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L’interesse scientifico per le tombe delle popolazioni del passato sicuramente non è
nuovo; già gli Antiquari del Seicento e del Settecento erano coinvolti nello scavo delle tombe,
e quest’interesse è perdurato fino ai tempi moderni, sempre più forte. Una delle ragioni di tale
attenzione è senza dubbio il fatto che le tombe contenevano oggetti, spesso ben conservati e
anche, non raramente, di pregio. Così per decine di anni, le tombe antiche sono state scavate
quasi esclusivamente per recuperare gli oggetti dei corredi ed eventualmente per studiare
l’architettura funeraria, nel caso delle tombe più monumentali. Il defunto, pur essendo la
ragione d’essere della tomba, era trascurato a tal punto che le ossa erano frequentemente
lasciate sul posto, senza essere sottoposte ad uno studio antropologico. Per “studio
antropologico”, si riferisce qui all’antropologia biologica (anche chiamata antropologia
fisica), cioè la disciplina che ha per oggetto la storia dell’evoluzione e della biologia umana –
secondo l’uso tradizionale del termine “antropologia” in Europa, mentre nella tradizione
anglosassone, riferisce piuttosto all’antropologia sociale e culturale.
Fino agli anni ‘70, gli antropologi biologici si occupavano quasi esclusivamente delle
evoluzioni globali del popolamento umano sul lungo tempo. Una grande parte di loro si
interessava allo studio degli scheletri solo fino alla fine del Paleolitico superiore, nel momento
in cui si fissano i grandi “gruppi umani” cosi come sono conosciuti oggi. Sugli scavi
archeologici relativi a periodi più recenti (come le grande necropoli magno-greche o italiche),
gli scheletri erano lasciati sul posto o, a volte, solamente parzialmente prelevati; spesso
veniva recuperato solo il cranio, essendo considerato la parte privilegiata per gli studi
sull’evoluzione del popolamento umano. In questi rari casi, gli archeologi consegnavano le
ossa agli antropologi o ai medici, senza un obiettivo particolare per la conoscenza del sito
archeologico.
La maggior parte delle grandi necropoli greche sono state scavate in questo periodo,
prima della grande evoluzione che ha condotto a conservare gli scheletri provenienti dagli
scavi archeologici. Sotto questo aspetto, il sito di Paestum è stato quasi vittima della sua
importanza, considerato che è stato scavato già nell’Ottocento 1 . A Nord, la necropoli di
Arcioni è stata esplorata già nel 1805, poi negli anni 1930 e ‘70; la necropoli di Laghetto è
stata indagata principalmente negli anni 1954-1956; la necropoli Andriulo, contigua a quella
di Laghetto, negli anni 1969-1971. Più a Nord, a due chilometri della città, la necropoli di
Gaudo fu largamente indagata tra il 1958 e gli anni 70. A Sud, la necropoli di Licinella è stata
in grande parte saccheggiata nell’Ottocento dal Marchese di Salamanca, poi scavata negli
anni 1967-1968. Per tutti questi scavi, come era solito dappertutto in Europa, pochissimi
scheletri sono stati conservati e, come traspare nei resoconti di scavo, il grandissimo interesse
dei dipinti presenti in un numero elevato nelle tombe e la buona conservazione dei corredi
hanno anche contribuito a trascurare i morti stessi.
La prima necropoli di Paestum in cui i resti umani sono stati presi in considerazione è
quella di Spinazzo, scavata nel 1972-1973. Dal 1976 in poi, l’attenzione per gli scheletri ed i
dati antropologici che essi potevano fornire è diventata usuale. Uno dei campioni scheletrici
più importanti per Paestum è quello fornito dagli scavi di Marina Cipriani nella necropoli
meridionale di Santa Venera effettuati tra il 1979 e il 1984, che ha portato alla luce
1 PONTRANDOLFO, ROUVERET 1992, p. 17‑ 18 per un breve richiamo della storia degli scavi nelle necropoli.
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249 tombe; le ossa sono state conservate e studiate dal Prof. C. Marmo, della facoltà di
Medicina dell’Università di Napoli2. Importanti scavi sono anche stati eseguiti alla fine degli
anni ’80 e negli anni ’90 nella necropoli extraurbana del Gaudo; lo studio antropologico è
stato effettuato dai Proff. M. et R. Henneberg, del Departement of Anatomical Sciences
dell’Università di Adelaide (Australia)3. Un piccolo gruppo di sepolture è anche stato scavato
negli anni 2000 nella necropoli urbana di Licinella, dando luogo pure lì ad analisi
antropologiche4.
Lo studio antropologico degli scheletri umani scoperti sugli scavi archeologici può
essere di grande utilità per la ricostruzione di diversi aspetti della vita delle popolazioni del
passato. Diciamo subito che l’obiettivo principale di questi studi non è soltanto determinare la
causa della morte, com’è di solito negli studi di Forensic Anthropology. Anche se fa parte
delle domande esaminate, è molto raro poter stabilire la causa della morte di un individuo a
partire dal solo esame del suo scheletro: a volte perché gli elementi scheletrici non mostrano
nessun segno particolare; a volte, al contrario, perché dimostrano molteplici traumi, tutti
potenzialmente mortali. Certo, in alcuni casi, si possono fare ipotesi assai solide dall’esame
delle ossa, come per esempio nelle tombe di soldati ritrovate nelle necropoli della colonia
greca siciliana di Imera, dove alcuni individui portavano ancora profondamente ancorate nelle
ossa le punte di frecce o di giavellotti che li avevano uccisi5. Ma questi sono casi eccezionali e
di solito, l’antropologo non ha per obiettivo principale capire come gli individui sono morti,
ma piuttosto come hanno vissuto.
Età alla morte
I primi dati che l’analisi antropologica in laboratorio può fornire è l’età alla morte e la
determinazione del sesso dell’individuo. L’età alla morte è un dato fondamentale per capire la
durata media e le condizioni della vita delle popolazioni del passato. Fino all’invenzione della
2 CIPRIANI 1989 e CIPRIANI 1994 per una presentazione dei risultati preliminari di queste analisi.
3 CIPRIANI 2000.
4 CIPRIANI et al. 2009.
5 VASSALLO 2010.
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vaccinazione, avvenuta alla fine del Settecento, la mortalità infantile (cioè la percentuale degli
infanti morti prima di aver raggiunto il primo anno di vita) poteva raggiungere il 30-
40 per cento (in Italia oggi è il 2,9 per mille!). Un numero molto elevato di bambini moriva
nei primi anni di vita, ed una delle domande a cui l’antropologia biologica può portare
risposte è il modo in cui venivano trattati questi bambini nelle necropoli secondo la loro età.
Orbene, in un grande numero di necropoli antiche, sia greche che italiche o romane, i bambini
appaiono sottorappresentati rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare visto il tasso elevato
della mortalità infantile. Tale sotto-rappresentazione dei bambini, in particolare quelli di età
inferiore ad un anno, è stata per esempio osservata nella necropoli di Pantanello, a
Metaponto6, o – anche se meno marcata – ad Imera7. Ciò consente di ipotizzare che una
grande parte di bambini piccoli era inumata in altri luoghi, forse nell’abitato o in necropoli
specifiche. Ma non era una regola assoluta nelle colonie greche d’Occidente: a Megara
Hyblaea, in Sicilia, la porzione molto elevata di tombe infantili nelle necropoli urbane della
città sembra al contrario suggerire che tutti i bambini morti, anche quelli più piccoli, venivano
sepolti negli stessi luoghi degli adulti.
A Paestum, i dati più importanti sono quelli forniti da M. Cipriani sugli scheletri della
necropoli di Santa Venera. Su 231 individui esaminati, sono stati riconosciuti 130 adulti e 101
subadulti (in questo caso il termine subadulto designa individui di età inferiore ai 20 anni).
Tableau 1: Fascia di età dei defunti nella necropoli di Santa Venera (d'après: Cipriani 1989, p.77)
Anche se si dovrà aspettare la pubblicazione integrale dei dati per poter proporre
riflessioni approfondite sul trattamento funerario dei bambini secondo la classi di età, è
notevole il fatto, notato da M. Cipriani, che nella necropoli di Santa Venera, i bambini
venivano trattati come gli adulti, deposti in tombe delle stesse misure (più o meno 1,85-
1,90 m di lunghezza, 0,90 m di larghezza e 0,80-0,90 m di profondità), nello stesso modo.
Solo un caso di fossa piccola è documentato per un “neonato”; una tegola semi-circolare
(kalyptér) copriva questa piccola fossa8.
Sesso
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è il criterio più sicuro, mentre la morfologia del cranio può dare altre indicazioni, tuttavia
molto meno determinanti. I dati osteometrici (misure delle ossa) possono essere utilizzati solo
se esiste una popolazione di riferimento specifica al sito e ben documentata. Considerata la
natura di questi criteri, non è possibile ad oggi determinare il sesso di un bambino se non
tramite l’analisi del DNA.
Il fatto che varie pubblicazioni propongono comunque riflessioni sul trattamento
funerario differenziato dei bambini di sesso maschile o femminile è emblematico di una
confusione ancora frequente nella letteratura archeologica tra sesso e genere. Se il sesso è
biologico, il genere è sociale e può essere espresso in diversi modi nel trattamento funerario:
l’architettura della tomba o gli oggetti del corredo. Fino a poco tempo fa, era comune
determinare il “sesso” dei defunti (in realtà il genere) a partire degli oggetti del corredo: un
individuo con le armi veniva automaticamente decretato uomo, mentre un individuo con
fibule, braccialetti o attrezzi di filatura, veniva categorizzato come donna. Certo, anche senza
analisi antropologiche, si può dire che c’è una grande probabilità che l’individuo della tomba
Santa Venera 109 per esempio, portatore di un cinturone ed accompagnato da punte di lancia,
sia stato un uomo dedicato alle funzioni guerriere. Ma una grande probabilità non è una
certezza, e prendere il genere per il sesso conduce troppo spesso a ragionamenti circolari:
prima si propone l’identificazione del sesso a partire degli oggetti (“sono stati considerati
maschi tutti quelli che avevano le armi”), poi si fanno riflessioni sull’attribuzione degli
oggetti a seconda del sesso (“i maschi erano accompagnati dalla armi”). Si vede bene qui il
rischio di tale pratica, che d’altronde può trascurare casi particolarmente interessanti di
trasgressione di genere: una donna con le armi, un maschio con gli oggetti del mundo
muliebris. Nella necropoli di Santa Venera, le analisi antropologiche hanno per esempio
permesso di dimostrare che gli alabastron di alabastro, spesso considerati oggetti di donna nel
mondo greco e magno-greco, erano distribuiti sia nelle tombe femminili che in quelle
maschili, a volte anche associati con lo strigile. Per questo è molto importante distinguere tra
sesso e genere, e proporre riflessioni riguardanti i dati di cui si dispone.
Figure 1: Corredo della tomba Santa Venera 205 (da: Cipriani 1989, fig. 4, p. 79)
Dati sull’età alla morte e il sesso, oltre a dare preziose informazioni sulle variazioni
del trattamento funerario a seconda dell’identità biologica del defunto, permettono anche di
riflettere sulla selezione della popolazione funeraria nelle necropoli ed i suoi criteri. Si è già
detto come spesso i bambini al di sotto di un anno sono sotto-rappresentati nelle necropoli
greche e magno-greche, una sotto-rappresentazione spesso interpretata come il segno della
loro incompleta integrazione nella comunità. Ma possono anche esserci variazioni della
popolazione funeraria determinate dal sesso del defunto. Nella piccola necropoli di Ponte di
Ferro, sita ad 850 metri a nord-ovest delle mura di Paestum, le analisi antropologiche condotte
da M. et R. Henneberg hanno messo in evidenza una sex ratio fortemente sbilanciata a favore
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del sesso femminile (le donne sono il doppi degli uomini) 9 . Questa situazione trova un
parallelo nella necropoli di Pantanello a Metaponto 10 . Cercando spiegazioni, J. Coleman
Carter aveva evocato la possibilità di una elevata mortalità in guerra degli uomini –
riconoscendo pero che implicherebbe di suppore uno stato di guerra quasi ininterrotto di tre
secoli. Un'altra ipotesi proposta da Carter è che la necropoli di Pantanello fosse dedicata agli
addetti di un culto particolare, nel quale le donne avrebbero un ruolo predominante (forse
quello di Iside). Per quanto riguarda la necropoli pestana di Ponte di Ferro, solitamente
considerata come necropoli di persone subalterne, addirittura anche schiavi (vede infra),
potrebbe essere significativo dell’organizzazione della società e dell’inclusione selettiva di
donne, forse allogene, nella comunità. Studiare il “reclutamento” degli insiemi funerari
secondo criteri di sesso ed età consente così di riflettere sull’organizzazione delle necropoli e
il “rapporto difficile”11 tra società dei vivi e comunità dei morti.
Attività e stato di salute
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Figure 2: La tomba 136 della necropoli del Gaudo in corso di scavo (daa: Cipriani 2000, fig. 10, p. 204)
13 CONTURSI 2016
14 Sulla necropoli di Ponte di Ferro, cf. : AVAGLIANO 1985 ; ESPOSITO, POLLINI 2013 ; CONTURSI 2016.
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Figure 3: Tombe scavate nella sabbia nella necropoli di Ponte di Ferro (da: CONTURSI 2016, fig. 1, p. 28)
Infine, lo studio paleopatologico degli scheletri antichi non da solo informazioni sulle
patologie di cui soffrivano gli antichi abitanti della Magna Grecia, ma offre anche indicazioni
su alcuni dei mezzi che erano messi in opera per curarli. Diversi casi di trapanazione cranica
sono per esempio noti dalle necropoli arcaiche e classiche di colonie greche d’Occidente
come Camarina, Imera e Megara Iblea. Il numero elevato di crani che presentano tracce di
cicatrizzazione dimostra che c’era un tasso di sopravvivenza a questa pesante operazione
vicino agli 70 % nell’Antichità.
Parentela, lignaggio e migrazioni
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Le stesse osservazioni si possono fare per un nuovo tipo di analisi che va molto di
moda in questi ultimi anni, l’analisi degli isotopi dello stronzio. Lo stronzio è un elemento
chimico della famiglia dei metalli; si trova in abbondanza nella natura sotto forma minerale,
in particolare nei sedimenti vulcanici; quando questi sedimenti si erodono, si diffondono
nell’acqua e si ritrovano in diversi tipi di risorse alimentari. Lo stronzio è contenuto in queste
risorse ed è successivamente assorbito dall’organismo che l’incorpora nei tessuti ossei (come
succede con il calcio) e nello smalto dentario. Orbene, il rapporto degli isotopi dello stronzio
varia a seconda delle regioni geografiche: di conseguenza, l’analisi del rapporto degli isotopi
dello stronzio contenuto nelle ossa di un individuo può dare indicazione sulla sua regione di
provenienza. Visto che lo smalto dentario si forma nei primi anni di vita dell’individuo e non
si rinnova più, il rapporto degli isotopi dello stronzio nello smalto corrisponde alla geologia
dell´area in cui l’individuo ha trascorso la sua infanzia. Al contrario, le ossa sono fatte di
tessuto organico vivo, che si rinnova regolarmente – più o meno ogni dieci anni – a misura
che l’individuo cresce e invecchia. Il rapporto degli isotopi dello stronzio nelle ossa rivela
dunque la regione in cui una persona ha passato gli ultimi anni della sua vita. Confrontando il
rapporto degli isotopi delle ossa e quello degli isotopi dei denti, diventa così possibile sapere
se un individuo è morto dove era cresciuto; confrontando i denti di due individui, si può anche
capire se uno viene di un'altra regione dell’altro. Si possono così cogliere movimenti di
popolazione a grande scala, non da un villaggio o a un altro ma, per esempio, della Grecia
all’Italia.
Appare ovvio l’interesse di tali analisi per evidenziare i fenomeni di colonizzazione
greca in Occidente. Per questa ragione sono stati intrapresi analisi dello stronzio su scheletri
provenienti dalla necropoli di Pithekoussai, da Melania Gigante e Luca Bondioli. I primi
risultati16 sembrano incoraggianti, mostrando una più grande mobilità degli individui maschi
rispetto alle femmine. Non si deve dimenticare però che questo tipo di analisi funziona solo
per la prima generazione di coloni, mentre già dalla seconda generazione di convivenza, la
condivisione dell’ambiente e del regime alimentario esclude la possibilità di trovare
differenze tra Greci e indigeni usando questo metodo. Le notevoli potenzialità di questo
metodo restano ancora in grande parte da esplorare.
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Dagli anni ‘70 in poi, l’antropologia biologica applicata allo studio delle necropoli
storiche si è molto sviluppata, proponendo analisi sempre più numerose e elaborate per capire
le origini, relazioni, condizioni di vita, stato di salute, e abitudini degli antichi abitanti della
Magna Grecia. Tutte queste analisi si sviluppavano però all’interno delle pareti dei laboratori,
subito dopo lo scavo o anche, a volte, molto più tardi – alcuni degli studi recenti presentati
sono stati fatti su scavi vecchi, il che resta possibile purché le ossa siano state conservate. Ma
un altro tipo di approccio ha cominciato ad emergere all’inizio degli anni ‘80, un approccio
che dava un’importanza fondamentale allo studio degli scheletri direttamente sul campo.
17 A proposito della storia della ricerca in archeologia e antropologia della morte, in Italia e nel mondo
anglo-sassone, cf. il monumentale lavoro di : NIZZO 2015.
18 Per una presentazione dettagliata di questo metodo, cf. : DUDAY 2006.
19 DUDAY 2006, p. 27.
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sviluppati all’interno della tomba ed intorno ad essa. Per “processi tafonomici”, si intende qui
tutti i processi naturali o antropici, intenzionali o no, che hanno potuto influire sull’aspetto e
la composizione del contesto funerario dal momento dalla chiusura dalla tomba fino al suo
scavo
A partire dell’osservazione della posizione relativa delle ossa, del materiale, del loro stato di
conservazione, della stratigrafia della tomba e dei diversi elementi che hanno potuto turbare il
deposito, l’antropologia di campo cerca a distinguere tra quello che risulta da processi naturali
o antropici casuali (perturbazione delle tombe a causa di lavori agricoli o industriali,
terremoti, infiltrazione d’acqua, passaggio di piccoli animali, etc.) dai processi invece
antropici e volontari che rilevano della “gestualità funeraria”, cioè le varie pratiche funerarie
che sono state eseguite intorno al cadavere e alla tomba. “Affinché sia possibile mettere in
relazione un’osservazione di scavo ed un fatto rituale, bisogna essere capaci di mostrare che il
fatto deriva da un gesto intenzionale da parte delle persone che hanno costituito il deposito
funerario” 20. A volte, la dimensione rituale può essere molto chiara, sia dell’osservazione
della tomba stessa, sia perché si dispone di altri fonti (storiche, letterarie, iconografiche) che
documentano le pratiche funerarie della popolazione studiata – com’è il caso per il mondo
greco e, in minori proporzioni, magno-greco. Quando non si dispone di altri fonti pero, si
deve sempre rimanere molto attenti nell’interpretazione dei dati archeologici. In effetti, esiste
oggi una tendenza a considerare come “rituale” tutto quello che appare strano o inusuale. Al
contrario, davanti ad una situazione inusuale nella tomba, bisogna verificare se la situazione si
rileva anche in altre sepolture dello stesso contesto cronologico e culturale. Se questa
situazione è ripetuta, la probabilità che sia intenzionale, e quindi rituale appare probabile.
Uno dei primi dati che l’osservazione degli scheletri sul campo consente di ottenere è
il tipo di giacitura del defunto nella tomba. A Paestum, le tombe d’epoca arcaica e classica
sono sempre deposizioni singole: ogni tomba era dedicata ad un unico defunto. La
disposizione delle ossa mostra che di norma 21 era praticata l’inumazione primaria, cioè la
deposizione del cadavere “fresco” senza riorganizzazione dei resti dopo l’inizio della
decomposizione del corpo. Ciò è attestato, osservando le fotografie di scavo, dal
mantenimento delle connessioni articolari anche quelle più labili (quelle che si deteriorano
prima, generalmente già qualche settimana dopo la morte), come quelle delle mani o dei
piedi.
Questa situazione è quella più semplice che si può affrontare in archeologia funeraria.
Al contrario, la comprensione della sepoltura diventa molto più complicata quando ci sono
più defunti deposti nella stessa struttura funeraria, sia che siano stati deposti simultaneamente
(si parla allora di sepoltura multipla), sia in tempi diversi (si parla allora di sepoltura
collettiva). A Paestum, solo nella necropoli eneolitica del Gaudo, scavata nel 1943, sono state
trovate tombe collettive « a grotticella » di cui alcune contenevano più defunti, alcuni in
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giacitura primaria, altri in giacitura secondaria: quando si doveva far posto per deporre un
nuovo defunto, i resti ed i corredi delle precedenti deposizioni erano spostati lungo le pareti
(in questo caso si parla di “riduzione” del cadavere o dello scheletro)22. Quando le deposizioni
sono numerose nella stessa struttura, l’analisi archeotanatologica secondo i metodi
dell’antropologia di campo permette di affrontare l’ordine cronologico delle deposizioni,
mentre l’analisi antropologica in laboratorio consente di determinare il numero minimo di
individui (NMI), a volte molto più elevato di quanto si sarebbe potuto immaginare dal solo
esame generico dalla tomba da un archeologo. Nelle necropoli greche arcaiche di Megara
Iblea e Siracusa per esempio è frequente la pratica delle deposizioni successive con
“riduzione” dei resti umani relativi alle deposizioni antecedenti. Se in alcuni casi il numero
degli inumati si poteva facilmente ricavare dal numero dei crani ben riconoscibili nella tomba,
in altri casi è stato possibile dedurlo solo dal conteggio delle rocche petrose (piccole parti
dell’osso temporale) che si è potuto individuare la presenza di nove defunti, quando
l’osservazione non antropologica ne dava solo uno23.
A Paestum, nella grande maggioranza dei casi, il defunto era inumato in posizione
supina, con le braccia lungo i fianchi. M. Cipriani ha registrato però la presenza nella
necropoli di Santa Venera di sei individui inumati in posizione supina-rattratta, secondo un
costume frequente nella zona apula e in alcuni centri del Vallo di Diano. Questo dato è molto
importante perché dimostra l’esistenza di una tradizione funeraria allogena coabitante con la
tradizione pestana nella necropoli. Come sottolinea M. Cipriani: “Forte sarebbe la suggestione
di considerare queste tombe il segno di un sistema di relazioni tra Poseidoniati e gruppi
allogeni, concretizzato con l’ingresso di elementi indigeni nella compagine sociale, che ne
accetta e ne perpetua la diversità etnico-culturale” 24. Questa posizione sembrerebbe dunque
indicare la presenza di individui allogeni nella necropoli.
Dall’osservazione delle fotografie effettuate sullo scavo, si può anche dire che i corpi
si sono decomposti in spazi vuoti – il che conferma che le tombe erano chiuse dalle lastre di
copertura senza essere riempite di terra prima. Ciò è testimoniato dall’apertura totale delle
ossa del bacino e dall’appiattimento della gabbia toracica .
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Figure 4: Necropoli del Gaudo, tomba 197 in corso di scavo (da Cipriani 2000, fig. 15, p. 209)
L’osservazione della disposizione delle ossa e degli oggetti del corredo fornisce anche
informazioni sul modo di deporre gli oggetti e forse anche il loro significato. Spesso nella
necropoli di Santa Venera, l’alabastron di alabastro, frequente nelle tombe sia di donna che di
uomo, era di solito tenuto nella mano, cosi come lo strigile, generalmente impugnato nella
mano destra25. Nella necropoli del Gaudo, appare anche chiaro che il cinturone e la corazza
composta di tre dischi erano di norma indossati dal defunto nel momento dell’inumazione.
Strutture funerarie deperibili
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Deposizioni entro cassa lignea, a volte arricchita da borchie di bronzo, sono anche
attestate in vari casi, in particolare nella necropoli del Gaudo26, o nella necropoli di Licinella,
scavata nel 200027: effetti di “delimitazione lineare”, cioè di allineamento delle ossa o del
corredo all’interno della fossa senza ragione apparente suggeriscono effettivamente la
presenza all’origine di una parete poi sparita, fatta di materiale deperibile, probabilmente di
legno. Alcune tombe a casse di legno dello stesso periodo sono state conservate grazie a un
tasso d’umidità particolarmente alto nelle necropoli greche della colonia siciliana di Himera28.
Se questi tipi di strutture funerarie, letto o cassa, lasciano tracce assai facili da
individuare dalle foto o dai rilievi di scavo anche se lo studio antropologico non è stato fatto
direttamente sul campo, altri tipi di strutture deperibili sarebbero rimaste completamente
sconosciute se non fosse per la messa in opera dei metodi dell’antropologia di campo
direttamente sul terreno. Nelle necropoli di Cuma per esempio, per la fase pre-ellenica del IX
secolo a. C., Henri Duday ha potuto mettere in evidenza l’uso di bare monoxile a forma di U,
una forma molto particolare che ha provocato la dislocazione dello scheletro in un modo del
tutto originale. È solo per l’analisi molto acuta della disposizione delle ossa nelle tombe che è
stato possibile ipotizzare l’utilizzo di questo tipo di sepolture fino ad allora sconosciuto a
Cuma29.
Pratiche cerimoniali posteriori alla deposizione del defunto
13
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Santa Venera), un centinaio di coppe e skyphoi, la maggior parte degli quali con il fondo
forato intenzionalmente e circa 80 anfore da trasporto. M. Cipriani interpretava pertanto
questi vasi come evidenza del consumo del vino sulle tombe per libagioni durante i funerali o
cerimonie successive.
Ha mostrato pratiche simili intorno alla tomba delle Palmette 32 , scoperta nella
necropoli sita appena fuori della mura a nord-ovest di Paestum. Insieme a un’altra sepoltura
dell’inizio del V secolo a. C., la tomba delle Palmette era inclusa in uno spazio quadrangolare
delimitato da una trincea cavata nella roccia. Questa trincea era anch’essa piena di frammenti
di vasi potori, crateri attici a figure nere, coppe e anfore da trasporto, volontariamente rotti.
Questa trincea sembra avere funzionato contemporaneamente alle due tombe, ma non più
dopo, indicando qui un limite cronologico delle cerimonie cultuale effettuate sulle tombe
dopo la loro chiusura.
Il recupero delle ossa animali e l’attenzione rinnovata per la stratigrafia generale della
necropoli hanno pure permesso di documentare altre pratiche originali nelle necropoli
pestane. Nella necropoli di Licinella, scavi recenti del 2000 hanno permesso di portare alla
luce i resti di un animale sacrificato deposto sopra una tomba del IV secolo a. C. con una
kylix completamente esposta all’azione del fuoco33. M. Cipriani indica anche il caso molto
particolare di un piccolo skyphos miniaturistico deposto capovolto sulla copertura della tomba
181 di Santa Venera dove copriva i resti di un piccolo rogo, anche se il vaso stesso non
portava tracce di bruciato34. Queste pratiche trovano riscontri nelle necropoli di Imera, dove
piccoli depositi di ossa di animali e oggetti combusti sono stati trovati in diversi posti, o
direttamente sopra una tomba, alla cui erano ovviamente legati, o in posti più centrali, in
mezzo a diverse tombe, suggerendo l’esistenza di diversi tipi di pratiche, o per un defunto in
particolare, o per un gruppo di defunti. Cosi, dal lavoro congiunto degli archeologi, degli
antropologi e degli archeozoologi è possibile documentare sullo scavo alcune delle pratiche
funerarie che si tenevano dopo la chiusura della tomba nelle colonie magno-greche e delle
quale a Paestum, fino a molto recentemente, si aveva conoscenza solo dalle scene dipinte
sulle pareti delle tombe.
Il recente emergere di un vero e proprio interesse per i resti umani trovati in contesti
archeologici permette oggi di cogliere nuovi aspetti della vita e della morte delle
popolazioni della Magna Grecia. Grazie all’antropologia biologica applicata ai resti
scheletrici in laboratorio, possiamo così approfondire tutta una parte della vita sociale
degli individui, le loro condizioni di vita, il loro stato di salute, oltre ad alcuni aspetti
della loro demografia. L’analisi archeotanatologica, d’altro canto, consente di
esplorarealcuni aspetti delle cerimonie e della gestualità funeraria che si sviluppava
intorno al cadavere ma anche vicino alla tomba dopo la deposizione del defunto ed
anche molto più tardi, durante le cerimonie che non mancavano di ripetersi
regolarmente nella necropoli. È importante sottolineare però che questo approccio
permette essenzialmente di cogliere gesti e pratiche: “Quando non si dispone di fonti di
informazione atte a completare le nostre informazioni di scavo, è possibile fare solo
un’archeologia dei gesti, e non dei riti, che derivano invece dall’interazione di gesti e di
32 CIPRIANI 2016.
33 CIPRIANI et al. 2009, p. 225.
34 CIPRIANI 1989, p. 77.
14
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pensieri” 35. Per interpretare questi “gesti” come “riti”, è necessario fare appello non solo
all’archeologia ed all’antropologia biologica, ma anche ad altre fonti come le fonti scritte,
storiche o letterarie (numerose per il mondo greco ma molto meno per il mondo italico).
Nel caso di Paestum, i numerosi dipinti trovati all’interno delle tombe costituiscono
ovviamente una fonte straordinaria e di un interesse considerevole per capire le
cerimonie ed i riti che si sviluppavano attorno ai morti ed alle tombe.
L’archeotanatologia si sforza, da questo punto di vista, di collocare lo studio dei gesti
funerari nel quadro di una riflessione più ampia sulle pratiche funerarie e non intorno ai
resti umani, sull’organizzazione delle necropoli e sui rapporti fra società dei vivi e
comunità dei morti, incrociando i dati archeologici ed antropologici, ma integrando
anche quelli storici, iconografici e dell’antropologia culturale. È dunque nella stretta
collaborazione tra archeologi, antropologi, storici e storici dell’arte che risiede il futuro
della ricerca e la speranza di cogliere sempre meglio sia la struttura sociale ed i modi di
vita delle popolazioni, sia la loro ideologia funeraria, vale a dire la considerazione
accordata alla Morte ed ai morti nelle società greche ed italiche dell’Italia meridionale e
della Sicilia.
Bibliografia
D’AGOSTINO 1985
B. D’AGOSTINO, « Società dei vivi, comunità dei morti: un rapporto difficile », Dialoghi di Archeologia, 3, 1,
1985, p. 47‑ 58.
AURINO 2014
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