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Infomorfosi
Tecnologia e società - nell'era Digitale

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Fotografia e antropologia
3.32
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Fin dalla sua comparsa, la fotografia venne


ritenuta utile ai fini delle più disparate attività
di documentazione scientifica. Naturalisti,
geologi, archeologi, viaggiatori, e non sono
pittori e ritrattisti, vi ricorsero nelle abituali
attività artistiche e di studio secondo l'idea che
fosse capace di riprodurre la realtà con
maggiore precisione e con minore dispendio di
tempo, di risorse e di energia. Anche le
discipline antropologiche, impegnate nelle
operazioni di studio di popoli ritenuti
"primitivi", fecero largo uso, nella seconda
metà dell' ottocento, della fotografia. Ed è
proprio in questo periodo che avvenne un
incontro tra antropologia e fotografia. Gli
antropologi dunque, strinsero con questo
nuovo strumento di registrazione una relazione del tutto particolare. Quando la fotografia fece
la sua comparsa, il giudizio unanime fu quello che essa fosse una copia fedele della realtà. Essa
era riuscita, per la prima volta, ad estromettere dalle operazioni di rappresentazione,
l'intervento soggettivo dell'uomo. La riproduzione della realtà operata secondo le procedure
fotografiche, costituiva una importante testimonianza del sopravvento della società occidentale
sulla natura e sulla morte, poichè essa era in grado di rendere memoria. Veniamo adesso
all'antropologia della seconda metà dell'ottocento, quell'antropologia che fece, come già
anticipato, ampio uso della fotografia. La prospettiva teorica che caratterizzò le maggiori
attività di ricerca degli antropologifu senza alcun dubbio l'evoluzionismo. Conosciuto
soprattutto per quanto asserito nel campo delle scienze naturali da Charles Darwin,
l'evoluzionismo in antropologia rimanda a quell'insieme di ricerche indirizzate a ricostruire le
tappe evolutive che avevano connotato la storia dell'umanità. Compito dell'antropologia,
dunque, era quello di scrivere, così come zoologi, botanici e ecc. venivano facendo per il regno
animale, vegetale e minerale, la storia dell'umanità alla luce del presupposto che in essa,
malgrado l'unicità della psiche, vi fossero razze diverse. Coerentemente con questi imperativi
metodologici l'antropologia ottocentesca, soprattutto quella orientata allo studio fisico ed
antropometrico dell'uomo, predispose una seria assai vasta di strumenti di rilevazione. È
dall'impiego di questi che sarebbero emersi dati, soprattutto metrici, per le fasi successive di
analisi. Craniometri, pelvimetri, goniometri, craniografi, pantografi ecc. sono soltanto alcuni
degli strumenti che costituivano l'abituale corredo tecnico di cui l'antropologo ottocentesco si
serviva. Ed è proprio tra questi strumenti, nella valigia degli attrezzi da lavoro, che figurava la
macchina fotografica considerata anch'esa capace di restituire dati assolutamente oggettivi
della realtà in rapporto agli ambiti di studio più importanti perseguiti dall'antropologia, come la
craniometria, l'antropometria, la fisiognomica, l'etnografia ecc..

La craniometria - avente per oggetto di studio il cranio, ritenuto di estrema importanza in


quanto dalla sua grandezza e dagli infiniti indici sarebbe stato possibile ricavare dati per
distinguere le varia razze umane.

L'antropometria - intesa quale studio anatomico del corpo umano.

La fisionomica - avente quale oggetto il volto e le varie caratteristiche somatiche che questo
esprimeva.

L'etnografia - ovvero la descrizione della vita, degli oggetti , dei rituali propri di un
determinato popolo.

e proprio grazie alla fotografia era possibile. documentare importanti aspetti in tutti i settori
dell'antropologia.
La fotografia antropometrica:
Proprio perchè la fotografia era ritenuta una copia oggettiva della realtà, si ritenne che da essa
si potessero ottenere dati importanti relativi al corpo umano come l'altezza, la lunghezza degli
arti, il bacino, il torace, la forma della mano delle dita, oltre alle caratteristiche dei capelli, alla
forma della testa, ecc. Quando si pensa alla fotografia antropometrica bisogna immaginare le
procedure effettive mediante le quali gli antropologi erano in grado di giungervi. Ovvero ad una
persona posta in piedi, contro un muro, ricoperta di quel poco che si mostrasse sufficiente per
nasconderne le parti intime, con a fianco un asta metrica capace di restituire con precisione
l'altezza, con le braccia lungo il corpo in modo che fossero ben visibili le manie le dita.
Attraverso questo tipo di fotografia gli specialisti si garantivano importante materiale
documentario su cui esercitare le dovute analisi. Del resto, proprio perchè vennero pubblicate
delle apposite istruzioni su come queste fotografie dovessero essere realizzate, gli antropologi
si assicurarono che queste, da qualsiasi parte del mondo provenissero, a condizione che
fossero realizzate seguendo proprio quelle direttive, potessero essere impiegate per le analisi
comparative.
La fotografia fisionomica:
A differenza della fotografia antropometrica avente per oggetto il corpo intero, quella
fisionomica era indirizzata a riprodurre soltanto le sembianze del volto umano. Secondo vari
studiosi dell'epoca, era proprio studiando analiticamente le forme del volto, e non soltanto
quelle del corpo, che era possibile risalire alle diverse razze. Ed è proprio per il raggiungimento
di questo obiettivo conoscitivo che si ritenne di primaria importanza l'impiego della fotografia
che consentiva di riprodurre le caratteristiche peculiari del volto: le arcate sopracciliari, gli
occhi, la bocca, le orecchie, il mento, gli zigomi, ecc.. Anche in questo caso era possibile
separare il momento della rilevazione da quello dell'analisi in quanto anche in questo ambito le
fotografie fatte pervenire agli antropologi costituivano una importante ed incontrovertibile base
documentaria per teorizzazioni e classificazioni razziali.
La fotografia craniomertica:
Una parte davvero consistente degli studi e delle teorizzazioni circa la classificazione razziale
trovarono un importante punto di convergenza nelle analisi del cranio. È sottoponendo ad una
vasta rigorosa operazione di misurazione il cervello, che sarebbe stato possibile giungere ad
una classificazione razziale. A dire il vero, la pratica più diffusa consisteva nel raccogliere i
teschi e nel farli recapitare ai musei di antropologia, Quando questo non era possibile si
ricorreva alla fotografia. Riproduzioni di crani, inoltre, relativi a "razze" di particolare interesse,
consentivano ai vari studiosi disseminati in Europa di prenderne visione pur non disponendo
direttamente dell'oggetto. Anche in questo caso, pertanto, la fotografia in quanto ritenuta copia
oggettiva della realtà, fungeva da sostituto della realtà stessa.
La fotografia etnografica:
L'antropologia ottocentesca, non sottopose l'uomo soltanto ad una analisi di carattere fisico-
anatomico, ma estese le proprie ricerche alla cultura materiale (abitazioni, oggetti d'uso
domestico, attrezzi di lavoro, armi, ornamenti, ecc..) ai rituali religiosi, magici ecc..
Compatibilmente con le tecniche dell' epoca che consentivano di fotografare soprattutto
soggetti immobili, la rilevazione fotografica venne utilizzata per fini documentari e probatori sul
versante etnografico. Tutto ciò che non era possibile trasportare in patria o spedire ai musei,
come avveniva regolarmente con gli oggetti poco ingombranti, diveniva di competenza della
riproduzione fotografica. Edifici, villaggi, ecc.. che si sottraevano dalla consueta pratica del
raccogli e spedisci, venivano fotografati. Anche riti, festività, momenti vari di coesione sociale e
di attività di gruppo, di caccia, di lavoro ecc. finirono nell'obietivo di una antropologia sempre
più interessata, con il passare degli anni, ad avviare studi sul fronte più specificamente socio-
culturale andandosi sempre più svincolando dalla matrice antropometrica e naturalistica da cui
si era originata.

Tommy
Antropologia visuale

Antropologia visuale
2.31
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Che cos'è l'antropologia visuale?

L'antropologia visuale, è innanzitutto una


particolare prospettiva di studio, che si inserisce
nel quadro delle discipline demo-etno-
antropologiche. Le prime società scientifiche
dedicate specificamente all'antropologia visuale,
sono sorte negli Stati Uniti, intorno agli anni 70 e
80, per poi diffondersi solo successivamente, e
non proprio subito in Europa.
Un punto di partenza è da individuare nella "
Commission on visual anthropology" ( CVA)
che nel 1989, pubblica la rivista Visual
Anthropology, che rappresenta il primo
tentativo organico di sistemazione teorico-
metodologico dell'antropologia visuale. Da qui,
poi seguirono la SVA - " Society for visual anthropology", anch'essa nel 1990 pubblicò una
rivista dal nome "Society for visual anthropology review. In francia ad esempio nacque la
Societè Francaise d'anthropologie Visuelle ecc..
Solo in Italia non vi fu alcuna società scientifica ed alcuna rivista di antropologia visuale, ma
non mancarono occasioni di confronto, di dibattito, di diffusione e divulgazione: come il
festival dei popoli a Firenze, il (MAV)- materiali di antropologiavisuale a Roma ecc...
L'antropologia visuale , insomma, è riuscita a varcare la soglia delle università e ad ottenere
L'istituzionalizzazione accademica. Ovviamente ciò non è venuto proprio subito, ma è
attraverso le cattedre di antropologia culturale, etnologia, etnografia e di storia delle tradizioni
popolari, che gli antropologi visuali sono riusciti a guadagnarsi un riconoscimento ufficiale.
Prima di iniziare il nostro viaggio, nel tentativo di dare una definizione scientifica
dell'antropologia visuale, credo sia opportuna discutere e approfondire il concetto di visuale.
Secondo alcune ricerche il "Vedere", pur essendo un procedimento di natura fisiologica e
neurologica, non è estraneo ad influenze di carattere culturale. Compito dell'antropologia
visuale da questo punto di vista, è capire quali fattori di natura culturale possono incidere sulla
decodifica delle immagini il cui procedimento fisiologico non è immune da condizionamenti di
carattere socio-culturale.
"Vedere" è una funzione cognitiva essenziale per l'uomo il quale dispone per questo degli occhi.
Gli occhi sono stati ritenuti in varie civiltà, e presso i popoli più disparati, il centro di tutta una
serie di connotazioni simboliche.
TRa gli obiettivi conoscitivi perseguiti dall'antropologia visuale vi è quello di risalire al
complesso sistema di credenze, di pratiche rituali, di attribuzioni simboliche associate nei
diversi contesti storico-culturali, agli occhi, e più in generale alla facoltà di vedere e al concetto
di sguardo.

Dell'antropologia visuale malgrado l'istituzionalizzazione accademica avuta, non dispone di


una definizione univoca. Come direbbe lo storico della scienza Khun, che ha coniato il concetto
di paradigma, l'antropologia visuale si trova in una situazione Pre-paradigmatica, poichè la
comunità scientifica non ha ancora maturato un parere unanime riguardo agli obiettivi
conoscitivi, all'oggetto di studio, al quadro teorico di riferimento, alla metodologia di
ricerca riguardo questa disciplina.
Da questo punto di vista l'antropologia visuale appare come una disciplina:
• Onnicomprensiva - perchè vi possono trovare asilo vari filoni teorici, dunque non può
privilegiare un aspetto rispetto ad altri.
• Provvisoria- perchè disposta a continui ripensamenti e riformulazioni, sia dei propri
obiettivi conoscitivi, che del proprio apparato teorico-metodologico.
Nel 1997 Ugo Fabietti e Francesco Remotti, con il loro dizionario di antropologia culturale,
sociale e di etnologia, provarono a dare una definizione più specifica di Antropologia visuale,
affermando che: L'antropologia visuale deve sviluppare una teoria generale del visivo,
cioè di quel livello di cultura che si offre direttamente agli occhi dell'osservatore e
che della cultura costituisce una chiave di accesso.

Secondo questa definizione, l'oggetto di studio dell'antropologia visuale è da individuarsi:


1. In tutto ciò che in una cultura si esprime visivamente
2. In tutto ciò che è possibile cogliere visivamente
3. In tutto ciò che è possibile registrare e fissare, ovvero trasporre in una adeguata
documentazione scientifica mediante l'impiego di strumenti audiovisuali, quali la
fotografia etnografica, gli audiovisivi e il film etnografico.
Inoltre l'antropologia visuale, si prefigge come obiettivo conoscitivo: quello di giungere ad una
vera e propria teoria del visivo, volta ad analizzare e a decodificare, le forme visibili che le
culture variamente assumono. Proprio per questa caratteristica, è costretta ad un continuo
confronto con altre discipline anch'esse coinvolte nell'analisi del visuale. È inevitabile, dunque,
un dialogo con più approcci multidisciplinari e con metodologie utilizzate nello studio delle arti
figurative, delle iconografie, del teatro, della danza, del cinema e in generale dell'arte.
Proprio la definizione di antropologia visuale fino ad ora considerata invita a riflettere sulle
continue trasformazioni che ha subito il suo oggetto di studio: queste trasformazioni sono
dovute da un lato ai cambiamenti teorici e metodologici, dal'altro a mutamenti che riguardano i
cosiddetti oggetti dell'antropologia, ovvero le società, le culture sempre più investite da
importanti processi di globalizzazione in cui, proprio alle immagini, è riservato un ruolo sempre
più importante.
Da questa situazione di mutamento, si configurano nuove problematiche di studio. Si può
dunque ritenere che l'antropologia visuale debba occuparsi :
• Questione della rappresentazione e della narrazione nel film etnografico.
• Rapporto tra le fonti etnografiche, l'autorità e la conoscenza antropologica.
• Studio antropologico delle emozioni e il ruolo che in esso può svolgere il film
etnografico.
• Dello studio della rete dei simboli e dei significati visibili anche nelle realtà sociali più
vicine a noi.
Uno dei temi esemplari, che ci dimostra ancora una volta, la mutevolezza e la sensibilità
dell'antropologia visuale verso l'apparato comunicativo e l'immaginario collettivo di una
società, in relazione alle immagini e agli strumenti per la loro diffusione, è senza dubbio la
rivoluzione digitale: Uno degli eventi legato a questa rivoluzione, che ha avuto non poche
ripercussioni sull'apparato teorico-metodologico dell'antropologia visuale è la produzione e la
diffusione delle immagini digitali. Non va dunque sottovalutato l'aspetto tecnico, cioè gli
strumenti con cui si documenta l'espressione visiva di una cultura. E, dato che la fotografia
tradizionale, il documentario su pellicola ecc. sono oggi sostituiti da supporti digitali, sia il
concetto di espressione visiva che di registrazione è notevolmente cambiato.
Dunque per antropologia visuale, non bisogna soltanto intendere la riflessione indirizzata
all'utilizzo delle immagini nella ricerca antropologica, quanto l'analisi degli impieghi delle
immagini nei diversi contesti culturali e in relazione agli strumenti utilizzati.
Da questo punto di vista, possiamo ancora una volta ampliare la definizione di antropologia
visuale definendola: quella disciplina che opera da una parte, una riflessione teorico-
metodologica, sulle concezioni, gli impieghi rituali. le attribuzioni simboliche, le procedure di
produzione, conservazione e divulgazione delle immagini nella ricerca antropologica e ,
dall'altra , quale disciplina che si interroga sulle concezioni, gli impieghi, le procedure di
produzione, conservazione e divulgazione delle immagini nei diversi contesti culturali, nonchè
sui diversi significati associati al vedere, al rappresentare e come le società costruiscono il
proprio rapporto con le immagini, di qualsiasi tipo esse siano.
Non sono mancate poi le riflessioni sul fronte strettamente metodologico, legate alla validità
e alle potenzialità euristiche degli strumenti di comunicazione, espressione e
registrazione delle immagini.
Su questo tema hanno avuto una particolare rilevanza gli studi dell'antropologo Lello
Mazzacane che ha cercato di delineare secondo quali coordinate teoriche è possibile
impiegare gli strumenti di registrazione visuale. IN particolare si è soffermato sul rapporto tra
fotografia e ricerca demo-antropologica. Partendo dal presupposto che alcuni aspetti della
realtà si manifestano visivamente, e visivamente sono documentabili, Mazzacane ha
individuato diverse tipologie di fotografie e diverse funzioni associate alla registrazione
fotografica. In particolare l'antropologo distingue tra:
• Fotografia analitica - è quella che isola e riproduce un dato della realtà che è dato
cogliere visivamente. Per esempio, una fotografia di un ex voto donato da un pellegrino
alla divinità, laddove in essa compare soltanto l'ex voto, è una fotografia analitica, in
quanto consente di vedere in modo particolareggiato il tipo di oggetto donato.
• Fotografia sintetica - è quella che riproduce relazioni tra più aspetti che è ancora
possibile cogliere visivamente. Per esempio, una fotografia di un gruppo di fedeli
presenti in un pellegrinaggio, è una fotografia sintetica in quanto restituisce le relazioni
sussistenti tra quelle persone.
• Fotografia analogica - è quella, che attraverso la riproduzione di una quota del visuale
rimanda a qualcosa che non ha alcun referente visuale. Per esempio, una fotografia
riproducente una persona che piange nell'ambito di un pellegrinaggio richiamerà un
determinato rapporto tra quella persona e la divinità, per cui si tratterà di una fotografia
analogica.

Nello stesso saggio, Mazzacane si sofferma su un impiego ulteriore dei dati visuali, quello
basato sui fotoschemi, definibili come: "sistema integrato di immagini" in cui le fotografie
entrano in relazione le une con le altre. Secondo questa modalità di impiego delle fotografie,
ogni imagine dice qualcosa di per sè, salvo che poi tutte insieme dicano qualcosa in più. Mentre
nel primo caso la riflessione teorica di Mazzacane è protesa a capire cosa, ad esempio di una
ritualità festiva sia restituibile visivamente. In questo caso l'obiettivo è di fissare alcune linee
teoriche che servono per impiegare più fotografie in modo integrato.
Anche lo studioso Francesco Faeta si è occupato di tematiche che afferiscono ad una
definizione teorico-metodologica dell'uso della immagini nella ricerca demo-antropologica. Nel
saggio "strategie dell'occhio", l'antropologo segnala alcuni aspetti che connotano l'immagine di
cui la ricerca demo-antropologica deve tener conto come:
• L'attitudine critica
• Il potenziale apocalittico
• Il coefficiente interpretativo.
Secondo quello detto fino ad ora, notiamo come in questa disciplina dalle mille sfaccettature,
acquistano sempre più importanza gli strumenti di registrazione visuale. E dunque il carattere
teorico-tecnico. dell'antropologia visuale. Cioè lo studio delle modalità attraverso le quali la
documentazione visuale prodotta debba essere archiviata e conservata affinchè le
informazioni siano sempre reperibili e potranno poi, essere successivamente divulgate.
Un'altro aspetto dell'antropologia visuale, è quello di impiegare immagini preesistenti al fine di
risalire ed analizzare secondo quali modalità queste siano state concepite, prodotte ed
impiegate nelle diverse culture e nei diversi contesti sociali.
Nella società post-moderna e multimediale, per esempio, si è diffusa nella popolazione l'utilizzo
di strumenti di registrazione visuale che copre i momenti più disparati della nostra vita
quotidiana (compleanni, matrimoni, gite ecc..). Il fatto di ricorrere alla macchina fotografica o
alla telecamera, nell'intento di riprodurre ad immortalare tutto ciò che è ritenuto degno di
essere ricordato e non disperso. L'antropologia visuale , in questo caso, assume quale proprio
campo di indagine lo studio delle modalità attraverso le quali in determinati contesti storico-
culturali si fa ricorso a mezzi di registrazione audio-visuale. L'obiettivo conoscitivo è quello di
capire cosa sia ritenuto riproducibile visivamente, e quali impieghi di queste immagini venga
fatto.

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