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Gli antropologi culturali condividono le loro osservazioni tramite la ricerca sul campo e
l’osservazione partecipante.
In passato i primi antropologi adottavano l’antropologia da tavolino, seduti nel proprio
studio ad analizzare le informazioni su culture distanti.
Tra il XIX e il XX secolo, alcuni antropologi, stipendiati da governi coloniali, raggiunsero i
territori africani e asiatici e si avvicinarono a loro senza però viverci insieme. Questo
approccio è detto antropologia da veranda, poiché l’antropologo chiedeva ai “Nativi” di
raggiungerlo nella veranda della sua abitazione.
Morgan contribuì allo sviluppo di un approccio allo studio dei popoli e delle loro culture
avvicinandosi al metodo della ricerca sul campo (il campo era considerato come un
laboratorio in cui osservare i suoi oggetti di studio). Malinowsky, invece, combina la ricerca
sul campo con l’osservazione partecipante ovvero un metodo che richiede di vivere a
contatto con la popolazione per un determinato periodo di tempo.
Negli anni ’70 ci si rende conto che c’è bisogno di una relazione umana tra osservatore ed
osservato, emergono così tre dimensioni:
1) dimensione soggettiva ovvero il retroterra culturale ed oggettivo sia dell’osservato sia
dell’osservatore;
2) dimensione etica che è alla base della relazione tra osservatore ed osservato;
3) dimensione politica che caratterizza la relazione tra osservatore ed osservato.
È necessario quindi considerare i soggetti osservati non più come oggetti ma come esseri
umani. Si giunge così alla svolta riflessiva che è caratterizzata dalla ricerca antropologica
come dialogo tra osservatore ed osservato.
Un altro metodo per affrontare tale questione è stato individuato da George Marcus ed è la
ricerca multisituata ovvero la ricerca sul campo condotta su più territori.