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I
-I
CULTURALI
SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA
PER LE PROVINCIE DI CAGLIARI E ORISTANO
2 2 -Il
2005-2006
QUADERNI
Direttore
Giovanni Azzena
Redazione
Paolo Bernardini
In copertina:
Statuina litica femminile della tomba n. 386
di Cuccuru S' Arriu di Cabras (IV millennio a.C.)
da un disegno di Ginetto Bacco
INDICE
ADELE IBBA
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Ricerche geoarcheologiche sui centri feniciopunici e poi romani della Sardegna centromeridionale. Nora: nota 1
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STEFANO CARA
SILVIA SANGIORGI
FELICE DI GREGORIO
CLAUDIO FLORIS
PIETRO MATTA
CARLO TRONCHETTI
"Salux"
ROBERTO SIRIGU
1. Lo sguardo dell'archeologo
Nel suo scavo l'archeologo rinviene utensili di cui ignora la destinazione, cocci di
ceramica che non combaciano, giacimenti di altre ere da quella che s'aspettava di trovare l: suo compito descrivere pezzo per pezzo anche e soprattutto ci che non
riesce a finalizzare in una storia o in un uso, a ricostruire in una continuit o in un tutto. A questo si arriver in seguito, forse; oppure si capir che non una motivazione
esterna a quegli oggetti, ma il solo fatto che oggetti cos e cos si ritrovino in quel
punto gi dice tutto quel che c'era da dire(1).
il solo fatto che oggetti cos e cos si ritrovino in quel punto gi dice tutto
quel che c'era da dire.
Mi pare evidente per che il soggetto collettivo(4) che risponde al nome
di "archeologo" non assume come valida questa prospettiva (anche se
ritengo che non possa n debba escluderla a priori). Egli, evidentemente, si
dimostra convinto che esista una qualche motivazione esterna agli oggetti
efine della sua ricerca sar proprio giungere alla comprensione del significato e/o del senso di cui la realt materiale dotata. Ma come pu l'archeologo giungere alla comprensione di quel senso senza "contaminarlo"?
Il pericolo di "contaminazione"(5) tra la realt in cui l'archeologo vive e
quella che oggetto della sua ricerca forte e non va mai sottovalutato.
Occorre anzi interrogarsi costantemente sulla natura di questo pericolo: occorre cio chiarire perch un tale pericolo esista, da dove tragga origine e quindi
tentare, se possibile, di eliminarlo o di ridume al minimo gli effetti negativi.
Perch ci avvenga, occorre, a mio avviso, che l'archeologia prenda
coscienza delle peculiarit che connotano il proprio approccio cognitivo
alla conoscenza della realt materiale.
Occorre cio che l'archeologo assuma coscienza della reale peculiarit
del proprio sguardo disciplinare. Con il termine "disciplina" intendo fare
esplicitamente riferimento al pensiero di Michel Foucault, il quale ci
ricorda che
una disciplina viene definita da un campo d'oggetti, da un insieme di metodi, da un
corpus di proposizioni considerate vere, da un gioco di regole e di definizioni, di tecniche e di strumenti: tutto questo costituisce una sorta di sistema anonimo a disposizione di chi voglia e possa servirsene, senza che il suo senso o la sua validit siano
legati a colui che ne stato il possibile inventore(6).
Ricorrendo all' ausilio degli strumenti concettuali elaborati dalla riflessione del filosofo della scienza Thomas Kuhn, ritengo infatti si possa
affermare che l'archeologia moderna attraversa una di quelle fasi che
Kuhn ha definito di scienza straordinaria, ossia una di quelle fasi preparadigmatiche in cui diversi paradigmi si confrontano nel tentativo di
mostrare la propria capacit di risolvere le anomalie che si sono rivelate
insolubili per il "vecchio" paradigma(8).
Qualunque sia la nostra opinione in merito a tale questione, evidente che,
affinch una data comunit scientifica possa riconoscersi come tale, occorre
innanzi tutto che si giunga alla definizione di un linguaggio condiviso da tutti
i suoi membri. L'acquisizione e il conseguente concreto utilizzo di un tale linguaggio nel discorso scientifico rappresentano passaggi, se non sufficienti, certamente necessari per ogni ricercatore che aspiri ad essere considerato membro
di una data comunit scientifica. Infatti, come ci segnala ancora Foucault,
la disciplina un principio di controllo della produzione del discorso. Essa gli fissa
dei limiti col gioco di una identit che ha la forma di una permanente ritualizzazione
delle regole(9).
Partendo dunque da questo presupposto, evidente che le scelte linguistiche compiute in ambito scientifico sono da ritenersi sempre dotate,
in qualche misura, di valore paradigmatico e devono perci essere assunte come vincolanti sia da coloro che le compiono, ossia i membri di una
data comunit scientifica, sia da chiunque voglia dialogare con tale comunit, entrando in gioco nello specifico universo di discorso creato da tale
comunit e in cui tale comunit si riconosce(IO).
2. Linguaggio e metalinguaggio in archeologia
Una delle manifestazioni pi evidenti della distanza che separa l'archeologo dal passato che egli indaga ci viene offerta proprio dal linguaggio che l'archeologo utilizza per tradurre la realt materiale. Infatti, dal momento che il
linguaggio con cui indichiamo un dato gi lo stesso linguaggio con cui pi
tardi lo interpreteremo(ll), evidente che le scelte linguistiche finalizzate
anche solo a descrivere una data realt rappresentano gi di per s un atto
interpretativo estremamente impegnativo. Come afferma Roland Barthes,
oggetti, immagInI, comportamenti possono, in effetti, significare, e significano
ampiamente, ma mai in modo autonomo: ogni sistema semiologico ha a che fare col
linguaggio(12).
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Queste stesse parole potrebbero essere rivolte oggi altrettanto correttamente al linguaggio archeologico. Infatti, come la storia, anche l'archeologia:
riceve la maggior parte del suo vocabolario dalla materia stessa del suo studio. Lo
accetta, gi consunto e deformato da un prolungato uso; peraltro ambiguo, sovente sin
dalle origini, come ogni sistema di espressioni che non sia nato dallo sforzo severamente concertato dei tecnici(20).
fotografico, iformatico. Partendo quindi dal presupposto che ogni traduzione comporta un grado pi o meno elevato di indeterminatezzd29) e che se
tutto cambia non c' traduzione e nemmeno se nulla cambia(301,appare
necessmio stabilire criteri di traduzione a cui gli archeologi possano fare riferimento per giungere ad una quanto pi possibile corretta descrizione/interpretazione del passato alla cui comprensione(31)essi aspirano.
Se analizzato sotto questo profilo, appare in tutta la sua evidenza anche
l'importanza dello stile nelle pubblicazioni archeologiche. Schematizzando al massimo, si pu affermare che esse oscillano tra uno stile fortemente tecnico-scientifico, a volte criptico e piuttosto ostico alla lettura anche
per gli specialisti, e uno stile narrativo, dove prevale un linguaggio meno
tecnico e pi attento alla piacevolezza della lettura.
Ora, mi pare lecito affermare anche per le pubblicazioni archeologiche
ci che vale pi in generale per molte pubblicazioni scientifiche, e cio che
spesso l'uso dello "stile narrativo" viene interpretato come sintomo di scarsa scientificit e quindi rifiutato, per preferire uno stile pi tecnico anche se
meno piacevole. In realt, come ha acutamente osservato Peter Brooks,
la nanativa una delle grandi categorie o sistemi di comprensione a cui riconiamo nei
nostri negoziati con il reale, e in particolare con i problemi della temporalit: i condizionamenti che l'uomo subisce da parte del tempo, la sua coscienza di esistere solo entro i
limiti precisi fissati dalla morte. E le trame sono le principali forze ordinatrici di quei
significati che cerchiamo, attraverso una vera e propria battaglia, di strappare al tempo(32).
Vista in quest' ottica, la scelta di tradurre la realt materiale in "narrazione" appare dunque come una precisa scelta a finalit interpretati va, nella misura in cui il tipo di trama secondo cui l'archeologo strutturer la sua
narrazione sar il riflesso pi esplicito dell' immagine del passato che egli
intende comunicare ai propri lettori(33).
Tutto ci mi pare renda evidente quanto sia complesso il problema della definizione di un linguaggio archeologico e quanto sia necessaria una
riflessione ampia e approfondita che coinvolga quanto pi possibile tutti
coloro che si occupano di archeologia, al fine di giungere all'elaborazione di un linguaggio finalmente adeguato al rigore scientifico del paradigma che l'archeologia moderna sta tentando di definire.
Questo discorso ritengo sia valido anche in quei casi in cui, tornando
alla definizione foucaultiana di "disciplina scientifica" intesa anche e
soprattutto come gioco di regole e di definizioni, si assiste al manifestarsi
di una pi o meno fOlie concordanza termino logico-concettuale sia tra
discorsi scientifici pertinenti ad uno specifico ambito di ricerca, elaborati
dai membri della comunit che operano in tale ambito, sia a maggior
ragione, nello scambio linguistico intercorrente tra ambiti differenti.
anzi proprio in questi casi, in cui possiamo certamente affermare che
il principio di controllo della produzione del discorso su cui si basa il funzionamento di ogni "disciplina scientifica" ha agito con particolare forza
ed efficacia, che l'attenzione critica di ogni ricercatore deve essere parti180
colarmente vigile per evitare il rischio che scelte linguistiche ormai consolidate ma non adeguatamente sottoposte al vaglio critico della comunit scientifica possano interferire negativamente nella corretta comprensione del "passato" che aspirano a "tradurre".
Per rendere pi concreto il mio discorso, credo possa essere utile prendere brevemente in esame un esempio specifico di costruzione del discorso archeologico sufficientemente noto. Concentrer quindi la mia attenzione sul caso della "civilt nuragica", letta attraverso la "lente" interpretativa propostaci da Giovanni Lilliu nel suo volume La civilt nuragica.
Come ogni scelta in ambito scientifico, anche questa mia scelta richiede qualche esplicita giustificazione, che ora mi accingo a proporre.
3. La civilt nuragica di Giovanni Lilliu: dialogo con un classico
Ci che intendo tentare in questa sede non una lettura critica de La
civilt nuragica(34J,n, sia chiaro, mi prefiggo di giungere ad esprimere un
qualunque genere di giudizio su questa specifica opera di Giovanni Lilliu
n, tanto meno, in generale sulla sua produzione scientifica.
Perseguire un simile intento sarebbe, oltre che segno di ridicola immodestia, assolutamente superfluo. La storia ha infatti gi espresso un giudizio, a mio parere insindacabile, sul valore scientifico e culturale dell'attivit intellettuale di Lilliu, conferendo alle sue opere il valore culturale che
si riconosce ai "classici".
Tale attribuzione di valore porta per con s alcune importanti conseguenze, che opportuno rendere esplicite.
Secondo una felice definizione elaborata da Italo Calvino, i classici
sono quei libri che ci arrivano portando su di s la traccia delle letture
che hanno preceduto la nostra e dietro di s la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o pi semplicemente nel linguaggio o nel costume)>>(35).
Ebbene, credo che si possa convenire sul fatto che pochi altri archeologi e poche altre opere siano riusciti a permeare di s in maniera cos efficace la cultura del proprio tempo. L'uso pressoch generalizzato della terminologia e della nomenclatura creati da Lilliu per poter "parlare" della
"civilt nuragica" rappresenta una efficace testimonianza della "traccia"
lasciata "dietro di s" dalle opere di Lilliu.
inoltre innegabile che l'intera opera di Lilliu abbia lasciato "traccia di
s" ben al di l delle barriere della sfera scientifico-accademica, giungendo
ad attraversare lo spazio assai pi ampio dell'intera societ civile isolana.
In particolare, l'azione culturale di due testi: La civilt dei sardi e La
civilt nuragica, stata cos efficace da rendere, a mio avviso, legittima
l'attribuzione ad essi del valore di veri e propri testi fondativi del modello
identitario-culturale oggi imperante in Sardegna. In questo senso queste
opere mi paiono collocabili al confine tra due peculiari forme di ricerca
storica: l'indagine storico-archeologica e la mnemostoria.
181
Con questo tennine, coniato dall'egittologo tedesco Jan Assmann, dobbiamo intendere un'indagine storica interessata non a conoscere
il passato in quanto tale, ma soltanto il passato cos come lo si ricorda. Essa studia i
percorsi e i sentieri della tradizione, le reti dell'intertestualit, le continuit e discontinuit diacroniche nella lettura del passato. La mnemostoria non si contrappone alla
disciplina storica, costituisce anzi una delle sue branche, come lo sono la storia delle
idee, la storia sociale, la storia della mentalit o la storia della vita quotidiana. Il suo,
tuttavia, un approccio autonomo che consiste nel mettere di proposito in secondo piano gli aspetti dell' oggetto della sua ricerca, per focalizzare invece la propria attenzione sulle linee diacroniche o verticali del ricordo. Esso si concentra su quegli aspetti del
significato o della rilevanza che sono il prodotto del ricordo nel senso di un richiamarsi
al passato, e che emergono soltanto alla luce di riferimenti e letture successivi(36).
Esiste cio tutta una serie di elementi: un nome d'autore, un titolo, una
prefazione, delle illustrazioni>>(41),
che svolgono, rispetto al testo, una fun182
zione di soglia, o - nelle parole di Borges a proposito di una prefazione di "vestibolo" che offre a tutti la possibilit di entrare o di tornare sui propri passi(42).L'insieme di questi elementi crea quello 'spazio' che Genette ha denominato paratesto. Proviamo dunque a domandarci che cosa ci
comunichi l' attraversamento della "soglia" rappresentata dal titolo del
testo di Lilliu, La civilt nuragica, ovvero, pi propriamente, dal sintagma "civilt nuragica" con cui Lilliu designa una specifica fase culturale e
cronologica della protostoria sarda.
Il primo messaggio che questo sintagma comunica al lettore con efficace forza comunicativa mi pare evidente: "la civilt nuragica" ci viene
presentata come un insieme culturalmente unitario (43).
Anche l'utilizzo del
termine "civilt" al posto dell'abituale termine "cultura" con cui si designano tutte le altre fasi culturali della preistoria sarda che precedono cronologicamente il momento nuragico mi pare coerente con questa volont
interpretativa dell' Autore.
Nell 'ambito degli studi di archeologia preistorica con il termine "cultura", ricordiamo lo, si designa
l'associazione di un certo numero di elementi della cultura materiale di unapopolazione, scelti tra quelli che si sono conservati e che sono suscettibili di essere riconosciuti(44).
tonico del megalitismo a torre, definito, in lingua locale di antico sustrato mediterraneo, nuraghe (anche nurake, nuraki, nuraci, nuraxi, naracu, ecc.). una denominazione ovviamente limitata, ma non riduttiva, perch dietro l'aspetto esteriore e formale del monumento stanno capacit tecnica, impegno economico e forte organizzazione
e aggregazione sociale. Il numero dei nuraghi (oltre settemila), la diffusione in tutto il
territorio isolano (densit 0,27 per kmq.), la continuit nel lungo tempo, la loro emergente qualit costruttiva, rivelano una grande tradizione culturale collegata con uno
spiccato movimento storico e un assetto civile pluristratificato. Il fatto architettonico e
ingegneristico del nuraghe , per cosi dire, la visualizzazione e la cristallizzazione d'uno stato generale di civilt, ricca di contenuti spirituali e materiali, identificabile in un
soggetto nazionale uscito da una amalgama di trib e popoli, che si venuto costituendo nell'isola a cominciare del Bronzo antico, per continuare e definirsi, con progetti e comportamenti di vita sempre pi autonomamente elaborati, sino ai tempi pienamente storici del primo imperialismo. Per tutto ci, a parte l'uso ormai invalso nella letteratura archeologica, il termine di civilt nuragica resta valido e caratterizzante.
Il nuraghe, infatti, tra i tanti altri aspetti che la compongono e la articolano nel susseguirsi dei secoli, rimane di tale civilt la costante specifica ed essenziale significante, l'unico termine esplicito e fisso, per la continuit, di riferimento e di definizione(47)
i'
J'
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..
1.
Tholoi, daidaleia, castra sono per appunto espressioni di culture successive e sono in realt degli appellativi di natura metaforica utilizzati nel187
l'antichit per denominare i nuraghi. Essi sono espressione del modo in cui
i greci e i romani interpretavano la funzione di quei monumenti: questa
testimonianza quindi utile, ma anch'essa da sottoporre ad attente verifiche.
Queste brevi annotazioni linguistiche ci mostrano chiaramente il genere di difficolt che dovette affrontare Giovanni Lilliu, il quale si trov
davanti alla necessit di creare una terminologia nuova, adeguata alla realt che gli scavi di quello che poi divent il pi famoso nuraghe sardo, "Su
Nuraxi" di Barumini (intrapresi da Lilliu a partire dal 1940 e portati a
compimento dallo stesso Lilliu nel 1956) gli avevano restituito. Occorreva cio trovare una terminologia che avesse il pregio di far comprendere
immediatamente la natura dei monumenti e della civilt a cui tale terminologia doveva essere riferita e che fosse rispettosa, allo stesso tempo, di
questa stessa natura.
Lilliu risolse il problema facendo uso di una terminologia gi ben codificata, che sembrava rispondere efficacemente alle necessit del caso. Si tratta
della terminologia utilizzata per descrivere i castelli medievali e, in particolare, le loro caratteristiche militari. Questa scelta sembrava offrire molti vantaggi. Le "analogie"(58)formali (almeno apparenti) tra i "nuraghi" e i "castelli" parevano allora (e paiono ancora oggi a molti studiosi) indiscutibili; inoltre la terminologia scelta offriva anche il vantaggio di essere gi codificata e
conosciuta non solo dagli studiosi, ma anche dai non addetti ai lavori.
Termini come "torre", "castello" , "mastio"( o "maschio"), "garitta" (o
"garetta"), "ballatoio", ecc., sono entrati dunque nel vocabolario comune
per descrivere i nuraghi e i vari elementi che li compongono. Ancora oggi
l'uso di questi termini pressoch canonico nei testi di archeologia che si
occupano della civilt nuragica. Insomma, potremmo affermare che l'operazione scientifica compiuta allora da Lilliu fu ci che oggi definiremmo una modellizzazione del "nuraghe" utilizzando il "castello" come
modello di riferimento(59).
Ora, non possiamo dimenticare che, come mi pare evidente, l'uso di un
dato linguaggio produce sempre, a livello semantico, delle implicazioni
connotative(60).Il termine "castello" fa evidentemente riferimento ad uno
specifico tipo di monumento:
Si traduce con castello il latino castrum, che nelle fonti medievali non indica pi l'accampamento militare, come nel latino classico, ma una fortificazione permanente.
Fino all'et di Carlo Magno i castelli sono poco numerosi e il diritto di edificarli spetta soltanto al re; ma con il crescere dell'insicurezza nei secoli IX e X, dovuta soprattutto alle incursioni arabe, ungare e normanne, e con la contemporanea disgregazione dell'impero carolingio, lacerato dalle lotte fra i successori di Carlo, chiunque possegga terre, schiavi e coloni e disponga dei mezzi per farlo comincia ad edificare fortezze a protezione dei propri possedimenti(61),
Gi da questa breve descrizione della funzione e della storia del monumento-castello appaiono evidenti quali implicazioni interpretative possano derivare (e in effetti siano derivate) dall' adozione della nomenclatura
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zione dei nuraghi. Se infatti pu apparire legittimo considerare "probabile" (in verit in ambito scientifico ben poche affermazioni - forse nessuna
- possono essere definite "scontate") l'affermazione riguardante la provenienza dei materiali da costruzione "da vicine cave", non pare possibile
dire altrettanto riguardo alla seconda affermazione, che sembra sottintendere un sillogismo di questo tipo:
l) tutti i monumenti (dell'antichit) di dimensioni imponenti sono stati edificati utilizzando "masse servili";
2) i nuraghi sono monumenti (dell'antichit) di dimensioni imponenti;
3) i nuraghi sono stati edificati impiegando "masse servili".
Esplicitando in tal modo l'inferenza, appare evidente quanto la validit
della premessa maggiore sia tutta da dimostrare: quali sono infatti le prove
(archeologiche e storiche) del fatto che tutti i monumenti (dell 'antichit) di
dimensioni imponenti siano stati edificati utilizzando "masse servili"?
D'altro canto, se sottoponiamo la realt nuragica ad un confronto comparativo con altre realt monumentali dell' antichit, l' attendibilit di tale
affermazione appare ancora pi incerta. ormai noto, ad esempio, che
anche per l'edificazione delle piramidi egizie (monumenti dell' antichit di
dimensioni ancora pi imponenti rispetto a quelle raggiunte dai nuraghi)
non venivano impiegati "schiavi", ma si ricorreva all'utilizzo di manodopera costituita da uomini liberi.
Nell' Antico Regno, doveva certamente esistere una numerosa manodopera addetta alla
costruzione delle piramidi, ma non ci restano particolari sul modo in cui questi uomini erano controllati e diretti, n sui luoghi dove erano alloggiati. La maggior parte della forza di
lavoro era formata da contadini reclutati. In teoria, ogni egiziano era tenuto a svolgere un
servizio di corve, e aveva l'obbligo di lavorare per lo stato un certo numero di giorni
all'anno. I pi ricchi evitavano questo servizio procurando dei sostituti o pagando per
essere esonerati, e cos erano i contadini che in pratica fornivano il lavoro. [... ] Bench i
contadini reclutati formassero la maggioranza della manodopera, anche nell'Antico
Regno vi sarebbero stati artigiani di professione e architetti responsabili del lavoro pi dettagliato sul complesso funerario, e questi sarebbero stati alloggiati vicino alle piramidi(64).
5. Conclusioni
Non spingo oltre, per ovvi motivi di spazio, l'analisi del testo di Giovanni Lilliu.
L'intento di queste brevi riflessioni, lo ribadisco, non era quello di esprimere giudizi di alcun genere sull' opera di Lilliu. Ci che ho tentato di fare
stato utilizzare un opera come La civilt nuragica, dotata di un innegabile carattere di "esemplarit", per mostrare che nessuna delle premesse,
anche linguistiche, parimenti alle ipotesi che, in qualunque fase della ricerca, vengono formulate dal ricercatore pu essere ritenuta (e conseguentemente trattata come) "scontata". anzi assai spesso proprio ci che ci appare "scontato" a richiedere da parte nostra una pi attenta verifica scientifica.
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-.
Perch dunque la traduzione dei testi archeologici in discorso archeologico acquisisca un maggiore rigore termino logico e quindi teoricometodologico, occorre, a mio avviso, che la preliminare negoziazione dei
criteri traduttivi assuma anche in ambito archeologico il valore di abituale prassi operativa.
In tal modo non arriveremo certo ad annullare la presenza di quel quasi che ci separa dalla cosa che, traducendo, aspiriamo a comprendere, ma
per lo meno potremo tentare di quantificare e qualificare scientificamente i tratti distintivi della cosa che aspiriamo a tradurre.
191
NOTE
(1)
(2)
(3)
(4)
(5)
(6)
(7)
(8)
(9)
(10)
192
CALVINO1995, p. 325-326.
Il concetto di archeologia su cui incentrato l'articolo di Calvi no da intendersi nella peculiare accezione foucaultiana. Per un approfondimento in merito a tale concetto, si vedano, in
particolare: FOUCAULT1966; FOUCAULT1969; GINZBURG1979; CELATI2001; MELANDRI2004.
Gi l'uso di questa e di altre espressioni semanticamente affini, ricorrenti nella letteratura
archeologica, meriterebbe un'analisi specifica ed approfondita che in questa sede non mi
possibile affrontare.
Come ci ricorda Umberto Eco, sorge il sospetto che [il soggetto] sia pur sempre una collettivit di soggetti (Eco 1984, pp. 53-54). In questa sede il termine "archeologo" dovr
quindi essere sempre inteso come riferito alla collettivit di soggetti costituita dall'insieme
degli interessi che accomunano gli archeologi nelle loro ricerche, in questo senso designante un preciso "soggetto cognitivo" mosso da un proprio specifico interesse scientifico.
Al termine "contaminazione" si tende ad attribuire, pi o meno esplicitamente, una valenza
semantica negativa, tanto pi se impiegato per designare l'esito dei rapporti tra individui appartenenti ad entit culturalmente eterogenee. In realt per, che la "contaminazione" o il "contagio" tra entit culturalmente eterogenee debba sempre e necessariamente generare esiti negativi una convinzione la cui validit appare niente affatto scontata. Sul tema, a cui qui non posso che accennare di sfuggita, esiste una vastissima e assai stimolante letteratura, soprattutto
pertinente all'ambito della riflessione antropologica. Tra le tante segnalazioni possibili, d'obbligo il rimando a SPERBER1996, in cui viene proposta in forma esplicita e articolata una teoria epidemiologica degli scambi culturali. Di grande interesse anche il dibattito seguito alla
pubblicazione di tale proposta, di cui segnalo alcuni esempi significativi: CHEYRONNAUD,
ROUSSIN,VIGARELLO1998; MANETTI,BARCELLONA,
RAMPOLDI2003; MANETTI2004.
FOUCAULT1971, trad. it. 2001, p. 21. Troviamo una esplicita indicazione in merito ali "utilit di affrontare un'analisi critica del discorso archeologico nella prospettiva indicataci da
Foucault in MALINA,VASICEK1990, trad. it. 1997, p. 199. In ADAM,BOREL,CALAME,KILANI 1995, ci viene offerta una acuta riflessione critica sul discorso antropologico che, prendendo le mosse proprio dal concetto foucaultiano di "discorso", pu offrire molti spunti
applicativi anche in ambito archeologico. Per un approccio semiotico all'analisi dei discorsi scientifici, si veda, in particolare: BASTIDE2001. Per un approccio all'analisi semiotica di
un certo modo, molto diffuso, di impostare gli articoli di divulgazione scientifica, si veda, da
ultimo: POZZATO2004. Per un'analisi dei discorsi scientifici in ambito archeologico, si vedano, in particolare: GARDIN1974; GARDIN1995. Tra i vari meriti attribuibili alla definizione
foucaultiana di "discorso", mi pare debba essere segnalato quello di rendere esplicita la
valenza di inquadramento metacomunicativo che ogni codice discorsivo assume inevitabilmente per chiunque si trovi ad operare al suo interno. Troviamo una esplicita definizione del
concetto di "inquadramento metacomunicativo", accompagnata da una vasta ed illuminante
riflessione critica su tale concetto, nel fondamentale BATESON1972.
CLARKE1968, trad. it. 1998, p. 27.
KUHN 1970, trad. it. 1978, p. 70. La legittimit dell 'utilizzo, anche in ambito archeologico,
dello "strumentario concettuale" elaborato da Kuhn suffragata dal fatto che la stessa
comunit scientifica degli archeologi ad aver adottato da tempo il concetto kuhniano di
"paradigma" per descrivere le proprie procedure di ricerca e per ragionare criticamente su di
esse, anche se da questa scelta, come ho cercato di dimostrare in altra sede (SIRIGU2004a),
non sono state tratte tutte le dovute conseguenze logiche.
FOUCAULT1971, trad. it. 2001, p. 23.
anzi proprio nel momento in cui si instaura una dinamica dialogica con il "mondo esterno" ad uno specifico "universo" disciplinare che si percepisce con maggior evidenza la forza strutturante del principio di controllo della produzione del discorso. La forza e la pervasivit di tale principio si manifestano infatti non solo all 'interno di ogni specifico ambito
scientifico, regolandone anche le dinamiche di accesso, ma anche all'esterno, giungendo a
determinare la nascita e i connotati di quel genere di discorso che potremmo definire parascientifico, strutturato per sempre secondo specifici vincoli linguistico-argomentativi
non
meno forti di quelli che connotano il discorso propriamente scientifico.
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(41)
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(42)
(36)
(40)
(35)
(34)
(37)
(44)
(45)
(46)
STAROBINSKI
1974, trad. it. 1981, p. 193.
BARTHES1964, trad. it. 1992, pp. 13-14.
BARTHES1964, trad. it. 1992, p. 14.
HJELMSLEV1943, trad. it. 1961, p. 6.
BECCARIA1996.
GUIDI 1994,p. 100.
FINLEY1971, 1975, trad. it. 1981, pp. 84-106.
BLOCH1959, trad. it. 1969, pp. ]36-160.
BLOCH1959, trad. it. 1969, p. 137.
BLOCH1959, trad. it. 1969, p. 137.
BLOCH1959, trad. it. 1969, p. 137.
BLOCH1959, trad. it. 1969, p. 140.
BLOCH1959, trad. it. 1969, p. 138.
BLOCH1959, trad. it. 1969, p. 139.
BLOCH1959, trad. it. 1969, p. 140.
BARTHES1964, trad. it. 1992, p. 81.
quanto propongo, in forma pi esplicita e articolata di quanto non mi sia possibile fare in
questa sede, in SIRIGU2002.
Ne] parlare di "testo archeo]ogico" faccio riferimento ad un concetto pienamente assimi]abile a quello di testo semiotico. Per un esame specifico del concetto rinvio a due miei precedenti lavori: SIRIGU2002 e SIRIGU2006a.
QUINE 1960.
PRIETO] 995, p. 9.
Uso vo]utamente i] termine "comprensione" in luogo del termine "conoscenza". Ritengo
infatti che i] fine della ricerca archeo]ogica possa (e debba) essere non so]o]a conoscenza del
passato ma anche ]a comprensione dei fenomeni storici. Per un sintetico quanto illuminante
approfondimento critico delle propriet logiche che legano - e perci stesso separano - questi due concetti, rinvio a: PETRILLI2004.
BROOKS1984, trad. it. 1995, p. VII.
Per un approfondimento critico su questo tema, anche se rivolto all'ana]isi della funzione
narrativa come strumento storiografico, mi limito a tre segna]azioni bibliografiche: WHITE
1973; TOPOLSKI]997; SCARANO2004.
Che pure meriterebbe (e, a mio avviso, necessiterebbe di) ben altro spazio a disposizione per
una specifica ed estesa trattazione analitica.
CALVINO1995, pp. 18]8-]819.
ASSMANN1997, trad. it. 2000, pp. 25-26. Esu]a dagli obbiettivi di questo lavoro un'analisi
approfondita del testo di Lilliu finalizzata a mettere in luce eventuali implicazioni mnemostoriche. Sono convinto per che tale analisi meriterebbe di essere condotta. Spero in futuro
di avere occasione di assumere questo impegno.
CALVINO1995, p. 1818.
CALVINO1995, p. 1819.
CALVINO1995, p. 1821. Per una approfondita e stimolante riflessione sul concetto di "classico", segnalo anche il recente SETTIS2004.
GENETTE1987, trad. it. 1989, p. 3.
GENETTE]987, trad. it. 1989, p. 3.
GENETTE1987, trad. it. 1989, p. 4.
Di estremo interesse, anche se non percorribile in questa sede, appare una prospettiva di analisi
finalizzata all'individuazione degli attributi culturali abitualmente riconosciuti dagli studiosi
come peculiari della "civilt nuragica" utilizzando gli strumenti concettuali elaborati da] semiologo russo Jury M. Lotman. Per una presentazione di sintesi dei fondamenti teorici che guidano
lo studio della tipologia della cultura, rinvio alla lettura di LOTMAN,USPENKIJ]995.
LEROI-GOURHAN]988, trad. it. 1991, p. ]80.
LEROI-GOURHAN]988, trad. it. 1991, p. 157.
Lo spazio del "paratesto" pu essere ulteriormente articolato in un peritesto e in un epitesto. Col
termine peritesto Genette designa tutti quegli elementi paratestuali che trovano una collocazione fisica nei pressi immediati (quando non addirittura "neg]i interstizi") del testo: titolo, prefa-
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zione, titoli dei capitoli, certe note (GENETTE1987, trad. it. 1989, p. 6); col termine epitesto si
designa invece l'insieme di tutti i messaggi che si trovano, almeno originariamente, all'estemo
del libro: generalmente in ambito mediatico (interviste, conversazioni), o in forma di comunicazione privata (corrispondenze, giomali intimi, e altro)>>(GENETTE1987, trad. it. 1989, p. 7).
LILLIU1984, p. 9.
SAUSSURE1922, trad. it. 1991, pp. 85-86.
HJELMSLEV1943, trad. it. 1968, pp. 52-65; BARTHES1964, trad. it. 1992, pp. 34-44; Eco
1975, pp. 76-81.
HJELMSLEv1943.
BARTHES1964, trad. it. 1992, p. 45.
Secondo Saussure, l'arbitrariet totale nel caso del segno linguistico, mentre per quanto
riguarda gli altri generi di segni pu essere parziale, pu cio esistere (come nel caso dei simboli) un qualche legame naturale tra il significante e il significato che concorrono a formare
un dato segno (SAUSSURE1922, trad. it. 1991, pp. 85-88). Peirce attribuisce agli indici e alle
icone (che, insieme ai simboli, rappresentano, nella sua codificazione, i tre principali tipi di
segni) una qualche motivazione che giustifichi il loro 'essere segno' rispetto al proprio referente (PEIRCE 1931-1935, trad. it. 1980, pp. 139-141). Eco ha sostenuto che in realt il problema dell' arbitrari et del segno pi complesso di quanto Saussure e Peirce non avessero
supposto, e che il carattere di convenzionalit presente, in qualche misura, in tutti i tipi di
segni (Eco 1975, pp. 256-284). Qualunque sia l'importanza data al carattere di arbitrari et dei
segni, esso non va mai confuso con la possibilit di un uso arbitrario dei segni stessi da parte dei singoli soggetti, i quali sono sempre sottoposti ai vincoli stabiliti dalle convenzioni
sociali. Proprio l'arbitrariet del segno spinge quindi il sistema a rafforzare i vincoli entro cui
un segno pu essere correttamente impiegato (SAUSSURE1922, trad. it. 1991, p. 87).
LILLIU1984, p. 9. Il fenomeno del reimpiego rappresenta uno dei problemi interpretativi pi
seri tra quelli con cui l'archeologo deve fare i conti nella sua pratica operativa. Di grande utilit potrebbe dunque rivelarsi un sistema tassonomico capace di inquadrare all'intemo di una
organica struttura logica i differenti tipi di reimpiego in cui l'archeologo pu concretamente
imbattersi. Di grande interesse, anche per la potenziale utilit applicativa in campo archeologico, mi pare in questo senso la classificazione delle modalit di reimpiego proposta in
Eco 1998. Desidero ringraziare sentitamente il Professor Eco per avermi inviato, con un atto
di grande cortesia, questo suo contributo.
LILLIUI984,pp.217-219.
Senza una chiara presa di posizione rispetto a tali problemi di natura logica, si pu giungere (e di fatto c' chi giunto) ad affermare, con evidente forzatura ideologica, che esista una
sostanziale identit culturale tra i sardi nuragici e i sardi di oggi, utilizzando i dati archeologici (o, pi propriamente, una loro lettura interpretativa) come fondamento giustificativo
di tale affermazione. Ho affrontato il problema in SIRIGU2004a e in SIRIGU2006.
LILLIU1984, p. 9.
LILLIU1984, p. 9.
Per un approfondimento critico delle innumerevoli implicazioni logiche e filosofiche inerenti all'uso del concetto di analogia, rinvio al (gi citato) fondamentale: MELANDRI2004.
Troviamo una riflessione particolarmente lucida sull'uso del concetto di 'modelli' in ambito
archeologico in CLARKE1968, trad. it. 1998, pp. 43-72. Per una riflessione pi generale sull'uso di tale concetto in ambito scientifico, d'obbligo rinviare al fondamentale BLACK1962.
Per un chiarimento tecnico del concetto di "connotazione", rinvio alla lettura di BARTHES
1964, trad. it. 1992, p. 79; VOLLI2000, p. lO.
BARBERO,FRUGONI1998, p. 63.
Per un'introduzione critica al problema della definizione del concetto di "trib" rinvio, oltre
che al fondamentale BENVENISTE1969, trad. it. 1976, pp. 197-198 e 244-245, alla sintesi proposta in BONTE 1991; per un'introduzione di sintesi al concetto di "feudalesimo", si veda
GUERREAU1999.
LILLIU1984, p. 68.
DAVID1986, trad. it, 1989, p. 54.
Eco 2003, pp. 9-10.
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zione, titoli dei capitoli, certe note (GENETTE1987, trad. it. 1989, p. 6); col termine epitesto si
designa invece l'insieme di tutti i messaggi che si trovano, almeno originariamente, all'esterno
del libro: generalmente in ambito mediatico (interviste, conversazioni), o in forma di comunicazione privata (corrispondenze, giornali intimi, e altro)>>(GENETTE1987, trad. it. 1989, p. 7).
LILLIU1984, p. 9.
SAUSSURE1922, trad. it. 1991, pp. 85-86.
HJELMSLEV1943, trad. it. 1968, pp. 52-65; BARTHES1964, trad. it. 1992, pp. 34-44; Eco
1975, pp. 76-81.
HJELMSLEV1943.
BARTHES1964, trad. it. 1992, p. 45.
Secondo Saussure, l'arbitrariet totale nel caso del segno linguistico, mentre per quanto
riguarda gli altri generi di segni pu essere parziale, pu cio esistere (come nel caso dei simboli) un qualche legame naturale tra il significante e il significato che concorrono a formare
un dato segno (SAUSSURE1922, trad. it. 1991, pp. 85-88). Peirce attribuisce agli indici e alle
icone (che, insieme ai simboli, rappresentano, nella sua codificazione, i tre principali tipi di
segni) una qualche motivazione che giustifichi il loro 'essere segno' rispetto al proprio referente (PEIRCE1931-1935, trad. it. 1980, pp. 139-141). Eco ha sostenuto che in realt il problema dell'arbitrariet del segno pi complesso di quanto Saussure e Peirce non avessero
supposto, e che il carattere di convenzionalit presente, in qualche misura, in tutti i tipi di
segni (Eco 1975, pp. 256-284). Qualunque sia l'importanza data al carattere di arbitrari et dei
segni, esso non va mai confuso con la possibilit di un uso arbitrario dei segni stessi da parte dei singoli soggetti, i quali sono sempre sottoposti ai vincoli stabiliti dalle convenzioni
sociali. Proprio l'arbitrariet del segno spinge quindi il sistema a rafforzare i vincoli entro cui
un segno pu essere correttamente impiegato (SAUSSURE1922, trad. it. 1991, p. 87).
LILLIU1984, p. 9. Il fenomeno del reimpiego rappresenta uno dei problemi interpretativi pi
seri tra quelli con cui l'archeologo deve fare i conti nella sua pratica operativa. Di grande utilit potrebbe dunque rivelarsi un sistema tassonomico capace di inquadrare all'interno di una
organica struttura logica i differenti tipi di reimpiego in cui l'archeologo pu concretamente
imbattersi. Di grande interesse, anche per la potenziale utilit applicativa in campo archeologico, mi pare in questo senso la classificazione delle modalit di reimpiego proposta in
Eco 1998. Desidero ringraziare sentitamente il Professor Eco per avermi inviato, con un atto
di grande cortesia, questo suo contributo.
LILLluI984,pp.217-219.
Senza una chiara presa di posizione rispetto a tali problemi di natura logica, si pu giungere (e di fatto c' chi giunto) ad affermare, con evidente forzatura ideologica, che esista una
sostanziale identit culturale tra i sardi nuragici e i sardi di oggi, utilizzando i dati archeologici (o, pi propriamente, una loro lettura interpretativa) come fondamento giustificativo
di tale affermazione. Ho affrontato il problema in SIRIGU2004a e in SIRIGU2006.
LILLIU1984, p. 9.
LILLlU 1984, p. 9.
Per un approfondimento critico delle innumerevoli implicazioni logiche e filosofiche inerenti all'uso del concetto di analogia, rinvio al (gi citato) fondamentale: MELANDRI2004.
Troviamo una riflessione particolarmente lucida sull'uso del concetto di 'modelli' in ambito
archeologico in CLARKE1968, trad. it. 1998, pp. 43-72. Per una riflessione pi generale sull'uso di tale concetto in ambito scientifico, d'obbligo rinviare al fondamentale BLACK1962.
Per un chiarimento tecnico del concetto di "connotazione", rinvio alla lettura di BARTHES
1964, trad. it. 1992, p. 79; VOLLI2000, p. IO.
BARBERO,FRUGONI1998, p. 63.
Per un'introduzione critica al problema della definizione del concetto di "trib" rinvio, oltre
che al fondamentale BENVENISTE1969, trad. it. 1976, pp. 197-198 e 244-245, alla sintesi proposta in BONTE 1991; per un'introduzione di sintesi al concetto di "feudalesimo", si veda
GUERREAU1999.
LILLIU1984, p. 68.
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