il XVII secolo, parlando di collezionismo Ricordiamo anche una moda sviluppatasi che prendeva
in considerazione gli oggetti curiosi, la moda delle Wundrkammer, le stanze delle meraviglie, dove si
raccoglievano oggetti straordinari e reperti antichi e curiosi, In quell’epoca si sviluppano gli studi di tipo
antiquario, che si concentrano sull’uso di costumi antichi, ricostruzione di fatti storici, mitografia, mentre gli
monumenti antichi vennero considerati più come documento utilizzato per studiare questi aspetti curiosi.
Bianchi Bandinelli ritiene che l’unico merito che si può riconoscere agli antiquari è quello di avere lasciato
una documentazione grafica di un monumenti, Oggi solo parzialmente conservati che possono essere utile
agli studiosi.
Arriviamo al 700, al secolo dei lumi e alla grande svolta nella storia dell’Archeologia, che si deve a Johann
Joachim Winckelmann, considerato il padre dell’ archeologia moderna, intesa come archeologia dell’arte,
cioè storia dell’arte antica, che per la prima volta con le sue opere, prende in considerazione l’archeologia e
le testimonianze archeologiche nel loro contesto storico, dando luogo a una periodizzazione dell’arte
antica, con una definizione di diversi stili artistici, che si pone in netta contrapposizione con gli studi eruditi
che avevano caratterizzato la precedente tradizione antiquaria. Nato a Stendal in Prussia nel 1710 in
condizioni molto modeste e la sua istituzione è prevalentemente autodidatta, si mantenne in studi e riuscì
a entrare nella scuola Latina apprendendo le lingue classiche, si iscrisse all’università di Halle alla facoltà di
teologia, l’unica facoltà aperta a un giovane privo di mezzi, perché non era prevista la tassa, Ma questo gli
consenti di approfondire la tua conoscenza delle lingue antiche, in particolare del Greco. Fu per diversi anni
precettore privato, a detta sua gli anni più bui della sua vita, finchè approdò a Dresda, dove fece il
bibliotecario e grazie a questa sua attività, potè leggere molto e soprattutto di arte, ebbe un’approfondita
preparazione sull’arte fra il 500 e il 700, si accostò alla letteratura del secolo dei lumi, finalmente potè
appagare la sua sete di conoscenza. Qui entra nelle grazie di Monsignor Archinto, si convertì al
cattolicesimo e nel 1755 quando Monsignore divenne segretario di stato del Papa lo seguì a Roma. Prima di
partire pubblicò in sole 50 copie una breve opera, Gedanken uber die Nachahmung der griechischen
Werke in der Malerei und Bildhauerkunst, riflessioni sull’ imitazione delle opere greche nella pittura e
nella scultura, che potremmo dire già contengono parte delle idee e poi lui svilupperà nelle opere
successive e soprattutto nella sua opera Maggiore, La storia dell’arte dell’antichità.
Si trasferì a Roma dove entro in contatto con un ambiente fervido dal punto di vista intellettuale e
culturale, divenne amico di un famoso pittore Anton Raphael Mengs, che fu poi l’autore di un suo famoso
ritratto ora al MET, risalente agli anni in cui lui giunse a Roma. Un altro ritratto famoso di Anton von Maron
fu precedente alla sua morte, in circostanze oscure a Trieste nel 1768. A Roma Winkelmann entro nelle
Grazie del Cardinale Albani, diventandone un protetto, personaggio importante del mondo culturale
Romano dell’epoca, perché era antiquario e collezionista, ma anche Mecenate. Nel 1764 grazie alla fama e
alla notorietà che si era conquistato, grazie all’approfondimento dei suoi studi in questo ambiente così per
fervido culturalmente, venne nominato conservatore delle antichità di Roma.
A quell’epoca risale la sua opera più importante ‘Geschichte der Kunst des Altertums’, che venne tradotta
in Italia come ‘Storia delle Arti e del disegno presso gli antichi’, pubblicata a Dresda del 1764 costituisce
una pietra miliare della storia dell’Archeologia, perché lui in quest’opera emancipa l’archeologia
dall’erudizione e dalla accademismo che avevano caratterizzato fino a poco tempo prima gli studi dell’
archeologia dell’arte classica.
- In quest’opera Winkelmann innalza la sfera della storia dell’arte alla comprensione
dell’opera d’arte in sé, l’opera non viene più studiata come documento per la ricostruzione
di aspetti vari della mitografia o della storia del passato, ma diventa studio dell’opera d’arte
in sé, Infatti il concetto fondamentale che troviamo qua dentro è quello che lui chiama ‘
l’essenza dell’arte’. Secondo Winckelmann bisogna cercare i concetti che stanno alla base
dell’opera d’arte, come dice Bianchi Bandinelli Winckelmann è impegnato in una ricerca di
una estetica assoluta, che si basa a sua volta su una supposta perfezione delle opere d’arte
greche.
- Un altro elemento molto importante che viene preso in considerazione dall’opera di
Winckelmann è quello della cronologia. All’epoca, nel 700, le opere d’arte del mondo
antico costituivano un insieme, Un bacino indistinto, nel cuore non vi era una cognizione di
carattere cronologico, non c’era una prospettiva cronologica e storica, Tra l’altro erano in
maggior parte copie romane di originali Greci, classici e ellenistici, Ma nessun lo sapeva.
Winkelmann in questa prospettiva cronologica inserisce ex-novo il criterio della analisi
stilistica, che consente di considerare l’opera d’arte in una prospettiva cronologica, usando
questo criterio che per noi oggi è una cosa scontata. Winckelmann suddivide la storia
dell’arte antica in 4 periodi principali.
Il contenuto dell’opera ‘Geschichte der Kunst de Altertums’, si articola in 12 libri, c’è una parte più teorica
che tratta di problematiche di carattere estetico; c’è una parte più storica che è una sintesi dell’evoluzione
dell’arte greca.
1) dalle origini dell’arte, dallo stile arcaico e differenze dei diversi popoli; 2) per poi prendere in
considerazione l’arte presso gli Egizi felice persiani; 3) l’arte presso gli etruschi e popoli confinanti;4) l’arte
presso i greci, a definire l’idea del bello rappresentato dall’arte greca; 5) si tratta del bello nelle svariate
espressioni dell’arte greca; 6) si prende in considerazione il panneggio; 7) la tecnica scultorea e pittorica; 8)
si incomincia a delineare una sintesi su quello che è il percorso di progresso e poi di decadenza dell’arte
presso greci e romani; 9) si considera l’arte greca dall'inizio fino ad Alessandro Magno; 10) poi l'arte di
Alessandro Magno fino al dominio Romano in Grecia; 11-12) l’arte greca presso i Romani dalla Repubblica e
la completa decadenza. Quest’ultima parte è considerata un progressivo declino e un processo progressivo
di decadenza.
In questo percorso Winkelmann distingue quattro periodi fondamentali: il periodo antico, quello
precedente il quinto secolo avanti Cristo, l’arte classica, che egli definisce del periodo sublime; il periodo
bello, il periodo della storia dell’arte che vada Prassitele, Lisippo e Apelle, comprende una buona parte
dell’arte ellenistica; il periodo della decadenza, Siamo alla fine dell’età ellenistica, del I secolo avanti Cristo
e età romana. Quello che ci colpisce è che sostanzialmente Winckelmann non parla mai di arte romana, ma
parla sempre di arte greca, anche nel periodo romano.
Nell’analisi dei critici, in particolare Bianchi Bandinelli, pur riconoscendo una grandissima importanza a
questa opera e ai concetti che sono alla base di questa definizione del tutto nuova della storia dell’arte
classica, Tuttavia si riconoscono alcuni concetti erronei, sbagliati, alla base di questa visione e che però
rimasero per molto tempo radicati degli Studi archeologici e soltanto in epoca relativamente recente
l’archeologia e la storia dell’arte antica sono riusciti a liberarsi di questi concetti erronei, che sono dei
pregiudizi.
- Il primo concetto erroneo è quello del mito della perfezione dell’arte greca, poiché nella
sua massima espressione è considerata l’arte del quinto/ quarto secolo avanti Cristo, il
periodo classico che diventa il canone estetico per eccellenza, e porta a vedere ciò che è
prima e ciò che è dopo come imperfetto e come decadente.
- Il secondo aspetto erroneo è quello di vedere la storia dell’arte antica in una prospettiva
evoluzionistica, cioè come una storia dell’arte che a un principio nasce, evolve, raggiunge il
massimo e poi decade, anche questo crea un pregiudizio nei confronti sia dell’arte arcaica
e sia dell’arte ellenistico-romana, visto come un periodo di decadenza.C’è un motivo per
cui Winkelmann ha questa idea, lui studia le fonti antiche, letterarie e noi abbiamo già
avuto modo di vedere come le principali fonti dirette e in particolare Plinio e Pausania
hanno loro stessi un pregiudizio nei confronti delle opere della storia dell’arte antica, tanto
da esaltare le opere d’arte classiche e di trascurare completamente le opere d’arte
dell’epoca uno. Perché loro stessi si basano su fonti precedenti e sui scritti retorici tardo
ellenistici che esaltavano il passato della Grecia libera, dal punto di vista culturale, una
Grecia forte e potente dal punto di vista politico ed economico, paragonandola al periodo
ellenistico dopo la conquista di Alessandro Magno, dopo la sottomissione al potere
Romano; avevano una visione che era nostalgica e rivolta al passato. Questa visione si è
tramandata nel corso dei secoli fino a giungere al 700 ea influenzare l'opera di
Winckelmann.
- Un altro errore alla base dell’opera di questo grande studioso è quella di considerare l’arte
greca come sostanzialmente volta all’idealizzazione del vero, Mentre secondo Bianchi
Bandinelli l’arte greca è sempre stata volta alla ricerca di un realismo, questo attraverso
L’invenzione dello scorcio, della prospettiva e del colore locale, hanno sempre teso a
restituire l’aspetto reale dei soggetti raffigurati. Secondo Winckelmann la caratteristica
dell’arte classica si può sintetizzare così: Nobile semplicità e muta grandezza. Il modello
statuario da lui più apprezzato ed esaltato è rappresentato dall’Apollo del Belvedere, una
statua conservata presso i Musei Vaticani, che però era una copia romana di un originale in
bronzo del IV secolo avanti Cristo. Bandinelli riporta un brano dell’opera di Winckelmann
dove si parla del Apollo del Belvedere, ci rendiamo conto di come dal punto di vista
emotivo le opere arte antiche avevano toccato le corde di Winckelmann.
‘ La statua dell’Apollo del Belvedere è la più sublime tra tutte le opere antiche che fino a noi
si sono conservate, direbbesi che l’artista a qui formato una statua puramente ideale
prendendo dalla materia quel solo che era necessario per esprimere il suo intento e
renderlo visibile. ‘ concetto di idealizzazione.
‘ il complesso delle sue forme
sollevasi sopra l’umana natura e il suo atteggiamento mostra la grandezza divina che lo
investe’. ‘Non vi sono ne tendini ne vene che quel corpo muovano o riscaldino, ma parte
che uno spirito celeste simile a fiume placidissimo, tutti abbiamo formati gli ondeggianti
contorni.’ ‘ mirando questo prodigio dell’arte tutte le altre opere né oblio e sopra di me
stesso mi sollevo per degnamente contemplarlo’ contemplazione dell’arte greca ed
idealizzazione del modello classico, come Bandinelli dice, questa idea e questa visione
pervase per molto tempo gli studi di archeologia, il primo che avvertì gli errori alla base di
questa concezione idealizzata e parabolica dell’arte greca non fu un archeologo ma un
filosofo Schlegel, disse che Winckelmann aveva Peccato di misticismo estetico, proprio
perché aveva idealizzato l'arte classica, con una prospettiva totalmente sbagliata che ebbe
delle conseguenze gravi. Un esempio sono le sculture del
Frontone Ovest del Partenone, I Marmi Elgin, era imposto il sito nel 600, abbiamo un
disegno di Jacques Carrè, al seguito dell’ambasciatore di Luigi XVI a Costantinopoli, vide il
Partenone gli anni Settanta del 300 e disegnò queste opere di Fidia, che sono adesso al
British Museum. Qualche tempo dopo Lord elgin, Siamo alla fine del Settecento, con
un’opera che si può definire di taccheggio ed esfoliazione li prelevò dal Partenone e li
portò in 200 ceste a Londra, chi aveva documentato nel 600 questa straordinaria opera
scultore a, lo aveva fatto prima del terribile episodio del bombardamento del Partenone da
parte di Francesco Morosini il veneziano nel 1677, diventato un deposito di armi dei Turchi,
posteriormente i turchi cominciarono anche a usare i marmi per ottenere calce. Difatti
quello che rimaneva dei Marmi del Partenone fu spogliato da Lord Elgin, Ambasciatore
inglese a Costantinopoli, ottenne il permesso di prelevare, non le statue che erano ancora
in posto, ma ebbe il permesso di prelevare quelle che trovavo durante lo scavo. Lui andò
ben oltre il recupero di materiale da scavo e spogliò il partenone; aveva acquistato una
struttura nei pressi del Partenone che fu demolita per recuperare dei pezzi marmorei che
erano stati riutilizzati per l’edificazione di questa struttura. Questa operazione risale al 1799
e questi Marmi furono spediti in Inghilterra, ma una parte delle ceste che conteneva i
reperti naufragò, approdando nel 1812. Il punto è che gli archeologi di Allora talmente
influenzati da queste idee Winckelmanniane da questa prospettiva neoclassicista non
riconobbero la grandezza dei Marmi del Partenone e addirittura misero in dubbio che
potesse trattarsi dell’Opera del grande Fidia, qualcuno ipotizza che potesse trattarsi di
copie di età romana, la cosa interessante è che fra i primi che riconobbero,grazie ad una
forte sensibilità artistica, La grandezza dello scultore che aveva realizzato queste opere fu
Antonio Canova, il grande scultore rappresentante della corrente neoclassica, il quale si
rifiuta di restaurare queste statue e riconobbe la grandezza. Un fatto analogo
avvenne con le opere di statuaria appartenenti ai frontoni del tempio di Zeus a Olimpia,
rinvenute nel corso degli Scavi dell’equipe tedesca degli anni 70 80 dell’800, questo per
dimostrare quanto questi concetti erano radicati e perdurano negli ambiti degli Studi
storico artistici. Anche Allora queste opere del maestro di Olimpia vennero considerate
opere di una scuola secondaria e addirittura quasi volgari per il fatto che sul frontone est
del tempio di e la raffigurazione di uno stalliere che si tocca un piede, l'immagine che il
mondo degli storici dell'arte e della critica archeologica che si erano fatti era un'immagine
dell'arte greca che non corrispondeva assolutamente alla realtà e ci volle molto tempo
prima che l'archeologia si liberasse da tutti questi pregiudizi.
Lezione 16
Il Settecento ha costituito una tappa fondamentale nella storia dell’Archeologia, molto importante anche
perché il XVIII secolo si effettuarono alcune importantissime scoperte di siti archeologici fondamentali
soprattutto per l’archeologia Romana, un esempio è Ercolano e Pompei, inizio degli scavi di questi dei due
sono 1738 e 1748. Queste ricerche furono avviate nella prima metà del 700 per volere di Carlo III di
Borbone, diventato re del Regno di Napoli nel 1734, era molto interessato all’evoluzione delle ricerche e
delle scoperte in questi siti,che fondò a scopo di valorizzare e gestire il grande patrimonio archeologico e
storico-artistico che veniva mano a mano scoperto e poi per pubblicare ed illustrare i reperti e i monumenti
che venivano scoperti. Istituì un’accademia, la Accademia ercolanese fu fondata nel 1755 proprio con
questo scopo, infatti Nella seconda metà del Settecento l’accademia ercolanese pubblicò otto volumi
dedicate alle antichità di Ercolano. Le collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, di manufatti
di ogni tipo, ma anche prodotti scultorei di notevole qualità e poi frammenti di affreschi di pittura romana,
confluirono nella raccolta borbonica. Questo museo è confluito nel palazzo del Cinquecento per volere del
figlio di Carlo III di Borbone, Ferdinando IV, il quale riunì in questa sede prestigiosa non soltanto le opere e i
reperti che facevano parte della collezione borbonica e che venivano dai siti vesuviani, ma anche la
collezione Farnese, che era giunta in possesso di Carlo III di Borbone, attraverso Elisabetta Farnese, una
grande collezione di oggetti artistici e di reperti archeologici provenienti da Roma e dal territorio Laziale.
Queste due grandi collezioni insieme a molti altri nuclei collezionistici costituirono la base delle raccolte del
Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dopo l’Unità d’Italia.
Gli scavi archeologici ad Ercolano furono intrapresi per volontà di Carlo III di Borbone qualche decennio
dopo una scoperta fortuita, perché Ercolano fu rinvenuta per puro caso nel 1709. Un contadino scavando
un pozzo per l’irrigazione dei suoi campi Intercetta delle strutture e recuperò dei Marmi, che poi furono
visti da un nobile e un aristocratico del luogo, il quale fece ulteriori ricerche, E sostanzialmente ci si rese
conto che questo scavo aveva intercettato una struttura Antica di età romana che all'epoca venne
identificata con il tempio di Ercole, ma più tardi ci si rese conto che in realtà quello che era stato
intercettato Era una parte della scena del teatro di Ercolano. Qualche tempo dopo, durante i lavori che
precedettero la costruzione della Reggia di Portici, voluta da Carlo III di Borbone, realizzata prima della
Reggia di Caserta, rendendosi necessario la stesura di una mappa della zona un funzionario di Carlo, Roque
Joaquin de Acubierre, incaricato di questo lavoro venne a conoscenza delle scoperte che erano state
realizzate nella vicina Ercolano qualche decennio prima e decise con l’autorizzazione del re di intraprendere
delle nuove ricerche dei nuovi scavi. Proprio nel 1738 le ricerche proseguirono, piuttosto difficoltose
perché sia Ercolano che Pompei erano sepolti a seguito dell’eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo,
sepolte però in modo diverso. Ercolano rimase sotto una colata di fango e di materiale piroclastico alta
diverse decine di metri, questo materiale nel corso del tempo si è indurito diventando sostanzialmente un
banco tufaceo, con una certa difficoltà di scavo. Tuttavia per qualche decennio gli scavi di ricerche vennero
portati avanti e si diede luogo anche a una mappatura e alla realizzazione di una planimetria della zona, vi
fu anche una prima pubblicazione 10 anni dopo dell’inizio degli Scavi da parte di uno storico Marcello
venuti, il quale si era conquistato l’apprezzamento del re, che pubblico la descrizione delle prime scoperte
dell’antica città di Ercolano. Nel frattempo Il funzionario Joaquin era stato affiancato da un ingegnere
svizzero Karl Weber, che tra le altre cose nel 1770 mise in luce la splendida Villa dei Pisoni o papiri, ne
redasse una planimetria, fu anche colui che propose di proseguire gli scavi di Ercolano facendone uno scavo
a cielo aperto, perché In quell’epoca gli scavi erano Condotti sostanzialmente facendo dei cunicoli nel
banco tufaceo, scavi molto scomodi, illuminazione era molto scarsa e c’era sempre pericolo di crolli, Weber
aveva proposto di scavare in un luogo diverso e tuttavia negli anni 60 gli scavi si interruppero per la sua
morte. Nel frattempo erano iniziati gli scavi e il sito archeologico di Pompei nel 1748, un sito più facile da
scavare, perché era stata sepolta da una poltre di cenere e lapilli, non comportava nei difficoltà di uno
scavo di un banco così indurito come quello di Ercolano. A più riprese continuarono gli scavi di Ercolano,
come quello di Amedeo Maiuri; le indagini ripresero anche nella seconda metà del Novecento e in
particolare si fece la scoperta di oltre trecento resti di persone ammassate sotto i fornici di una struttura di
sostruzione che si affacciava sul mare, nella quale si tiravano le barche in secca, oppure si faceva la
manutenzione delle imbarcazioni. Quelle persone si erano rifugiate nella speranza di soccorso che non
arrivo, sappiamo da Plinio che il mare era mosso e non consentiva l’attracco.
Tornando al secolo XVIII grande risonanza e successo ebbero gli scavi Condotti nell’antica città di Pompei,
sempre prendono paese iniziativa di Carlo III di Borbone, soprattutto negli anni successivi, fra momenti di
stasi e momenti di ripresa delle indagini, che venne messa in luce buona parte della città, Il Tempio di Iside,
il foro triangolare, la Necropoli di Porta Ercolano, proprio durante il periodo della dominazione francese
che il sito di Pompei raggiunse una grandissima fama, tanto da essere normalmente inserito nel percorso
del Grand Tour. All’epoca fu redatta una mappa degli scavi di Pompei, una città che si articolava su più di
100 ettari, nel 1997 Pompei ed Ercolano e Stabia sono stati inseriti nella lista del patrimonio dell’Unesco.
Pompei è una città la cui fama supera quella di Ercolano, le cui ricerche subiscono un forte impulso Durante
l’epoca delle ricerche di Giuseppe Fiorelli, soprattutto dopo l’Unità d’Italia con una maggiore disponibilità
economica alle ricerche. Fiorelli è archeologo e ispettore della soprintendenza, conduce delle ricerche
anche con metodi innovativi, innanzitutto nel prosieguo delle ricerche, bisogna riconoscere il merito di
avere suddiviso la città in porzioni denominate regione e insule, ancora oggi tutte le evidenze strutturali e
monumentali che sono state E sono messe in luce a Pompei seguono questa suddivisone. Fiorelli Tra l’altro
già prima dell’Unità d’Italia negli anni 50 dell’800 aveva ideato un sistema per la documentazione delle
vittime dell’eruzione che consisteva nel colare nelle cavità dei corpi, lasciate dal materiale organico, del
gesso fluido che poi prendeva quella forma lasciata dai corpi nella cenere. Sono quei calchi tuttora visibili
negli scavi di Pompei. A quell’epoca risale un’importante documentazione, principalmente grafiche che
risalgono al 1860, per gli studi Condotti dei ricercatori moderni, abbiamo molte opere grafiche lasciate da
architetti, pittori e artisti ottocenteschi che si recavano a Pompei e si esercitavano alla documentazione dei
resti architettonici, ma soprattutto di quelli pittorici. Abbiamo moltissime tavole dipinte che riproducono
intonaci affrescati, di cui intere pareti decorate, al giorno d’oggi scomparse, ma importanti per la
ricostruzione. Ad esempio delle tavole dipinte da Vincenzo Loria di terzo e quarto stile, che ci danno
un’idea della vivacità dei colori di questa forte policromia.
Conosciamo due grandi personalità che contribuirono a rilanciare le ricerche nei siti di Ercolano e Pompei,
Vittorio Spinazzola e Amedeo Maiuri, nei primi decenni del 900.
Le varie tappe della storia della disciplina archeologica, abbiamo visto come 700 abbia rappresentato un
momento di svolta fondamentale, abbiamo visto il lavoro di Winckelmann e due importanti scoperte
avvenute nella prima metà del Settecento, Ercolano e Pompei. Abbiamo visto anche l’evoluzione degli studi
e delle ricerche di questi siti archeologici così importanti, soprattutto per la storia dell’Archeologia romana.
Abbiamo anche visto che nel corso dell’800 c’è stata una grande documentazione grafica di evidenze
archeologiche che oggi sono in parte scomparse o conservate in modo parziale.
Abbiamo visto anche come nel corso del tempo sia stata valorizzata la pittura parietale, perché
effettivamente in ambito Romano, i centri vesuviani sono quelli che conservano il più grande patrimonio di
pittura parietale romana, una figura importante è quello di August Mau, uno studioso tedesco che alla fine
dell’800 classifica la pittura parietale Pompeiana nella sua ‘Geschichte der dekorativen Wandmalerei in
Pompeji’, la storia della pittura decorativa parietale a Pompei, nella quale distingue i 4 stili pompeiani che
abbiamo già trattato, importanti perché ancora oggi i suoi interventi e la sua classificazione reggono. La sua
opera è corredata di una serie di tavole a colori che ancora costituiscono un’importante Fonte
documentarie per gli studiosi di pittura antica.
Andando avanti ci soffermiamo nel XIX sec., Bianchi Bandinelli nell’affrontare la storia dell’Archeologia
classica suddivise questa evoluzione della disciplina in una serie di tappe fondamentali, dopo l’archeologia
del 700, detta Winckelmanniana, identificò un momento di grande importanza nell'evoluzione degli studi,
in quella che egli definisce l’archeologia filologica. Essa si colloca nel corso dell’800 fino all'epoca della
Prima Guerra Mondiale circa, che sicuramente una fase dominato dalla scuola tedesca e dall’opera degli
studiosi Ariani. In questa fase della archeologia filologica noi vediamo l’attuarsi di un metodo di studio
dell’arte antica, in particolare della statuaria Antica, il metodo filologico, che riconosce che all’epoca di
Winckelmann non si conoscevano opere originali greche, si studiavano le opere greche su copie romane,
ma non si sapeva che queste fossero delle copie, quindi la archeologia filologica fa un passo in avanti,
riconosce che finora ha studiato su copie romane e Mira a ricostruire gli originali Greci proprio a partire da
queste copie. È definita filologica questa parte dell’Archeologia, perché come la filologia mira a ricostruire i
testi antichi letterari sulla base della loro trasmissione manoscritta, così l’archeologia filologica mira a
ricostruire gli originali Greci sulla base delle copie romane arrivate a noi. Si basa sulla testimonianza
fornita dalle fonti letterarie, molto utili perché spesso citano opere d’arte, le descrivono nel dettaglio e ci
danno anche notizie sugli artisti, i nomi e l’ambiente nel quale agivano. Attraverso la messa a confronto fra
le copie di epoca romana e quella serie di grande artisti tramandati dalle fonti Si cerca di arrivare a un
identificazione delle opere originali. Si può stabilire un avvio degli studi e delle analisi con Winckelmann,
abbiamo alcune pagine dell’opera di Winckelmann ‘Monumenti antichi inediti’ 1767, molto importante per
delle scoperte nella identificazione di opere di statue antiche, una importante suo riconoscimento, che si
deve alla sua grande sensibilità e alla sua capacità intuitiva, preparazione e intelligenza, è quella dell’
Apollo saurochtonos, cioè la pollo che uccide un rettile. Opera citata da Plinio il Vecchio che la attribuisce a
prassitele. Sulla base del confronto tra le fonti antiche e l’evidenza statuaria ,in possesso di Winckelmann,
egli giunge alla identificazione, in particolare lui poteva vedere una statua marmorea che apparteneva alla
collezione Borghese, che oggi si trova al Louvre (In quegli anni il cardinale Albani avevo trovato una copia
fermmentaria di bronzo in una sua Vigna sull'aventino a Roma). Nel 2004 è saltato fuori un’altra statua in
bronzo al museo di Cleveland che si suppone sia l’originale. L’origine di questo bronzo presenta dei punti
oscuri. Winckelmann rappresenta un punto fondamentale per lo sviluppo di questo metodo filologico che
caratterizza gli studi archeologici dell’800. Una delle più importanti e un elemento simbolo nell’ambito del
metodo filologico è quella dell’ Apoxiomenos di Lisippo, copia romana di quella in bronzo che oggi è
conservata ai Musei Vaticani. Questa statua , di colui che si deterge, la raffigurazione di un atleta che si sta
ripulendo con lo strigile dopo l’attività sportiva, fu rinvenuta a Trastevere nel 1849 fra le rovine di una villa
romana, ma sappiamo che l’originale bronzeo era stato portato a Roma da Agrippa, che lo aveva esposto
nelle terme ed era talmente apprezzato anche dai romani , che quando Tiberio cerco di sottrarla alla
fruizione pubblica, per la sua residenza sul Palatino, dovette desistere per le accese proteste della città.
Era una statua famosa di cui ci parlano le fonti antiche e ben riconosciuta da un altro grande studioso della
scuola filologica, Heinrich Brunn, il primo docente di archeologia all’Università di Monaco, autore di
un’opera monumentale ‘Griechinschen Kunstler’, ‘ la storia degli Artisti greci’, dove applica pienamente
quello che è il metodo filologico; applicando il criterio dello studio parallelo Fra la traduzione scritta da una
parte e il patrimonio monumentale dall’altra, procede alla ricostruzione delle opere d’arte e delle singole
personalità artistiche degli autori greci che le avevano create.
Ci si basava sulle fonti letterarie, è d’obbligo citare un’opera fondamentale per questo tipo di studi e di
analisi, che si è rivelata utile strumento per gli studi di questo tipo ancoraggi, l’opera di Johannes Overbeck,
‘ Antiken Schriftquellen zur geschichte der blinden kunste bei den Griechen ’, ‘Le antiche fonti scritte per la
storia delle arti figurative presso i greci’. Lui raccoglie una serie di fonti antiche, citazioni bibliografiche,
nelle quali gli antichi riportano notizie su artisti e opere d’arte, è uno strumento di lavoro molto utile per lo
studio e per la ricostruzione di opere d’arte e di artisti antichi.
La statua dell’ Apoxiomenos, e le altre copie degli originali greci, in quest’epoca ci hanno rivelato alcuni
elementi fondamentali per riconoscere quelle che sono delle copie rispetto agli originali, lui ci insegna che
quando si passa dall’originale bronzo alla copia in marmo ,Proprio perché le due tecniche sono
completamente diverse, il passaggio dall’una all’altra lascia dei segni indelebili. Si riconosce il passaggio
dall’originale alla coppia nell’ incisività con cui vengono Resi i capelli, perché se un artista realizza i capelli
direttamente sul marmo li rende in modo più naturalistico, mentre c'è una maggiore rigidità nella copia, Ma
soprattutto ciò che rivela il passaggio dall'originale a una copia e la presenza di Puntelli, che sono spesso
costituiti da strutture, come colonne o tronchi, ai quali era stato a si deve appoggiare; oppure dalla
presenza di puntelli di raccordo, tra gli arti o tra i diversi elementi della statua. Servono a mantenere in
equilibrio la statua di marmo, perché mentre quella in Pronto si regge da te, mentre l’altra esce dal suo
equilibrio statico non si regge da sola e ha bisogno di alcuni elementi che garantiscano l’appoggio.
Un altro esempio è il doriforo di policleto, abbiamo una copia nel museo di Napoli dell’originale bronzeo,
altra fondamentale opera riconosciuta dagli studiosi della scuola filologica, in particolare da Carl Friedrich,
importante nella storia dell’arte greca, che risolve un problema, riassunto così da Bianchi Bandinelli:
‘ questa statua risolve il problema centrale dell’arte greca nel passaggio dall’età arcaica all’età Classica,
cioè quello di rappresentare la figura virile ignuda e tante, Ben proporzionata, ferma e stante, non
impegnata in una situazione precisa, ma tale da avere la possibilità di movimento’. Il Canon, opera scritta
da Policleto, si occupava delle proporzioni del corpo umano, dava indicazioni sull’equilibrio della figura
umana dal punto di vista dell’analisi della corrispondenza delle parti anatomiche. Proseguendo sull’analisi
di questo periodo dell’Archeologia filologica, nel corso dell’800, furono moltissimi gli studi, soprattutto
nell’ambito della statuaria, si riconobbero moltissime opere greche sulla base delle copie romane, però va
anche detto che in questo modo l'arte greca venne studiata Soprattutto sulle copie romane, questo porta a
trascurare le originali che nel frattempo venivano scoperte, in qualche modo questo Perpetua una visione
accademica e fredda dell’arte greca classica, impedisce di leggere le copie romane nel loro contesto E di
comprendere anche il significato è il valore delle copie nel contesto in cui vennero create. Anche per la
pittura, soprattutto nei grandi quadri che ornavano le pareti delle domus e delle ville dell’età romana, le
cercano di individuare dai modelli greci, e di risalire alla grande pittura da cavalletto Antica attraverso
quelle che si ritenevano delle copie di età romana gli originali Greci o ellenistici. Uno dei casi deriva dalla
Basilica di Ercolano, il soggetto è quello di Eracle che ritrova il figlio telefo allattato da una cerva. Per
queste opere si cercò di risalire agli originali, per alcuni fu possibile risalire a un originale di Apelle,
sicuramente Nella pittura romana ritroviamo molti riferimenti alla pittura Antica greca ellenistica, si
passavano i cartoni nelle botteghe. Successe che si analizza la pittura romana per cercare di ricostruire la
pittura greca trascurando il significato vero della pittura romana nel proprio ambiente e nel proprio
contesto, anche il significato sociale e il messaggio, i soggetti è il significato ideologico…. Importante è
anche la questione del paesaggio, che in queste pitture venne ritenuto un interpolazione romana, il
modello classico doveva essere un modello caratterizzato da equilibrio, linearità, chiarezza, quindi il
paesaggio che veniva considerato qualcosa creato e inventato dai Romani, mentre oggi sappiamo che non è
così, ma risale all’epoca ellenistica. L’ultimo dei grandi rappresentanti di questa corrente è Adolf
Furtwangler,’Meisterwerke der griechischen plastik’, ‘ le grandi opere d’arte della plastica greca’, dove
ancora una volta questo studioso porta al massimo sviluppo il metodo di ricostruzione delle opere antiche
originale attraverso le copie. Studia delle copie di età romana e ancora una volta propone numerose
identificazioni. Secondo Bandinelli i migliori risultati degli Studi delle analisi di questo grande archeologo si
ottennero in opere considerate meno famose, in particolare opera sulle gemme antiche e poi
un’importante opera dedicata alla pittura vascolare.
Lezione 17
L’ 800 è un secolo importantissimo per la formazione del metodo archeologico, Anche perché nel corso di
questo secolo l’archeologia si emancipa e diventa una disciplina autonoma e in questo secolo Bianchi
Bandinelli parla di fase militante dell’ archeologia. (particolare rilievo alle scoperte del mediterraneo) l’800
è un secolo di ricerche che diventano sistematiche e mettono a frutto le prime conquiste dell’ archeologia
stratigrafica, le ricerche e anche le pubblicazioni incominciano ad essere condotte con metodo scientifico,
anche sulla scia dello spirito positivistico del tempo. In quel periodo si moltiplicano le scuole, gli istituti, le
accademie e le pubblicazioni scientifiche dedicate all’archeologia. La rivista Archeloghia nasce nel 1770 è la
rivista Edita dalla Society of antiquaries, nata già a inizio 700, che poi sarà sostituita dall’ antiquaries
Journal. Londra è un centro molto vivace da questo punto di vista, nel 1733 era nata la società dei
Dilettanti, molto importante perché Finanziò di studio e di ricerca archeologica, e l’acquisto da parte del
governo turco di tutta una serie di reperti che poi andarmi ad alimentare le collezioni del British Museum,
nato nel 1753, Grazie all’iniziativa di un medico naturalista, sir HANS , il quale aveva ceduto a re Giorgio le
sue collezioni che andarono a creare il nucleo del Museo Nazionale. Nell’Ottocento queste iniziative si
moltiplicano, in Italia nasce la pontificia Accademia Romana di archeologia nel 1831, poco prima era stato
fondato su iniziativa della archeologo tedesco Gerhard l’istituto di corrispondenza archeologica, nel 1829,
oggi Istituto Archeologico Germanico. Gerhard aveva fondato una rivista, la rivista di scienze
archeologiche, nel 1852, seguita da una sua opera, un compendio di archeologia, nel quale definiva
l’archeologia come quella metà della Scienza universale dell’antichità classica puntata sui monumenti. Da
questa fase in poi il termine archeologia viene impiegato nel senso moderno.
È un’epoca di grandi scoperte e di grandi spedizioni, che procedono parallelamente con la politica
espansionistica coloniale delle grandi potenze europee e, in primis la Francia con la spedizione Napoleonica
in Egitto della fine del 700, una campagna che non ebbe successo dal punto di vista politico e militare, ma
ebbe grande rilevanza è grande risonanza dal punto di vista scientifico culturale archeologico, in particolare
la scoperta del 1799 della Stele di Rosetta, editto tolemaico del II secolo avanti Cristo redatto in geroglifico
demotico e greco antico, che fu studiato da Champollion, il quale passò alla storia per aver decifrato per
primo i geroglifici. In quegli anni si susseguivano in Egitto i viaggi di esplorazione e di studio, da parte di
studiosi e di appassionati dilettanti, Fra Questi ricordiamo Giovanni Battista Belzoni, ingegnere è
appassionato di antichità, pioniere dell’Archeologia, passato alla storia per l’impresa del trasporto di un
busto colossale di Ramses II, dal sito di Luxor deir El bahri, dal Nilo fino a Londra. A qualche anno di distanza
venne effettuata una seconda spedizione, Franco Toscana l’Egitto, formata da studiosi e da scienziati, co
finanziata da Carlo X di Francia e dal Granduca Leopoldo di Toscana. La Grecia conosce una grandissima
stagione di fondamentali scoperte archeologiche, nel corso dell’800, Infatti ricordiamo che i siti archeologici
della Grecia erano tra le mete privilegiate del Grand Tour; Ma le grandi scoperte della Grecia del primo
Ottocento sono legate al nome di un architetto inglese, Charles Robert Crockell, che con il libro di Pausania
in mano, durante il suo Grand Tour effettuato nel 1811, fu l’artefice di alcune importantissime scoperte:
il tempio di Atena aphaia a egina, del quale furono messe in luce le statue frontonali, vendute a Ludovico
di Baviera ed esposte al Museo di Monaco, all'epoca furono restaurate e integrate dallo scultore Danese
Tor valsen. Tempio di Apollo epicurio di figalia basse, Apollo soccorritore della pestilenza, dal quale fu
rinvenuto il fregio e le lastre furono trasferite al British Museum di Londra, lastre con rilievi che raffigurano
amazzonomachia e centauromachia.
Lezione 18
Paolo Orsi
Conterraneo di Federico Halbherr, grande ricercatore, pioniere, archeologo militante, un archeologo che
operò sempre sul campo con grande passione e determinazione, a volte con grande ostinazione . Un
archeologo che qui vediamo ritratto in modo molto diverso, sa un lato molto formale, dall’altro lato un
Paolo Orsi che lavorava sul terreno.
Paolo Orsi era nato, come Federico Halbherr, a Rovereto, questa piccola cittadina dell’impero austro-
ungarico a due anni di distanza dal conterraneo Halbherr, fu non solo suo collega ma anche suo amico. In
questi mesi stiamo esaminando un ampio archivio acquisito da Rovereto, al Museo Civico, un archivio di
circa 8 mila lettere ricevute da Paolo Orsi nel corso della sua vita e tra queste ce ne sono molte da parte del
suo amico e collega Federico Halbherr. Si forma a Roveredo, i primi hanno della sua formazione nell’ambito
dell’archeologia e della storia antica, i suoi primi passi nella disciplina si devono a un amico di famiglia,
Fortunato Zeni, che era un archeologo dilettante, appassionato collezionista, studioso di numismatica
soprattutto, ma anche di scienze naturali ed era fra i fondatori del locale Museo Civico, dove portò Paolo
Orsi e dove Paolo Orsi compì i primi passi, nello studio delle antichità. Nel Museo Civico Orsi respirò
sicuramente lo spirito positivista che animava i fondatori di questa istituzione, tra l’altro sperimentò
l’integrazione fra le due anime di questo museo, da un lato quella storico-archeologica e dall’altro quella
più legata alle scienze naturali, diciamo che la valvolizzazione del contributo delle scienze naturali
all’archeologia fu un’impronta molto importante negli studi di Paolo Orsi. Pensiamo che viene cooptato
nella società del Museo Civico di Rovereto giovanissimo, a soli sedici anni. Affiancò il maestro Zeni nella
catalogazione delle monete, nello studio dell’epigrafia, i primi interessi e i primi scritti (iniziò a pubblicare
molto giovane) riguardano le evidenze archeologiche romane del Trentino ed è proprio in quegli anni che
Paolo Orsi comincia a prendere appunti sui suoi famosi taccuini. In quegli anni inizia, nel 1867, a
frequentare l’Università di Vienna, poi si trasferirà a Padova, poi ancora a Roma, dove sarà fondamentale
l’incontro con Pigorini, nel ’79, morto il maestro Zeni, prenderà il suo posto come conservatore della
sezione archeologica del museo, un incarico che non abbandonerà mai, ma che terrà sempre fino alla fine
dei suoi giorni, perché nonostante i periodi lontani dalla città natale, manterrà sempre i contatti con
parenti. In quegli anni iniziò a prendere appunti sui suoi famosi taccuini, a Rovereto ne possediamo uno, il
primo, gli altri si trovano a Siracusa e costituiscono un inestimabile patrimonio di dati e di conoscenze,
eprchè Paolo Orsi fin da giovanissimo iniziò a esplorare il territorio con metodo di ricognizione, facendo
delle escursioni che lo portavano a esplorare, ad esaminare e osservare il terreno palmo a palmo e ciò che
osservava lo appuntava sui suoi taccuini.
Paolo Orsi era un amante dell’escursionismo, era iscritto alla società degli alpinisti tridentini, il fratello che
qui vediamo rappresentato, era un valente alpinista, ma possiamo immaginare che Paolo Orsi non fosse da
meno, infatti si faceva spesso accompagnare da fratelli e amici per fare escursioni in montagna e
approfittava di questo per fare le sue osservazioni di carattere archeologico.
Fu fondamentale l’incontro con Luigi Pigorini a Roma. Paolo Orsi si recò a Roma per seguire le lezioni di
Pigorini, grande paletnologo italiano, primo ordinario di paletnologia all’università di Roma, fondatore del
Museo Preistorico ed Etnografico di Roma, grande maestro di Paolo Orsi e suo consigliere per gran parte
della sua vita. Fino ad allora paolo Orsi si era interessato prevalentemente all’archeologia romana, alla
topografia, all’epigrafia, alla numismatica, aveva già scritto molti articoli in questo settore e dopo l’incontro
con Pigorini, nei primi anni ’80, cominciò a dedicarsi alle indagini in campo preistorico, fu autore di diversi
scavi archeologici in Trentino e ciò che è interessante è notare che fin dai primi interventi di scavo, Paolo
Orsi applica un metodo di scavo che si colloca fra i prodromi dell’archeologia stratigrafica e lo vediamo
anche dalle sezioni pubblicate in questo suo articolo sulla stazione litica, sulla stazione preistorica del
Colombo di Mori, un sito preistorico dell’età del Bronzo. Colpisce tra l’altro il rigore metodologico di questo
giovanissimo archeologo, soprattutto nella documentazione dei reperti e il fatto che non trascura di
documentare e far disegnare anche i reperti zoologici, si tratta di studi archeo-zoologici, dove Paolo Orsi
valorizza il contributo delle scienze naturali all’archeologica, questo senza trascurare la documentazione
precisa e accurata di altri reperti come i reperti ceramici.
La svolta per Paolo Orsi avviene nel 1888-1889. Orsi partecipa a un concorso per la cattedra di archeologia
all’Università di Roma, non lo supera, vince Emanuel Loewy, insigne studioso, intellettuale di grande
levatura, uno studioso orientato più nel campo della storia dell’arte, mentre Paolo Orsi rappresentava un
altro genere di archeologo, uno studioso impegnato nella ricerca sul campo, un archeologo militante, oltre
ad essere molto giovane. Forse l’Università italiana non era ancora pronta per una figura di questo genere
che potesse occupare la cattedra di Archeologia classica. Nel frattempo, Paolo Orsi vince un concorso come
ispettore degli scavi e dei musei a Siracusa e si trasferisce in Sicilia, dove inizia anche le sue indagini sul
campo immediatamente. Pochi anni dopo, nel 1881, diventerà direttore del Museo Archeologico di
Siracusa, che oggi porta il suo nome e Siracusa e il suo museo diventeranno la sede, ma anche la base di
riferimento, di tutte le sue immagini, di tutte le sue ricerche e grandi scoperte in Sicilia ma anche in Magna
Grecia, nel corso di una carriera durata quasi 45 anni. Lo vediamo ritratto ormai in età avanzata, alle soglie
della pensione alla fine degli anni ’20-’30 a Lipari, sempre attorniato dia suoi collaboratori e dai suoi operai,
abbiamo numerose fotografie d’epoca che lo ritraggono sempre insieme ai suoi collaboratori, eprchè Paolo
Orsi era sempre il più possibile presente sul campo, conduceva le indagini in prima persona, con
ostinazione, su terreni aspri, accidentati e sfidando anche le avversità climatiche e atmosferiche.
Fin dall’inizio, appena arrivato in Sicilia, diede avvio a una lunga e importantissima stagione di ricerche e
scoperte che gli meritarono una fama a livello internazionale, incominciò a esplorare l’area dei monti iblei,
nella zona sud-orientale della Sicilia. Qui mise in evidenza una serie di siti pre e protostorici, ricordiamo per
esempio gli scavi dell’insediamento di Tapsos, la straordinaria necropoli di Pantalica, che oggi è un parco
archeologico di interesse straordinario e immerso in un contesto paesaggistico davvero meraviglioso. Nello
tesso tempo Paolo Orsi avviò ricerche anche nelle città di fondazione greca, ricordiamo che Paolo Orsi fin
dall’inizio, ma per tutta la sua vita, fu un archeologo a 360°, le sue ricerche non conoscono limiti
cronologici, si occupò di archeologia a partire dall’epoca preistorica per arrivare all’epoca medievale. Un
particolare interesse, un particolare focus, fu dedicato da un lato alle origini di Siculi e Sicani, quindi alle
civiltà preelleniche, ma un altro importante oggetto del suo interesse furono el colonie greche, fra le prime
esplorate quella di Naxos e quella di Megara Hyblea, oggi siti straordinari, sul quale continuarono nel corso
del tempo le ricerche.
In quegli stessi anni, nel 1889, all’indomani dell’inizio delle indagini sul campo in Sicilia, Paolo Orsi condusse
anche un’importante ricerca in Calabria e a Locri Epizefiri mise in luce i resti di un tempio ionico, in località
Marasà, di cui restava davvero poco, restavano il basamento e alcune statue frammentarie, marmoree,
appartenenti al gruppo dei Dioscuri. Vediamo lo stesso Paolo Orsi raffigurato nell’89 con una di queste
statue, gruppo statuario oggi conservato nel museo di Reggio Calabria, gruppo che doveva decorare
probabilmente il frontone del tempio o forse si tratta di statue acroteriali. Qui vedimao il basamento del
tempio esplorato da Paolo orsi.
Nel frattempo in Sicilia continuarono negli anni ’80-’90 gli scavi nei siti preistorici, ad esempio nel villaggio
neolitico di Stentinello, nell’abitato dell’età del bronzo di Castelluccio, nella necropoli di Cozzo del Pantano,
ma nello stesso tempo el indagini nelle colonie greche, in particolare individuò l’antica Heloros, una sub-
colonia di Siracusa, importantissima anche la scoperta della grande colonia di Gela, fondata da coloni
provenienti da Rodi e da Creta sulla costa meridionale della Sicilia. Altra importante sub-colonia di Siracusa,
sempre sulla costa meridionale, è quella di Camarina.
Paolo Orsi scrive la storia, scrive l’archeologia ex novo quasi della Sicilia e della Magna Grecia, soprattutto in
Calabria. Nel 1907 fu incaricato di organizzare la soprintendenza archeologica della Calabria con sede a
Reggio, diede un contributo fondamentale alla nascita del Museo Nazionale della Magna Grecia, in Reggio
Calabria e nel frattempo proseguirono gli scavi in numerosi siti della Calabria, a partire dalla stessa Reggio,
per passare poi a Locri, nell’area di Crotone. Vediamo alcune immagini dei più significativi siti scavati da
Orsi in Calabria, quelli dell’attuale Vibo Valentia, l’antica Hipponion, colonia di Locri, poi importantissimi
anche quelli dell’antica colonia di Medma, nell’area di Rosarno, siti archeologici tra l’altro in cui ancora oggi
proseguono le ricerche, diciamo quindi che paolo Orsi è stato un pioniere che ha aperto la via a una lunga
stagione di ricerche sul campo, di scavi archeologici che proseguono fino ad oggi. Altro sito molto celebre è
quello di Capo Colonna, siamo in provincia di Crotone, dove si trovava un importante santuario e il tempio
dedicato a Hera Lacinia.
Ultimo suo importante scavo fu quello del Santuario di Apollo Aleo a Cirò Marina, nella località di Punta
Alice, in provincia di Crotone. Qui Paolo Orsi identificò il santuario di Apollo Aleo, il protettore dei naviganti,
mettendo in luce degli straordinari reperti, cioè le parti marmoree (in particolare una splendida testa) di un
acrolito di Apollo. Questi reperti sono oggi conservati nel Museo Archeologico di Reggio Calabria e furono
rinvenuti nel corso degli scavi avviati a Punta Alice nel 1924. L’ultimo grande scavo, dopo che nel 1920
Paolo Orsi aveva fondato, insieme a Umberto Zanotti Bianco, la società Magna Grecia destinata a sostenere
e finanziare el ricerche e gli scavi archeologici in Magna Grecia, fondata da Orsi con questo grande
intellettuale e filantropo, perseguitato dal fascismo e poi in seguito, negli anni ’50, nominato senatore a
vita. Lo stesso Paolo Orsi era stato nominato nel 1924 Senatore del Regno, dopo che nel 1923 era diventato
soprintendente di Siracusa, dunque una lunga carriera, una grande attività sul campo. Paolo Orsi non
dimenticò mai Rovereto, tornò nella sua città natale dopo il pensionamento e vi morì nel 1935. Donò
generosamente alla città, tramite lascito testamentario, una importante collezione che venne esposta nel
locale Museo Civico, una collezione estremamente composita, con centinaia e centinaia di monete di
zecche magno greche, reperti di coroplastica, esemplari di pittura vascolare e via dicendo, è davvero una
collezione molto ricca e composita, formata da migliaia di reperti. Qui vedimao le famose testine della
collezione di coroplastica della collezione Orsi. Questa collezione venne esposta nel 1942 nel locale Museo
Civico, che all’epoca aveva sede nel Palazzo Sichadt, recentemente ristrutturato dal comune di Rovereto e
che oggi è sede del museo della città.
Il contributo di questi ricercatori militanti, di questi instancabili esploratori, è stato molto importante per
l’evolversi e il formarsi della disciplina archeologica in Italia. Hanno lasciato una grande eredità, che è non è
solo materiale, eprchè naturalmente consiste anche in migliaia di reperti archeologici in siti archeologici di
grandissima importanza su cui le ricerche si sono poi sviluppate, hanno continuato, si sono perpetuate nel
corso dei decenni, un’eredità che è quindi non solo materiale, ma senza dubbio anche scientifica, perché
questi studiosi ci hanno lasciato una messe enorme di dati, di informazioni, il frutto delle loro riflessioni,
delle loro osservazioni sul campo, ed è anche una eredità metodologica, perché la loro attività sul campo ha
gettato le basi per lo sviluppo del metodo, per lo sviluppo delle tecniche della moderna archeologia in Italia,
poi più in generale la loro eredità è di tipo culturale in senso più ampio, questi studiosi hanno dato un
contributo fondamentale al pensiero, a un nuovo modo di esaminare, di considerare e di ricostruire il
nostro passato. Concludiamo questa excursus sulle grandi scoperte e sulle grandi personalità
dell’archeologia italiana approdando nel cuore di Roma, nell’area dei fori imperiali, quello che era stato
denominato il Campo Vaccino, perché era divenuto luogo di pascolo e anche di mercato non che, come
spesso accade per i siti archeologici abbandonati, anche cava di materiali da costruzione. Qui vediamo il
Campo Vaccino in una incisione id Piranesi della metà del Settecento. Ma soprattutto con la prima metà
dell’Ottocento ritorna un interesse per l’esplorazione, un’esplorazione più puntuale, sempre più sistematica
e sempre più scientifica dei monumenti e delle emergenze archeologiche nella città di Roma. Prima
dell’intervento di Lanciani, che vedremo, importanti esplorazioni a Roma e in particolare nel Foro Romano
erano state portate avanti dall’abate Carlo Fea, un collezionista e appassionato di archeologia, fu infatti
direttore dei Musei Capitolini, fu commissario alle Antichità di Roma. Tra l’altro dobbiamo attribuirgli la
scoperta del Discobolo nel 1781 sull’Esquilino (img. Del Discobolo Lancillotti, oggi conservato al Museo
Nazionale Romano). Si tratta id una copia romana del II secolo d.C. della famosa statua in bronzo di Mirone.
Carlo Fea aveva anche il merito di aver tradotto l’opera di Winckelmann.
Accanto a Carlo Fea ricordiamo per i suoi studi sui contesti archeologici e architettonici monumentali di
Roma, Luigi Canina, che fu architetto e archeologo. Anche Canina è nominato commissario alle Antichità di
Roma e il suo principale merito fu quello di illustrare, di disegnare gli antichi monumenti, era un
disegnatore eccezionale, fece un enorme lavoro di documentazione e di ricostruzioni grafiche die
monumenti antichi e pubblicò anche numerose raccolte dei suoi disegni. Tra le altre cose, gli furono affidati
gli scavi e la sistemazione della Via Appia Antica nel 1848. Vediamo qui un’immagine che si riferisce alla
sistemazione di questa via, con i monumenti ai lati della strada, risalente a pochi decenni dopo.
Una personalità di grandissimo rilievo per gli studi e per la documentazione soprattutto delle evidenze
archeologiche della Roma antica è quella di Rodolfo Lanciani, che era ingegnere e fu un grande topografo,
ebbe anche la cattedra di topografia a Roma e concentrò la sua attività sulla documentazione dei
monumenti antichi di Roma. Lanciani in particolare ebbe il merito di documentare anche le scoperte e i
ritrovamenti casuali, le scoperte fatte durante gli scavi di recupero nel corso dei grandi lavori per Roma
Capitale, che seguirono il 1871, si verificarono infatti numerosi espropri, lavori di ricostruzione e
naturalmente in quell’epoca anche numerose scoperte. Lanciani pubblicò questa sua grande
documentazione fra gli anni ’90 e l’inizio del Novecento con il titolo di Forma Urbis Romae, che presentava
una serie di 46 tavole con la documentazione dei monumenti di Roma.
Abbiamo testimonianza di questa grande attività seguita ai lavori per Roma Capitale nella quale vennero
messi in luce anche numerosi monumenti, frammenti e testimonianze di carattere archeologico.
Ma la maggiore personalità nell’ambito delle ricerche nella capitale fra la fine dell’Ottocento e i primi del
Novecento, in particolare nel Foro Romano, è quella di Giacomo Boni. Giacomo Boni è l’autore dei primi
scavi di tipo stratigrafico nel foro romano e più in generale a Roma a partire dal 1898. Giacomo Boni era id
origine veneziana, era nato a Venezia nel 1859, di formazione era architetto, si era infatti formato in
architettura presso l’Accademia di Belle Arti, ma aveva lasciato molto presto Venezia trasferendosi a Roma,
dove raggiunse l’apice della carriera, fu nominato ispettore ai monumenti della Direzione Generale delle
Antichità e Belle Arti, fu poi direttore dell’Ufficio Regionale dei Monumenti di Roma e infine, dal 1898 fino al
1925, fu il direttore degli scavi nel Foro Romano, cui poi andarono aggiungersi anche quelli del Palatino.
Svolse la gran parte della sua carriera e della sua attività archeologica nel cuore di Roma, tornò
saltuariamente a Venezia (vediamo un’immagine dell’epoca degli scavi al Foro Romano di Giacomo Boni,
con in primo piano i resti della Basilica Emilia) e in particolare in occasione del crollo del Campanile di San
Marco, crollo strutturale avvenuto nel 1902 a seguito di una serie di lavori che erano stati fatti sulle
murature del campanile, l’anno successivo al crollo Boni fu chiamato e condusse anche uno scavo
archeologico che mise in evidenza la presenza di strutture romane in corrispondenza delle fondamenta del
campanile di San Marco di Venezia.
Torniamo agli scavi del Foro Romano di Giacomo Boni per mettere in evidenza come fra i meriti di questo
personaggio vi sia quello di essere stato fra i primi ad applicare a scavi che sono poi su ampia superficie, i
metodi dello scavo stratigrafico. In particolare, Giacomo Boni fu fra i primi a focalizzare il tema della
correlazione fra i reperti e gli strati di provenienza, dunque per Boni c’è testimonianza scritta
dell’attenzione nei confronti del contesto stratigrafico, eprchè è fondamentale la relazione fra i reperti
mobili e gli strati di provenienza per la datazione e la ricostruzione di interpretazione dei contesti
archeologici. Abbiamo qui alcune immagini di sezioni stratigrafiche relative agli scavi di Boni nell’area del
Comizio del Foro Romano e alla base della Colonna Traiana. Va poi messa in rilievo la sua particolare
attenzione e cura nella documentazione sia fotografica e grafica, cioè il disegno dei reperti archeologici e
poi va anche messa in evidenza la sua attenzione anche nei confronti dei rinvenimenti di materiali
medievali, perché purtroppo, in quel periodo veniva dato maggiore rilievo ai contesti di età classica, mentre
vi era una tendenza a trascurare, quando a non cancellare del tutto, i contesti di età medievale. Già Orsi,
come abbiamo visto, dava pari dignità ai contesti medievali rispetto a quelli più antichi.
Giacomo Boni, fra le altre cose, nel Foro Romano mise in luce il sepolcreto arcaico, del IX – VII secolo a.C.,
ma forse è ancora più noto per i rinvenimenti effettuati nell’area del Lapis Niger, l’area del Foro Romano di
cui abbiamo parlato. Ricordiamo che fu questo grande archeologo di fine Ottocento – inizio Novecento che
nel 1899 mise in luce al di sotto di quella pavimentazione che viene definita Lapis Niger un’area sacra di età
riconducibile al Vi secolo a.C., un’area sacra sottostante che comprendeva (img. Frammenti della
pavimentazione del Lapis Niger costituita da lastre di colore nero) un altare e affiancato da una base
tronco-conica e da un cippo tronco-piramidale recante un’iscrizione arcaica che è considerata una delle più
antiche testimonianze scritte in lingua latina, un’area archeologica che recentemente negli ultimi anni la
soprintendenza ha voluto nuovamente documentare, vi si sono svolte recentemente nuove ricerche,
documentazioni con tecniche avanzate per rendere fruibile al pubblico più vasto questa importantissima
area situata nel cuore dell’antica Roma.
Concludiamo ricordando come accanto ad una nuova fase dell’archeologia militante tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, vi sia stata una nuova fase di ricerche di carattere teorico riguardo
alle arti figurative e riguardo alla storia dell’arte classica. Abbiamo già accennato alla figura di Emanuel
Loewy, un grande studioso di storia dell’arte classica che vinse la cattedra id archeologia classica
all’università di Roma e si occupò in particolare id studi di carattere storico artistico. Ricordiamo una sua
importante opera ancora oggi strumento imprescindibile, che sono le iscrizioni degli scultori greci
Inschriften griechischer Bilhauer, ma Bianchi Bandinelli lo ricorda in particolare per la sua ricerca intorno a
delle tematiche chiave, dei temi fondamentali relativi al mondo formale dell’arte greca e alle sue riflessioni
sull’essenza dell’arte classica. In particolare, Bianchi Bandinelli fa riferimento a due opere di Emanuel
Loewy, cioè la Natura dell’arte greca più antica e le Migrazioni Tipologiche; in queste opere, ricorda Bianchi
Bandinelli, Emanuel Loewy affronta due fondamentali argomenti inerenti la storia dell’arte antica, in primo
luogo il rapporto fra l’arte greca e il vero di natura, ricordiamo infatti che ci volle molto tempo prima id
riconoscere che l’arte greca è fortemente e profondamente naturalistica, dunque rapporto fra arte greca e
vero di natura, ovvero come l’immagine naturale viene lavorata e si trasforma nell’immagine artistica, poi
l’altro grande tema è quello delle migrazioni tipologiche, cioè della persistenza iconografica nell’arte greca,
la persistenza degli schemi figurativi. In particolare, una grande conquista in questo settore degli studi
riguarda il superamento di una concezione deterministica dello sviluppo dell’arte greca, in particolare
Loewy ha il merito di avere superato l’idea dell’arte arcaica come un fase quasi preparatoria dell’arte
classica e il suo merito è anche quello di avere collegato nel suo contesto l’arte arcaica. I suoi studi di
carattere storico-artistico così importanti e alcuni dei temi da lui affrontati furono poi ripresi dal suo allievo
Alessandro Della Seta, che in particolare si occupò del problema del superamento della legge della
frontalità nell’arte greca. Egli affrontò queste problematiche in particolare prendendo in esame la
conoscenza dell’anatomia nel mondo greco e proprio nella sua opera intitolata Il nudo nell’arte, fa una
lunga e articolata rassegna della scultura greca che viene proprio esaminata dal punto di vista della
conoscenza e della conquiste dal punto di vista dell’anatomia e forse in questo Bianchi Bandinelli individua
un limite delle riflessioni e degli studi di Alessandro della Seta.
Lezione 19
Lezione 20
Le fonti archeologiche
In un percorso ideale le tappe della ricerca archeologica dovrebbero presentare una serie di punti, che però
non è detto debbano essere sempre presenti. È sicuramente importante partire da un progetto di ricerca,
perché fissa le ipotesi di partenza e circoscrive anche l’oggetto dell’indagine, in più prende in
considerazione i modi attraverso cui si intende procedere, tra l’altro prende anche in considerazione i mezzi
economici con cui si intende affrontare la ricerca. Si passa poi alla raccolta dei dati, fondamentale,
solitamente si può procedere con metodi non distruttivi o con metodi distruttivi, quelli non distruttivi sono
quelli più legati alla ricerca topografica, alla ricerca di superficie, quelli distruttivi sono quelli relativi allo
scavo archeologico, l’attività sul campo è fondamentale, ma in un progetto di ricerca archeologico potrebbe
anche mancare, pensiamo per esempio ai progetti di ricerca riguardo le collezioni museali.
Altro passo importante nella ricerca archeologia è l’organizzazione dei dati, che consiste nella
classificazione dei dati raccolti, dei reperti che vanno analizzati, vanno suddivisi, vanno schedati, vanno
documentati con dei metodi ben precisi e vanno infine interpretati. Il termine di questo percorso è proprio
l’interpretazione dei dati archeologici raccolti. L’ultimo step di tutto questo sviluppo della ricerca deve
essere la pubblicazione dei dati, che è fondamentale, bisogna sempre mirare alla pubblicazione, che sia
scientifica o divulgativa, ma ovviamente la ricerca ha valore nel momento in cui noi siamo in grado di
rendere pubblici i risultati della nostra indagine.
Andiamo a vedere più da vicino quelli che sono i metodi più diffusi per la raccolta dei dati, quindi lavoro sul
terreno. Partiamo con l’indagine topografica, con il cosiddetto survey, la ricognizione archeologica. Prima di
questo naturalmente lo studioso, prima di procedere alla ricerca sul campo, farà bene a raccogliere tutta
una serie di dati nel momento in cui sceglie un sito, un’area di indagine, deve raccogliere tutte le notizie, di
tipo cartografico, o di tipo documentario, fonti storiche e archivistiche, fonti anche id carattere
toponomastico… si può poi procedere ad una ricognizione di superficie, che può essere un’immagine fine a
sé stessa, autonoma, o può anche essere un’immagine di tipo propedeutico, perché è in grado di fornire
importanti informazioni sulle potenzialità archeologiche e stratigrafiche di un determinato territorio, quindi
in base alla potenzialità archeologica può orientale l’indagine attraverso lo scavo, quindi può essere
propedeutica allo scavo archeologico. L’indagine topografica ci rivela le caratteristiche dei paesaggi antichi,
ci dà indicazione per esempio sui siti presenti sul terreno, che possono essere degli insediamenti, degli
abitati, ma anche necropoli, strade, infrastrutture e via di seguito. Quelle che vengono individuate
attraverso l’indagine topografica vengono definite unità tipografiche e le ricerche tramite survey ci aiutano
a individuarne la natura, l’estensione, la datazione e quindi ci aiutano a ricostruire il paesaggio, infatti
l’indagine di superficie, la ricognizione archeologica è considerata uno strumento dell’archeologia dei
paesaggi ed è uno strumento che possiamo considerare prevalentemente non distruttivo, anche se non è
così fino in fondo.
Questo metodo di indagine del territorio, che ha una storia molto lunga, abbiamo visto che parte da molto
lontano, comincia a perfezionarsi nel corso dell’ottocento a partire dalle escursioni e dalle passeggiate di
archeologi ottocenteschi come paolo Orsi, già nell’Ottocento la ricognizione di superficie diventa un
importante strumento di indagine che spesso affianca l’indagine attraverso scavo archeologico e nel
Novecento si potenzia anche perché nel Novecento, con lo sviluppo industriale, le nuove tecniche, le
arature profonde, si intaccano e si mettono a repentaglio anche siti profondamente sepolti sotto il terreno,
quindi al ricerca sul terreno diventa particolarmente importante anche a livello di salvaguardia dei siti
archeologici.
In cosa consiste questo metodo di ricerca? Consiste nell’analisi autottica, nell’analisi diretta di una porzione
di territorio, normalmente oggi viene applicato il metodo della ricognizione estensiva, detta anche
ricognizione sistematica, che consiste, una volta individuata l’area sulla quale si vuole svolgere la ricerca,
nella suddivisione di questa area in unità che sono individuabili sulla carta. Su queste unità gli archeologi, i
ricognitori, camminano organizzati per file parallele (questo metodo si chiama anche field walking), si
cammina lungo questo terreno, distribuiti su file parallele a distanze regolari e i ricognitori osservano il
terreno e raccolgono quei manufatti e quegli elementi che ritengono significativi; si raccolgono
sostanzialmente reperti archeologici, che spesso sono stati portati in superficie attraverso le arature, ci
sono infatti stagioni in cui vale davvero la pena di percorrere i campi, ma vale la pena anche ripetere
progressivamente le ricognizioni, tornare anche in stagioni e momenti diversi, è per questo che questo
metodo è considerato non distruttivo, ma fino a un certo punto, perché si raccolgono manufatti e in questo
modo i siti si trasformano nel corso del tempo. Bisognerà registrare il tempo, il numero dei ricognitori, la
distanza mantenuta tra un ricognitore e un altro, l’intensità della ricerca, i ricognitori possono procedere
più o meno vicini, devono avere comunque la possibilità di coprire un campo visivo sufficiente a individuare
i reperti. In questo modo i ricognitori individueranno dei siti archeologici, che nell’ambito della ricognizione
vengono considerati tali nel momento in cui c’è una concentrazione di rinvenimenti archeologici. Laddove
la concentrazione è maggiore si parlerà di siti e laddove invece la concentrazione è minore si parlerà di
extra sito, cioè di una sorta di distribuzione di reperti meno concentrata che costituisce quasi una sorta di
rumore di fondo rispetto ai cosiddetti siti.
Nel momento in cui i ricognitori pensano di aver individuato un sito, cioè una particolare concentrazione di
materiali o anche delle evidenze archeologiche monumentali, come è capitato all’équipe dell’Università di
Trento, che per anni ha fatto ricognizione nel territorio dell’antica Duca (?), ha individuato siti che sono
anche siti caratterizzati da evidenze monumentali, più o meno visibili in superficie. Una volta che si
individuano i cosiddetti siti, ci si ferma, si osservano i reperti raccolti, si compilano delle apposite schede per
registrate quanto si è osservato e quanto si è raccolto e possibilmente poi si documenta il sito attraverso
diversi strumenti, eprchè poi questi siti vanno registrati e inseriti in carte archeologiche, si può procedere
con la stazione totale per il rilievo che può essere semplicemente il rilievo dei limiti dell’area di
concentrazione dei siti, oppure il rilievo vero e proprio di eventuali strutture individuate. Altro strumento,
molto utile, è il GPS. Queste informazioni andranno poi a costituire la base per la costruzione di carte
archeologiche.
Molto utili nell’ambito della ricerca di superficie e soprattutto metodi considerati non distruttivi, quel tipo
di indagini definite indagini geognostiche infrasito, per questo tipo di ricerca, molto utili sono le
strumentazioni pertinenti all’ambito della geofisica, che possono aiutare ad approfondire la raccolta dei
dati, approfondire le conoscenze anche sulla eventuale esistenza di strutture, di elementi non visibili in
superficie. Fra i metodi più utilizzati in questo campo vi sono quelli che vengono normalmente impiegati in
ambito geofisico per l’individuazione di strutture sepolte, sono strumenti che poi tra l’altro possono essere
naturalmente propedeutici anche a uno scavo archeologico e sono soprattutto quelli relativi alla
magnetometria, è molto usato in archeologia il magnetometro, che è in grado di localizzare dei corpi sepolti
sia dotati di magnetizzazione, cioè metalli, ma anche reperti di terracotta, per esempio fornaci, muri di
laterizi, quindi quantità di terracotta perché i minerali che costituiscono l’argilla, quando sottoposti ad alte
temperature si magnetizzano. Quindi il magnetometro è molto usato nell’ambito di queste ricerche
infrasito. Altri strumenti usati sono il resistivimetro e il georadar, che si basa sull’elettromagnetismo. Tutte
queste strumentazioni si basano sulla misurazione di determinate proprietà fisiche del sottosuolo. La
resistività invece si basa sulla registrazione delle differenze nella capacità di condurre corrente elettrica da
parte del sottosuolo. La presenza di discontinuità e anomalie segnala l’esistenza nel sottosuolo di elementi,
che si possono poi ulteriormente indagare attraverso l’analisi distruttiva, cioè attraverso lo scavo
archeologico. Altri importanti strumenti e metodi di analisi dei siti, della superficie nella quale possono
eventualmente essere individuati siti e strutture archeologiche, altri metodi sono quello della fotografia
aerea, usato da molto tempo e si basa sostanzialmente sull’osservazione delle variazioni di colore della
vegetazione, che soprattutto in pianura danno dei buoni risultati, in Francia questo metodo è stato usato
molto diffusamente, si basa sulla osservazione della variazione del colore della vegetazione, che
naturalmente cresce più rigogliosa, quindi più scura, laddove c’è molta umidità, mentre cresce più rada
dove invece l’umidità è scarsa perché per esempio al di sotto ci sono strutture murarie.
Un passo avanti si è fatto con le tecniche del telerilevamento, sono tecniche che registrano l’emissione
spontanea di radiazione elettromagnetiche da corpi remoti, eprchè queste documentazioni si fanno da
piattaforme terrestri o aeree, in particolare registrano le radiazioni elettromagnetiche che dipendono dalla
temperatura die corpi analizzati, molto usata è la termografia, che fa uso di termocamere, che acquisiscono
immagini all’infrarosso. Questi sono i principali strumenti di cui l’archeologia si avvale per l’indagine
topografica, che può essere un’indagine autonoma, oppure può essere un’indagine preventiva e
propedeutica allo scavo archeologico, che è un tipo di indagine distruttiva, perché ovviamente i contesti che
vengono scavati, una volta scavati non si possono ricostruire e proprio per questo è fondamentale
procedere negli scavi con una metodologia assolutamente rigorosa e precisa. È fondamentale nel momento
in cui si individua il sito da scavare e si procede con lo scavo, è fondamentale individuare decidere la
strategia con la quale si andrà a operare e poi la procedura. Le strategie di scavo sono diverse, soprattutto
nel passato sono state utilizzate, ma anche oggi negli scavi di emergenza, sono stati utilizzati i metodi per
esempio per trincee (vediamo qui alcuni esempi), c’è poi lo scavo attraverso saggio isolato, utile nel
momento in cui si vogliano raccogliere rapidamente dei dati archeologici, possono poi essere propedeutici
a uno scavo di maggiori dimensioni, lo scavo per saggi viene usato spesso nell’archeologia preventiva o
negli scavi di emergenza, soprattutto a livello urbano, laddove evidentemente non si può procedere a scavi
su ampie aree. La moltiplicazione dei saggi di scavo porta allo scavo per quadrati, quello usato da Mortimer
Wheeler al Maiden Castle, un tipo di scavo usato ancora oggi, anche se non p consigliabile, eprchè necessita
il risparmio di terra fra saggio e saggio, che per qualcuno garantiscono la registrazione progressiva in
sezione, eprchè ci sono saggi sulle cui preti si leggono le sezioni, per alcuni garantiscono la possibilità di
leggere progressivamente le sezioni e quindi di avere un maggiore dettaglio di quanto via via viene
asportato, tuttavia è uno scavo piuttosto complicato, i diversi archeologi che scavano nei diversi saggi si
trovano ad avere situazioni diverse e poi queste situazioni diverse vanno ricomposte a tavolino, insomma è
un tipo di scavo piuttosto complicato.
La strategia più consigliabile quando possibile, questo si può fare negli scavi di ricerca, cioè non negli scavi
di emergenza, come ad esempio lo scavo di ricerca dell’Università statale di Milano, nel sito di
Bedriacum/Calvatone, dove si ha la possibilità di procedere con una metodologia che è quello dello scavo
stratigrafico e con una strategia che prevede lo scavo per grandi aree, che consente id raccoglier ei dati,
certo necessita anche di tempo, di avere una possibilità di programmare uno scavo su un tempo ampio,
perché naturalmente richiede una quantità non solo di mano d’opera, ma anche di tempo per permettere
di asportare via via gli strati dal più superficiale a quello meno superficiale, per esaurire progressivamente il
deposito archeologico.
Dal punto di vista della procedura non c’è molto da dire, lo scavo è arbitrario o archeologico, cioè
stratigrafico. Ricordiamo i grandi sterri nell’area dei Fori Imperiali, che hanno sventrato il centro di Roma,
scavi con sterri si sono purtroppo perpetuati nel tempo in molti siti, specialmente in Italia, prima che si
fondesse su larga scala il metodo dello scavo stratigrafico. Ci sono degli scavi che apparentemente sono
stratigrafici ma in realtà non lo sono, sono gli scavi cosiddetti per “plana”, cioè per tagli predeterminati, un
tipo di scavo molto usato ancora in Germania, ma è paragonabile allo scavo arbitrario, eprchè nel momento
in cui si asporta il terreno per tagli predeterminati e non si segue la stratificazione del terreno si perdono
tutte le caratteristiche e i rapporti stratigrafici veri e propri tra, appunto, le unità stratigrafiche.
L’unica metodologia di scavo che può essere considerata archeologica è quella dello scavo stratigrafico, e
come hanno sottolineato Mannoni e Giannichetta, lo scavo o è stratigrafico o non è archeologico.
Dobbiamo molto agli inglesi in questo campo, eprchè il concetto di stratigrafia fu perfezionata nella prima
metà del Novecento grazie alle attività sul campo di Mortimer Wheeler e Kathleen Kenyon e dalla seconda
metà del Novecento questo metodo si è diffuso su larga scala anche in Italia e viene regolarmente
impiegato negli scavi archeologici.
Il concetto di stratigrafia deriva all’archeologia dalle scienze geologiche, che si svilupparono in particolare in
Gran Bretagna nel XIX secolo e soprattutto nell’ambito della paletnologia, un po’ più tardi nell’ambito
dell’archeologia classica. Come i geologi datavano gli strati geologici attraverso i fossili, così gli archeologi
pensarono di poter usare i reperti archeologici per poter datare gli strati archeologici. La stratigraficazione
archeologica, al successione stratigrafica, si forma attraverso l’apporto antropico ma anche naturale e si
forma per cicli per periodi di maggiore o minore attività e di pausa e questa attività lascia una traccia nel
terreno che è costituita dagli strati e dalle loro interfacce, cioè gli strati rappresentano i momenti più o
meno lunghi di attività, le loro interfacce rappresentano i momenti di pausa. Naturalmente ci può essere
anche una interazione, anzi, normalmente c’è una interazione l’azione antropica, cioè le attività umane, e i
processi naturali. Questi cicli di attività e pausa lasciano sul terreno la traccia attraverso gli strati elee loro
interfacce. Cosa intendiamo dunque noi per strati? Sono una qualsiasi entità omogenea di materiale che
deriva da un processo genetico unitario. Ma quali sono le caratteristiche degli strati archeologici? Lo
vediamo qui schematicamente: hanno una superficie, un’interfaccia, un contorno, un rilievo, perché lo
strato ha anche un suo spessore e una sua forma, ha un suo volume, poi ha una posizione stratigrafica, cioè
la posizione dello strato nell’ambito del contesto, della successione stratigrafica, dunque è importante
anche il rapporto tra uno strato e gli altri. Lo strato ha una posizione topografica, cioè una sua reale
posizione all’interno del terreno, poi una posizione stratigrafica, cioè una posizione che è in rapporto alle
altre unità stratigrafiche. Lo strato ha poi una sua cronologia. Come otteniamo la cronologia? Lo strato ha
una cronologia relativa che dipende dalla sua relazione rispetto agli altri strati, può essere anteriore o
posteriore, ma lo strato avrà anche una cronologia assoluta, che si ricava in primis dai reperti contenuti
dallo strato, in particolare il reperto che data lo strato è il più recente in esso contenuto e che non sia un
reperto intruso o un reperto residuale. Questa è una regola da tenere ben presente, accenniamo al
concetto di terminus post quem, cioè il reperto più recente rinvenuto in uno strato rappresenta per la
datazione di quello strato il terminus post quem. Poniamo di trovare in uno strato una moneta del 200 d.C.,
è evidente che quello strato si è formato dopo il 200 d.C., non può essersi formato prima di quella data.
Oltre agli strati, nella successione stratigrafica noi troviamo anche quelle che vengono definite strati e
superfici in sé, cioè troviamo sia strati che indicano presenza di materiale, sia superfici in sé, che invece
rappresentano l’assenza di materiale. Le superfici in sé sono sostanzialmente delle lacune, indicano assenza
di materiale, possono essere delle fosse, possono essere delle buche, possono essere determinate da azioni
di espoliazione, le superfici in sé vanno però documentate e trattate alla pari di quelle entità omogenee che
rappresentano una presenza di materiali, dunque gli strati e le cosiddette superfici in sé, sono tutte unità
stratigrafiche, noi le definiamo così. Possono essere positive o negative, cioè quando indicano presenza id
materiale sono unità stratigrafiche positive, quando denotano assenza di materiali sono unità stratigrafiche
negative, poi possono essere orizzontali, verticali ecc.
Lo scavo stratigrafico consiste nel rimuovere progressivamente il deposito archeologico seguendo però una
regola ben precisa, cioè bisogna farlo nell’ordine inverso rispetto a quello in cui le unità stratigrafiche si
sono formate, quindi non è esattamente corretto dire che ciò che sta più in alto è più recente e ciò che sta
più in basso è più antico, perché non è detto che può essere così. Scavare correttamente significa
rimuovere, asportare per prima l’unità stratigrafica che non è coperta da altre US, questo significa che
bisogna essere molto attenti e avere anche una certa esperienza nel campo, eprchè bisogna individuare il
cosiddetto piano di distinguibilità, cioè l’interfaccia tra uno strato e un altro. Mentre a volte gli strati hanno
un passaggio abrupto, cioè un passaggio netto da uno all’altro, bisogna sempre osservare il colore, la
composizione e la consistenza degli strati e sulla base di questo capire quando termina uno strato e quando
ne inizia un altro, ma a volte non è così semplice perché il passaggio da uno strato e un altro può essere
sfumato, allora lì l’esperienza dell’archeologo è fondamentale, l’archeologo deve osservare bene lo strato e
riconoscerne le caratteristiche, il colore, la composizione e la consistenza. La composizione è
importantissima, nello strato noi distinguiamo tendenzialmente tra una matrice, che può essere sabbiosa,
terrosa o limosa, poi lo scheletro, cioè gli inclusi dello strato, che possono esser ei più diversi, bisogna
osservarli bene, osservarne la disposizione, osservarne la natura ecc. e sulla base di tutte queste
osservazioni si possono distinguere i diversi strati, quindi capire anche come scavarli, in che ordine, in che
successione scavarli. Le relazioni fra le unità stratigrafiche sono infatti molto diverse, la relazione più
semplice è quella di copertura, cioè una us può coprire o essere coperta da un’altra us, vi è poi quella di
taglio, qui parliamo di us negative, che possono tagliare o un us può essere tagliato da un us negativa, poi ci
sono le relazioni di appoggio, spesso queste le riscontriamo negli alzati, nelle strutture murarie. Poi ci sono
anche i rapporti di contemporaneità.
Tutti questi rapporti, al termine dello scavo di tutto il deposito stratigrafico, noi potremo procedere alla
realizzazione di un diagramma stratigrafico, il cosiddetto matrix. Il diagramma stratigrafico serve
sostanzialmente a visualizzare in una forma bidimensionale la complessità tridimensionale del deposito
stratigrafico, è in poche parola la rappresentazione globale, sintetica e sistematica id tutto lo scavo e che
serve da base un po’ a tutte le ricerche e in particolare alla periodizzazione del deposito stratigrafico.
Abbiamo parlato di unità stratigrafiche, abbiamo parlato dell’importanza di distinguere le diverse unità
stratigrafiche e di registrarle, eprchè le unità stratigrafiche vanno riconosciute, ognuna deve avere la
propria identità, viene quindi numerata e poi per ogni us bisogna realizzare una scheda. Il ministero ha
provveduto a pubblicare delle schede di us che vengono normalmente utilizzate sullo scavo, bisogna
riempire i vari settori che corrispondono alle diverse caratteristiche delle us scavate, quindi si richiede di
descrivere le us e di esplicitare i rapporti stratigrafici fra l’us scavata e le us con cui essa aveva relazione. È
molto importante sullo scavo al documentazione fotografica e grafica, quella fotografica è la più semplice,
la più immediata, la realizziamo con un semplice apparecchio fotografico, normalmente con lavagnetta,
freccia del nord, ma possibilmente procediamo anche ad una documentazione fotogrammetrica, più
precisa, oggi abbiamo a disposizione molti sistemi. Qui vediamo una ripresa fotografica da pallone,
realizzata con doppia camera per avere la possibilità di realizzare immagini tridimensionali. La fotografia da
drone è ormai molto usata. Ma ancora la documentazione grafica sul campo, quindi il rilievo con i sistemi
tradizionali, sia molto importante (rilievo a mano). Anche la documentazione grafica fatta a mano sul posto
va integrata, quando possibile, con i metodi più attuali, più tecnologicamente avanzati, come il
laserscanner, soprattutto per le strutture architettoniche.
I reperti archeologici
Veniamo ai reperti mobili, che rappresentano ciò che rimane della produzione dell’uso di un oggetto . I
reperti sono l’elemento chiave della ricerca archeologica, ci forniscono le informazioni più svariate su
materiali, produzioni, contesti, tecniche, poi ci forniscono anche la datazione, oltre che le informazioni sulla
natura e sulla funzione dei contesti archeologici, quindi è fondamentale registrare con precisione la
provenienza del reperto archeologico, perché è indispensabile avere esatta cognizione del rapporto tea il
reperto mobile e il suo contesto di provenienza. I reperti vengono recuperati su uno scavo in vario modo, si
possono usare bisturi e pennellino, lo strumento maggiormente in uso è la cazzuola inglese a manico fuso,
ma non di rado si utilizzano piccone e pala, è importante sempre setacciare il terreno e magari, almeno per
campionatura, usare il bidone della flottazione o il setaccio ad acqua per raccogliere i reperti più piccoli, per
esempio nel sito di Sant’Andrea di Loppio, sono stati raccolti migliaia di ecofatti, reperti di tipo
archeobotanico proprio grazie al setaccio ad acqua, a maglie sottili, che ha permesso anche id raccogliere
per esempio ossi di pesce, di micromammiferi, insomma, anche i reperti faunistici di dimensioni molto
piccole.
Vediamo da questa immagine quanto è importante il reperto per la datazione degli strati e die contesti di
provenienza, perché più un reperto ha una vita breve, cioè è stato usato per poco tempo, più il suo
significato cronologico è importante diventa un reperto che è stato prodotto e utilizzato in un breve lasso di
tempo, può allora diventare un fossile guida, che può datare in modo molto preciso gli strati, eprchè strati e
contesti hanno reperti specifici, vediamo qui per esempio vasi a bocca quadrata che non potremo trovare in
un contesto archeologico romano, a meno che non siano frammenti residuali, eprchè provengono da un
contesto di età precedente rispetto a quello in cui sono stati trovati, mentre in basso vediamo una tipica
ceramica di epoca id prima età imperiale romana. Vicino abbiamo il cartellino, perché va sempre inserito
nel sacchetto dei reperti sullo scavo, perché è sostanzialmente la carta di identità del reperto. Il reperto
senza cartellino, di cui non si conosce la provenienza esatta, è un reperto che perde quasi completamente il
suo valore documentario. È ancora importantissimo procedere alla documentazione grafica die reperti, che
vanno poi documentati. La gran parte del lavoro dell’archeologo si svolge in laboratorio con la
documentazione grafica dei reperti, soprattutto reperti ceramici, perché sono i reperti più diffusi, più
frequenti nei siti archeologici, soprattutto negli insediamenti umani e sono anche quelli che ci forniscono le
maggiori indicazioni dal punto di vista dell’uso della funzione, della destinazione d’uso e della natura dei
contesti, ma anche le maggiori informazioni dal punto di vista cronologico. La ceramica, soprattutto certe
classi ceramiche, sono in grado di fornirci indicazioni cronologiche molto precise, più precise delle monete,
che sono in realtà un tipo di reperto che dal punto di vista della cronologia vanno prese un po’ con cautela.
Le monete nell’antichità potevano avere una circolazione che durava per secoli, a volte venivano tolte e poi
rimesse in uso, dunque bisogna fare molto attenzione.
Il ministero ha predisposto anche delle schede per il catalogo dei reperti archeologici, le cosiddette schede
ra, per raccogliere tutte le informazioni riguardo i reperti. Vediamo qui le principali classi ceramiche che
possiamo rinvenire in uno scavo di epoca romana, a partire quelle considerate le ceramiche fini da mensa, a
quelle di uso comune per arrivare alle anfore e alle lucerne. Queste classi di reperti vengono suddivise in
tipi, sottotipi, varianti ecc., tra le più antiche della ceramica fine vi è la ceramica a vernice nera, un tipo di
ceramica costituita da argilla cotta in atmosfera riducente, per questo diventa nera. È un tipo di ceramica
già presente in ambito greco nel V – IV secolo a.C., nel IV secolo viene prodotta anche in Italia, si diffonde in
tutto il mediterraneo fino al I secolo a.C., quando viene progressivamente sostituita dalla cosiddetta terra
sigillata, un tipo di ceramica caratterizzato dalla cosiddetta vernice id colore rosso, all’inizio un bel rosso
corallo, è una classe di vasellame nuova, originariamente prodotta in area centro-italica, Arezzo è il
maggiore centro di produzione, una vernice rossa, brillante, corallina, la superficie è caratterizzata da
decorazioni a rilievo spesso, si ritiene che il termine “terra sigillata” derivi da sigillum nel senso di rilievo, il
rilievo della decorazione, secondo altri invece deriva dai marchi di fabbrica spesso impressi sul fondo di
questi vasi. La produzione aretina si colloca tra il I a.C. e il I d.C., poi si sviluppa una produzione di area
padana, nel frattempo sorgono nuove fabbriche di terra sigillata, anche nelle province d’oltralpe, in
particolare in ambito gallico, la terra sigillata gallica avrà grande sviluppo, poi a partire dal II secolo d.C.
l’Africa, la ceramica africana, che si caratterizza per un colore più aranciato e anche per forme particolari e
soprattutto senza le decorazioni complesse che caratterizzavano invece la terra sigillata italica e gallica, e
fabbriche nord africane che avranno un lunghissimo sviluppo perché queste produzioni termineranno
soltanto nel VII secolo a.C.
Altra ceramica fine importante è quella cosiddetta “a pareti sottili”, un termine convenzionale perché
effettivamente, soprattutto le prime produzione, presentano pareti sottili, a volte a guscio d’uovo; questa
produzione di contenitori soprattutto potori, cioè per il bere, o comunque destinati a contenere liquidi,
inizia verso la seconda metà del II secolo a.C., perdura nella prima età imperiale con produzioni che si fanno
più pesanti e grossolane fra il II e il III secolo a.C., è caratterizzata da una decorazione che si definisce alla
barbottine, che consiste in finissima argilla polverizzata mescolata ad acqua.
Vediamo qui invece la classe della ceramica invetriata, cioè ceramica caratterizzata da un’invetriatura, cioè
da un rivestimento che imita il vasellame metallico, un rivestimento impermeabilizzate, a base silicea, cioè
a base di quarzo, ma a cui si aggiungono altri fondenti. In epoca romana questo è un tipo di ceramica che
avrà successo anche in epoca medievale, in epoca romana solitamente si usa l’ossido di piombo, quindi è
una vetrina di tipo piombifero, che alla base un aspetto vetroso e di qui la denominazione. Inizia già nel I
secolo d.C., ma ha successo soprattutto in epoca tardo-romana.
Vi è poi la ceramica comune, che distinguiamo in ceramica comune da fuoco, quella più grezza, quella
depurata usata più per la mena e la dispensa, poi vediamo anche la classe delle anfore, che sono dei
contenitori da trasporto per derrate alimentari prevalentemente, destinate al trasporto trans-marino
soprattutto, anfore che in ambito italico si sviluppano già nel IV – III secolo con l’anfora greco-italica,
seguita poi dalla prima vera e propria anfora romana, che è la Dressel 1. Usiamo questa terminologia
perché vediamo qui a sx la tavola di Dressel, studioso tedesco che alla fine dell’Ottocento corredò il suo
studio dei bolli anforici nel Corpus incriptionum latinarum, la corredò con questa tavola che è rimasta alla
base della classificazione delle anfore romane.
Concludiamo con una tavola delle lucerne, questi strumenti da illuminazione, che cambiano molto foggia e
tipologia nel corso dell’età romana, a partire dall’età repubblicana fino alla tarda età imperiale, la cui foggia
ovviamente cambiando ci dà indicazioni molto precise in termini cronologici. Tutti questi studi sulle
ceramiche sono resi possibili dall’esistenza oggi di repertori tipologici sempre più precisi e dettagliati, che si
aggiornano continuamente e allo studio sulla ceramica vanno aggiunti anche gli studi di tipo archeometrico,
in particolare le analisi su sezione sottile a microscopio elettronico, che ci consentono di individuare le varie
componenti dei minerali presenti nelle argille dei prodotti in terracotta e che ci aiutano a determinare non
solo il luogo di provenienza dei manufatti, ma anche le tecniche di fabbricazione.
Lezione 21
Lezione 22
Lezione 23
I fori imperiali
Nel corso del tempo si avvertì la necessità di ampliare la zona forense, perché non era più considerata
adatta ad una città che era diventata una vera e propria capitale, quindi necessitava di spazi più articolati e
complessi, per questo vennero realizzate una serie di piazze monumentali, si procedette proprio alla
monumentalizzazione di questi spazi in un periodo compreso fra la metà del I secolo a.C. circa e i primi
decenni del II secolo d.C. Stiamo parlando dell’area dei Fori imperiali che si trova grossomodo a nord del
Foro Romano, che fu tagliata da quella che adesso è la Via dei Fori Imperiali, in epoca fascista doveva essere
la Via dell’Impero, la vai trionfale che conduceva da Piazza Venezia al Colosseo. Qui vennero condotte
opere di sterro per liberare quest’area nei primi anni ’30 del Novecento e portarono alla demolizione
indiscriminata a uno sterro gigantesco, che determinò il deposito stratigrafico accumulatosi in centinaia di
anni.
Img. Più recente della Via dei Fori Imperiali, che va da Piazza Venezia fino all’Anfiteatro Flavio, tagliando
l’area dei Fori Imperiali, mentre sulla dx vediamo l’area del Foro Romano e poi del Palatino.
I Fori Imperiali sono una serie di piazze che comprendono anche una serie di edifici al proprio interno,
edifici monumentali, non che statue e monumenti onorari, una serie di ampi spazi che progressivamente
vanno ad aggiungersi uno all’altro nel corso del tempo. Il primo ad essere realizzato è il Foro di Cesare, che
fu realizzato da Cesare secondo un progetto che sicuramente fu concepito già negli anni Cinquanta a.C. Al
Foro di Cesare fece seguito il Foro di Augusto, perché il Foro di Cesare, pur essendo inaugurato nel 46 a.C.,
non era terminato e Augusto portò a termine i progetti di Cesare, ma realizzò poi anche un proprio Foro, il
Foro di Augusto, recante sul lato terminale il tempio di Marte Eutore. A questi due Fori fece seguito poi il
cosiddetto Tempio della Pace. In realtà è uno spazio realizzato dall’imperatore Vespasiano, uno spazio che
non venne subito considerato un vero e proprio Foro, porta infatti il nome di Templum Pacis, ed era anche
staccato dai Fori precedenti di Cesare e di Augusto e costituiva sostanzialmente un grande elemento di
raccordo fra il Foro Romano a sud e il quartiere popolare della suburra a nord. Più tardi lo spazio, in origine
piuttosto irregolare, che era compreso fra i Fori di Cesare e Augusto da un lato e il Tempio della Pace
dall’altra, fu occupato da un nuovo Foro cominciato da Domiziano, ma concluso poi da Nerva, ed era
chiamato Foro Transitorio, proprio perché regolarizzava questa zona dei Fori e costituiva un regolare
collegamento fra la zona del Foro Romano e il retrostante quartiere della suburra. Conclude questa serie di
grandi piazze monumentali il Foro di Traiano, Foro davvero enorme, monumentale, che fu realizzato
tagliando, con un enorme lavoro di sterro, la sella che univa il Campidoglio al Quirinale e determinò anche
una serie di trasformazioni nell’area del Foro di Cesare.
Il Foro di Cesare
Il Foro di Cesare costituiva una piazza di forma rettangolare allungata, una piazza che era chiusa sul lato
minore nord-occidentale da un tempio dedicato a Venere Genitrice, cioè a Venere madre di Enea e
considerata la progenitrice della gens Iulia. Questo tempio e questo Foro furono scavati nei primi anni ’30,
durante i grandi lavori di sterro per la realizzazione della Via dell’Impero, nuovi scavi però sono stati
condotti (i cosiddetti “scavi giubilari”) a partire dal 2000, dalla Soprintendenza ai Beni Culturali del Comune
di Roma e hanno messo in luce soprattutto la parte relativa all’ingresso del Foro di Cesare, riportando nuovi
dati significativi.
Img. verde chiaro Foro di Nerva; giallo Foro Traianeo; verde stagno Foro di Cesare
Il Foro di Cesare era circondato da un portico con doppio colonnato e recante sul lato minore sud-
occidentale il tempio in marmo di Venere genitrice. Questo tempio fu concepito e fu poi costruito in seguito
a un voto fatto da Cesare prima della Battaglia di Farsalo contro Sesto Pompeo, battaglia in cui cesare
risultò vittorioso nel 48 a.C. e possiamo anche dire che molto probabilmente questo tempio era un po’ una
risposta al tempio di Venere Vincitrice che Pompeo aveva realizzato nel teatro, a coronamento della cavea
del teatro di Pompeo. Una risposta, dunque, che voleva essere chiaramente un segno importante dal punto
di vista politico, un chiaro segno di autoaffermazione e anche un atto propagandistico molto evidente e
molto chiaro. In ogni caso l’idea del Foro era precedente, sappiamo infatti che Cesare, che nel 54 era ancora
in Gallia, aveva affidato a Cicerone, e Cicerone lo scrive in una lettera all’amico Attico, gli aveva affidato il
compito di individuare alcune aree destinate alla realizzazione di una piazza e di acquistarle. Le fonti
parlano di una cifra enorme che vanno dai 60 milioni di sesterzi fino ai 100 milioni di sesterzi, dunque un
grandissimo investimento personale da parte di Cesare, con un chiaro intento autocelebrativo. Questa
nuova piazza incluse anche successivamente, quasi come una dependance, la Curia.
La piazza si concludeva con il tempio di Venere Genitrice, abbiamo detto che l’inaugurazione avvenne nel
46, ma l’opera non era terminata e venne conclusa da Ottaviano, oggi di questo tempio vediamo soltanto
tre colonne con parte della trabeazione, relativi alla parte sud-occidentale, che sono state rialzate a seguito
degli scavi degli anni ’30.
Andiamo a vedere la conformazione di questo spazio cittadino, che poi costituì il modello per tutti gli altri
Fori Imperiali. È evidentemente un progetto unitario, in sé concluso, è costituito da un porticato con doppio
colonnato che racchiude la piazza all’interno della quale vi era una statua equestre di Cesare che montava
un cavallo le cui zampe anteriori avevano la forma di piedi umani e questa era la caratteristica del cavallo di
Alessandro Magno, Bucefalo, quindi emerge ancora una volta la volontà di autoaffermazione, una volontà
anche autocelebrativa di Cesare, che opera una sorta di imitatio Alexandri, paragonandosi a questo grande
condottiero. Sappiamo che poi in questa piazza vennero col tempo disposte altre importanti statue e altri
importanti monumenti celebrativi, in particolare le fonti ricordano una statua colossale di Tiberio,
dedicatagli da 14 città dell’Asia Minore, per ringraziarlo a seguito degli aiuti che l’imperatore aveva dato a
queste città dopo una serie di terremoti che avevano pesantemente colpito questi centri nella prima metà
del I secolo d.C.
Una piazza di forma rettangolare allungata, con un’impostazione assiale molto accentuata e focalizzata
chiaramente sul tempio, il tempio dedicato alla progenitrice della gens Iulia, la Venus Genetrix, un tempio
che presentava sul fondo un’abside nella quale era situata la statua cultuale, che quindi costituiva proprio il
punto terminale di tutto lo svolgimento della piazza, aveva quindi una posizione, se vogliamo, scenografica
e questa posizione richiama la posizione delle statue dei sovrani ellenistici, quindi probabilmente si rifà a un
modello ellenistico e ancora una volta questo ci dà un’idea di quelle che erano le intenzioni dinastiche di
Cesare, che tra l’altro, sappiamo da Svetonio, un giorno volle incontrare il Senato proprio all’interno di
questo tempio, seduto in trono quasi come una divinità vivente, questo contro ogni protocollo del sistema
repubblicano, quindi si può ben capire come i conservatori non potessero accettare questi atteggiamenti
con i quali Cesare si poneva quasi come una divinità vivente. Di fronte a questo tempio vi era l’ingresso alla
pizza, ingresso che si affacciava sull’Argiletum, che era la strada che collegava l’area del Foro Romano al
quartiere della suburra e poi con la costruzione del Foro di Nerva il colonnato fu inglobato nel muro di
recinsione del nuovo complesso.
Torniamo al tempio di Venere. Qui lo vediamo in un disegno ricostruttivo. Questo tempio si presentava
come un tempio octastilo, un tempio periptero sine postico, perché vediamo che ha il lato di fondo cieco . Il
tempio si poteva raggiungere attraverso due scalinate laterali e in fronte presentava anche bacini per le
fontane, un ampio pronaos poi conduceva alla cella absidata. Qui è la prima volta che abbiamo un tempio
con abside, che invece poi sarà un modello molto diffuso in seguito. In questo tempio, sappiamo dalle fonti,
dovevano essere contenute tutta una serie di importanti opere d’arte, la stessa statua di culto era opera di
uno scultore neoattico, Arcesilao, e all’interno si trovavano per esempio quadri di Timomaco di Bisanzio,
sappiamo anche di una statua in bronzo dorato che raffigurava Cleopatra, era un tempio riccamente ornato
e spesso questi templi si trasformavano quasi in una sorta di museo. A proposito del colonnato del tempio,
notiamo come sia un colonnato piuttosto fitto, con le colonne molto ravvicinate, secondo il tipo che
Vitruvio definisce picnostilo, cioè gli spazi delle colonne sono molto ravvicinati, perché grossomodo questa
distanza fra le colonne corrisponde ad un diametro e mezzo del fusto delle colonne. Un tempio che era
riccamente ornato all’interno ma che aveva anche una ricca decorazione marmorea, tuttavia quello che ci
rimane risale ad epoca posteriore. Vediamo qui le tre colonne di cui abbiamo parlato, l’architrave con una
raffinata decorazione. Questi elementi strutturali e architettonici risalgono però al rifacimento del tempio
avvenuto in età traianea, quando cioè Traiano, per realizzare il suo Foro, tagliò quella parte di rilievo che
congiungeva il Campidoglio e il Quirinale, cioè c’era una sella che congiungeva i due colli, venne fatto un
grande taglio che portò anche al rifacimento di una parte del tempio di Venus Genetrix e del Foro di cesare.
In particolare, a questo periodo risalgono alcune notevoli decorazioni della parte esterna del tempio, che
sono raccolte oggi nel Museo dei Fori Imperiali, nei mercati di Traiano, qui vediamo per esempio dei
pannelli con amorini che reggono ghirlande e sacrificavano tori, poi una lesena decorata con tralci di vite,
qui vediamo ancora un rilievo con amorini e un frammento di una cornice con mensole decorata con delfini
a code intrecciate su tripodi, alternate a cespi di acanto nascenti da conchiglie, che rimandano
naturalmente la mito della nascita di Venere dalla spuma marina, quindi sono un elemento simbolico di
riferimento alla progenitrice della famiglia Giulia. Vedimao poi un pannello in parte ricostruito con questi
amorini che uccidono i tori, gli amorini tauroctoni.
vediamo il lato occidentale del Foro, che fu il più soggetto a un intervento di ristrutturazione, di rifacimento
in epoca traianea, infatti qui vennero aperte una serie di botteghe, che si aprivano sul Clivus Argentarius,
che era questa via che saliva sul campidoglio, poi in fronte fu aggiunta una struttura realizzata in blocchi di
tufo, che viene normalmente identificata come la basilica argentaria riportata dalle fonti, vennero anche in
parte ristrutturati i portici laterali e le taverne che si affacciavano sul portico sud-ovest (fin dall’età di Cesare
su questo lato si aprivano delle botteghe). Erano botteghe a due piani, sormontate da piattebande, in parte
quelle relative al secondo piano in epoca traianea furono murate per motivi statici e poi vennero anche
rialzate con una nuova serie di botteghe che si dovevano aprire sul Clivo Argentario. Un ulteriore
rifacimento che riguardò la parte relativa al portico si ebbe anche in epoca dioclezianea, infatti vi fu una
ristrutturazione a seguito del famoso incendio di Carino del 283 d.C. Le colonne vennero sostituite anche
con elementi di reimpiego, vennero impiegati fusti di colonna di granito rialzate su podi e questi piedistalli
andarono a rialzare le colonne e sostituirono il colonnato originario, ma sotto questi elementi sono stati
rinvenute tracce del colonnato originario, che aveva una disposizione leggermente diversa.
Concludiamo con quella che è stata identificata come la Basilica Argentaria, un edificio che si trova sul lato
occidentale rispetto al tempio e che ha una forma a L, una struttura che oggi si presenta in questo modo
(img.), è una struttura realizzata in laterizi, leggermente sopraelevata rispetto ai portici laterali della piazza
e che per l’appunto, trovandosi sul lato del tempio e formando un angolo, va a strutturare quella parte
dell’angolo della piazza che fu interessata in modo particolare dallo smantellamento della sella presente fra
Campidoglio e Quirinale.
Lezione 24
Abbiamo iniziato a vedere il tempio di Marte Untore nel Foro di Augusto, tempio che nel corso del tempo
assume sempre di più la funzione di punto di riferimento per la ritualità legata all’ambito militare. Fu
realizzato in seguito a un voto fatto da Augusto prima della battaglia di Filippi e fu inaugurato solo
quarant’anni dopo, nel 2 a.C. Nel frattempo, essendo dedicato a Marte vendicatore, che divenne il dio
vendicatore dei nemici di Roma, venne ad assumere un’importanza particolare da questo punto di vista,
tanto che qui, nel tempio di Marte Untore, si svolgevano alcuni dei momenti più significativi nell’ambito
della ritualità legata alla guerra, in particolare ad esempio le dichiarazioni di guerra, ma anche l’investitura
dei generali per esempio, qui si accoglievano e si facevano le audizioni dei messi, in più vi si svolgeva una
cerimonia molto importante, che era quella destinata agli adolescenti che nel passaggio all’età adulta
doveva indossare la toga virilis, diventando così cittadini romani a pieno diritto, dunque un tempio davvero
molto importante dal punto di vista politico e dal punto di vista simbolico. Questo tempio, come già nel
Foro di Cesare, occupava il lato breve, di fondo, della piazza, il tempio di Marte Untore è però più ampio del
tempio di Venere Genitrice, è un tempio di tipo italico (img. resti attuali del monumento), si elevava su un
alto podio realizzato in opera quadrata di tufo, ma originariamente rivestito di marmo bianco, la scalinata di
accesso al tempio era rivestita di marmo lunense, al suo interno racchiudeva anche un altare, di cui
vediamo qui il nucleo in opera cementizia, e in marmo bianco lunense erano anche le colonne. Il tempio
aveva un profondo pronao e in fronte presentava otto colonne, anche ai lati otto, era dunque un tempio
octastilo, periptero, ma sine postico, un tempio cioè che presentava il lato di fondo cieco. Un tempio che
nella parte esterna, in particolare nel pronao, presentava questo bel candore delle colonne corinzie in
marmo lunense, vediamo qui i capitelli delle colonne. Questa successione di elementi portanti circondava e
racchiudeva una cella caratterizzata dalla presenza in prossimità delle pareti laterali di colonne libere,
colonne che davano l’impressione di uno spazio maggiore, aumentavano l’impressione del volume della
cella e vi erano poi delle lesene retrostanti. Questa cella era caratterizzata, rispetto al pronao che
immetteva nello spazio sacro, questa cella era caratterizzata da maggiore policromia, in particolare era
policromo il marmo che ne rivestiva il pavimento, alcuni frammenti della cella e della decorazione scultorea
e architettonica del tempio sono oggi conservati nel Museo dei Fori Imperiali all’interno degli spazi dei
Mercati Traianei, in particolare possiamo qui ammirare la raffinatezza di un capitello di lesena
corinzieggiante, ornato da cavalli alati, vediamo il Pegaso, che ornava questo esemplare di capitello
proveniente dalla cella del tempio di Mars Untor.
Una cella, abbiamo detto, che doveva essere riccamente ornata, con marmi policromi, presentava
un’abside sul lato di fondo e oltre a questa, in prossimità di questa, una ampia base per un gruppo
statuario. È una base larga circa 9 m che in base alle ricostruzioni doveva portare un gruppo statuario,
dunque non vi era soltanto l’effige di Marte, in veste naturalmente militare, ma sulla base di una serie di
fonti si può affermare che la statua di Marte fosse affiancata da un lato dalla statua di Venere,
accompagnata da Eros, e dall’altro lato dalla statua del Divo Giulio. Lo sappiamo da una serie di copie che
possiamo interpretare come copie di questo gruppo scultoreo, ma in particolare vi è un rilievo del Museo di
Algeri, che molto probabilmente raffigura proprio il gruppo con al centro la statua probabilmente colossale
di Marte, barbato e vestito di abiti militari, accanto Venere vestita di chitone e accanto anche l’effige del
Divo Giulio. Vi è chi ritiene che anche una statua colossale di Marte rinvenuta nel Foro Transitorio possa
essere una copia del Marte di questo gruppo statuario che si trovava nella cella del tempio di Marte
Untore. Questa statua oggi si trova nei Musei Capitolini.
Statue analoghe, con soggetti analoghi, doveva decorare anche il frontone del tempio. Vediamo qui una
ricostruzione del gruppo statuario situato nel frontone del tempio, dove vediamo una successione di statue
che culmina con la presenza sempre di Marte al centro, ai lati troviamo la personificazione del palatino,
semisdraiata, segue l’immagine di Romolo, seduto, di profilo, che volge lo sguardo verso l’alto perché segue
il volo degli uccelli, è presente poi Venere accompagnata ancora una volta da Eros, al centro Marte, accanto
la personificazione della Fortuna, segue poi Roma, seduta e in armi e infine, semisdraiata, che fa da
pendant alla personificazione del Palatino, la personificazione del fiume Tevere. Questa non è una
ricostruzione fantasiosa, si basa su una testimonianza scultorea molto importante, si tratta di un rilievo che
venne dedicato dal Senato nel 22 per la salute di Livia e in realtà venne poi consacrato dall’imperatore
Claudio soltanto nel 43 d.C. Si tratta della cosiddetta Ara Pietatis Augustae. Sull’Ara Pietatis Augustae è
raffigurata una scena di sacrifico e accanto ad essa compare proprio la facciata del tempio di Marte Untore
e vediamo che è raffigurato anche piuttosto chiaramente il gruppo statuario che ornava il frontone, quindi
riconosciamo per l’appunto i personaggi che abbiamo appena visto.
Il tempio di Marte Untore ebbe un destino purtroppo di smantellamento e di distruzione piuttosto rapido,
perché le fonti archeologiche, l’evidenza archeologica anche, sembrano dimostrare che già in epoca tardo
romana, cioè a partire dal V secolo d.C., questo tempio cominciò ad essere spogliato. Infatti, in epoca tarda
la città di Roma subì molte trasformazioni, accenniamo giusto al fatto che lo spazio urbano subì
progressivamente una trasformazione, nel senso di una ruralizzazione degli spazi della città e la città
incominciò anche a spopolarsi, tanto che dai 500 mila e un milione di abitanti, cifra raggiunta nella prima
età imperiale, arrivò nel V – VI secolo a poche decine di migliaia di abitanti, inoltre le necropoli
cominciarono a invadere le città, nel VI secolo si diffusero anche le chiese nel centro dello spazio urbano,
ma va anche detto che dalle fonti sappiamo che nel VI – VII secolo molti monumenti dell’antichità erano
ancora in piedi, numerosi di essi erano ancora funzionanti, per esempio fonti come quella di Procopio di
Cesarea, nel suo De Bello Gotico del VI secolo d.C., elogia i Romani, perché ancora mantengono in vita e
salvaguardano le testimonianze del loro passato, un’altra fonte più tarda, del VII secolo, Venanzio
Fortunato, ci ricorda che nel Foro di Traiano avvenivano ancora delle manifestazioni e in particolare delle
letture di componimenti poetici, dunque alcuni degli spazi anche forensi dei monumenti principali del cuore
di Roma, nel VI – VI – VII secolo erano ancora in piedi, ma non solo, erano ancora funzionanti. Questa però
non dovette essere la sorte del Foro di Augusto e in particolare del tempio di Marte Untore, che cominciò
ad essere smantellato e utilizzato come cava di materiali alla fine del V secolo o all’inizio del VI secolo.
Infatti, nel corso degli ultimi venti/trent’anni si sono fatti numerosi passi avanti nella ricerca archeologica
relativa anche alle ultime fasi dell’antichità romana, quindi al passaggio fra la tarda età romana e l’alto
medioevo, in parte scavando nell’ambito dei Fori Imperiali dei lembi di stratigrafia che erano stati
risparmiati durante i grandi sterri indiscriminati degli anni ’30, dall’altro lato, approfondendo anche lo
studio delle fonti letterarie e documentarie, reinterpretando anche criticamente le testimonianze e le
notizie raccolte durante i lavori, durante gli scavi del passato. Così si è riusciti a ricostruire, anche se in
modo molto frammentario e parziale, anche una parte della storia di questi monumenti nella fase più tarda
dell’antichità romana e questo vale anche per il Foro di Augusto, che segue il destino di una serie di edifici
che caddero in disuso e furono trasformati in cave. In effetti, nell’area del tempio di Marte Untore, dove il
piano di calpestio nel V e nel VI secolo doveva essere rimasto grossomodo quello dell’età antica, è stato
rinvenuto un rocchio di colonna recante un’iscrizione, “pat Deci”, un’iscrizione al genitivo, patrici Deci.
Presenta dei caratteri connotati in modo molto specifico e in particolare la A la caratteristica della barretta
angolata, caratteristica dell’età tardo antica. Questo è il nome di un patrizio, Decius, al genitivo, perché con
questo tipo di iscrizioni al genitivo si connotavano i materiali provenienti dalle cave, cioè sui materiali che
provenivano dalle cave venivano incisi i nomi dei proprietari delle cave al genitivo.
Sulla base della ricerca toponomastica senatoriale tardo antica, questo Decius doveva essere un importante
personaggio, probabilmente vissuto o verso la fine del V secolo o i primi decenni del VI, perché in realtà
l’onomastica senatoriale di questa epoca ci fa conoscere due patrizi con il nome Decius. In ogni caso, questa
iscrizione testimonia molto chiaramente come l’area del tempio di Marte Untore, e questo rocchio di
colonna proviene proprio dal pronao del tempio, come fosse stato trasformato in cava. D’altra parte noi
sappiamo dalle fonti che vi era una legge di Marciano della metà del V secolo d.C. che permetteva ai privati
di acquistare delle aree occupate da monumenti pubblici che erano caduti in disuso e poi di disporne a
proprio piacimento e questo doveva essere stato il destino del tempio di Marte Untore, destino che
quest’area dei Fori condivide con numerosi altri monumenti caduti in disuso, ad esempio il Colosseo, dove è
stata trovata su un arco interno una iscrizione molto simile che fa riferimento a Geronti Viri Spectabili: è un
riferimento a un certo Gerontius che evidentemente era un patrizio, o comunque un personaggio che aveva
acquistato il monumento per trasformarlo in cava, per estrarre cioè materiali da costruzione.
Questa è dunque la sorte del Foro di Augusto e del tempio di Marte Untore nella tarda antichità.
Il Foro di Nerva
Il Templum Pacis fu realizzato in un’area che era staccata rispetto al Foro di Augusto e al Foro di Cesare, in
mezzo vi era l’Argiletum, una strada che conduceva dall’area del Foro Romano verso la suburra. In età
domizianea venne realizzato un nuovo spazio forense, che fu dedicato poi nel 97 e quindi inaugurato dopo
Nerva, appunto il Foro di Nerva, questo spazio venne ad avere la funzione di raccordo fra il Foro di Cesare e
Augusto da un lato e il Foro di Vespasiano dall’altro. Un Foro che si collocava in uno spazio molto ristretto e
proprio per questo ha questa particolare pianta, una pianta molto allungata, che occupa uno spazio di
120x45 m, dunque una pianta lunga e stretta. Sul fondo presenta, come di norma, un tempio, si tratta di un
tempio dedicato a Minerva, che era una divinità a cui era particolarmente devoto l’imperatore Domiziano.
Chiaramente lo spazio è molto contenuto e quindi questo non permise la realizzazione di un vero e proprio
porticato, infatti fu realizzato un colonnato che era molto ravvicinato, realizzato a breve distanza dai muri di
fondo, muri in blocchi di peperino, che presentavano anche tutta una serie di aperture per permettere il
passaggio da un’area all’altra, vi erano quindi accessi su tutti i lati, anche un accesso per consentire il
passaggio al Foro Romano e un accesso anche sulla parte retrostante, dove si trovava un’esedra porticata a
forma di ferro di cavallo, una struttura che ci è nota dalle fonti come Porticus Absidata, infatti è nominata
dai cataloghi regionali del IV secolo, tra l’altro è raffigurata in uno dei frammenti della Forma Urbis.
Con questo porticato molto ravvicinato rispetto ai muri di fondo, per creare illusionisticamente l’idea di uno
spazio maggiore l’architetto ha pensato di presentare l’arrotondamento dei lati brevi, cioè i lati brevi sono
leggermente curvi. Notiamo poi come ai lati del tempio vi fossero dei setti murari un po’ per mascherare
soprattutto la presenza del Foro di Augusto. Da questi muri fuoriusciva, con il suo pronao, la struttura
templare, mentre il porticato presentava una trabeazione sporgente con un andamento spezzato.
Ricordiamo però che si conservavano ampi resti del tempio fino al XVII secolo, quando fu smantellato nel
1606 da Papa Paolo V per ricavarne dei materiali da costruzione, per cui oggi di questo tempio rimane
pochissimo, lo vediamo in questa immagine dell’ingombro del tempio tagliato dalla Via dei Fori Imperiali,
vediamo che si conserva a sx dell’img. il nucleo del podio del tempio, vediamo l’esedra del Foro di Augusto,
dietro si trovava la Porticus Absidata, la parte maggiore che si è conservata si trova in prossimità del Foro
Romano, a dx dell’img.
Sopra al colonnato correva una trabeazione con andamento spezzato e la trabeazione ricava un fregio che
ricordava il mito di Aracne e probabilmente altri miti legati alla figura di Minerva. Sopra il fregio, l’attico era
decorato da ulteriori rilievi, questa è una parte che si è conservata e che viene definita “colonnacce”, sono
due colonne aggettanti con una porzione anche della trabeazione e al di sopra vediamo il rilievo di una
figura femminile armata nella quale si è riconosciuta Minerva. Vediamo qui una img. del fregio conservato
al di sopra delle cosiddette colonnacce. Altri frammenti di rilievi con personaggi femminili, forse
personificazioni delle Province si trovano nel Museo dei Fori Imperiali.
Del Foro di Nerva, detto Foro Transitorio, proprio perché aveva questa importante funzione di
collegamento, ricordiamo come a partire dagli anni ‘90 in queste aree dei Fori Imperiali siano state
realizzate nuove e importanti ricerche, che non soltanto hanno riguardato dei lembi del deposito
stratigrafico, che si erano conservati dopo gli sterri degli anni ’30, ricordiamo tra l’altro che i lavori per la
realizzazione della Via dell’Impero sono lavori eseguiti in tutta fretta, perché la via trionfale doveva essere
pronta per il decennale della marcia su Roma, quindi i lavori furono condotti anche in maniera un po’
affrettata, di conseguenza si sono anche conservate alcune parti della stratigrafia, che altrimenti è stata
completamente asportata e distrutta, un deposito che va dall’età tardo romana fino all’epoca
rinascimentale, in ogni caso ricordiamo che a partire dagli anni ’90 si sono fatti nuovi scavi che sono andati
a indagare proprio questa parte più recente della storia di Roma e inoltre si sono anche presi ulteriormente
in considerazione, c’è stato tutto un approfondimento anche su quelli che sono i dati d’archivio, in
particolare i diari di scavo degli assistenti agli scavi dell’epoca. Cosa si è ricavato da queste nuove ricerche: il
piano di calpestio per esempio in questa area del Foro Transitorio rimase il medesimo per molto tempo,
anche se con alcune variazioni di percorso, comunque fino all’VIII – IX secolo d.C., poi si è notato che nel IX
secolo il piano di calpestio venne rialzato con un riporto di terreno da coltivazione, un terreno molto grasso,
di circa 50 cm, e fu realizzato anche un nuovo percorso sopra questo nuovo piano di calpestio, inoltre
furono realizzati una serie di edifici a pianta rettangolare, che vengono realizzati con blocchi di tufo di
reimpiego. Vediamo una ricostruzione di come doveva presentarsi nel IX secolo il Foro Transitorio, che
presentava ancora in gran parte il suo muro di recinzione, con il suo colonnato e il tempio sul fondo, ma la
cui area si era trasformata in senso rurale ed erano stati realizzati alcuni edifici, affiancati da aree recintate,
utilizzate come orti e come recinti per gli animali, queste strutture abitative hanno in particolare questa
struttura dotata di portico, quindi una domus porticata, è anche dotata di secondo piano e, sembrerà
strano pensando alla Roma monumentale, ma si tratta di un tipo di edificio aristocratico, cioè appartenente
alla classe elevata della gerarchia sociale in epoca Alto Medievale. Vedimao quindi anche la trasformazione
nella prima età medievale di uno spazio come quello del Foro, d’altra parte ricordiamo che le più recenti
ricerche hanno messo in luce e studiato, analizzato anche le evidenze archeologiche relative proprio a
questi “secoli bui”, che hanno messo in evidenza la presenza di strutture abitative e strutture anche
abitative, come officine e botteghe, non solo in questa parte dei Fori Imperiali, ma ad esempio anche nel
Foro Romano, nelle aree della Basilica emilia e della Basilica Iulia.
Lezione 25
Il Foro di Traiano
Il Foro di Traiano è posizionato nell’area nord-ovest dei Fori di Cesare e di Augusto. Si tratta del Foro più
grande, che occupa quasi 1/3 dell’intera area dei Fori Imperiali, dunque una costruzione davvero
monumentale, realizzata tagliando la sella che univa il Campidoglio al Quirinale. Questo grande complesso
fu costruito a partire dal 107 d.C., fu inaugurato nel 112 e se ne attribuisce la realizzazione al grande
architetto di Traiano, Apollodoro di Damasco. Traiano contava molto su Apollodoro di Damasco, aveva
grande fiducia in lui e gli affidò la realizzazione di numerose opere e anche grandiose, tra queste ricordiamo
per esempio il porto di Traiano, le terme di Traiano, ma anche il pinte sul Danubio, che è raffigurato sulla
colonna traiana, infatti Apollodoro di Damasco aveva accompagnato l’imperatore in Dacia e tutto il Foro di
Traiano in effetti è una celebrazione proprio delle sue vittorie sui Daci, infatti la costruzione inizia nel 107,
cioè dopo il termine delle guerre daciche, che si datano al 101 – 102 e 105 – 106, a cui farà riferimento
anche la colonna traiana, che si aggiunge poi a questa realizzazione monumentale nel 113 d.C. Apollodoro
di Damasco, grande architetto di Traiano, ma non altrettanto amato da Adriano, sembra che abbia pagato
con la morte la sua contrarietà, le sue affermazioni critiche nei confronti delle scelte architettoniche di
Adriano, in particolare in relazione al Tempio di Venere e Roma. Apollodoro di Damasco realizza questa
grande opera monumentale, l’ultima delle grandi piazze dei Fori Imperiali e fu costruita, come da
tradizione, con il bottino di guerra, con il ricavato della preda bellica, cioè ex manubiis, una tradizione che
risaliva all’età repubblicana, quella in base alla quale il generale trionfatore doveva destinare una parte del
ricavato del bottino proprio alla realizzazione di un monumento che ricordasse e commemorasse la sua
vittoria e questo era avvenuto nel caso di Cesare e anche nel caso del Foro di Augusto.
Il Foro di Traiano, sappiamo dalle fonti, era ancora ben conservato nella tarda età romana, nel IV secolo d.C.
abbiamo la testimonianza di Amminao Marcellino, che ci racconta come durante la visita dell’imperatore
Costanzo II, dopo la metà del IV secolo, a Roma e in particolare al Foro di Traiano, l’imperatore rimase
molto colpito dallo splendore e dalla bellezza del Foro, in particolare dalla statua equestre che troneggiava
in mezzo alla piazza. Anche tra le altre fonti è particolarmente significativa quella di Venanzio Fortunato,
che per il VII secolo attesta ancora la lettura di componimenti, quindi le esecuzioni di letture all’interno del
Foro di Traiano, che quindi era ancora utilizzato, poi il Foro probabilmente subì gravi danni a seguito del
terremoto dell’inizio del IX secolo, poi sembra che le fonti tacciano a questo proposito, tra l’altro abbiamo
visto che durante l’Alto medioevo ci fu una grande trasformazione dell’assetto urbano della città e le aree
corrispondenti ai Fori subirono delle trasformazioni profonde in senso di ruralizzazione del paesaggio, con
anche la realizzazione di nuovi edifici realizzati utilizzando materiale di riuso, di spoglio, quindi
smantellando gli edifici antichi, e abbiamo visto come già a partire probabilmente dalla fine del V secolo –
inizio VI alcune aree monumentali fossero usate come aree per estrarre materiale edilizio.
Torniamo al Foro di Traiano. Vediamo due planimetrie, in quanto questa piazza monumentale è oggetto di
numerosi dubbi e ancora oggi di controversie, è aperto ancora il dibattito, insomma, relativamente alla sua
articolazione. Se guardiamo alla planimetria del Foro di Traiano che era la pianta ufficiale fino a pochi
decenni fa, fino alla fine del secolo scorso, possiamo notare la presenza di un tempio in posizione assiale
sulla parte terminale del Foro, nell’area nord-occidentale, e la presenza di un arco trionfale a quello che si
riteneva essere l’ingresso dalla parte del Foro di Augusto. Se guardiamo la planimetria più recente, che è
divenuta la planimetria ufficiale, notiamo delle differenze notevoli, specialmente relativamente al lato
nord-ovest, con la scomparsa del tempio e anche sul lato sud-est, dove non troviamo più l’arco trionfale.
Dunque, nel corso degli ultimi venti/trent’anni sono stati eseguiti nuovi scavi e si sono realizzate nuove
ricerche e riflessioni, che hanno portato anche a nuove ipotesi ricostruttive e a nuove proposte, d’altra
parte teniamo presente che la planimetria realizzata all’indomani degli sterri degli anni ’30 si basava su
pochissimi elementi, all’inizio degli anni ’30 si fecero grandi lavori di scavo che distrussero tutto il quartiere
medievale e rinascimentale di questa area, ma questi lavori non portarono ad una documentazione precisa
e puntuale di questo veniva rinvenuto, in quest’area, nell’area dove veniva ricostruito il tempio, in realtà le
evidenze erano davvero poche, il tempio era sostanzialmente un’ipotesi ricostruttiva per cui mancava una
vera e propria verifica archeologica.
Partiamo dagli elementi più certi. Noi possiamo innanzitutto constatare la presenza di una piazza, una
piazza molto ampia, perché si tratta di un’area di circa 110x85 m, dunque una piazza decisamente grande,
l’intera area del Foro raggiunge i 300x180 m e questa piazza era fiancheggiata sui lati lunghi da due
profondi portici colonnati. La piazza stessa era pavimentata con lastre di marmo lunense, di cui non si è
trovato quasi nulla, solo due lastre sono sopravvissute. Ai lati due profondi portici, con due grandi esedre,
due grandi spazi a forma di emiciclo. La piazza era chiusa a nord dall’amplissimo spazio della Basilica Ulpia,
questo enorme spazio coperto, la basilica più grande realizzata a Roma, tra l’altro disposta in modo molto
originale, perché disposta trasversalmente rispetto alla piazza, tanto che per attraversare la piazza e
passare da un lato all’altro si doveva attraversare la basilica. Dietro la basilica era presente un ulteriore
spazio, un cortile quadrangolare dove trovò posto la colonna coclide e ai lati due ambienti gemelli
interpretati come biblioteche.
Originariamente si riteneva che l’accesso dalla parte del Foro di Augusto fosse segnato dalla presenza di un
arco trionfale, perché questa idea si basava sulla raffigurazione effettivamente di un arco, accompagnato
dalla dicitura Forum Traiani, su un’emissione monetale dell’epoca di Traiano. Anche su un’altra moneta
compare la famosa statua equestre, l’Equus Traiani, che doveva troneggiare al centro della piazza ed è una
statua equestre di cui in scavi recenti si sono rinvenuti i resti del basamento, ma della statua naturalmente
non è rimasto nulla.
Vediamo il portico. Abbiamo qui un’immagine che ci mostra il portico orientale con la comparte dell’esedra
e qui una ricostruzione di come doveva presentarsi questo profondo portico che presentava al di sopra del
colonnato, colonnato corinzio, un attico ornato da statue di Daci prigionieri, i prigionieri Daci vengono
raffigurati in atteggiamento di sottomissione, con la funzione di Cariatidi, quasi a voler sottolineare, a voler
trasmettere l’idea simbolicamente della potenza dell’impero che si fonda sulla conquista e sulla
sottomissione dei nemici. Accanto alle statue, a queste realizzazioni scultoree, abbiamo imagines clipeate,
cioè gli scudi che recano al centro busti e una parte di questa decorazione scultorea è oggi conservata negli
spazi del Museo dei Fori Imperiali presso i Mercati Traianei. Vediamo qui alcuni elementi frammentari di
statue di Daci, una bella testa di dace e alcuni frammenti delle imagines clipeate.
Altro elemento che possiamo ritenere sicuro è quello della basilica, una realizzazione monumentale,
l’edificio fu inaugurato nel 112 d.C., un grande edificio destinato a svolgere un ruolo dal punto di vista
giuridico, lo possiamo considerare un immenso tribunale, dunque vi si svolgevano i processi e la sua
importanza dal punto di vista delle funzioni giuridiche è proprio sottolineata dalla grandiosità
dell’architettura, era infatti una struttura a cinque navate, l’altezza doveva raggiungere circa i 40 m, noi
consociamo la planimetria anche grazie ad alcuni frammenti della Forma Urbis severiana, che riporta parte
anche di uno degli ambienti gemini di cui abbiamo parlato. Vediamo qui la planimetria dell’insieme, la
basilica e poi gli spazi retrostanti, basilica a 5 navate con 4 navate laterali minori, che misurano 6 m di
profondità, e una grande navata centrale di 25 m di larghezza. Ai lati si trovavano due ampie strutture ad
emiciclo e si ritiene che proprio qui avessero sede i tribunali, tra l’altro nella basilica dovevano anche essere
conservati gli archivi relativi proprio ai processi, quindi tutta una documentazione relativa ai processi che
qui si svolgevano. L’interno di questa struttura era molto lussuoso, anche in scavi recenti, dei primi anni
2000, sono stati rinvenuti parti del pavimento, un pavimento realizzato in marmi policromi. Vediamo
un’immagine ricostruttiva di come poteva presentarsi la parte interna della basilica, con due paini, un piano
superiore che permetteva di seguire i processi e le attività che vi si svolgevano dall’alto, prendeva l’edifico
anche luce dalla parte alta, vi si trovavano colonne in granito grigio provenienti dall’Egitto e in marmo
cipollino, le colonne in granito grigio erano proprio tipiche di questo Foro di Traiano, tanto che poi i lapicidi
di epoca rinascimentale chiamarono il granito grigio egizio di questo tipo “granito del Foro di Traiano”,
proprio perché era molto frequente il rinvenimento in questa area. Non mancavano poi i marmi policromi,
quindi doveva essere un edificio non solo grandioso, non solo dall’architettura grandiosa, ma anche molto
lussuoso e decorato all’interno con grande dispendio di marmi.
Vediamo un’immagine dei resti della Basilica Ulpia, con le colonne di granito grigio, vediamo anche sul
fondo la colonna coclide. All’esterno ci fornisce un’immagine di come si doveva presentare la facciata
un’altra moneta, un sesterzio di Traiano, dove vediamo la facciata della basilica suddivisa in tre settori
verticalmente, che dovevano corrispondere ai tre ingressi che caratterizzavano la facciata, inoltre sull’attico
doveva essere presente un grande fregio ad alto rilievo. Secondo Filippo Coarelli non è da escludere che il
grande fregio traianeo che oggi si trova scomposto in quattro pannelli sull’arco di Costantino, non è da
escludere che provenisse proprio dalla Basilica Ulpia, così chiamata dalla gens Ulpia, cioè la famiglia
dell’imperatore Traiano, d’altra parte lo stesso Foro, chiamato Forum Traiani, più tardi venne chiamato
anche Forum Ulpium. Quindi, una facciata con un fregio e sopra all’attico doveva essere presente una
quadriga frontale affiancata da trofei. Vediamo qui una ricostruzione di come poteva presentarsi la facciata.
La particolarità di questo Foro tra le altre cose era che la basilica si trovava disposta trasversalmente sul
fondo della piazza. C’è chi ha messo in evidenza come questa posizione insolita si possa ricondurre a uno
schema che sarebbe quello dei principia, cioè le piazze centrali degli accampamenti militari, infatti negli
accampamenti militari la parte frontale era chiusa proprio da una basilica, inoltre, anche sulla posizione
delle due biblioteche (per lo meno questa è l’interpretazione più recente e più accreditata), due edifici
rivestiti di marmo e muniti di nicchie, in cui si sono riconosciuti gli spazi per gli scaffali che dovevano
contenere i documenti relativi agli archivi di stato, tornando all’interpretazione secondo la quale questa
planimetria, questa organizzazione degli spazi corrisponderebbe a quella dei principia, al posizione delle
due biblioteche sarebbe proprio analoga a quella dove di norma erano disposti gli archivi militari. Inoltre,
un’altra particolare e analogia è il fatto che il cortile dove fu posizionata la colonna coclide era in posizione
mediana e si trovava dove di norma, negli accampamenti militari, trovavano posto le insegne legionarie,
quindi sulla base di questa interpretazione, la piazza di Traiano richiamerebbe proprio le piazze centrali
degli accampamenti militari nell’ottica di una celebrazione complessiva dell’esercito romano,
dell’imperatore anche naturalmente, condottiero, imperatore vittorioso, e della potenza militare
dell’impero.
I due ambienti gemini dietro la Basilica si trovano ai lati di un cortile porticato, una corte, all’interno della
quale fu situata la colonna traiana, colonna che fu dedicata nel 113 insieme al nuovo tempio di Venere
Genitrice, che venne appunto rifatto, perché i lavori per la costruzione del Foro di Traiano, per la
sistemazione dell’area, gli sterri dovuti all’eliminazione della sella presente fra Campidoglio e quirinale,
avevano necessitano il rifacimento delle strutture e in particolare del tempio del Foro di Cesare. La colonna
coclide di Traiano è un monumento del tutto originale, il primo nel suo genere, si tratta di un monumento
innalzato alla gloria dell’imperatore e dell’esercito romano, perché è caratterizzato da un rilievo di carattere
storico-narrativo che si svolge per quasi 200 m sul fusto della colonna e fa riferimento ad episodi delle
guerre daciche, combattute da Traiano in Dacia fra il 101 – 102, 105 – 106. Questa colonna, alta 100 piedi,
doveva essere in origine colorata, un monumento policromo, e si elevava poggiando su un toro a forma di
corona di alloro, fa naturalmente riferimento al tema della vittoria e del trionfo; questo toro a sua volta
poggiava su un basamento a forma di parallelepipedo, decorato con cataste di armi, Vittorie, aquile che
sorreggevano festoni, recava un’iscrizione dedicatoria, una porta immetteva a un ambiente interno e a una
scala, che conduceva alla sommità della colonna, sommità sulla quale troneggiava la statua dell’imperatore,
una statua che poi nel XVI secolo fu sostituita dalla statua di San Pietro. All’interno di questo monumento
sappiamo che trovò poi posto l’urna con le ceneri dell’imperatore e della moglie Plotina.
Fin qui abbiamo visto gli elementi che sono ben noti e che si conoscono con una relativa certezza, elementi
su cui si hanno delle certezze. Nel campo dell’incertezza rimane tutta l’articolazione dell’area del Foro di
Traiano a nord della colonna traiana. Ce ne rendiamo conto osservando quella che è la planimetria ufficiale
di quello che è il Foro di Traiano, nella quale notiamo in particolare l’assenza di un edificio templare sul
fondo della piazza. Ricordiamo che il tempio sul lato di fondo caratterizza tutte le altre piazze monumentali
dei Fori imperiali e in effetti fino alla fine del secolo scorso, la planimetria comunemente utilizzata, quella
accettata dagli studiosi, prevedeva proprio la presenza di un tempio sul fondo, racchiuso entro una
struttura a ferro di cavallo, un grande tempio octastilo, dedicato al Divo Traiano e a sua moglie Plotina.
Questo tempio era stato ipotizzato già a partire dagli sterri degli anni ’30, anche se per la verità questa
ricostruzione non poggiava su una evidenza archeologica certa, però si riteneva che di norma i Fori
terminano sul lato di fondo con un tempio, quindi avrebbe fatto specie l’assenza di un tempio in questo
caso proprio nel Foro più grande, ed è poi vero che nell’area della colonna traiana e nell’area a nord di essa
si erano verificati a partire dal Cinquecento una serie di ritrovamenti di fusti di colonne monumentali, fusti
di colonne di granito grigio proveniente dalle cave egizie, che si riteneva giustamente dovessero far parte di
una struttura monumentale, si era quindi pensato al tempio del Divo Traiano e di Plotina, tempio che
Adriano aveva dedicato post mortem “parentibus suis”, cioè ai suoi genitori, naturalmente adottivi. Questo
tempio è per altro testimoniato dalle fonti letterarie, in particolare dai cataloghi regionali del IV secolo e
anche dagli istoria augusta, che ci fanno sapere che questo sarebbe l’unico edificio sul quale Adriano
avrebbe apposto il proprio nome, infatti possediamo testimonianza di questo in un frammento di epigrafe,
conservata ai Musei Vaticani, dove appare il nome di Adriano e la dedica ai Parentibus suis, quindi vi è la
testimonianza di questo tempio, ma la certezza su dove fosse, quella non l’abbiamo. Negli anni ’30 si
propose questa ricostruzione, questo è il grande plastico di Cismondi del Museo della Civiltà Romana,
vediamo che si ipotizzava questo grande tempio octastilo sul fondo della piazza, che si ispirava a
testimonianze di tipo numismatico e questa ricostruzione fu accettata per molti decenni, fino a che, verso la
fine del secolo scorso, negli anni ’90, vennero eseguiti degli scavi archeologici nell’area a nord della colonna
traiana, cioè nell’area di un grande palazzo, Palazzo Valentini, che come vediamo ha un orientamento
leggermente divergente rispetto all’asse e all’orientamento del Foro di Traiano. Nei sotterranei di Palazzo
Valentini, questi scavi misero in evidenza la presenza di alcune strutture attribuibili a edifici abitativi, che
furono poi identificati con due domus, chiamate domus A e domus B, con fasi che vanno dal I al V secolo
d.C., di cui abbiamo già parlato per le interessanti soluzioni di musealizzazione. Edifici abitativi quindi, e
proprio per questo, in particolare l’archeologo che aveva seguito queste indagini, Roberto Meneghini,
escluse che in questa area potesse trovarsi il monumentale tempio che era stato ipotizzato fino ad allora,
dunque in alternativa alla presenza di un tempio, attribuì le evidenze archeologiche raccolte fino ad allora e
in particolare queste grandiose colonne di granito, il cui diametro si aggira intorno all’1,9 m, attribuì queste
evidenze alla presenza di un grande portico, una specie di gigantesco pronao che doveva essere un portico
monumentale, posto all’ingresso nord del Foro e che doveva consentire l’accesso al Foro di Traiano dalla
parte del Campo Marzio. Questa è la versione che per il momento si ritiene quella più accreditata, la
versione ortodossa per così dire, che troviamo anche sul sito della Soprintendenza. A quell’epoca Roberto
Meneghini, ipotizzando la presenza di questo grande portico di ingresso, che poi tra l’altro, a suo parere,
doveva corrispondere a duna struttura chiamata Platea Traiani, testimoniata da una fonte tarda, non
essendoci il tempio su questo lato nord, Meneghini ipotizzò che il tempio potesse eventualmente trovarsi
sul lato sud. Ricordiamo che fino ad allora il lato sud del Foro di Traiano non era ben conosciuto e si
ipotizzava l’esistenza di un lato di fondo di Forma curvilinea. Fra il 1998 e il 2000 vennero eseguiti nuovi
scavi dalla soprintendenza capitolina e questi scavi riservarono delle sorprese, perché innanzitutto
permisero di constatare che il lato di fondo della piazza non era una struttura curvilinea, bensì una struttura
trisegmentata, riccamente ornata di marmi, presentava in facciata una serie di colonne monolitiche,
realizzate con marmi diversi e colorati, ricordiamo che qui c’è un’abbondanza, quasi un dispendio dell’uso
dei marmi colorati, che vanno dal pavonazzetto, dal cipollino, il giallo antico, marmo proveniente dalle cave
dell’attuale Tunisia, quindi ricchezza di marmi. Alle spalle di questa struttura di fondo, anziché trovare un
tempio, si rinvenne una struttura molto particolare, la cui funzione non è ancora ben nota, si tratta di un
ambiente scoperto, una sorta di corte circondata su tre lati da portici, una corte dunque porticata che
faceva sostanzialmente da pendant rispetto alla corte dove si trovava la colonna traiana, anche questo uno
spazio riccamente ornato di marmi, ma che non doveva costituire l’ingresso principale, era comunque un
elemento di collegamento fra il Foro di Traiano e il Foro di Augusto. Vediamo un disegno ricostruttivo di
questa struttura, il lato di fondo della piazza trisegmentata, vediamo la ricostruzione di questa corte
porticata, poi un’immagine ricostruttiva della facciata, una facciata monumentale, ornata in modo
estremante ricco, una facciata che doveva essere coronata da una statua dell’imperatore vittorioso su carro
trionfale, comunque tutta una serie di elementi che non ci si aspettava di rinvenire e che comunque
mettevano in evidenza l’assenza di un tempio dedicato a Traiano sul lato sud. Di conseguenza bisognava
capire dove potesse trovarsi questo tempio, che è comunque testimoniato dalle fonti. Meneghini avanzò
l’ipotesi che i due edifici normalmente identificati con delle biblioteche, potessero rappresentare invece
due tempi dedicati a Traiano e a Plotina. Un illustre archeologo, Eugenio La Rocca, ipotizzò addirittura che il
tempio si potesse identificare con l’area porticata, dove si trovava la colonna traiana, o addirittura con tutto
lo spazio del Foro di Traiano, perché con templum in latino si intende non uno spazio costruito, non
necessariamente un edificio coperto, ma semplicemente lo spazio consacrato dall’augure, quindi
eventualmente anche uno spazio scoperto. In realtà va anche detto che proprio il fatto di non avere
rinvenuto evidenze relative a un tempio sul lato sud, cominciò a riportare in auge l’ipotesi che il tempio
potesse trovarsi proprio sul lato nord, anche se per la verità la versione ufficiale per il momento non accetta
questa ipotesi, nel sito della Soprintendenza vediamo la ricostruzione di un grande tempio a nord della
colonna traiana che viene definito “il tempio che non c’è”, si dice infatti nel sito della Soprintendenza che
nel Foro di Traiano il tempio mancava. Altri archeologi invece non la pensano così e proprio negli ultimi anni
è ritornata in auge l’ipotesi dell’esistenza di un tempio situato a nord della colonna, dedicato in epoca
adriane a Traiano e Plotina.
Accenniamo all’ipotesi avanzata nel 2007 da Amanda Clardige, che al momento però sembra del tutto
superata. Questa studiosa aveva ipotizzato, osservando proprio la planimetria di Palazzo Valentini, che il
tempio più piccolo rispetto a quello ipotizzato fino ad allora (ipotizzava un tempio esastilo) potesse trovarsi
proprio in corrispondenza del cortile del Palazzo Valentini e che questo palazzo potesse riprenderne la
planimetria, in modo che la sua ricostruzione proponeva un tempio con un orientamento leggermente
divergente rispetto all’orientamento delle strutture del Foro di Traiano, quindi un tempio disassato, cioè
non in asse rispetto al Foro di Traiano. Questo sembrerebbe un’ipotesi ormai superata, perché in realtà si è
constatato che le strutture appartenenti alle domus rinvenute sotto Palazzo Valentini doveva
probabilmente proprio proseguire nell’area che la studiosa aveva ipotizzato dovesse essere occupata da
questo tempio disassato. Più convincenti sembrerebbero le proposte avanzate da Paola Baldassarri dopo
un’altra serie di campagne di scavo svoltesi fra il 2005 e il 2010, promosse dall’amministrazione provinciale,
sempre nei sotterranei di Palazzo Valentini, ma negli spazi che erano occupati dalla ex mensa provinciale,
sono degli spazi nei quali furono rinvenuti una serie di strutture murarie appartenenti a un sistema di
sostruzioni voltate importate su ambienti accoppiati, disposti su un asse nord-sud che corrisponde
esattamente all’asse del Foro di Traiano, dunque secondo la studiosa questi ambienti voltati potrebbero
costituire le sostruzioni di un grande edificio, in particolare di un tempio elevato su grande podio ed elevato
in epoca adrianea, perché i bolli laterizi rinvenuti in queste strutture rimandano proprio all’età di Adriano,
al 121 d.C., dunque Paola Baldassarri propone la presenza di un tempio sul fondo quindi del Foro di Traiano,
un tempio octastilo, periptero, sine postico, realizzato su un podio in muratura che originariamente doveva
essere rivestito di marmo e il cui colonnato sarebbe stato costituito proprio da quelle colonne monumentali
gigantesche di granito grigio rinvenute a più riprese nell’area. Questo podio dovrebbe essere impostato su
una sostruzione costituita da ambienti a volta accoppiati.
Lezione 26
Mercati di Traiano
Una strada lastricata in basalto separava l’emiciclo del lato orientale del Foro di Traiano da un complesso
architettonico monumentale, che viene considerato un capolavoro dal punto di vista dell’ingegneria
romana, quello chiamato Mercati Traianei, un complesso realizzato in laterizio, o meglio in cementizio
rivestito di mattoni.
Si tratta di un complesso articolato sul versante sud-orientale del Quirinale, e fu realizzato proprio per
contenere e rivestire il taglio a gradoni di questa parte del colle a seguito del grande sbancamento che fu
preliminare alla realizzazione del Foro di Traiano, uno sbancamento notevole, la cui altezza è
sostanzialmente pari a quella della colonna traiana, la cui iscrizione ricorda proprio quest’opera di taglio
della sella fra Campidoglio e Quirinale. I Mercati di Traiano si articolano lungo il versante tagliato a gradoni
adattandosi agli spazi disponibili e ai dislivelli creati attraverso questa opera di taglio. Il nome “mercati di
Traiano” fu attribuito a questo settore negli anni ’30, a seguito degli sterri e della scoperta di queste
strutture, si pensava infatti che la funzione dei Mercati di Traiano fosse quella di fornire ambienti e spazi
per lo stoccaggio di derrate alimentari e allo stesso tempo anche ambienti funzionali alle pratiche di tipo
commerciale. Oggi non si pensa più così, c’è stata una revisione di tutto il complesso e di quelle che erano
le interpretazioni dei vari settori, dei vari ambienti di questo complesso monumentale, si pensa piuttosto
che gli spazi fossero adibiti ad uffici e archivi che dovevano svolgere attività di tipo amministrativo anche in
relazione alle attività giudiziarie che si svolgevano nei Fori.
Riguardo la paternità di questo complesso e alla committenza, vi sono alcune incertezze, perché è chiaro
che questo complesso fu realizzato a nord-est dell’area che doveva essere occupata dal Foro di Traiano,
probabilmente subito o poco prima della costruzione del Foro e si è sempre pensato che questo complesso
chiamato Mercati di Traiano dovesse essere compreso nel progetto del Foro fin dall’inizio e che i lavori per
la sua realizzazione fossero iniziati già nel I decennio d.C. Per la verità sono stati rinvenuti dei bolli laterizi
che rimandano ad un’epoca leggermente anteriore, cioè all’epoca di Domiziano e finora si è pensato che
questi laterizi bollati potessero appartenere ad un grande stoccaggio di materiale laterizio risalente a
quell’epoca e usato poi in epoca successiva. Tuttavia, anche a seguito degli scavi degli anni 2000, si ritiene
che sia possibile che i lavori siano stati iniziati già sotto il regno di Domiziano, cioè che in quel periodo si
siano intraprese le opere propedeutiche, che dovettero precedere la realizzazione vera e propria del
complesso architettonico, cioè è possibile che il V foro dei cosiddetti Fori Imperiali fosse stato concepito da
Domiziano, forse accantonato da Nerva e poi ripreso da Traiano.
Questo grande complesso, dunque, si articola su più piani, adattandosi al taglio a gradoni del versante. Il
piano terra si apre verso il Foro con una grande esedra che circoscrive quella orientale del Foro di Traiano e
abbiamo visto che fra i due emicicli passava una strada basolata. Su questo spazio curvo si aprivano una
serie di botteghe, vediamo un’immagine di questo grande emiciclo che circoscrive quello del lato orientale
del Foro e vediamo la planimetria che ci mostra tutta una serie di ambienti aperti verso l’area del Foro,
ambienti interpretati come taverne e fiancheggiati da due aule, chiamate aule di testa. Al di sopra delle
taverne, che erano fiancheggiate da stipiti e presentavano architravi di travertino, al di sopra di queste si
trovava un corridoio voltato a botte, che presentava una sequenza di finestre ad arco, situate fra lesene e
sormontate da frontoni in laterizio. Questo complesso si articola a diversi livelli e al di sopra di questo
primo livello si trovava una terrazza, percorsa da una via, su cui si aprivano una serie di botteghe, che ora
sono rase al suolo, che si aprivano in senso opposto rispetto a quelle sottostanti. Della via, pure basolata, ci
rimane anche il nome, perché il nome si è perpetuato in epoca Medievale, si chiama Via Biberatica e
probabilmente questo nome antico deriva dal fatto che qui si aprivano botteghe destinate alla vendita di
bevande. Questa strada, in questo punto, presenta un andamento curvilineo, che si adatta e si sovrappone
a quello dell’emiciclo sottostante, aveva nella parte settentrionale però un andamento più rettilineo,
vediamo che su questa via si affacciano tutta una serie di ambienti interpretati come botteghe.
Da questa via, la Via Biberatica, partiva una ripida scala che conduceva a un grande ambiente, a una grande
aula, che poi era una grande sala a due piani coperta da crociere, una grande aula che sicuramente aveva
una funzione importante, poteva essere considerata il fulcro del complesso, da cui si passava poi, verso sud,
ad una serie di ambienti su più piani, che costituivano il corpo centrale. Questa è un’immagine della Grande
Aula, ora destinata a sede espositiva nell’ambito del Museo dei Fori Imperiali, che si articola in diversi spazi
dei Mercati Traianei.
Vediamo poi la planimetria della Grande Aula e gli ambienti del corpo centrale, che si ritiene potessero
essere adibiti a funzione di uffici per la direzione di tutto questo complesso e all’interno di questi spazi in
particolare sono distribuiti una serie di materiali rinvenuti nei Fori Imperiali, che qui trovano dal 2007 degli
spazi ostensivi particolarmente ben organizzati, si tratta sostanzialmente di un museo destinato
all’architettura antica, organizzato in cinque spazi in particolare, distribuiti all’interno di vari ambienti del
complesso, e questi spazi raccolgono soprattutto frammenti della decorazione architettonica e scultorea dei
Fori Imperiali, frammenti che sono in parte originali, in parte calchi, in parte vengono integrati per cercare
di ricomporre e ricostruire alcune partiture della decorazione architettonica dei Fori. Dunque una scelta
museografica molto apprezzabile, perché ci dà la possibilità di osservare gli oggetti rinvenuti nelle ricerche
nell’area dei Fori Imperiali, ma anche di vedere delle ricostruzioni che ci danno un’idea di come dovevano
presentarsi le architetture e le decorazioni architettoniche, nonché le decorazioni statuarie di questi Fori di
Roma.
Tornando al corpo centrale, si è ipotizzato che la sua funzione fosse quella non di spazi di tipo commerciale,
secondo l’interpretazione tradizionale, ma in base ad una rilettura più recente, si è pensato ad uno spazio di
carattere amministrativo, questo soprattutto sulla base del rinvenimento di un frammento di epigrafe, che
vediamo qui (img.), rinvenuto nell’area della Torre delle Milizie, epigrafe molto significativa, perché porta il
nome di un procurator che si chiamava Horatius Rogatus, un procurator del Forum divi Traiani, un’epigrafe
porta su un architrave, riutilizzato poi nell’area della Torre delle Milizie, che fa riferimento alla
restaurazione operata nell’area dei Fori Imperiali in seguito a un incendio nel III secolo e questo fa pensare
che il corpo centrale, o per lo meno una parte del corpo centrale dei Mercati Traianei, fosse proprio la sede
del Procurator Forum divi Traiani, cioè di chi amministrava il Foro, do conseguenza è possibile che gli
ambienti situati al piano terra potessero avere delle funzioni direttamente collegate alle attività che si
svolgevano nel Foro, mentre gli ambienti che si trovavano nella parte superiore avessero invece delle
funzioni di tipo gestionale e amministrativo. In questi termini, questo complesso dei Mercai Traianei si
presenta come una sorta di centro polifunzionale, viene quindi abbandonata quella interpretazione
tradizionale in chiave commerciale, il fatto che ci siano delle botteghe non significa necessariamente che la
funzione fosse commerciale, piuttosto si pensa ad attività pubbliche di tipo amministrativo e gestionale. Il
complesso fu soggetto a vari interventi nel corso del tempo, un intervento significativo si ebbe in
particolare in epoca severiana, si conoscono anche fasi edilizie relative all’epoca tarda, IV secolo e anche
oltre, soprattutto in una zona occupata da un’insula e poi, anche nel Medioevo il complesso, soprattutto
sull’area superiore, fu interessato da diversi interventi, in particolare oggi rimane testimonianza delle
strutture di epoca medievale, nella Torre delle Milizie, che vediamo troneggiare alle spalle dei Mercati
Traianei, torre risalente al XIII secolo, in quell’epoca fra il XII e il XIV secolo, quindi in epoca medievale,
quest’area fu interessata dalla realizzazione di una fortezza. Poi nel Cinquecento queste strutture vennero
inglobate in un convento, il convento di santa Caterina da Siena, le strutture vennero poi smantellate nei
primi decenni del Novecento e poi ricordiamo la riscoperta dei mercati Traianei e i lavori di restauro fine
anni ’20 – inizio anni ’30 a opera di Corrado Ricci.
Ricordiamo che gran parte dell’area dei Fori Imperiali con il Foro Romano fino grossomodo all’altezza
dell’Arco di Tito e del tempio di Venere Roma, facevano parte, a partire dall’età augustea, della Regio VIII
della città, perché Augusto, verso la fine del I secolo a.C., aveva suddiviso la città in XIV regioni, cioè era
passato dalle quattro originarie a quattordici, aveva anche istituito una Regio a Trastevere. Quattordici
regiones quindi che conosciamo in particolare grazie ad una fonte, quella dei cataloghi regionali, che ci è
giunta in due redazioni. Sappiamo che la Regio VIII comprendeva buona parte dei Fori Imperiali, il Foro
Romano, il Capitolium, ed era chiamata Regio octava Forum Romanum Magnum. Invece, il Tempio della
Pace rientrava nella Regio IV, Templum Pacis, nella quale era inserita anche la Velia e la valle fra Esquilino e
Viminale, compreso anche il quartiere della suburra.
Il Capitolium
Dell’VIII Regio faceva parte anche il Capitolium, che era già occupato da un abitato fin dalla media età del
bronzo, in epoca romana vi si trovava il tempio più importante della città, cioè il tempio di Giove Ottimo
Massimo, dedicato in realtà alla triade capitolina, dunque Giove, Giunone e Minerva, un tempio che è qui
presente fin dal VI secolo a.C., era stato iniziato da Tarquinio Prisco e terminato da Tarquinio il Superbo,
inaugurato nel 509 a.C. Di questo tempio oggi rimane pochissimo, alcune evidenze riguardano parti delle
fondazioni e del podio, realizzati in opera quadrata di tufo cappellaccio (?), se ne trovano in prossimità
nell’area di Palazzo Caffarelli e nell’area dei Musei Capitolini. Questi tratti strutturali hanno permesso agli
studiosi di ricostruire la planimetria di questo grande tempio, che era un tempio tuscanico, periptero sine
postico, esastilo, colonne correvano anche sui lati, vi erano poi due file di colonne dietro a quelle della
facciata che si dislocavano e si articolavano nel profondo pronao e anteriormente rispetto alle tre celle, che
dovevano ospitare le statue di culto delle tre divinità, che originariamente erano in terracotta e abbiamo
anche il nome di uno scultore, Vulca di Veio. Ad artisti di Veio è attribuita anche il grande gruppo statuario,
la quadriga, in terracotta, che doveva trovarsi sopra il frontone e decorare quindi la facciata del tempio.
Vediamo qui una possibile ricostruzione, un tempio in stile tuscanico, che si eleva su alto podio preceduto
da una scalinata che immette nel pronao. Questo grande tempio si affacciava su uno spazio molto alto, su
una sorta di piazza antistante, nella quale dovevano trovarsi secondo le fonti anche altri edifici cultuali
minori, oltre a statue e trofei, quindi un’area importantissima dal punto di vista cultuale e un punto di
riferimento fondamentale dal punto di vista religioso per Roma.
Il fastigio era ornato da questa grande statua in terracotta, che poi fu sostituita da una statua bronzea nel
296 a.C., quindi all’inizio del III secolo. Il tempio rimase grossomodo inalterato per gran parte dell’età
repubblicana, fino alla tarda età repubblicana, fu colpito e distrutto da un incendio nell’83 a.C. e poi anche
nel I secolo d.C., nel 69 e nell’80. Fu quindi rifatto in marmo, ma per motivi di conservatorismo religioso, se
ne ripropose la pianta e la struttura si perpetuò sempre uguale. Sappiamo che il tempio era ancora
ammirato per il suo splendore nel corso del IV secolo d.C.
Lezione 27
Il tempio di Apollo
Un edificio templare, sacro, che venne a fare parte integrante della residenza di Ottaviano Augusto. Questo
tempio fu votato da Ottaviano nel 36 a.C. in seguito alla vittoria su Sesto Pompeo, nella battaglia di
Nauloco, e in particolare in seguito al fatto prodigioso della caduta di un fulmine proprio nell’area della sua
domus palatina, fulmine che si ritenne indicasse proprio il punto in cui era volontà del dio che fosse
identificato il suo tempo. Questo tempio, i cui lavori iniziarono nel 36 a.C., furono terminati nel 28. Il
tempio fu dunque terminato nel 28 a.C. e a quell’epoca evidentemente doveva anche essere terminata la
stessa domus di Augusto, per la quale erano stati condotti grossi e imponenti lavori per il rialzamento del
livello pavimentale che portò tale livello alla stessa altezza del piano su cui sorse il tempio, cancellando così
gli edifici e le strutture della terrazza inferiore della domus di Ottaviano; d’altra parte, sappiamo dalle fonti
che il 27 a.C. il Senato votò la disposizione, la dislocazione di due laurei e della corona civica proprio
all’ingresso della domus di Ottaviano Augusto. Quella della corona civica, in particolare, era un’importante
onorificenza che veniva attribuita a coloro che avevano salvato un cittadino romano o più cittadini romani,
qui si intende addirittura tutto il popolo romano, dunque un’onorificenza che possiamo considerare proprio
il simbolo del nascente principato.
Il tempio di Apollo fu dunque edificato nell’ambito della domus palatina di Ottaviano. Oggi di queste
costruzioni rimane molto poco, in particolare il nucleo è stato spogliato di tutti i suoi rivestimenti marmorei,
in marmo lunense, addirittura anche del rivestimento in blocchi di tufo, il tempio doveva essere realizzato
con ampio dispendio di marmo di Luni e viene oggi ricostruito come un tempio esastilo, vediamo che
presenta sei colonne in fronte, di cui rimane davvero poco, qualche frammento dei fusti e delle colonne,
rimane anche qualche frammento del rivestimento pavimentale, e poi era un tempio probabilmente
pseudo periptero, all’interno dovevano trovarsi le statue di culto, non si trattava soltanto di Apollo, ma la
statua di Apollo doveva essere affiancata da quella di Latona e di Diana e secondo le fonti, Plinio in
particolare, queste statue dovevano essere opera di artisti greci, quindi statue classiche, come Skopas,
Kephisodotos e Timoteos. Nel podio del tempio dovevano trovarsi degli ambienti in cui le fonti ci
trasmettono che tra le altre cose Augusto fece trasferire i libri sibillini, che come sappiamo erano una
raccolta di responsi oracolari che prima si trovavano nel tempio di Giove Capitolino.
Il tempio doveva ospitare questo gruppo statuario, si ritiene che una statua, la cosiddetta statua dell’Apollo
Barberini (vediamo qui statua conservata nella gliptoteca di Monaco di Baviera), si ritiene che questa statua
rappresenti forse una copia della statua culturale che si conservava nella cella del tempio di Apollo palatino,
un tempio coronato sulla sommità da un acroterio che raffigurava la quadriga di Apollo, la quadriga del sole
sostanzialmente. La statua di Apollo doveva essere affiancata da quelle della madre Latona e della sorella
Diana e questo gruppo statuario si ritiene possa essere ricordato da un rilievo presente sulla cosiddetta
Base di Sorrento, che presenta questa triade rappresentata da un Apollo che regge la cetra, quindi un
Apollo citaredo, che nella posa ricorda da vicino quella dell’Apollo Barberini ed è affiancato da altri due
personaggi femminili. Gli stessi personaggi sono presenti su un’ulteriore rilievo di età augustea che raffigura
una scena sacrificale dove ritroviamo queste tre divinità precedute proprio dalla figura dell’Apollo citaredo.
Vediamo una ricostruzione nella quale possiamo vedere come poteva presentarsi il tempio dedicato ad
Apollo, questa è la ricostruzione seguita dall’équipe di Andre Carandini, che ha esaminato nel complesso
tutta l’articolazione delle strutture che dovevano essere situate su questa parte del Palatino, chiamata
Germalus, e vediamo un disegno ricostruttivo dove viene raffigurata dietro la Domus Augusti, dunque la
Casa di Augusto, che secondo gli autori doveva comprendere anche la cosiddetta Casa di Livia e accanto ad
essa e strettamente legata alla residenza di Augusto vi era il tempio e il tempio si affacciava su una terrazza,
che corrisponde a quello che doveva essere il portico delle Danaidi, che fu però inaugurato qualche anno
dopo, nel 25 a.C., cioè il tempio era preceduto da una terrazza circondata da un portico riccamente ornato,
dove si ritiene di collocare anche un tempietto, forse identificabile con il tetrastilum Augusti. Il portico era
ornato con le statue in marmo nero e rosso delle figlie di Danao, appunto le Danaidi, le cinquanta figlie di
Danao, secondo la leggenda si trattava delle figlie del re di Lidia, che furono date in moglie ai figli del
fratello di Danao, Egitto. Danao ed Egitto avevano un rapporto di conflittualità e proprio per sancire la pace
avevano concordato questo matrimonio, solo che su istigazione di Danao, le Danaidi uccidono i propri
mariti, tutte tranne una, Ipermestra. È probabile che nel portico delle Danaidi, accanto alle statue delle
figure femminili è probabile che ci fossero anche le statue dei 50 mariti, su cui però si hanno poche
informazioni. Il significato simbolico di questo gruppo statuario è molto importante, perché con molta
probabilità si fa riferimento alle guerre civili, vediamo come gli elementi simbolici e anche propagandistici, i
riferimenti alle vicende recenti delle guerre civili siano molto presenti in questo contesto, probabilmente
questo mito e la sua rappresentazione attraverso queste realizzazioni statuarie doveva rimandare alle
vicende della guerra civile, del conflitto fra Antonio e Ottaviano e alla vittoria di Ottaviano su Antonio e
Cleopatra.
Raffigurazioni molto ricche, realizzate però su terracotta sono state rinvenute sempre sull’area del tempio
di Apollo, sono una serie di lastre di terracotta, originariamente dipinte, perché ancora adesso recano in
alcuni casi tracce della pittura originaria che le ricopriva, si tratta di lastre fittili chiamate lastre Campana,
nome che deriva dall’originario collezionista, Giampietro Campana, che nel corso dell’Ottocento raccolse
un’ampia raccolta di queste lastre in terracotta, decorate con scene mitologiche, in uno stile spesso
arcaizzante, stile che rientra nella tradizione del neoatticismo, che si sviluppa tra l’età proto-augustea e
l’età augustea, lastre che furono raccolte in una ricca collezione e che poi vennero vendute e disperse in
varie sedi museali. Ne vediamo qui in particolare una, sempre rinvenuta nell’area del tempio di Apollo, che
raffigura da un lato Apollo e dall’altro Ercole, affrontati ai lati del tripode, nell’atto di contesa del tripode
apollineo, simbolo di Apollo, e ancora una volta in questi due personaggi affrontati possiamo riconoscere
un rimando simbolico al conflitto fra Ottaviano e Antonio. Queste lastre Campana sono una produzione
tipica del periodo che si colloca fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., le migliori realizzazioni sono quelle di età
augustea e di età augustea-tiberiana. Queste lastre rimandano a scene mitologiche e simboliche, ancora
conservano spesso i colori, specie i colori di fondo che le decoravano, vediamo qui per esempio una scena
con due personaggi affrontati ai lati di un betilus, che è una rappresentazione aniconica di una divinità e
quindi è il simbolo di una divinità, un oggetto con cui la divinità si identifica. Il betilo è di origine orientale,
infatti il termine deriva dall’ebraico e significa “casa di dio”. Apollo in particolare si identificava con un
betilo che spesso viene rivestito di simboli che ricordano Apollo. Questo tipo di raffigurazioni sono state
rinvenute nell’area della Casa di Augusto e del Aedes Apollinis, tra le altre cose ricordiamo anche il
rinvenimento a poca distanza, nell’area delle scale Caci di un bel frammento di intonaco affrescato che ci
restituisce l’immagine di Apollo citaredo con faretra, in trono, che si appoggia all’umbilicus, cioè l’onfalos,
l’ombelico di Delfi, coperto qui da un drappo purpureo. L’onfalos, cioè il centro del mondo, rimanda al
santuario di Apollo a Delfi e fa riferimento al simbolo del luogo di culto di Apollo, quasi come il centro del
mondo. Apollo, d’altra parte, divinità garante dell’equilibrio e dell’ordine, non a caso viene scelto da
Augusto come sua divinità protettrice, divinità con cui l’imperatore istituisce un rapporto diretto.
In questa immagine ricostruttiva dell’insieme dell’area della Casa di Augusto e del Tempio di Apollo, una
restituzione realizzata dall’équipe di Andre Carandini, dove vedimao la Casa di Augusto, il tempio di Apollo,
specularmente rispetto alla casa di Augusto si ritiene che potesse avere sede la domus pubblica che nel 12
a.C. era stata trasferita da Augusto in quest’area, nella parte antistante rispetto al tempio vi era il portico
delle Danaidi, dove tra l’altro i fedeli potevano assistere ai sacrifici qui realizzati in prossimità dell’altare e
sulla dx verso est vediamo la struttura della biblioteca, dove in età imperiale spesso si radunava anche il
senato e in fronte si immagina la presenza di un’ulteriore struttura terrazzata, realizzata su più piani, perché
qui abbiamo la pendice del Palatino verso il Tevere, una pendice terrazzata e si propone la presenza di
un’ulteriore terrazza che troverebbe testimonianza in un frammento della Forma Urbis che rimanda all’area
Apollinis. Al di là della ricostruzione ipotetica, la cosa importante da notare in questo insieme di costruzioni
è il fatto che in un unico complesso architettonico monumentale Augusto abbia voluto unire in modo
indissolubile le funzioni residenziali, le funzioni religiose e cultuali e le funzioni anche pubbliche politiche , è
la prima volta che questo viene realizzato in un unico monumento questo insieme, questa unione di tutte
queste funzioni che diventano complementari, d’ora in poi il Palatino diventa la sede degli imperatori e
proprio per questo il termine palazzo, derivante proprio da palatium, designerà la sede monumentale dei
palazzi.
Lezione 28
La Domus Tiberiana
Possiamo considerarlo il primo vero e proprio palazzo imperiale, perché è un palazzo architettonicamente
unitario, anche se fu sottoposto a tutta una serie di rifacimenti, ristrutturazioni, aggiunte, quindi presenta
tutta una serie di fasi architettoniche successive, ma nel complesso è un palazzo unitario, cosa che non
possiamo dire della Casa di Augusto, che in realtà è una residenza che deriva anche dall’accorpamento di
diverse domus, un accorpamento di strutture in qualche modo piuttosto disorganico.
La Domus Tiberiana, che occupa gran parte dell’angolo nord-occidentale del Palatino e si affaccia sul Foro
Romano, infatti al sua grandiosa facciata con arcate è proprio ben visibile dall’area del Foro Romano e le
sue strutture verso nord si elevano per un’altezza di circa 20 m, questa residenza, che è l’esito di diversi
interventi edilizi, fu ricoperta, i resti di questa residenza furono ricoperti nel corso del Cinquecento dagli
Orti Farnesiani, cioè da un’ampia area giardinata, che a partire dalla prima metà del XVI secolo venne
acquistata dal cardinale Alessandro farnese e poi nel corso del Seicento vi furono condotti dei lavori di
trasformazione, con l’aggiunta di ninfei, i scalee e di uccelliere che ne fecero una splendida area giardinata,
che poi nell’Ottocento venne acquisita da Napoleone III. Questa area si situa al di sopra dei resti della
Domus Tiberiana e nel corso dell’Ottocento questa area venne sottoposta a scavo, a ricerche id tipo
archeologico da parte di Pietro Rosa, che andò in particolare a indagare le strutture relative al fronte
settentrionale, il fronte orientale e quello meridionale che invece è situato di fronte all’area del tempio
della Magna Mater. Vedimao la planimetria dei resti della Domus Tiberiana, mentre a dx vediamo la
planimetria degli Horti Farnesiani del XVI – XVII secolo. La Domus Tiberiana è quindi stata sottoposta a
indagini, a partire soprattutto dall’Ottocento, indagini sistematiche con l’archeologo Rosa, ma anche
recentemente, dopo il 2000, è stata di nuovo indagata attraverso dei sondaggi archeologici da parte della
soprintendenza, che ha effettivamente verificato come questo palazzo nel suo primo progetto, nel suo
progetto originario, dovette essere concepito dall’imperatore Tiberio. D’altra parte noi sappiamo dalle fonti
storiche e letterarie, in particolare da Svetonio, che Tiberio aveva proprio una sua abitazione, una sua
residenza sul palatino e da essa si affacciava sul Foro Romano e sul Campidoglio. È d’altra parte molto
probabile che l’imperatore avesse voluto installare la propria residenza su quella che era la sua casa
paterna. Tiberio infatti, successore di Augusto, non era figlio naturale di Augusto, era figlio della moglie di
Augusto Livia e in particolare era nato dal matrimonio precedente di Livia con Tiberio Claudio Nerone e il
figlio Tiberio venne poi adottato da Augusto e fu il suo successore sostanzialmente perché tutti i nipoti di
Augusto, a partire da Marcello, per passare da Gaio e Lucio e arrivando ad Agrippa Postumo, tutti morirono
prematuramente, dunque la casa paterna id Tiberio si trovava sul Palatino e si ritiene che, almeno in parte,
la Domus Tiberiana dovesse impostarsi proprio sui resti di questa dimora, d’altra parte gli scavi hanno
dimostrato che la Domus Tiberiana si impostava su strutture abitative di età tardo repubblicana e
relativamente alla parte centrale, che è la parte meno conosciuta del complesso, alcuni studiosi hanno
anche avanzato l’ipotesi che questa parte del palazzo potesse sfruttare, come base e come sostruzioni, i
resti di una domus precedente, forse identificabile con la domus di Clodios, che era infatti caratterizzata
dalla presenza di un megalomane peristilio e nell’area centrale della domus tiberiana sono stati messi in
evidenza alcuni resti che permettono di ricostruire la presenza di un’area giardinata con peristilio, in cui
forse doveva essere presente anche una vasca rivestita di marmo, spazio sul quale dovevano aprirsi,
almeno su tre bracci, tutta una serie di ambienti. Ma la parte centrale di questa residenza è la meno
conosciuta, sono più note e indagate dal punto di vista archeologico l parti periferiche, soprattutto l’area
settentrionale.
Img. del fronte settentrionale della dimora di Tiberio, fronte settentrionale che doveva affacciarsi, almeno
nel progetto originario, su una via in pendenza identificata con il Clivus Victoriae, poi però questa struttura
fu sottoposta a tutta una serie id interventi anche successivi e gli interventi successivi in particolare
portarono il fronte settentrionale, lo fecero avanzare fino a portarlo dall’originaria posizione sul fronte del
Clivus Victoriae fino alla Via Nova, in particolare degli impegnativi interventi su questa parte settentrionale
della Domus Tiberiana vennero realizzati da Domiziano, quando costruì il suo palazzo nella parte
meridionale, sud-orientale del Palatino, tanto che questa Domus Tiberiana divenne sostanzialmente una
sorta di appendice settentrionale del suo palazzo, in particolare la struttura venne rifatta in epoca
domizianea con la costruzione di una loggia, d’altra parte la Domus Tiberiana venne pesantemente
danneggiata da ben due incendi, quello del 64 e quello dell’80 d.C. Ci fu poi un intervento in epoca
adrianea, quando il palazzo venne ampliato e la facciata settentrionale venne prolungata e portata lungo la
Via Nova, anche con una serie di strutture di grandi arcate che andarono a scavalcare il Clivus Victoriae.
Vediamo una planimetria che ci mostra i vari livelli della Domus Tiberiana e le strutture che sono note e
documentate e, come vedimao, quella meno conosciuta in assoluto è proprio la parte centrale del palazzo.
Abbiamo un’immagine della Via Nova, su cui andò ad affacciarsi il fronte settentrionale del palazzo.
Vediamo poi una recente immagine con il rilievo eseguito in recenti lavori di studio, condotti su questo
complesso residenziale e vediamo proprio l’articolazione del fronte settentrionale della Domus Tiberiana
lungo la Via Nova. Vedimao che sono stati riconosciuti diversi nuclei, in particolare è stato identificato e
sottoposto ad analisi l’ampliamento adrianeo della struttura e sono state anche identificate e rilevate una
serie di rampe che consentivano di accedere alla parte alta del complesso.
Sul lato orientale della Domus Tiberiana è stata messa in luce una struttura a forma id criptoportico, che è
una lunga struttura di circa 130 m, che viene attribuita all’età neroniana, infatti va detto che fra le varie fasi
edilizie che si sono riconosciute nel complesso della Domus Tiberiana, vi sono sicuramente degli importanti
eventi di età neroniana, ma probabilmente intervenne, come una ristrutturazione, già Claudio, mentre
Caligola sembra non risedesse nell’area della primigenia Domus Tiberiana, ma avesse preferito un
ampiamento sul lato prospicente il Foro Romano. Alla fase neroniana doveva appartenere questo lungo
criptoportico, che sostanzialmente conduceva dalla zona del Clivo Palatino fino alla zona dove si trovano la
casa di Livia e di Augusto, proprio perché probabilmente in quella zona a est dell’area della Casa di Augusto
doveva trovarsi la residenza neroniana. In questo criptoportico, che prendeva luce da finestre a bocca di
lupo, sono stati ritrovati dei resti importanti di rivestimento sia pavimentale che parietale e in particolare
dei bellissimi resti di stucco, dello stucco che ricopriva la volta (img. di una copia, stucco originario è stato
staccato), era un rivestimento a finti cassettoni, cioè con dei riquadri recanti figurazioni al centro e un
riquadro con amorini, decorato tutt’intorno da tralci e da motivi vegetali e floreali. Questi motivi, come
abbiamo già avuto modo di vedere, si sviluppano molto in epoca neroniana e, come vedremo,
caratterizzano anche le decorazioni della Domus Aurea. Nerone realizzò una domus, cosiddetta Transitoria,
sul Palatino. Dentro al cripto portico la Sovrintendenza ha condotto un esperimento di realtà immersiva e
con i mezzo che la tecnologia oggi ci offre, ha fatto questa esperienza di realtà immersiva dove sulle pareti
vengono proiettate le pitture delle domus circostanti, vedimao per esempio una delle pitture della Casa di
Livia, una realtà immersiva che consente al visitatore di fare una sorta di viaggio virtuale attraverso la
pittura dell’epoca romana.
Lezione 29
Lezione 30
Le strade di Roma
Le porte delle mura, in primis le porte delle Mura Serviane, andavano a collocarsi sul percorso di strade più
antiche, che poi durante l’età medio repubblicana e poi a più riprese in seguito vennero regolarizzate,
vennero lastricate, cioè rivestite di nuove pavimentazioni, poi le Mura Aureliane andarono anch’esse a
collocare le proprie porte sulle medesime vie a una distanza che abbiamo visto essere variabile,
grossomodo dai 300 m a quasi un km e mezzo, cioè un miglio dalla cinta muraria precedente. Noi tutti
sappiamo che i Romani furono grandi costruttori di strade, soprattutto organizzarono e potenziarono la rete
viaria a partire dal III secolo a.C. in particolare, questo per collegare Roma alle colonie, dunque per motivi
strategico-militari, ma anche per motivi commerciali, per favorire gli scambi commerciali, dunque per
motivi economici.
Le caratteristiche delle strade romane sono soprattutto quelle dell’essere dritte, cioè i Romani preferiscono
il rettifilo quando possibile, cioè quando le condizioni orografiche lo permettono, perché i Romani
comunque si adattano anche alle condizioni orografiche del terreno che incontrano. Oltre ad essere
tendenzialmente dritte, le strade romane sono anche larghe, cioè sono fatte per permettere il passaggio dei
mezzi di trasporto nei due sensi di marcia. Per quanto riguarda il rivestimento, nella maggior parte dei casi
si possono presentare lastricate oppure glareate, ovvero nel primo caso rivestite con blocchi di pietra
oppure semplicemente di ghiaia battuta. Per realizzare le strade erano necessarie delle conoscenze
tecniche e ingegneristiche di notevole livello e queste infrastrutture erano realizzate dall’esercito. La
progettazione e la direzione dei lavori venivano affidate a un architectus, cioè a un ingegnere che faceva
parte del genio militare ed era naturalmente affiancato da una serie di tecnici come agrimensori, geometri
ecc. Vediamo qui la rete stradale che parte da Roma. All’interno della città il nome generico per indicare la
strada in latino era vicus, poi esistevano anche altre denominazioni, per esempio se la strada aveva una
particolare pendenza, si usava il termine clivus, se la strada era stretta si usava il termine semita. Il termina
via era utilizzato soprattutto per indicare le strade in entrata e uscita dalla città, oppure quelle vie che
avevano delle caratteristiche particolari, per esempio a Roma la Via Sacra, la Via Nova, veniva definita la via
tecta la via coperta, o via fornicata, la via che era dotata di archi, insomma, le vie che avevano delle
caratteristiche particolari erano denominate in questo modo.
Vediamo quelle che erano le vie più importanti, che uscivano dalla città di Roma. Potremmo partire dalla
parte meridionale per ricordare quella che è considerata la regina delle vie romane, cioè la Via Appia, che fu
costruita dal console Appio Claudio nel 312 a.C. e, partendo dalla Porta Capena a Roma, andava verso
Capua e poi da Capua proseguiva verso Benevento e verso Brindisi. Altra via molto importante che sempre
si dipartiva dalla Via Capena era la Via Latina, che si dirigeva verso Frosinone e Capua, passando dai Monti
Lepini. Vediamo poi tutta un’altra serie di vie tra cui molto importante era anche la Prenestina, che portava
verso Preneste, l’attuale Palestrina, ma fra le vie più importanti vi era sicuramente la Via Tiburtina Valeria,
che passava per Tivoli e portava poi a Pescara, l’antica Aternum. Proseguendo verso nord troviamo poi la
Via Salaria, che prendeva il nome dal sale, perché su questa via per molti secoli si svolse il commercio del
sale. Ricordiamo che normalmente le vie prendevano il nome dal loro realizzatore, cioè dal magistrato che
le aveva realizzate e poi dall’imperatore, ma a volte, come in questo caso, potevano prendere nome da
motivi particolari o anche dai territori che raggiungevano. Proseguendo poi verso nord un’altra via
importante era la Via Flaminia, che andava verso Rimini. A questo proposito va ricordato che soprattutto fra
la fine del III secolo e il II secolo a.C. fu molto potenziata la rete stradale che congiungeva Roma alle colonie
del nord Italia, in questo caso le colonie del centro nord-est, dunque la Via Flaminia portava fino a Rimini e
poi nel II secolo vennero poi realizzate la Via Emilia e la Via Postumia, che consentivano il collegamento
ulteriore verso le colonie del nord Italia. Dopo la Via Flaminia possiamo ricordare la Via Cassia, che si
dirigeva a nord-ovest, verso i territori dell’area etrusca, la Via Cassia infatti portava verso Firenze e Lucca,
poi andava a congiungersi a nord alla Via Aurelia. Ricordiamo la Via Clodia, che pure conduceva nel
territorio etrusco ed era una via a vocazione più commerciale, quindi era una via a corto raggio rispetto a
quelle nominate finora, che sono poi le vie che avevano maggiore importanza perché erano strade a lungo
raggio usate anche per fini strategico-militare. Infine altra via importante era la Via Aurelia, una via costiera
che saliva verso nord-ovest, passava attraverso l’attuale Pisa per arrivare fino a Genova.
Vediamo anche lo sviluppo di questa rete stradale principale nella penisola italica. Ricordiamo come tratti
stradali particolarmente importanti, come la Via Appia antica, fu realizzato a un certo punto da Traiano un
ulteriore ramo, una strada che si dipartiva da Benevento e raggiungeva Brindisi attraverso l’Appennino, era
una specie di scorciatoia, permetteva di raggiungere Brindisi in temi più brevi. Altra via importante che si
dipartiva dall’Appia a Capua era la Via Popilia Lenate, dal nome del magistrato, che raggiungeva il centro di
Reggio. C’era un’altra Via Popilia a nord, che era la via che partendo da Rimini conduceva fino alle colonie di
Aquileia e Trieste (Tergeste). Molto importanti erano anche nell’area dell’Italia settentrionale la Via Emilia e
la Via Postumia. La Via Emilia metteva in comunicazione Ariminum e Placentia (Rimini e Piacenza), mentre
la Postumia andava da Genova fino ad Aquileia, quindi sono due strade di fondamentale importanza,
realizzate nel II secolo a.C., proprio per fini strategico-militari di controllo del territorio. Non dimentichiamo
che a queste funzioni era sempre collegata anche la funzione commerciale, perché quella economica era
una funzione estremamente importante.
Andiamo a vedere dal punto di vista tecnico e costruttivo come venivano realizzate le strade, quello che
conosciamo dalle fonti. Dalle fonti possiamo ricavare che innanzitutto i Romani, sempre in modo molto
pratico e intelligente sfruttavano le caratteristiche del territorio, dunque se il terreno era terreno
abbastanza solido, resistente, i Romani non perdevano tempo a realizzare delle fondazioni particolarmente
spesse e robuste, però laddove il terreno magari era poco stabile, argilloso e paludoso, allora ricorrevano a
fondazioni molto più solide, più spesse, più resistenti, si ricorreva in alcuni casi, specialmente laddove il
terreno era paludoso, anche a palificate lignee. Dalle fonti sappiamo che la strada quando era fatta bene
doveva prevedere alla base una massicciata di pietre di grandi dimensioni, una massicciata che poteva
variare in spessore da 30 a 60 cm, era chiamata statumen, sopra il quale poteva essere steso anche un
rudus, uno strato meno spesso, dai 25 ai 30 cm, fatto di materiali di minori dimensioni, poi c’era uno strato
intermedio chiamato nucleus, sempre fatto di materiale più fine, qui vi era sabbia, pietrisco, ghiaia ecc.,
questo strato veniva livellato attraverso il passaggio di rulli, poi al di sopra si realizzava il rivestimento
chiamato pavimentum, che poteva essere fatto in diverso modo, allora le strade, soprattutto all’interno
delle città, rivestite di grosse lastre, dette anche basoli, cioè queste lastre di pietra fatte di roccia resistente,
roccia vulcanica o roccia calcarea, erano costituite da questi massi, spesso di forma poligonale, accostati
uno all’altro e allettati in un letto di sabbia. Queste strade erano chiamate vie lapidibus strate, cioè vie stese
con le pietre. Il nome strada infatti deriva dal participio passato del verbo sternere, che vuol dire stendere,
lo stratum è il participio passato, quindi la strada è un elemento steso, dove si stendono per l’appunto
questi elementi di rivestimento. Abbiamo quindi detto che potevano essere rivestite di elementi di pietra,
potevano essere anche semplicemente rivestite di ghiaia, allora venivano chiamate vie glareate, erano vie
semplicemente inghiaiate.
Img. della Via Appia antica, oggi un parco nella periferia di Roma, un parco bellissimo che si può percorrere
a piedi, ai lati della via si possono visitare tutta una serie di monumenti antichi, ci sono anche delle ville
moderne. Vediamo qui la strada basolata, con la pavimentazione in basoli, ma come dicevamo la strada
poteva essere semplicemente inghiaiata, vediamo qui un esempio da Bologna, ma i Romani potevano
anche semplicemente sfruttare il fondo naturale, che poteva essere di terra battuta o, come in questi
esempi dell’Alto Adige, siamo qui a Fortezza, limite nord dell’Italia settentrionale, dove abbiamo questi
esempi di strade romane realizzate sfruttando semplicemente il fondo roccioso, quindi la base naturale
nella quale venivano anche tracciati dei solchi, quindi questi non sono solchi che si sono creati a seguito del
continuo passaggio dei carri, questi erano solchi che venivano tracciate direttamente nella roccia, che
servivano quasi da rotaie, che dovevano favorire lo scorrimento delle ruote dei carri e dei mezzi di
trasporto. Esistevano delle norme precise riguardo le dimensioni e la larghezza delle strade romane,
normalmente la larghezza oscillava tra i 4 e i 6 m, la caratteristica era in particolare, se possibile, quella del
rettifilio, ma poi per raggiungere i vari centri abitati c’erano deviazioni, vie laterali che di solito erano
realizzate ad angolo retto, preferibilmente i Romani realizzavano le strade in luoghi sopraelevati rispetto al
territorio circostante, perché questo garantiva buona visibilità da un lato, maggiore sicurezza rispetto a
eventuali imboscate e poi questo limitava i danni in caso di forti piogge, inondazioni ecc. A questo
proposito ricordiamo che il rivestimento della strada normalmente aveva una sezione leggermente curva,
più elevata verso il centro, meno ai lati, proprio per permettere lo scorrimento delle acque nelle canalette
poste ai lati della strada. La strada era poi definita da un cosiddetto umbo, cioè un bordo solitamente fatto
di pietre inserite verticalmente nel terreno, poi ai lati si trovavano anche dei marciapiedi, chiamati
crepidines, dal nome dei sandali, le crepide, quindi erano le zone di spessore e di larghezza variabile dove si
poteva camminare, anche queste rivestite. Che sulle strade ci fossero delle norme specifiche lo sappiamo,
sappiamo che già nelle leggi delle 12 tavole, quindi siamo nel V secolo a.C., già esistevano delle norme che
regolamentavano la larghezza delle strade, lì si dice che le strade dovevano essere larghe da 8 a 16 piedi (il
piede romano è 29,6 cm, quasi 30), poi altre leggi in seguito andarono a regolamentare orari di circolazione,
eventuali restrizioni della circolazione nei centri abitati, gli appalti relativi ai parcheggi, perché anche quello
dei parcheggi già in epoca romana poteva essere un importante aspetto da risolvere, vi erano poi norme
che regolamentavano l’entità del carico, il numero dei passeggeri, poi il numero dei passeggeri dei mezzi di
trasporto, queste strade erano frequentate giorno e notte, a tutte le ore, da viaggiatori a piedi, a cavallo, a
dorso di mulo, spesso su mezzi di trasporto a due o a quattro ruote, prevalentemente a trazione animale,
tra i mezzi più in uso vi era una specie di carro, chiamato carruca e si è calcolato che mediamente questo
poteva compiere 5 miglia all’ora, che vuol dire circa 7 km e mezzo all’ora.
Questa straordinaria, vasta e complessa rete stradale romana la conosciamo nelle sue linee generali e la
conosciamo attraverso tutta una serie di fonti, fonti archeologiche, fonti epigrafiche, fonti letterarie ma
anche fonti cartografiche. Fra le fonti più importanti abbiamo quelle costituite dalle pietre miliari, che sono
dei cippi iscritti, cippi dalla forma varia, solitamente hanno una forma di colonnetta, sono cippi iscritti che
solitamente riportano il nome del costruttore e poi vengono detti miliari perché riportano anche le miglia,
le distanze, di solito la distanza o dalla città di partenza o rispetto alla città di arrivo. Quello che vediamo qui
è una copia del cippo miliare, il primo miliare della Via Appia antica. Si presentano come dei cippi di forma
cilindrica, vediamo qui due miliari trovati a Rablà presso Merano e a Cesiomaggiore presso al Valle del
Piave, sono due cippi dell’epoca dell’imperatore Claudio, che si riferiscono alla Claudia Augusta, cioè
Claudio evidentemente fece delle opere di sistemazione e ristrutturazione di questa via, che come recita
l’epigrafe incisa su questi esemplari è una via realizzata da Tiberio e Druso durante el guerre eretiche, e
recitano “Alpibus bello patefactis”, cioè dopo avere spalancato le Alpi con la guerra. Queste epigrafi fanno
riferimento anche al territorio di partenza e di arrivo della Via Claudia Augusta e dicono “A flumine Pado ad
flumen Danubio”, cioè dal fiume Po all’area danubiana, infatti la strada andava dal territorio di Altino fino al
territorio di Augusta a Vindeli, sul limes danubiano (?).
Questo è un altro cippo miliare, uno della via Popilia, conservato al Museo di Adria e ricorda il nome del
console Popilius, che appunto realizzò nel II secolo a.C. la via.
Altre importanti fonti sono le fonti cartografiche, cioè gli itineraria, che possono essere itineraria picta, cioè
dipinti, scripta o adnotata, questo è un itinerario pictu, è la più famosa carta stradale dell’età romana, si
chiama Tabula Peutingeriana, prende il nome da Peutinger, il detentore di questa carta. In realtà è una
pergamena di età medievale che però riprende, è una copia sostanzialmente, una carta stradale di età
medio-tardo romana, al cui datazione oscilla tra il III secolo e il IV-V secolo d.C. Questa lunga carta stradale
riporta proprio le strade dell’impero, i centri maggiori, le città, ma anche i fiumi, i corsi d’acqua, poi anche i
nomi delle stationes, cioè di quei centri che si trovavano lungo le strade, centri dove i viaggiatori potevano
sostare, dormire, prendere un pasto, cambiare i cavalli, erano stazioni di posta sostanzialmente, fare
rifornimento di viveri ecc. accanto agli itineraria picta, vi erano gli itineraria adnotata. Questo che vediamo
che è il famoso itinerario Antonini, che prende il nome dall’imperatore Caracalla e giuntoci in copia
medievale, ma da un originale datato al III secolo d.C. e anche questo è molto importante perché riporta
una serie di stazioni lungo le strade dell’impero.
Altra testimonianza molto particolare è quella del cosiddetto Itinerarium Gaditanum, sono le cosiddette
coppe di Gadice o bicchieri di Vicarello. Sono stati scoperti in prossimità del lago di Bracciano e sono dei
vasetti cilindrici di argento del IV secolo d.C. che riportano un itinerario, sulla superficie sono incise i nomi
delle stationes con le distanze del percorso da Cadice a Roma, per questo viene detto Itinerarium
Gaditanum.
I ponti di Roma
Vedremo alcune delle principali testimonianze dei ponti dell’antica Roma. Prima parliamo però delle
tecniche costruttive di questi importanti monumenti dell’ingegneria romana. I Romani, nel momento in cui
costruivano un ponte, avevano bisogno di creare delle fondazioni particolarmente robuste e resistenti che
dovevano sostenere la spinta di tutta la struttura, cioè doveva realizzare dei piedritti, che costituivano
sostanzialmente i sostegni del ponte. Per creare le fondazioni potevano deviare il corso del fiume con
sistemi di palizzate, di dighe, oppure, soprattutto a partire dall’entrata nell’uso dell’opera cementizia, si
usavano cassoni, casseformi che venivano riempite di una malta idraulica a base di pozzolana, oppure
venivano riempiti di sabbia e pietre. Queste casseforme venivano realizzate riempiendole di materiale che
poteva essere un cementizio a base di pozzolana, che è un materiale di origine vulcanica, che ha delle
proprietà idrauliche, cioè mescolata a calce e acqua dà luogo a un tipo di malta che è in grado di fare presa
anche in presenza di acqua, come il cemento idraulico, dunque questo tipo di cassaforma, che viene
definita cassaforma allagata, si poteva gettare la basa utilizzando appunto questa malta pozzolanica,
altrimenti si poteva usare un tipo di cassaforma stagna nella quale venivano invece gettate pietre e sabbie,
in questo caso si svuotava prima la cassaforma dell’acqua e questo si utilizzava in mancanza di pozzolana.
Di queste strutture e di queste tecniche ci parla Vitruvio, che dedica spazio alla descrizione delle fondazioni
immerse nell’acqua, che fosse acqua di mare o acqua di fiume. Fondazioni fatte in ambiente umido, in
presenza di acqua, grazie all’uso di malta idraulica a base di pozzolana. Fatto questo, si realizzavano le
spalle di sostegno della struttura. Ricordiamo che in origine i ponti romani erano realizzati in legno, lo
sappiamo anche dalle fonti, poi nel corso dell’età repubblicana si iniziò a costruirli in muratura, in
particolare facendo uso di conci, cioè di blocchi tagliati, blocchi squadrati di forma regolare, che venivano
sollevati e messi in opera tramite l’uso di quelle che venivano chiamate machine tractoriae, erano
sostanzialmente delle gru che permettevano il sollevamento di pesi. In questo disegno ricostruttivo
vediamo anche un altro aspetto, cioè l’uso di centine lignee per la costruzione delle arcate, cioè i Romani
costruivano delle strutture di legno a forma di arco, che una volta realizzata la struttura venivano rimosse e
queste impalcature di legno hanno il nome di céntine. Una volta rimosse la struttura era pronta. Gli archi si
basavano sul principio della distribuzione delle spinte a partire da un elemento centrale, un cuneo che
svolgeva la funzione di chiave di volta, sappiamo che la struttura dell’arco funzione per compressione, cioè
dalla parte mediana dove è situato il cuneo, dove è situata la chiave di volta, la spinta si propaga
lateralmente fino a raggiungere i sostegni laterali, cioè i piloni che erano poi quelli che effettivamente
sostenevano la spinta e il peso di tutta la struttura. Proprio per questo più ampie erano le arcate e più
robusti dovevano essere i piloni.
I primi ponti di epoca romana erano realizzati in legno, lo sappiamo dalle fonti che la struttura più antica è il
Ponte Sublicio. Ce ne parla Tito Livio e ci fa sapere che questo ponte, realizzato in legno, risale all’epoca
regia, doveva essere stato costruito in un’area che doveva collegare la zona del Foro Boario con la zona
Trans Tiberim, al di là del Tevere un ponte realizzato nel VII secolo e che probabilmente doveva essere
anche amovibile, cioè essendo in legno, nel momento del pericolo, in caso di necessità, poteva anche
essere smontato per poi essere rimontato. Questo era il ponte più antico, di cui non rimane traccia. Rimane
invece traccia del primo ponte in muratura, realizzato poco a nord del precedente, il primo ponte in
muratura di Roma, detto Ponte Rotto, corrispondente al Ponte Emilio. Di questo ponte in realtà rimane solo
un troncone, fu più volte restaurato, anche in epoche relativamente recenti, nel corso del Cinquecento fu
più volte ristrutturato. Sempre da Tito Livio veniamo a sapere che fu costruito intorno al 241 da Manlio
Emilio Lepido, probabilmente fu realizzato in relazione alla costruzione della via Aurelia, fu però poi rifatto
nel 179 a.C. da Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliore. I ponti venivano spesso rifatti o comunque
ristrutturati, perché le piene del Tevere potevano essere anche molto distruttive. Anche Augusto mise
mano a questo ponte ristrutturandolo nel 12 a.C., poi abbiamo visto che nel corso della storia fu più volte
ristrutturato fino ad essere abbandonato e oggi ne rimane solo un troncone. Il ponte che possiamo
considerare il meglio conservato dell’antichità romana nell’urbe è il Ponte Fabricio, che per la verità non era
un ponte che scavalcava tutto il Tevere, ma consentiva il collegamento fra la sponda sx del Tevere, cioè
l’area del Campo Marzio, e l’isola Tiberina, dove si trovava un importante tempio dedicato ad Esculapio
(Asclepio). Consociamo il nome del costruttore di questo ponte e conosciamo anche la data, il 62 a.C.
Vediamo che presenta due arcate a sesto leggermente ribassato e nella parte mediana, in corrispondenza
del pilone, presenta un’ulteriore apertura, il cosiddetto arco di piena, che consentiva il rapido reflusso di
acqua in caso di piena. Presentava un nucleo di tufo e un rivestimento di travertino, poi vediamo che in
epoca successiva fu più volte restaurato e presenta delle cortine di laterizio che sono probabilmente
attribuibili al XVII secolo. Di questo ponte si conosce bene l’artefice abbiamo detto, che è Lucio Fabricio e lo
conosciamo in particolare dalla testimonianza epigrafica proprio sul ponte: sulle ghiere degli archi è
presente il nome di questo magistrato, che era un curator viarum ed egli appose il proprio nome su tutte le
ghiere degli archi, quindi il suo nome compare quattro volte e dice “Lucius Fabricius Gai Filius Curator
Viarum Faciundum Curavit”, cioè curò che fosse fatto, quindi è Lucio Fabricio che fa realizzare questo
ponte. Troviamo poi la traccia della sua opera anche nell’arco di piena. Questo ponte fu poi restaurato,
perché abbiamo un’altra iscrizione che ci ricorda che fu ristrutturato dai consoli del 21 a.C.
Dalla parte opposta rispetto al Ponte Fabricio, si trova il Ponte Cestio, che faceva da pendant rispetto al
precedente e collegava la sponda dx del Tevere all’Isola Tiberina. Probabilmente è un po’ più recente del
Ponte Fabricio, ma è quasi contemporaneo, lo si può probabilmente attribuire al pretore del 44-43 a.C. e fu
dunque realizzato intorno alla metà del I secolo a.C., anche se lo si è conosciuto per molto tempo nella sua
forma definitiva, risalente al IV secolo d.C. In realtà questo ponte fu restaurato, fu restaurato dalle fonti alla
metà del II secolo d.C., poi più volte vi si mise mano nel corso del IV secolo d.C., ma poi alcuni interventi di
restaurazione si conobbero anche nel Quattrocento e nel Seicento, fu danneggiato nel corso dell’Ottocento,
ma a un certo punto venne completamente demolito. Lo vediamo qui in un’img. dell’Ottocento, proprio
prima della demolizione, e vediamo anche come era realizzato, quali erano le caratteristiche della sua
struttura, questo era l’aspetto originario del ponte prima della demolizione, con un’arcata molto ampia al
centro e due archi minori ai lati. Fu infatti demolito a fine Ottocento, quando vennero rifatti gli argini del
Tevere e questo è il suo aspetto oggi. Va detto che furono recuperati dalla vecchia struttura diversi elementi
che poi furono reimpiegati nel rifacimento, nei lavori di rifacimento di questo manufatto, in particolare i
vecchi materiali da costruzione sono concentrati nell’area dell’arcata centrale.
Ricordiamo un altro importante ponte di epoca romana, uno dei ponti più antichi, anch’esso ricordato da
Tito Livio, ed è il Ponte Milvio, che era situato nell’area settentrionale della città di Roma. Qui lo vediamo
raffigurato in questa planimetria. Il Ponte Milvio è uno dei ponti più antichi di Roma e anche uno dei più
belli, è ricordato da Tito Livio in relazione a fatti avvenuti nel 207 a.C., è però soprattutto ricordato per
l’importante avvenimento risalente al 312 a.C., cioè la famosa battaglia del Ponte Milvio combattuta da
Costantino e da Massenzio, dunque il Ponte Milvio è passato alla storia proprio per questo importante
avvenimento di carattere storico. È uno dei più antichi ponti di Roma, al di sopra di esso nel 27 a.C. era
stato anche realizzato un arco con una statua dedicata ad Augusto, è un ponte di grande effetto, sul quale
poi si conservano strutture di età medievale. È costituito da una serie di sei arcate, quelle mediane sono di
dimensioni maggiori rispetto alle laterali, e presenta 5 robusti piloni con dei frangiflutti a pianta triangolare,
al di sopra dei quali si aprono i cosiddetti archi di piena. Questo ponte era realizzato in tufo di grotta oscura
e travertino per il rivestimento, è un ponte particolarmente importante perché consentiva
l’attraversamento del Tevere nella parte nord della città di Roma, sostanzialmente dove passava la Via
Flaminia, in prossimità poi del ponte si diramavano altre importanti direttrici, fra cui la Via Cassia. Nel
Medioevo il Ponte Milvio costituì la principale via di accesso e di uscita da e per Roma, fu naturalmente più
volte, anche per la sua importanza, più volte restaurato nel corso dei secoli, fino all’Ottocento in
particolare, si ricordano importanti interventi di restauro.