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ARCHEOLOGIA

Ch 1 – il paniere dell’archeologo

Con la parola archeologia solitamente si intende qualcosa che appartiene ad un passato molto distante da
noi, il passato però non coincide più con l’antico e in questo l’ archeologia diventa uno strumento di
conoscenza in se applicabile a più sistemi di fonti. L’archeologia quindi differisce dalla storia non per il
periodo di tempo che viene studiato, che è lo stesso, ma per il tipo di documenti sottoposti a tale studio e
conseguentemente ai metodi che vengono applicati per ricavare informazioni da tali documenti.

Il documento da testimonianza e può insegnare qualcosa, in archeologia il tipo di documento studiato è


principalmente materiale e si dividono in manufatti ed ecofatti; possono essere veri e propri monumenti,
costruiti per durare nel tempo o molto più spesso semplici reperti involontari ritrovati nella pluralità degli
insediamenti umani.

Il reperto implica un’attività di reperimento e quindi un metodo di ricerca, un reperto per diventare
documento implica un’attività di studio quindi un metodo di analisi che renda possibile un’interpretazione
che gli dia un significato. Ci si deve quindi porre davanti ad un reperto come davanti ad un testo scritto per
trarre dai suoi aspetti materiali i messaggi di cui è portatore, bisogna porgli una serie di domande: l’autore,
quando è stato prodotto ecc. il lavoro dell’archeologo è quindi come quello di un traduttore.

Quando si parla di reperti bisogna prendere in considerazione anche il contesto cioè la situazione in cui uno
o più oggetti si presentano in un sistema coerente in cui le diverse componenti si collocano in un rapporto
reciproco nello spazio e nel tempo sulla base di relazioni di carattere funzionale. Ogni componente di un
contesto, dal più semplice al più complesso, ha un senso in se ed un valore acquisito dato dalle sue relazioni
nel contesto. Ogni componente va analizzata nelle sue caratteristiche proprie (valore intrinseco del
contesto) e nelle relazioni che definiscono la sua funzione nel contesto (valore estrinseco del contesto).
Spesso contesti che non sono integri possono essere interpretati alla luce di altri sistemi di tracce lasciate
da realtà diverse da quelle che si stanno interpretando.

L’archeologo indaga su contesti tridimensionali, le stratificazioni ordinate in sequenza da una quarta


dimensione, il tempo; questa stratigrafia va ricostituita distinguendo le componenti materiali e quelle
immateriali (mela-morso-torsolo).

L’archeologia si occupa di come gli esseri umani hanno costruito il loro comportamento , hanno comunicato
e costruito conoscenza. I resti archeologici sono i fossili del comportamento umano e delle infinite azioni
prodotte dagli abitanti di questo pianeta.

L’archeologia planetaria

Dalla metà degli anni ’90 molti cambiamenti hanno investito l’archeologia modificando e ampliando i suoi
precedenti obiettivi: l’arco di tempo ce prima era solo dell’antico viene allungato a tutta la storia
dell’esperienza umana, dal vecchio continente all’intero pianeta, dagli aspetti culturali a quelli
antropologici e ambientali.

L’archeologia storica e contemporanea

L’ultimo secolo è stato caratterizzato da un’impostazione storica della ricerca archeologica. L’archeologia
storica è quella che si occupa di quelle civiltà che, a differenza di quelle preistoriche, possiedono un
patrimonio di fonti scritte oltre che materiali. Si tratta della historical archeology di oltreoceano che tratta
di tutta la storia culturale prima dell’avvento della scrittura.

Si può però considerare fonte archeologica non solo ciò che viene recuperato con una tecnica archeologica,
ma anche ciò che può essere studiato mediante un metodo archeologico; in questo senso l’archeologia non
si limita più a studiare esclusivamente oggetti antichi, ma può essere applicata con successo anche in
contesti contemporanei (garbage prohect 1974).

Materialità, testualità, oralità

durante la ricerca archeologica possiamo usare di volta in volta fonti e dati di natura diversa: scritti,
materiali e orali, integrandoli una con l’altra o confutando le ipotesi di uno con i dati forniti da un altro. Si
deve considerare però il fatto che tutte i tipi di fonti omettono qualche tipo di informazioni e per tanto è
opportuno porle tutte sullo stesso livello, anche se l’archeologia si avvale principalmente di due di esse: le
testimonianze scritte e materiali. Nell’ambito della historical archeology si tende ad integrare le fonti scritte
con quelle materiali con lo scopo di ridare voce alle persone senza storia: quelle persone invisibili nei testi
scritti e rese accessibili dallo studio dei resti materiali. Nella storia contemporanea ovviamente influisce
molto anche il sistema di fonti orali, che a diversamene da quelle materiali, colpiscono aspetti diversi della
nostra capacità di immaginazione (tizia del castello giapponese).

I metodi

L’indagine dei resti materiali prevede un preciso percorso che parte dall’individuazione, passa per la
raccolta, la descrizione e l’organizzazione dei dati, ed ha come fine ultimo un’interpretazione storicamente
valida. Tutti i metodi archeologici studiando l’oggetto in modo diverso, in ogni suo diverso aspetto, ci
permettono di tradurre il suo linguaggio e di ottenere diversi tipi di informazioni.

- Ricognizione topografica: procedure che registrano quantità e qualità di tracce visibili al suolo.
- Stratigrafia: studia la stratificazione prodotta nel terreno da agenti umani e naturali, raccontando
una storia prima nel tempo relativo e poi inserita in quello assoluto.
- Crono-tipologia: analizza i manufatti nelle loro forme e funzioni in base ai diversi attributi che li
caratterizzano disponendoli in serie cronologicamente significative.
- Iconografia: studia le forme figurate descrivendo le immagini e interpretandole a seconda delle
caratteristiche di ognuna.
- Stilistico: analizza le forme dal punto di vista del modo, tecnico ed estetico, secondo cui sono stati
creati.
- Metodi delle scienze naturali: che elaborano le classificazioni di tipo botanico, zoologico e
antropologico.
- Metodi archeometrici: indagano la natura fisica e chimica osservando la materia al suo interno e
descrivendola basandosi sui suoi dati quantitativi.
- Archeografia: il momento descrittivo della ricerca, in cui, parallelamente all’archeomteria, si
osserva l’oggetto.

La sintesi di questi metodi è poi l’archeologia in se, il cui scopo è quello di interpretare i resti matriali
rinvenuti. Nel corso della ricerca ogni metodo porta a risposte diverse e, se non sono utili per tale ricerca,
occorrerà cambiare metodo per avvicinarsi sempre di più ad una verità che non sarà mai definitiva, ma
potrà aprire la strada a nuove domande e nuovi orizzonti facendo continuare a vivere l’archeologia.
Il ragionamento interpretativo in archeologia procede spesso per esclusioni, si verifica un’ipotesi e se è
negativa si scarta e si procede con una nuova ipotesi, restringendo il campo delle possibilità e avvicinandosi
il più possibile ad un’interpretazione corretta dell’oggetto in questione.

Questi metodi sono quindi definiti il minimo comun denominatore in quanto, una volta riconosciuto il resto
materiale come oggetto privilegiato di indagine, il bagaglio di teorie, concetti e metodi che si applicano sia
sul campo che in laboratorio è comune e mondialmente condiviso.

Archeologia e antiquaria

L’archeologia classica fa parte di quella storica, ma non nasce dalla storia bensì dall’antiquaria e dalla storia
dell’arte. Già in età antica si parlava infatti di archeologia riferendosi alle cose risalenti ad un passato
remoto e che potevano, con la loro autorevolezza fornire prestigio e autorità a tradizioni, culti e
ricostruzioni storiche (sepolture a Salamina, megaresi vs ateniesi). Durante il rinascimento i primi antiquari
non erano mossi da temi storiografici precisi e si limitavano a descrivere gli oggetti antichi e i monumenti
catalogandoli in sistemi poco efficaci. Si cercava poi l’illustrazione delle opere descritte da qualche autore o
specialmente dalla Bibbia che fino all’età moderna è il testo chiave per la ricostruzione storica del passato
dell’umanità nonostante fornisca una prospettiva molto schiacciata del tempo.

Il termine archeologia viene introdotto per la prima volta da Jaques Spon, un antiquario di fede protestante
il quale paragonava gli oggetti antichi a libri, scritti con pietra e scalpello e che avevano quindi solo bisogno
di essere interpretati.

Originale, copia e falso

Dal punto di vista storico e critico la copia ha lo stesso valore dell’opera d’arte originale e gode più o meno
degli stessi diritti. Diversamente per il falso, ritenuto tale solo dopo aver constatato l’intenzione dolosa che
ne è all’origine, può avere in se caratteristiche della copia, ma è ritenuto un nuovo originale che va
analizzato nella sua falsità. In archeologia comunque ci si imbatte principalmente in copie ovvero i prodotti
della lavorazione in serie, come anche le copie di età romana di statue greche. Sia copie che falsi in
archeologia hanno lo stesso valore e devono quindi essere trattati allo stesso modo come documenti e
quindi sottoposti agli stessi metodi di indagine.

Tipologia, tecnologia, stratigrafia

Il passaggio tra ‘700 e ‘800 ha segnato la nascita dell’archeologia moderna: si sviluppa infatti un triangolo
virtuoso che ancora oggi sostiene l’impalcatura dell’archeologia; un triangolo che attraverso l’analisi
tipologica, tecnologica e stratigrafica guida l’interpretazione degli oggetti e dei contesti.

Già nel ‘700 il conte Caylus aveva sviluppato un metodo di classificazione e disposizione cronologica che si
basava sulla pratica del confronto. Confrontando diversi oggetti provenienti da diversi contesti si può infatti
arrivare a dedurne la funzione originaria.

Negli anni della restaurazione si verifica la vera e propria svolta: vengono create cattedre di archeologia
nelle maggiori università, la traduzione di Champollion apre ufficialmente l’archeologia orientale e Christian
Thomsen, nel museo di Copenaghen idea la divisione delle tre età, sempre basandosi su un confronto
tipologico.
Ch – 2, arte, storia e archeologia

Storia dell’arte e cultura materiale [archeologia e st dell’arte -.-]

Nel ‘700 Winkelmann da una nuova svolta allo studio dei resti dell’arte classica filtrandoli attraverso
un’analisi stilistica e cronologica. Si comincia così a d identificare l’archeologia classica con la storia dell’arte
antica con l’introduzione di un’ottica stilistica calata in una prospettiva cronologica che aiutava l’antiquaria
a collocare in un determinato lasso di tempo le opere d’arte antiche. Solo nel ‘900 però, grazie a Bianche
Bandinelli si avrà un concezione storica della disciplina archeologica e artistica in quanto lo storico dell’arte
ridefinisce il ruolo dell’arte inserendolo nel contesto storico e sociale che ha prodotto l’opera d’arte in se
(per i greci la scultura come la pittura ad esempio non era considerata una vera e propria forma di arte,
basti notare che nessuna delle nove muse si riferisce a queste discipline). Bisognava cogliere meglio i nessi
che intercorrono tra produzione artistica, in tutti i suoi aspetti formali, e contesto storico e sociale.

In questo senso diviene centrale lo studio del dato materiale, sempre però senza abbandonare la
componente stilistica dell’opera d’arte , spesso uno degli elementi principali che consentono la datazione
dell’opera (nonostante il metodo stilistico sia molto soggettivo e derivato dalla sensibilità critica dello
studioso). Il riconoscimento dello stile è un’operazione infatti molto complessa, resa a volte difficile
dall’imitazione e dalla falsificazione; non vuol dire però che non esistano stili ben definiti e collocati
cronologicamente (es. età arcaica, classica ed ellenistica dell’arte greca).

Si può quindi definire una storia sociale dell’arte, attenta alle condizioni della produzione artistica: la
posizione sociale dell’artista, i contesti in cui opera e i committenti; tutti elementi che non possono essere
indagati stilisticamente, ma solo archeologicamente. Una sorta di storia archeologica dell’arte che integra i
metodi tradizionali con le procedure proprie dell’archeologia. Abbiamo ad esempio un approccio
stratigrafico al manufatto stesso che permette di individuare le varie giornate di un affresco, i ripensamenti
di un pittore o di uno scultore. In questo modo si indaga il manufatto con metodi archeometrici che
possono dare risposte che un approccio stilistico non è in grado di dare: quali materiali sono stati usati, che
tecniche l’artista ha impiegato ecc. Bisogna infatti considerare tutti i manufatti artistici come dei prodotti
del lavoro umano.

Conseguentemente anche il lavoro di restauro diventa un’attività di conoscenza fondamentalmente


archeologica: il restauratore deve avere conoscenza della materia dell’opera d’arte e del modo in cui è
stata trattata nel momento della sua creazione (materiale e tecnica) e delle successive modificazioni che
può aver subito durante la sua esistenza.

L’approccio archeologica alla storia dell’arte in sintesi consente di inserire le opere d’arte all’interno
dell’alveo della cultura materiale, cioè dei saperi e del saper fare relativi alle forme di approvvigionamento,
scelta, manipolazione, uso e riuso, scarto della materia, ovvero quei processi culturali di formazione studiati
in archeologia che hanno alla base il comportamento dell’uomo. La cultura materiale non può quindi essere
in alcun modo separata da quella artistica o figurativa (anche gli antichi sapevano ad esempio che il talento
artistico non poteva fare a meno della qualità della materia prima) che non può essere considerata solo uno
studio delle forme e degli stili, ma deve arrivare ad indagare il pensiero dell’uomo che si riflette nel suo
agire tecnico [si arriva così a poter definire l’archeologia come storia del comportamento umano].

I massaggi che ci offre un’opera d’arte però sono ovviamente al di là della materia dell’opera e della sua
forma, ma il fenomeno artistico, nonostante sia di comprensione universale, ha comunque maggior
significato, o forse un significato più corretto, se viene interpretato alla luce della cultura materiale del suo
tempo e riportato in nel contesto di origine in virtù della sua natura di fenomeno storico calato nel tempo e
nello spazio.

Come ci sono due tempi della storia abbiamo anche due tempi della storia dell’arte: l’evento che introduce
una novità, fa voltare pagina (come l’invenzione dell’agricoltura o della polvere da sparo) e la lunga durata
delle trasformazioni durante le quali l’invenzione diventa convenzione, prima di essere sconvolta da
un’altra invenzione.

La storia dell’arte in quanto disciplina ha delle sue proprie finalità e procedure che non coincidono con
quelle archeologiche. Dovrebbe invece coincidere con lo studio delle società che hanno prodotto
determinate opere d’arte e in questo senso può essere legata all’archeologia.

Archeologia e storia

L’archeologia può essere definita una disciplina storica (e antropologica) in quanto si occupa di indagare il
passato dell’uomo, differisce però dallo studio della storia tradizionale (che avviene attraverso le fonti
scritte) in quanto si occupa di documenti materiali. Si tratta di due fonti diverse e complementari e
addirittura inscindibili quando si parla di reperti come monete o iscrizioni. Per quanto riguarda la preistoria
e la protostoria, ma anche alcune fasi del medioevo, le fonti materiali sono tutto ciò che ci resta, a
differenza di un’età classica in cui abbiamo sia fonti scritte che materiali e di una contemporaneità in cui si
possono aggiungere anche quelle orali.

Il problema è quindi il modo in cui questi due diversi sistemi di fonti interagiscono tra loro. Non possiamo
quasi mai ad esempio ricondurre un resto materiale a conoscenze storiche relative ad assetti sociali o
istituzionali della comunità, al comportamento dei suoi membri o ad eventi che abbiano interessato una
singola persona. Bisogna considerare anche che solitamente le due fonti registrano serie di dati che
possono collocarsi in prospettive temporali non omogenee, i resti materiali in particolare fanno luce su
situazioni puntuali che possono poi portare alla conoscenza di processi di lunga durata che riflettono le
profonde strutture della società. I due sistemi devono quindi essere separati senza però smettere di
dialogare tra loro.

La certezza del dato storico infatti non implica un suo riscontro archeologico, come il ritrovamento di un
resto materiale non implica la certezza della sua spiegazione che è affidata all’archeologo che deve
individuare, classificare e interpretare gli indizi del contesto confrontandoli con un sistema di conoscenze
più ampio. Si può affermare che le fonti archeologiche dipendano dal testo scritto in quanto lo verificano
essendo esse prove materiali (Schliemann che scava Troia e Micene); soltanto nello scorso secolo il
concetto di documento si è pienamente esteso anche alla fonte materiale allargando così il territorio di
ricerca dello storico anche alla società e al comportamento umano.

Ci sono fenomeni maggiormente accessibili con l’archeologia (tecnologia, sussistenza e scambio) e la scala
delle difficoltà sale mano a mano che si cerca di cogliere attraverso le fonti materiali dati riguardanti
organizzazione politica e sociale o mentalità ed ideologia della società. Elementi come la pianificazione
dello sviluppo urbano, l’assegnazione di terre, il decentramento del potere in ambiti locali e l’ampliamento
del territorio possono essere indagati grazie a fonti materiali e a volte partendo proprio da esse.

In parallelo con le fonti scritte (quando sono disponibili) si possono poi analizzare:

- I rapporti gerarchici esistenti tra i diversi siti e le aree assoggettate al controllo di un particolare sito
e per quanto tempo.
- I diversi modelli di insediamento classificando gli abitati in base alla dimensione, investigando la
stratificazione sociale in base allo studio delle residenze analizzando l’architettura degli edifici, la
tipologia degli spazi, la qualità dei materiali impiegati nell’opera di costruzione.
- Le strutture produttive e le reti di scambio attraverso lo studio degli impianti di produzione e
ricavando informazioni anche sulle interazioni non solo economiche ma anche politiche e militari.
- L’articolazione degli status sociali, ricavabile dalle tipologie di residenze, dalla quantità e qualità
degli arredi e soprattutto dalle sepolture.

Archeologia, storici e antropologia

Come abbiamo già detto archeologia e storia hanno le stesse finalità e divergono solo nelle diverse fonti
che vengono utilizzate. Queste due discipline devono però lavorare in parallelo facendo si che la ricerca
storica confronti i propri quadri ricostruttivi con quelli archeologici e viceversa la ricerca archeologica si
occupi di elaborare dati intorno a problemi significativi.

In questo contesto anche l’antropologia si trova legata con le altre due in quanto si occupa dello studio
dell’umanità nei suoi caratteri non biologici cioè dei suoi aspetti culturali riuscendo a distinguere una
società dalle altre solo sulla base dei diversi comportamenti dei suoi membri. Gli antropologi possono però
condurre le proprie ricerche sulle comunità preistoriche ancora esistenti, possibilità totalmente negata agli
archeologi che tentano di descrivere la vita e il comportamento di una società antica solo in base alle tracce
materiali che ha lasciato dietro di se; in questo senso l’archeologia è stata definita il passato storico
dell’antropologia culturale.

Lo studio delle culture storiche che avviene attraverso l’archeologia e le fonti scritte quindi, può trarre
grande giovamento anche da un’ottica più antropologica che può far luce sui meccanismi del
funzionamento della società umana.

Archeologia, archeologie, classicità

Gli studi archeologici avendo un raggio d’azione planetario hanno ben presto finito per dividersi in diverse
branche, ognuna con un limite geografico e cronologico a cui fare riferimento, una frammentazione che
rende difficile la comunicazione tra le varie branche del sapere archeologico.

Tutte le diverse “archeologie” però prendono il via dai così detti quattro grandi fiumi dell’archeologia:

1- La preistoria: che trae origine dalle scienze naturali.


2- L’archeologia classica e delle civiltà antiche: che si basa sulla storia dell’arte e sulla filologia.
3- L’archeologia post-classica: che si sviluppa dall’alveo della storia.
4- L’archeologia dei nuovi mondi: originata dall’antropologia.

Ch 4 – una metafora biologica (??? .-.)

Le domande dell’archeologo

Le tracce del passato si presentano sotto forma di vestigia immobili e oggetti, ovvero reperti mobili.
Metodologicamente parlando non c’è differenza tra queste due categorie in quanto ogni oggetto o
contesto può essere indagato mediante specifiche domande.
Ogni evento si produce in un momento determinato, quindi ogni oggetto ha una nascita, e poi una vita
durante la quale funziona e svolge la sua funzione; abbiamo poi il momento della morte, dello scarto9 che a
volte è seguito da una rinascita, ovvero il riuso.

1- La nascita: chi, cosa, perché?

La prima domanda da porsi quando si studia un oggetto è di cosa si tratta? La seconda sarà poi a che cosa
serve, qual è la sua funzione? E conseguentemente perché è stato creato. Per alcuni oggetti è molto difficile
stabilirlo: avevano infatti una funzione precisa nella società che li ha prodotti, ma a noi, senza lo stesso
sostrato culturale, non dicono nulla. Il perché è stato creato implica immediatamente il coinvolgimento del
lavoro umano, ma quando si tratta di un contesto come un relitto di nave in fondo al mare, o le ceneri di
Pompei, la domanda giusta è come o perché si è formato questo contesto poiché archeologiacamente
parlando nulla in una stratificazione è privo di significato.

2- Materie prime e tecnologie: come?

La domanda implica il materiale di cui è stato fatto l’oggetto in questione e le tecniche utilizzate durante il
processo formativo (si ha quindi anche una ricostruzione del processo formativo stesso). Ad esempio ogni
testimonianza epigrafica è subordinata al supporto materiale che la conserva e che a seconda del tipo
determina il processo con cui è avvenuta la creazione dell’oggetto in questo caso il metodo di scrittura in
quanto la qualità della materia influenza le tecniche di scrittura. Analizzando le tecniche produttive
possiamo quindi arrivare ad interrogarci sul sistema di conoscenze che presiede alla produzione
dell’oggetto, cioè le tecnologie produttive.

Abbiamo detto che pensando al come ci si interroga sulla natura della materia di cui è fatto l’oggetto o che
è alla base del fenomeno che si è prodotto (processi produttivi o formativi *metodologia). La scelta della
materia prima e del processo produttivo da applicare a quella materia possono poi offrire conoscenza su
altri aspetti dell’oggetto come la sua cronologia o la società e il contesto culturale che l’ha prodotto.

Se solitamente per indagare la materia bastano metodi empirici, a volte è necessario ricorrere a metodi più
scientifici che consentano di analizzare nel profondo la materia non solo per determinarne la natura, ma
anche le qualità specifiche.

3- Forme e funzioni: come?

Alla domanda com’è fatto si può rispondere anche con la forma dell’oggetto, essendo la forma, insieme alla
materia, una delle componenti fondamentali dell’essenza stessa delle cose. A volte poi una determinata
forma può dare informazioni sul perché è stata creata quindi rispondere alla domanda a che cosa serve?.
Nella forma sono impliciti significati che possono esprimere identità e valori, mentre altre forme assumono
significati storici e culturali; attraverso la forma di un oggetto infatti entriamo in rapporto con l’epoca di cui
fu propria.

Inoltre una volta inventata una data forma, per rispondere ad esigenze funzionali o estetiche, entra nel
patrimonio culturale non solo della comunità che l’ha prodotta, ma anche di tutte le comunità future
(piramide); una volta entrata nell’uso infatti una data forma può essere temporaneamente dimenticata, e
venire poi riproposta appena si presentano le opportune condizioni tecnologiche o culturali.

- Forme e tipologie
Una delle parti principali del lavoro dell’archeologo si basa sul principio che gli oggetti vanno divisi
attraverso le loro forme e in base ed esse classificati creando un repertorio con il quale si possano poi
compiere dei confronti (fra oggetti coevi in siti diversi o oggetti di età diverse presenti in uno stesso sito).

Il metodo tipologico fu una delle maggiori svolte del XIX, ideata da Oscar Montelius. All’interno del metodo
coesistono due ottiche: una più formalista attenta alla descrizione morfologica degli oggetti e l’altra più
funzionalista attenta ai processi tecnici e sociali della produzione e dell’uso. Nelle procedure di
classificazione si intende la classe come una popolazioni di oggetti con caratteristiche condivise e il tipo
come la popolazioni con attributi di materia, forma e decorazione ricorrenti insieme.

Il criterio tipologico si basa su due idee fondamentali: che gli oggetti in circolazione in un determinato luogo
e una determinata epoca possiedono caratteristiche di forma e funzione riconoscibili e che i mutamenti di
questi oggetti sono principalmente graduali (anche se possono coesistere stili diversi in un dato periodo e
area geografica).

- Forme e decorazioni

Questo genere di osservazioni si applicano anche ad aspetti formali che non riguardano la morfologia
dell’oggetto, ma un altro tipo di attributo più qualitativo che quantitativo. Ogni oggetto infatti oltre a
materia e forma può presentare anche una decorazione che può arricchire entrambi gli aspetti; si tratta di
un attributo prettamente non funzionale, ma che ha grandi risvolti nella pratiche sociali.

La decorazione può essere bidimensionale: grafico-pittorica, o tridimensionale: plastica e incidere in questo


caso anche sulla forma dell’oggetto. La decorazione è un attributo che può essere semplice, complesso o
fantastico e la sua funzione si esplicita in piani diversi che coinvolgono diversi livelli delle relazioni
interpersonali. Nel momento in cui viene scelta comunque ogni decorazioni comunica un preciso
messaggio, anche se col tempo e la riproduzione tale messaggio può gradualmente perdere o cambiare
significato.

Decorazioni e immagini, l’iconografia

Il messaggio delle scene figurate è ovviamente più complesso di quello di semplici decorazioni lineari o
geometriche. Da quando esiste l’uomo ci sono stati infiniti modi per rendere l’idea del corpo umano,
dell’essere umano, ma nonostante questo enorme repertorio di raffigurazioni, è possibile cogliere piuttosto
velocemente il significato di una singola rappresentazione grazie a dei caratteri particolari, degli attributi o
delle posizioni che caratterizzano delle date immagini in un modo ormai codificato e facilmente
riconoscibile, si tratta appunto dell’iconografia. Sappiamo che ovviamente, durante il corso della storia,
alcune iconografie hanno perso il loro significato originario per assumerne un altro (per lo più succede con
la reinterpretazione cristiana) come la madonna e l’isis lactans, o il Cristo e il maestro filosofo o le vittorie
alate con gli angeli, ma anche reinterpretazioni di luoghi come la prime chiese cristiane che sorgono su siti
di antichi templi pagai. Si tratta insomma di scambi che a volte hanno permesso la trasmissione di un’opera
che sarebbe altrimenti andata persa.

Il metodo iconografico aiuta quindi a comprendere il significato delle immagini e a fare luce sul come si
siano trasmesse fino a noi, talvolta modificando il loro significato. A questo fine nell’800 Giovanni Morelli
mise a punto una metodologia con la quale era possibile identificare anche lo stile degli autori e la sua
evoluzione, grazie e piccoli particolari.
In ogni caso anche se le figure parlano un linguaggio comprensibile ai più, e anzi sono state sviluppate
proprio per divulgare messaggi nelle classi inferiori della popolazione, per il loro studio è indispensabile una
cultura specifica che prevede familiarità anche con i testi e i codici culturali del mondo che produceva e
usava quelle immagini.

Decorazione e immagine, lo stile

Analizzando una decorazione dobbiamo prestare attenzione anche al modo in cui è stata fatta ovvero lo
stile (in passato chiamato maniera) con cui si indica un insieme di scelte e di procedimenti operativi che
possono essere sia individuali (frutto di una sola personalità artistica) o collettivi. Due opere che presentano
lo stesso soggetto avranno uno stile diverso se appartengono a secoli diversi, ma potrebbero avere uno stile
diverso anche essendo coeve. Lo stile infatti attiene la soggettività del produttore, dell’epoca o del contesto
culturale, ovvero esprima la personalità di un singolo artista o il gusto condiviso.

In archeologia il concetto di stile si utilizza per lo più al di fuori delle valutazione estetica, aiuta comunque a
collocare i reperti nel tempo (un campanile romanico non può appartenere alla Grecia antica). Si tratta
comunque di un metodo molto meno controllabile di quello tipologico in quanto indaga gli elementi
qualitativi dell’oggetto e non quelli quantitativi.

Chi l’ha fatto?

Si tratta di una domanda che mette in connessione con il singolo individuo o il gruppo sociale connesso alla
produzione dell’oggetto analizzato. È difficile dare una risposta di tipo individuale (solo se reca la firma
sappiamo con precisione chi l’ha realizzato); anche se la produzione in serie è prerogativa del mondo
moderno, nell’antichità gli oggetti di maggior uso, come ad esempio le lucerne, erano prodotti da una gran
quantità di schiavi in una catena di produzione molto simile a quella industriale. Con questa domanda
dicevamo si entra nel vivo della condizione umana dei singoli individui: non ci sono testi scritti riguardo il
lavoro degli schiavi o le fasi di produzione delle anfore, tutto quello che sappiamo deriva dallo studio dei
resti materiali giunti fino a noi.

Messaggi testuali

Una grande quantità di manufatti recano delle scritte testuali, lucerne o mattoni ad esempio, messaggi che
possiamo considerare il punto di unione tra l’archeologia e la filologia. La presenza di una scritta può
aiutare a rispondere a delle domande specifiche, alle quali altrimenti non si potrebbe dare risposta: chi ha
fatto il prodotto, chi ne era il proprietario, di che prodotto si tratti ecc. Non sempre però danno
informazioni utili all’archeologo (pietra tombale qui giace Antonio), si tratta quindi di messaggi selettivi
poiché restituiscono l’informazione che colui che lo ha pensato voleva trasmettere.

Dove?

Questa domanda è relativa al luogo di origine dell’oggetto o al luogo di formazione del contesto indagato.
Nel caso del contesto la risposta è ovviamente dove si trova, ma nel caso degli elementi che lo compongono
non è altrettanto facile: ogni oggetto prevede una lavorazione, ma non possiamo sapere se tale lavorazione
è avvenuta nel luogo di provenienza della materia prima ecc.

Si potrebbe rispondere in modo certo se la tecnica di produzione o la materia fosse indicatrice di un


particolare luogo e di produzione (come le sete cinesi), ma non possiamo escludere che la materia prima
venisse trasportata per essere lavorata altrove.
Possiamo però collocare gli oggetti in un’area secondo una classificazione tipologica: se abbiamo prove che
un determinato tipo di anfora sia proprio di una data regione, possiamo presupporre che quel tipo di anfora
ritrovato in un altro luogo provenga da lì. In questo caso bisogna però considerare l’ipotesi della copia, le
forme infatti si possono facilmente imitare, bisogna quindi evidenziare quei dettagli che distinguono
l’originale dalla copia.

Molto utile è la fonte scritta che, anche se spesso non riporta il luogo di origine, può ricondurre l’oggetto ad
una determinata area. Anche la fonte3 scritta può essere però manomessa, come ad esempio un falso
marchio di fabbrica. Questa fonte, come le precedenti, deve quindi essere messa al vaglio e verificata. A
questo fine possiamo utilizzare le tecniche scientifiche che guardando gli oggetti dall’interno ci danno ad
esempio informazioni sulla materia prima a cui attingeva l’impianto di produzione.

Tutti questi tipi di fonti devono quindi essere studiate parallelamente per arrivare ad avere
un’interpretazione il più accurata possibile.

Quando?

Poiché la storia è fatta di episodi calati all’interno del tempo, alla domanda quando? dobbiamo rispondere
con una data (e a volte anche con l’ora e i minuti) o con una partizione di tempo più ampia fatta di anni,
secoli e millenni. Anche se si potrebbe pensare che gli eventi a noi più vicini possono essere meglio datati
non è spesso così: possiamo arrivare ad avere una cronologia assoluta che riguarda l’antica Roma e non
averne per quanto riguarda l’alto Medioevo; non si tratta quindi di un problema di vicinanza al presente,
ma di qualità e quantità di sistemi di fonti che si hanno a disposizione.

In archeologia la datazione di un reperto può avvenire grazie a caratteri culturali (tipologia, stile ecc.), ma
anche attraverso strumenti scientifici che analizzano l’oggetto e trasformano i dati ricavati in date
temporali: abbiamo ad esempio gli orologi radioattivi come il radiocarbonio o carbonio 14,
l’archeomagnetismo o la dendrocronologia che appartiene invece alla bioarcheologia.

La cronologia assoluta è quindi la meta della ricerca cronologica, e grazie ad essa è possibile arrivare ad
un’interpretazione di tipo storico. Ma in un contesto stratigrafico l’età della sua formazione non è affatto
evidente, bisogna quindi cominciare con un’analisi di cronologia relativa per poi averne una assoluta,
sempre però verificando l’una con l’altra.

Quando quindi ci si appresta a datare i contesti di uno strato si comincia cercando di ricavare i termini della
cronologia del suddetto strato ovvero il terminus post quem (la data dopo la quale lo strato potrebbe
essersi formato) e il terminus ante quem (la data prima della quale lo strato potrebbe essersi formato).
Bisogna però anche ricordare che la datazione di un elemento del contesto strato non necessariamente
serve a datare lo strato nel suo complesso: c’è la possibilità infatti di trovarsi di fronte ad un oggetto più
antico rilavorato e rimaneggiato.

Non poi certo che gli oggetti ritrovati nello strato possano fornirne la cronologia: ciò dipende solamente
dalle conoscenze che abbiamo in quel particolare settore di oggetti in quella particolare area geografica. La
maggior parte delle cronologie degli oggetti creati dall’uomo infatti viene creata attraverso un lungo e lento
lavoro di datazione nel quale si incrociano i dati relativi alla stratigrafia e alla tipologia.
Usi e usure

Bisogna poi passare a trattare della vita dei contesti e quindi degli oggetti che lo compongono. I manufatti
solitamente presentano la traccia dell’uso che ne veniva fatto: si tratta solitamente di una perdita di
materia che ha una grande rilevanza per quanto riguarda l’interpretazione dell’oggetto stesso e di tutta la
sequenza stratigrafica.

Nell’architettura storica ad esempio le tracce d’uso sono fondamentali per ricostruire la storia del
monumento stesso. Gli usi però non incidono soltanto sul singolo oggetto, ma forniscono indicazioni anche
sulla comunità che lo utilizzava: come veniva usato un bicchiere, un aratro o una casa, ad esempio fa parte
di una serie codificata di esperienze e comportamenti tipiche di un particolare gruppo sociale.

Oltre all’analisi culturale della comunità poi, dalle tracce dell’uso possiamo anche riuscire a ricavare la
funzione dell’oggetto stesso (qualora non fosse di facile comprensione per l’archeologo) come ad esempio
avviene con i manufatti litici dell’età preistorica.

Riusi e reimpieghi

I manufatti possono conoscere delle modalità d’uso successive e diverse da quelle originariamente previste.
Le tipologie di riuso sono molteplici e spesso molto fantasiose: abbiamo ad esempio il riutilizzo di ossa
animali come aghi oppure di sculture antiche reimpiegate come elementi di costruzione o rimaneggiate per
creare una nuova scultura.

È però nell’ambito dell’architettura che troviamo la più ampia casistica di reimpiego di manufatti (vengono
definiti spogli): abbiamo infatti materiali dell’edilizia riutilizzati in strutture di epoche posteriori in cui
mantengono la stessa funzione (colonne) oppure ne hanno una nuova (rilievi sulle facciate delle chiese).

Il riutilizzo comunque è una pratica propria delle cultura preindustriali. Le società consumistiche di oggi
hanno perso il concetto di reimpiego, ma in quelle antiche prima di gettare un oggetto (frutto di lavoro e
fatica) lo si riutilizzava il più possibile.

Damnatio memoriae

Questa pratica può essere applicata su monumenti e statue come anche su testi scritti. Non coincide però
sempre con il desiderio di cancellare il ricordo di un personaggio o di un simbolo, qualche volta assume il
ruolo positivo di risparmio dovuto al cambiamento delle condizioni economiche e tecniche, come ad
esempio quando viene cambiato il nome nelle statue o nelle dediche di opere importanti.

Possiamo considerare una sorta di damnatio memoriae anche la decontestualizzazione. Nelle gallerie d’arte
del ‘600 ad esempio troviamo moltissimi pezzi antichi e studiandoli possiamo sapere da dove provengono e
magarti anche chi li ha costruiti, ma non sapremmo mai nulla del contesto in cui sono stati ritrovati poiché
non abbiamo nessuna documentazione al riguardo.

La morte e la rinascita

Per definizione un contesto si indaga nel luogo in cui si è formato, ma molto raramente gli elementi che lo
compongono hanno avuto origine in quello stesso luogo. Quando il contesto si forma possiamo dire che
l’oggetto in questione “muore”, non dal punto di vista fisico, ma da quello funzionale; la sua esistenza
subisce un’interruzione di durata imprevedibile fino al momento in cui viene riscoperto e quindi “rinasce”,
momento che generalmente coincide con un radicale cambio di funzione.
Il cambio di funzione può avvenire in due modi: il primo è il reimpiego e prevede un’effettiva soluzione di
continuità temporale (riutilizzazione per funzioni nuove, affini o diverse in contesti diversi), nel secondo
caso invece non abbiamo un reimpiego, ma un riciclo ovvero lo sfruttamento all’estremo di quell’oggetto
per funzioni originariamente non previste e frutto di inventiva da parte di chi lo pratica.

Quando l’ambiente lo permette

Non tutti i contesti giungono a noi intatti, a seconda della loro natura organica o inorganica abbiamo più o
meno possibilità di ritrovarli in un contesto. Bisogna poi fare i conti con il tipo di clima in cui è inserito quel
determinato contesto: tutti i siti umidi conservano meglio i materiali, come pure i siti aridi, dove l’assenza di
acqua e l’aria molto secca favoriscono la conservazione di alcuni generi in particolare.

Quando gli oggetti di un contesto passano da una situazione totalmente, o parzialmente, anaerobica ad
ambienti pieni di aria, possono degradarsi molto rapidamente; è quindi compito dell’archeologo utilizzare
tecniche di recupero e di conservazione che ritardino il più possibile la seconda morte del reperto.

Ovviamente non solo i manufatti organici, ma anche quelli inorganici, sono sottoposti ad un deperimento,
più lento, ma non meno grave. Piogge acidi e prodotti di combustione possono danneggiare i monumenti in
marmo e altri tipi di pietre. Si tratta di una perdita molto grave poiché per un’opera di scultura la forma è
tutto, e quando la superficie viene a perdersi si perde anche la ragione stessa del manufatto.

È perciò indispensabile che l’archeologo faccia il possibile per conservare al meglio il contesto di cui è
venuto a conoscenza, assicurandosi che fra altri 10, 20 o 50 anni possa rispondere a domande nuove
generate dai nuovi interessi e dai nuovi metodi di indagine.

Il perduto

Lo stato di conservazione dei reperti estratti dal terreno rappresenta in genere il punto di arrivo della
trasformazione di quella materia, che conosce fasi diverse a seconda del tempo passato, delle proprietà
della materia stessa e dell’azione dell’uomo. L’osservazione delle condizioni di deposizione è uno dei
passaggi più importanti del lavoro archeologico perché si ha a che fare non solo con cosa è rimasto, ma
anche con cosa è andato perduto (elementi che possono essere ricostruiti e possono dare grandi
informazioni riguardo le società del passato) come ad esempio nel contesto rudere o relitto di nave sul
fondo del mare. [Miele, neve, carbone (mah..)]

Perdita e decontestualizzazione

Il perduto ha una presenza negativa (la percezione dell’assenza che aiuta a spiegare ciò che è rimasto) e
una presenza positiva (che non è frutto di un fisiologico processo di abbandono, ma è il risultato di uno
smarrimento).

Abbiamo quattro principali modalità di perdita di oggetti e contesti, che decretano la fine della loro prima
funzione e creano le condizioni per un futuro recupero:

1- Quello che si perde e non si sarebbe voluto perdere: in questo caso, come anche nel secondo, la
perdita non è dettata da una volontà, ma avviene casualmente; si tratta della maggior parte degli
oggetti ritrovati nel terreno (solitamente però appartengono a 2)
2- Quello che si perde e che si accetta di perdere: si tratta di oggetti il cui scarso valore ha fatto in
modo che non si sprecassero energie nel recupero. Solitamente si distingue tra questa categoria e
la 1 in base alla qualità dei materiali dell’oggetto.
3- Quello che si prevedeva di perdere temporaneamente (il seppellimento di un tesoro che prevedeva
teoricamente un recupero): è un caso molto frequente in archeologia ed è dovuto principalmente a
periodi di grave instabilità politica e da episodi violenti di natura militare.
4- Quello che si vuole perdere, ovvero che si butta cioè lo scarto: questo caso si compie regolarmente
quando l’oggetto non risponde più alle esigenze funzionali e culturali per cui la società lo aveva
prodotto. A questa categoria appartiene la maggioranza dei reperti archeologici.

Quando però non abbiamo notizie riguardo al luogo e alle modalità di ritrovamento non possiamo più
comprendere la natura storica di quel manufatto. In questo caso potrebbero aiutare documenti d’archivio e
documenti orali che rechino informazioni riguardo al luogo del ritrovamento e ai passaggi di mano
dell’oggetto, ma in ogni caso abbiamo perso una gran quantità di informazioni sul contesto che avrebbero
fornito un quadro più completo della società che lo ha prodotto.

Quando infatti entriamo in un contesto intatto (come ad esempio una tomba inviolata) tutti gli oggetti
mantengono integro il motivo della loro presenza in quel particolare contesto, conservando le proprie
relazioni con gli altri oggetti del contesto, informazioni che andrebbero irrimediabilmente perse qualora
l’oggetto venisse rimosso dal contesto originario. Un reperto decontestualizzato infatti, pur conservando
tutte le sue proprietà materiali ed estetiche, perde quelle proprietà che gli permettevano di entrare in
collegamento con altri elementi per dar vita a qualcosa di nuovo.

[attenzione alla registrazione di ogni dato nel momento dello scavo, per supplire alle eventuali perdite di
contesto]

Ch 4 – paesaggi e stratificazioni

Archeologia ambientale

Sebbene il territorio si modifichi anche in assenza dell’uomo, i segni della sua presenza vengono registrati e
non sempre il tempo riesce a cancellarli. Uno dei punti di incontro tra discipline umanistiche e naturali è
l’archeologia ambientale che opera in un quadro ecologico al fine di ricostruire dei paesaggi storici. Studia
pertanto i contesti naturali nei quali si sono sviluppate le attività umane e le relazioni che si sono instaurate
tra gli individui e l’ambiente con le conseguenti capacità di adattamento e di trasformazione della natura.

L’ambiente infatti è uno degli elementi fondamentali che determinano il modo in cui si organizzano le
comunità umane, i loro comportamenti economici e le loro forme di sussistenza; le caratteristiche di un
ambiente (il territorio, il clima, le risorse presenti) favoriscono la nascita degli insediamenti umani e ne
determinano direttamente lo sviluppo, in particolare nel passato quando l’assenza delle attuali tecnologie,
faceva si che l’ambiente avesse un condizionamento molto più decisivo sull’attività dell’uomo.

L’archeologia ambientale non si limita ad indagare su un singolo sito, ma analizza l’intero sistema di siti che
costituisce il quadro di riferimento regionale.

Il concetto di ambiente naturale può essere utilizzato solo in relazione a quelle comunità umani
particolarmente elementari; il concetto di ambiente infatti è il prodotto dell’interazione tra l’uomo e la
natura e quindi il suo studio non può essere esclusivamente effettuato secondo le scienze naturali, ma
necessita anche di un contributo antropologico.
L’archeologia ambientale si avvale di alcune discipline come la geoarcheologia: le indagini geomorfologiche
servono a descrivere le grandi trasformazioni ambientali che hanno inciso sulla vita della comunità come ad
esempio i terremoti, lo spostamento delle coste, gli incendi o anche l’eliminazione o l’introduzione di nuove
specie animali in una determinata area.

Archeologia dei paesaggi

Ha come scopo il ritrovamento delle tracce lasciate dall’uomo sul territorio. Per l’archeologo infatti il
paesaggio non è che una forma complessa e dilatata di manufatto poiché conserva le tracce dell’agire
dell’uomo e può fornire indicazioni su una storia sociale oltre che su una storia naturale.

Nell’archeologia dei paesaggi si applicano i metodi dell’archeologia ambientale per ricostruire gli
ecosistemi e le loro trasformazioni e ci si avvale anche delle fonti storiche per comprendere le forme di
organizzazione del territorio in relazione ai diversi insediamenti. Abbiamo quindi fonti storiche e dati di
natura scientifiche che operano attraverso la ricognizione topografica e la diagnostica archeologica.

Lo sviluppo di queste tecniche diagnostiche, sia al suolo che di telerilevamento, ha aumentato la capacità di
indagare il sottosuolo e di comprendere qualità e quantità di manufatti presenti. L’indagine si è poi andata
allargando dal singolo sito a comprensori più ampi che offrono il contesto di riferimento per analisi più
selettive.

Valutare prima di scavare

Oggi sempre di più si parla di archeologia senza scavo, grazie alle nuove tecniche di ricognizione possiamo
infatti operare maggiormente nella diagnostica territoriale, non come un’alternativa allo scavo, ma come
un’estensione delle sue premesse e procedure contestuali. Bisogna ricordare che l’attività di scavo è in se
distruttiva e , specialmente nei siti pluristratificati, indagare i livelli più antichi comporta spesso la perdita
dei livelli più recenti. Per questo motivo lo scavo deve essere preceduto da una valutazione della quantità e
qualità dei reperti presenti per adeguare le procedure di scavo alla natura della stratigrafia e progettare
interventi compatibili con le potenzialità del deposito.

Per decidere dove scavare occorrono delle modalità di ricerca a scala regionale e una programmazione
complessiva finalizzata a decidere quali epoche storiche, aspetti del periodo, notizie che possono essere
sull’economia, la cultura o l’ambiente, abbiamo maggior necessità di conoscere.

Cose e uomini

Il percorso di scavo procede secondo una sequenza concettuale e operativa che ha inizio con la
formulazione di una domanda storica, prosegue con la progettazione e l’esecuzione di un indagine,
comprensiva dello scavo, che possa fornire risposte alla domanda iniziale, continua poi con lo studio dei
dati ottenuti grazie alla ricerca che porteranno alla formulazione di nuove domande e si conclude con la
pubblicazione delle scoperte effettuale e con l’eventuale valorizzazione del sito indagato.

Lo scavo però non può essere banalizzato e ricondotto semplicemente ad una procedura o ad una
sequenza giusta di azioni, ogni scelta operativa deve avere alle spalle la consapevolezza che si tratta di un
mezzo di ricerca molto potente che si inserisce però in un contesto molto più ampio e non inizia e finisce
con esso.

[l’archeologo non scava oggetti, ma esseri umani. Mortimer Wheeler]


Archeologia e geologia, trasformazioni ed equilibri

Dato che si occupano entrambe del terreno e delle sue trasformazioni hanno diversi punti di contatto. La
geologia la possibilità di collocare nel tempo le sequenze stratigrafiche deriva dalla posizione degli strati e
dei resti in essi contenuti. La stratificazione archeologica, essendo frutto di un’attività dell’uomo, risulta
essere più complessa e articolata e grazie ad essa possiamo cogliere tracce degli eventi che costituiscono la
trasformazione del paesaggio ad opera dell’uomo.

Il paesaggio subisce continue trasformazioni che possono essere di enorme o minima portata, una visione
storica di questi cambiamenti può aiutare a comprendere l’impatto che hanno avuto nella storia dell’uomo.

Le tracce dell’uomo in un territorio possono essere rappresentate da semplici scarti o complesse


costruzioni (a volte anche monumenti che non implicano necessariamente un accumulo di materiale, ma
talvolta anche l’asportazione di parti del paesaggio). Ogni trasformazione del paesaggio è scandita dal
successivo raggiungimento di un equilibrio e di un successivo evento, interno o esterno al sistema, che lo
modifica di nuovo e crea le premesse per la formazione di un nuovo stato di equilibrio.

La teoria della stratigrafia archeologica

Le azioni di origine naturale o umana possono essere classificate secondo tre gruppi principali: erosioni –
spostamenti – accumuli. A queste quando si tratta di azioni umani si aggiunge l’attività di uso o
frequentazione che non comportano alterazioni evidenti del paesaggio, ma rappresentano momenti
storicamente importanti in cui gli uomini agiscono negli spazi che hanno definito.

Abbiamo poi le attività di distruzione in cui gli esseri umani agiscono modificando per sottrazione un
paesaggio eliminando una o più delle sue caratteristiche.

Costruzione, frequentazione e distruzione creano stratificazione, ma avvengono su un terreno in cui è già


presente una stratificazione precedente. Il concetto di stratificazione si applica ad un deposito fisico ed è
ben distinto da quello di stratigrafia che può essere intesa come una descrizione della stratificazione
attraverso la quale si riconoscono le varie componenti della stratificazione stessa e le loro relazioni
reciproche. Questa distinzione è alla base della teoria di Harris che ha ideato il metodo grafico per la
rappresentazione grafica, su piano bidimensionale, della stratificazione archeologica tridimensionale e
spazio-temporale: il così detto Matrix di Harris attraverso il quale si “smonta” la stratificazione archeologia
per avere una miglior interpretazione.

La teoria di Harris prescinde dagli aspetti storico culturali dei contesti archeologici e serve ad individuare i
principi generali che intervengono nell’organizzazione della stratificazione. Alla base di tale teoria troviamo
il concetto di unità stratigrafica (context) al quale M. Wheeler ha aggiunto la distinzione tra layers (strati di
terra) e features (strutture ed altri elementi particolari); l’unità stratigrafica US identifica ogni singola
traccia lasciata dall’opera dell’uomo e rappresenta quindi la componente primaria, l’unità base, della
stratificazione. La stratificazione quindi è composta dalla sovrapposizione di più US che vengono descritte
singolarmente attraverso la stratigrafia.

Le US possono essere positive (testimonianza concreta di attività di accumulo e costruzione) o negative


( segno invisibile di attività di uso o distruzione di strutture o strati); quelle positive hanno un’interfaccia che
ne rappresenta il limite superficiale e quelle negative, essendo testimonianza di un’attività di asporto di
materia, possono essere considerate immateriali e corrispondono con l’interfaccia negativa. Questi due tipi
di US hanno tra loro rapporti di sovrapposizione, uguaglianza o assenza di rapporti diretti.
L’insieme delle unità stratigrafiche, analizzate a seconda dei loro rapporti, costituiscono la sequenza
stratigrafica, che a sua volta è il risultato dell’analisi della stratificazione (che avviene mediante stratigrafia)
rappresentata visivamente con il diagramma stratigrafico.

Secondo la teoria di Harris quindi lo scavo si basa su leggi scientifiche perché valide in ogni luogo, tempo o
cultura, ma bisogna ricordare anche che si tratta di un’azione umana dettata da una finalità di carattere
storico; non si deve quindi incorrere in una formalizzazione eccessiva che avrebbe solo l’effetto di
raggiungere il risultato opposto.

Le critiche mosse a questa teoria furono principalmente l’arbitrarietà di riconoscimento delle diverse unità
stratigrafiche con conseguente semplificazione dell’articolazione stratigrafica e una presunta separazione
dalla geologia.

Processi formativi

Poiché la formazione di una stratificazione coincide con una serie di trasformazioni dei suoi componenti,
osservare queste trasformazioni è lo strumento fondamentale per l’interpretazione del deposito stesso.

Alla base della creazione degli strati e alla loro modificazione abbiamo i così detti processi formativi che si
dividono in:

- processi culturali di formazione (cioè l’uso che gli uomini hanno fatto dei resti indagati)

- processi naturali di formazione (cioè le condizioni ambientali che hanno prodotto quel contesto, che lo
hanno alterato o favorito la conservazione)

Nell’intervallo di tempo che separa la formazione del contesto dal suo ritrovamento può verificarsi una
seria di mutamenti che di norma determinano una perdita di informazioni; infatti la conservazione di un
contesto dipende dalle condizioni ambientali e da episodi casuali come ad esempio un incendio on un’altra
forma di distruzione violenta, tutti fenomeni che vengono definiti post-deposizionali e che sono in genere il
risultato di fenomeni di pedogenesi collegati ad eventi meteorici e climatici o all’azione di organismi
vegetali e animali che comprendono anche l’intervento umano.

Lo scavo è un’operazione analitica che traduce sul piano pratico lo smontaggio della stratigrafia che viene
divisa in base alle sue componenti, le unità stratigrafiche. L’individuazione di tali unità però sarà sempre
soltanto un fattore di scala: se si indaga un edificio la colonna sarà un US, ma a sua volta la colonna è
formata da rocchi che potrebbero anch’essi essere intesi come US.

In ogni caso lo smontaggio dei componenti della stratificazione rappresenta un’azione distruttiva della
stratificazione stessa: lo scavo è un’azione distruttiva durante la quale si ricavano delle informazioni
distruggendo la fonte stessa che le produce. Per questo motivo è indispensabile la documentazione che
permette di ricostruire ciò che viene distrutto, e la documentazione accurata di tutti i materiali presenti
nello scavo e ovviamente la loro conservazione.

Prima che cominci lo scavo abbiamo una totalità di informazioni potenziale (che non tiene conto cioè della
perdita che comincia nel momento della formazione del deposito stesso). Ma la maggior perdita di
informazioni avviene proprio nel momento dello scavo per l’incapacità o l’impossibilità di riconoscere una
traccia e quindi di descriverla. Alla fine dello scavo quindi si raggiunge la massima perdita potenziale di
informazioni.
Metodi e strategie

Lo scavo si affronta soltanto attraverso due procedimenti: il metodo stratigrafico e quello non stratigrafico
cioè arbitrario che consiste nella rimozione indiscriminata e sommaria del terreno (lo sterro) al fine di
riportare alla luce strutture o recuperare oggetti senza curarsi di distruggere la stratificazione archeologica,
che in questo caso non è un elemento di interesse. Lo scavo stratigrafico al contrario non rimuove il
terreno, ma lo indaga in modo analitico, occorre quindi scegliere tra diverse forme di intervento quella che
meglio si adatti alle esigenze della ricerca.

Il metodo stratigrafico prevede che ogni superficie dello scavo venga indagata contemporaneamente,
evidenziando tutte le fasi della sua vita e mettendo in relazione tra loro strati e strutture anche distanti tra
loro. in questo caso le aree di scavo vengono modellate in funzione della forma e della natura
dell’insediamento. Questa strategia per grandi aree porta ad una visione etnografica che mette in
collegamento le attività umane svolte in un’area e il conseguente deposito archeologico: concilia quindi le
due forme di conoscenza della stratificazione, quella temporale (stratigrafica) e spaziale (topografica).

Dallo scavo alla storia

Il processo che parte dalla lettura del sepolto e arriva a fornire un dato storico deve necessariamente
attraversare diversi passaggi:

- Si passa dalla terra indistinta alla stratificazione


- Si individuano i rapporti stratigrafici tra le unità (in questo modo il diagramma stratigrafico diventa
una sorta di indice della stratificazione che apre la fase sintetica della ricostruzione)

il passaggio all’interpretazione e poi alla sintesi storica prevede un accorpamento di dati raccolti in unità più
ampie e storicamente più significative (i singoli episodi scavati nel deposito stratigrafico possono in genere
essere compresi solo in relazione alle altre unità del deposito stesso);

- Si compie un’associazione di diverse azioni in unità più complesse le attività stratigrafiche (prima
sintesi interpretativa)
- Attraverso un altro processo di sintesi si arriva ad identificare i legami che collegano tra loro le
tracce delle diverse attività riconosciute e si individuano così i gruppi di attività stratigrafiche

Collegare tra loro i vari settori della stratificazione è un passaggio molto delicato e difficile nel quale spetta
soltanto all’archeologo decidere quali siano gli insiemi identificabili nel tempo (cronologia) e nello spazio
(topografia).

- Il resoconto delle attività stratigrafiche viene inserito in alcune piante di fase: elaborazioni grafiche
che interpretano la funzione e la cronologia delle unità stratigrafiche documentando gli equilibri
successivi attraverso cui si sviluppa la frequentazione di un sito
- tali momenti quando possibile verranno confrontati con altri dati desumibili da altri sistemi di fonti
- si deve effettuare un ulteriore sintesi che accorpi attività e gruppi di attività in insiemi più ampi e
cronologicamente definiti: la fase (più fasi creano un periodo storico)
- fasi e periodo devono riferirsi all’area indagata e alla sua microstoria e poi essere inseriti in un
orizzonte storico più ampio.
In questo momento ogni singolo dato può essere messo in relazione con dati analoghi per definire un
evento particolare che a sua volta messo in relazione con eventi simili potrà definire un insieme ancora più
complesso, che confrontato con le fonti storiche, può definire l’evento storico.

[dal punto di vista stratigrafico gli oggetti rinvenuti nel terreno si dividono in tre categorie di reperti: in fase,
residui e infiltrati.

Ch 6 – le occasioni dell’incontro

Archeologia urbana

Archeologia urbana non sta ad indicare la pratica dello scavo archeologico in città. Viene infatti meglio
definita attraverso tre dimensioni che la caratterizzano come una componente fondamentale
dell’archeologia moderna:

1- La dimensione storica: cioè si tratta di un’archeologia che ha come fine la ricostruzione della storia
di un insediamento o di una città, è quindi un’archeologia della città.
2- La dimensione tecnico-professionale: nel senso cha ha bisogno che l’archeologo adegui il suo agire
ai bisogni di una città viva e moderna, è quindi un’archeologia in città.
3- La dimensione urbanistica: cioè che accanto al tema della conoscenza si pone quello
dell’integrazione dei settori indagati all’interno della città moderna ed è quindi un’archeologia per
la città.

A discapito delle obiezioni che sono state mosse, la ricerca archeologica può facilmente coesistere con la
vita della città moderna senza che essa debba bloccarsi. Gli archeologi infatti devono valutare le necessità di
ricerca in termini di costi e durata delle operazioni (indispensabile è quindi la programmazione della
ricerca)e sanno che se si interviene in un centro storico devono sviluppare al massimo le proprie capacità di
sintesi. Il problema sorge quando non ci sono garanzie riguardo le risorse a disposizione da cui dipende la
certezza dei tempi di realizzazione.

Archeologia dell’architettura

Se l’archeologia urbana si occupa del paesaggio urbano esistente sopra e sotto il suolo urbano, le
testimonianze edilizie giocano un ruolo fondamentale in quanto delimitano spazi, riflettono le esigenze
degli abitanti, le loro conoscenze tecniche e i loro comportamenti. In questo contesto nasce quindi
l’archeologia dell’architettura ovvero lo studio delle architetture attraverso un approccio archeologico.

Secondo Harris gli edifici sono uno dei temi più rilevanti e problematici della stratigrafia archeologica
poiché le fondazioni solitamente distruggono o alterano le fasi precedenti e i muri tendono a dare una
visione verticale della stratigrafia superando quella basata sul rapporto di sovrapposizione. Nonostante ciò i
muri si prestano molto bene allo studio poiché in un sito non si usa soltanto il piano di calpestio, ma anche
le superfici verticali che possono consolidarsi per moltissimo tempo.

L’archeologia dell’architettura ha quindi come scopo la ricostruzione della storia degli edifici realizzata
attraverso il metodo archeologico che parte quindi dall’analisi dei materiali e delle tecniche utilizzate per la
messa in opera e in questo senso gli edifici possono essere inseriti all’interno dei dati della cultura
materiale.
Si tenta quindi di ricostruire la storia fisica e formale degli edifici partendo dall’approccio diretto al
manufatto traendo informazioni di diversa scala da ogni tipo di fonte materiale: edifici, murature, pietre,
malte ecc. Accanto all’analisi stratigrafica delle fasi di costruzione, manutenzione e trasformazione, si
inserisce lo studio delle tecniche edilizie, dei materiali impiegati e delle tracce di lavorazione.

Ne deriva un approccio nel quale troviamo la storia del manufatto architettonico, la storia sociale delle
forme d’uso, della trasformazione e del restauro del manufatto edilizio che diventa il risultato di momenti
diversi e correlati che vanno dalla committenza alla cultura del progettista, alla scelta dei materiali alle
tecniche delle maestranze.

Le architetture sono un deposito verticale di informazioni storiche stratificate, che può essere individuato,
studiato e interpretato per se stesso e in relazione con quanto si indaga nel deposito orizzontale.

Archeologia e restauro architettonico

Si tratta di uno dei cantieri in cui si sperimenta il contatto tra archeologia e storia dell’architettura nel senso
che l’approccio storico-archeologico costituisce un momento essenziale per la conoscenze del corpo edilizio
senza la quale sarebbe impossibile procedere al restauro.

Ch 7 – le nuove archeologie

Archeologia quantitativa e informatica

Con lo sviluppo nella seconda metà del ‘900 dell’archeologia processuale si è arrivati ad avere un
grandissimo numero di dati archeologici (archeologia quantitativa) e ci si è quindi impegnati per applicare
un metodo statistico e matematico all’interno del ragionamento archeologico. Si cominciò quindi ad
adottare sempre di più tutta una serie di strumenti derivati dalle discipline scientifiche come la
campionatura o i metodi probabilistici.

La distribuzione dei dati ad esempio viene solitamente rappresentata mediante grafici che hanno aiutato ad
eliminare i lunghi elenchi descrittivi e numerici. Abbiamo poi la classificazione numerica nella definizione
delle tipologie e seriazioni.

Da quando è iniziato il suo grande sviluppo poi, si è cominciato a far uso anche delle tecnologie
informatiche che non si limitano a gestire l’enorme numero di dati, ma hanno trovato nuove e diverse
applicazioni non soltanto nell’elaborazione dei dati, ma anche nella ricerca sul campo: abbiamo infatti i
moderni metodi di ricognizione e di analisi territoriale (sistemi di telerilevamento aereo e satellitare, i GIS,
tecniche fotografiche digitali, rilievi tipografici ecc.),la registrazione di dati in forma digitale direttamente
sul sito di scavo o la costruzione e la gestione di banche dati consultabili anche a distanza.

In ogni caso, anche usando le più moderne tecnologie è necessario non perdere di vista la radice umanistica
di questo tipo di studi.

Archeologia e scienze naturali

Si può dire che l’archeologia sia collegata al mondo scientifico e delle scienze naturali per due ragioni.
La prima riguarda proprio il metodo di ricerca archeologico che può essere facilmente assimilato al metodo
scientifico: si raccolgono e analizzano dati, si fanno ipotesi e si verificano sempre in relazione ai dati
ottenuti dalla ricerca.

In secondo luogo poi bisogna considerare che l’archeologia si serve sempre di più di metodi scientifici: la
determinazione della cronologia assoluta, la caratterizzazione delle materie prime, l’individuazione degli
ecofatti, sono tutti processi scientifici applicati a quella materia che è l’archeologia e che può essere definita
pertanto il punto di contatto tra scienze umane e scienze esatte.

In fin dei conti comunque il mondo della natura ha sempre interagito con le società umane ed è quindi
entrato a far parte dell’indagine per quanto riguarda le ricostruzioni ecologiche (archeologia ambientale),
sul versante delle scienze della terra (geoarcheologia) e delle scienze biologiche (bioarcheologia).

L’analisi scientifica del DNA ad esempio ci permette di studiare attentamente gli esseri umani che agirono
nel contesto esaminato o furono in relazione con esso; l’archeozoologia occupandosi dei resti animali, sia
selvatici che addomesticati, li mette in relazioni con le pratiche degli insediamenti umani; similmente
l’archobotanica studia i resti vegetali che riescono a conservarsi nei contesti e ci informa riguardo le
abitudini alimentari e sui cambiamenti nella flora di una determinata area (indirettamente anche sul clima e
sull’espansione delle pratiche agricole).

Archeologia e archeometria

L’archeometria interviene dove i metodi propri dell’archeologia non possono più proporre soluzioni, ma i
metodi scientifici allargano la potenzialità interpretativa.

Le applicazioni archeometriche riguardano la definizione delle datazioni assolute dei resti archeologici, la
determinazione d’origine dei manufatti, la descrizione delle tecniche produttive e delle tracce d’uso, la
messa a punto delle strategie di conservazione dei beni archeologici anche attraverso l’applicazione più
sistematica di tecnologie d’indagine non invasive come ad esempio la diagnostica territoriale che valuta la
presenza delle strutture sepolte e della natura dei suoli.

L’archeometria è stata anche perciò definita come la scienza che si occupa dei materiali in relazione ai
contesti naturali e antropici nei quali essi vengono prodotti, usati e scartati.

Etnoarcheologia e archeologia sperimentale

La natura materiale della fonte archeologica implica da una parte di poter studiare processi invece che
eventi, a differenza della fonte scritta; e dall’altra parte una staticità della fonte che è soltanto un sistema di
dati fisso che può essere convertito in informazioni solo in relazione alla ricerca.

Poiché lo scopo dell’archeologia è “fare osservazioni contemporanee su oggetti statici che si trasformino in
conclusioni dinamiche che riguardano i modi di vita del passato”, bisogna indagare gli aspetti statici e quelli
dinamici nel solo luogo in cui sia possibile osservarli insieme: nel mondo contemporaneo. Questo tipo di
studi viene definita etnoarcheologia e si basa sui modelli culturali e di comportamento delle società viventi
(meglio se preindustrializzate) che vengono indagate con il metodo etnografico ovvero vivendo con la
popolazione stessa. L’obiettivo principale è studiare la cultura materiale e l’uso che ne viene fatto e capire
come un contesto vivente generi un contesto archeologico e far meglio luce sulla documentazione
archeologica. Questo tipo di ricerca ci da informazioni sui processi produttivi, molto utili per
l’interpretazione dei processi di formazioni dei contesti archeologici.
L’entoarcheologia si basa però su un presupposto che potrebbe risultare problematico cioè che tutti i
fenomeni che è possibile osservare nel presente siano simili a quelli avvenuti nel passato e che sia quindi
possibile riconoscere delle regolarità nei comportamenti umani e nei loro esiti. In questo senso
l’etnoarcheologia non ci può dare risposte certe ed è piuttosto un modo per produrre nuove ipotesi.

Similmente l’archeologia sperimentale mira a comprendere la cultura materiale del passato riproducendo
situazioni e procedimenti per riscoprire i saperi posseduti dalle culture scomparse.

Ch 8 – pensare l’archeologia

L’archeologia processuale

Negli anni ’60 e ’70 si è sviluppata negli Stati Uniti una corrente di pensiero definita New Archaeology che
rivolge la sua attenzione non più solo ai dati materiali che riflettono eventi del passato, ma soprattutto ai
processi da cui questi eventi sono determinati con l’obiettivo di spiegare le regole che presiedono lo
sviluppo delle culture.

Secondo la NA le ricerche tradizionali, empiriche ed inesatte si limitano a descrivere e datare i manufatti, e


dovrebbero quindi essere sostituite da altre tecniche di ricerca più scientifiche e oggettive. Un contributo
significativo a questo tipo di archeologia è stato dato ad esempio dalla scoperta della datazione al
radiocarbonio.

L’obiettivo di questa archeologia come abbiamo detto è arrivare a conoscere le cause che generano le
trasformazioni analizzando i processi culturali (archeologia processuale); si è quindi cercato di formulare
delle leggi universali applicabili a ogni contesto culturale (legge del minimo rischio, legge del minimo sforzo,
legge di proporzionalità diretta). L’interesse per i processi culturali ha portato ad una nuova attenzione
anche per i processi di formazione che si è riflettuta sulla teoria e sulla pratica dello scavo archeologico,
dando un grande contributo allo sviluppo dei metodi dell’archeologia.

La NA è stata nondimeno sottoposta a diverse critiche che riguardano la separazione dell’archeologia dalla
storia, la necessità di misurarsi con un sistema di fonti scritte che non può essere considerato di disturbo,
ma di arricchimento, l’illusorietà della ricerca di leggi generali del comportamento umano, un troppo
spiccatoi determinismo ambientale che esalta il rapporto uomo natura senza ritenere che le società
possano reagire diversamente ai condizionamenti geografici e ambientali.

L’archeologia post-processuale

Si è sviluppata principalmente in ambiente anglosassone e si riferisce a tutta una serie di prese di posizione
che non si articolano però in una scuola di pensiero organica. Alla NA contestano principalmente l’eccessiva
semplificazione die fenomeni culturali e la tendenza a cercare generalizzazioni che inquadrano il dato in
comportamenti conoscibili; si tende quindi ad una riscoperta del valore degli elementi culturali di carattere
locale ed etnico che comporta una maggior contestualizzazione storica del dato archeologico che viene
però allo stesso tempo isolato nella sua unicità, fatto che rende difficili le procedure archeologiche di
confronto.

Ci si oppone quindi alla sottovalutazione dell’approccio storico dando una maggior attenzione ai singoli
contesti e ai loro significati sociali e culturali che non si esauriscono nella sola definizione di funzione.
Oggetti e contesti infatti possono avere varie funzioni e quindi più significati, anzi molto spesso l’archeologo
si trova di fronte a contesti (come i grandi edifici pubblici) che si prestano ad interpretazioni divergenti, ma
non necessariamente contraddittorie.

Archeologia contestuale, archeologia cognitiva

L’archeologia contestuale ha come elemento centrale il contesto archeologico e storico e i suoi aspetti
simbolici. Le relazioni tra cultura materiale e mentalità di una società non sono infatti semplici: le idee che
circolano, i valori in cui ci si riconosce vengono espressi nell’arte con i suoi stili, nella religione con le sue
credenze e nelle ideologie, tutti elementi lasciati ai margini dell’archeologia processuale. In questa
particolare archeologia i reperti vengono visti come testi che questa volta devono essere decodificati per
ricavarne informazioni riguardo i modi di pensare e di credere degli individui che hanno prodotto quella
traccia archeologica. Come per tutti i testi però le interpretazioni possono essere varie e discordanti e non
possono prescindere né dai metodi archeologici (le procedure messe in atto per la decodificazione) né
dall’idea stessa di archeologia.

L’archeologia cognitiva invece può essere definita come un terreno di confronto tra processualismo e post-
processualismo: utilizza le tecniche proprie dell’archeologia processuale ridimensionandone gli aspetti più
meccanicistici e da più spazio alla funzione dei simboli nell’organizzazione delle società e agli aspetti
percettivi. Riconosce poi la possibilità di cogliere attraverso le testimonianze materiali le modalità di
pensiero delle culture del passato che si riflettono non solo nelle attività quotidiane, ma anche
nell’organizzazione politica, sociale ed economica come anche nelle forme di rappresentazione artistica e
nelle attività cultuali dove emerge la presenza dell’irrazionale e il rapporto con il sovrannaturale.

Secondo la teoria di Childe comunque, precedente allo sviluppo dell’archeologia cognitiva, i manufatti
andavano osservati come espressioni concrete dei pensieri degli uomini che li avevano prodotti.

Archeologia globale

La ricostruzione della storia prevede un approccio globale. Con archeologia globale si intende definire tutto
l’insieme delle testimonianze materiali, tenendo conto della molteplicità delle forme sotto cui si
manifestano; non si mira però ad una conoscenza globale delle fonti, che risulterebbe impossibile, ma
piuttosto ad un approccio globale, condiviso che raccolga tutti gli insiemi di fonti, archeologiche e non,
necessarie per rispondere alle domande dello storico.

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