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“Lectio magistralis” del prof.

Valerio Castronovo

In questi ultimi anni gli storici hanno cominciato a stilare un bilancio di quanto è
avvenuto nel corso del ventesimo secolo, non solo per riordinare le idee, ma anche per
cercare di capire dove stiamo andando, che cosa ci aspetta. Come sappiamo, ogni epoca
ha avuto una sua specifica identità. Ma possiamo valutarne la natura e la consistenza, solo
se inforchiamo le lenti giuste, che ci consentano di mettere a fuoco il quadro complessivo
delle vicende e dei fenomeni che hanno contribuito a caratterizzare un determinato
periodo nei suoi aspetti di fondo e nelle sue linee di tendenza.
Una visione prospettica a tutto campo è tanto più indispensabile se vogliamo individuare
quale sia il tratto distintivo, l’elemento caratterizzante, di un secolo come il Novecento.
A mio avviso, il fulcro, il dato peculiare del Novecento, consiste nella sua estrema
complessità, nella sua dimensione polivalente e magmatica, rispetto a ogni altro periodo
storico. Si è trattato infatti di un secolo la cui trama, composta di un gran numero di fili, è
stata tessuta o ricucita da tante mani, sotto più cieli e a diverse latitudini, con disegni e
propositi differenti quando non del tutto opposti l’un l’altro.
Sappiamo come il Novecento sia stato un secolo segnato in modo indelebile da una prima
e da una seconda conflagrazione mondiale, una più spaventosa dell’altra, con un lugubre
strascico di guerre civili. E sappiamo che il Novecento è stato sovrastato da due ideologie
totalitarie, il nazifascismo e il comunismo, che, mosse dall’idea di plasmare le coscienze
e di cambiare il mondo, hanno coinvolto e sedotto milioni di uomini e si sono macchiate
di immani misfatti. E sappiamo perciò che il Novecento ha visto quanto di peggio non si
sarebbe potuto immaginare ai suoi albori: i mostruosi stermini di massa nelle camere a
gas dei lager, e l’orrenda sorte di un gran numero di dannati ai lavori forzati nell’inferno
concentrazionario dei gulag.
Si è trattato di due nefandezze che si devono naturalmente giudicare con un metro
diverso, così come diversa era la motivazione con cui sono state perpetrate. La prima, in
nome del dominio di una “stirpe eletta”, è sfociata nel genocidio di sei milioni di ebrei,
tanto che la Shoah costituisce un unicum di violenza politica in tutta la storia
dell’umanità, in quanto fu il risultato di un disegno aberrante volto all’annientamento
biologico di un’intera comunità, spogliata dello stesso status di esseri umani. La seconda,
che ha provocato la soppressione di milioni di uomini nelle carceri della Lubianka e
nell’arcipelago dei gulag, è stata il risultato della demonizzazione ideologica di un’intera
classe sociale, la borghesia, marchiata come “nemica oggettiva”, della causa socialista,
indipendentemente dai comportamenti dei singoli.
A ogni modo, quello che deve indurci a riflettere, dinanzi a queste due tragiche
esperienze, è la “banalità del male”, come l’ha definita Hannah Arendt. Ossia del modo di
pensare e del contegno di tanta gente comune. I crimini compiuti avvenuti sotto le
insegne del nazismo sono stati compiuti infatti da uomini e donne che li ritenevano dei
compiti di ordinaria amministrazione, così da non suscitare in loro alcun scrupolo e
ripensamento. A loro volta i crimini avvenuti sotto le insegne del comunismo non sono
stati unicamente il risultato della contraffazione e dello stravolgimento di un’utopia
politica, ma anche dell’assuefazione di milioni di persone all’idea che il bene della vita, il
rispetto della dignità e dei valori dell’individuo, fosse qualcosa di insignificante rispetto
a un fine superiore come la promessa di una palingenesi sociale di portata universalistica.
Per giunta, il Novecento ha visto anche l’apocalisse della prima bomba atomica sulla
popolazione di Hiroshima e Nagasaki. E gli aviatori americani che l’hanno sganciata si
erano offerti volontari per un’impresa del genere, mentre i comandi militari ben sapevano
che le due città prese di mira non avevano nessun carattere strategico sotto il profilo
militare.
Ma il novecento non è stato solo un secolo sprofondato in un abisso di violenze e di
atrocità. Il Novecento è stato anche un secolo in cui si sono susseguiti importanti eventi
di segno positivo, come l’emancipazione civile della gente di colore, il disfacimento dei
vecchi edifici imperiali e un processo di decolonizzazione in tre quarti del globo, sotto la
spinta sia di lotte armate di liberazione nazionale sia di “rivoluzioni non violente”; la fine
dell’apartheid, delle discriminazioni più odiose e intollerabili, e la diffusione di una
nuova etica, quella del rispetto dei “diritti umani”.
Perciò il Novecento ha visto la gestazione e l’avvento, in termini tangibili e con
implicazioni significative sotto tanti aspetti, di un “mondo al plurale”, di un mondo
popolato da un sempre maggior numero di attori, con le loro specifiche identità, di nuovi
Stati nazionali e di nuovi soggetti politici. E il teatro della storia si è così ampliato,
rispetto a quello dei primi cinquanta-sessant’anni del secolo, che era ancora incentrato sui
grandi scontri ideologici nell’ambito del mondo sviluppato.
D’altra parte, a questo mutamento di orizzonti e alla comparsa di scena di nuove figure di
nuove idee hanno contribuito profonde trasformazioni economiche culminante nella
seconda rivoluzione tecnologica (quella dell’informatica e della cibernetica), eccezionali
e strepitose conquiste scientifiche; una sequenza pressoché ininterrotta di mutamenti nella
vita sociale e nelle istituzioni pubbliche, nello status civile e giuridico delle donne e nella
condizione dei giovani, nei livelli dell’istruzione e delle conoscenze, nei costumi e nei
comportamenti collettivi. E si è trattato di cambiamenti di tale intensità e incidenza da
propagarsi dall’uno all’altro capo del pianeta e da coinvolgere, sia pure in diversa misura,
larga parte dell’umanità. Un mondo dunque sempre più al plurale.
Il Novecento è stato inoltre il secolo dello sbarco del primo uomo sulla Luna, delle
avventure spaziali e delle esplorazioni dell’Universo, che hanno dischiuso le porte di una
nuova era, quella tecnologica. Né si può certo dimenticare che il Novecento è stato un
secolo in cui, grazie ai grandi progressi della medicina e alla diffusione dell’assistenza
sanitaria, è venuta trasformandosi la condizione umana, sulla base di una transizione
demografica (da tre a sei milioni di uomini) quale mai era avvenuta nel corso della storia.
Si è allungata, infatti, notevolmente, la speranza di vita nei paesi più avanzati e si sono
ridotti gli indici di mortalità nelle aree più povere. Dunque una svolta di portata epocale.
A imprimere un ulteriore carattere peculiare al Novecento è giunta infine la più
importante impresa scientifica dopo la scissione dell’atomo, quella destinata a completare
la mappa del genoma umano. Dopo che la psicanalisi aveva aperto la strada per la
comprensione dell’inconscio, della sfera interiore dell’uomo, adesso avremo anche la
possibilità di venire a capo del mistero della vita, di quanto sta alla base della nostra
realtà biologica.
Perciò alla luce di quanto è avvenuto di così rilevante e significativo nel corso del
Novecento, non si può comprimere il suo scenario e il suo tracciato entro uno schema
esplicativo univoco e lineare: come se il suo percorso recasse esclusivamente o quasi
l’impronta di un determinato fenomeno storico tale di per sé da costruire in termini
emblematici il denominatore comune e il senso ultimo del Novecento.
A mio giudizio, non si è trattato dunque di un “secolo breve”, come il Novecento è stato
definito dallo storico marxista inglese Eric Hobsbawm in un notissimo saggio, che ha
finito per diventare d’uso corrente. La Rivoluzione d’Ottobre e la caduta del muro di
Berlino, l’avvento e il crollo dell’Unione Sovietica, non sono stati l’alfa e l’omega del
Novecento. Così da poter dire che, a connotare il Novecento, sia stato in pratica quanto è
accaduto fra il 1917 e il 1989.
Non per questo s’intende, naturalmente, misconoscere in alcun modo il ruolo
fondamentale che l’alba e il tramonto dell’Unione sovietica, e quanto è avvenuto nel
mezzo di questi due eventi, per reazione o in alternativa agli sviluppi del comunismo,
hanno avuto nella storia del ventesimo secolo. Tuttavia fra comunismo e anticomunismo
nelle differenti componenti e versioni in cui l’uno e l’altro si sono espressi, pur avendo
rivestito un’importanza cruciale, non può essere assunta di per sé quale unica chiave di
lettura di un’intera epoca, come una sorta di filo d’Arianna con cui venire a capo di quel
labirinto che è stato il Novecento.
D’altra parte, se assumessimo lo stesso parametro ideologizzante proposto da Hobsbawm
(e condiviso, seppur con motivazioni diverse, dallo storico francese, François Furet), che
fa del comunismo (delle sue fortune e della sua parabola) il fulcro e la cifra della storia
del Novecento, potremmo trarre una conclusione diametralmente opposta. E dire, perciò,
che il crinale decisivo, e quindi il valore periodizzante del ventesimo secolo, sta nella
crescita e nel successo della democrazia liberale, in quanto essa è riuscita ad avere la
meglio tanto sull’uno che sull’altro dei suoi antagonisti, il nazifascismo e il comunismo,
che l’avevano data parimenti per moribonda. Ma anche in questo caso, non si tratterebbe
di un’interpretazione pervasiva, tale di per sé da racchiudere altri importanti snodi che
hanno scandito l’itinerario del ventesimo secolo e da rendere conto dei molteplici fattori
che hanno concorso a determinare lo “spirito del tempo”.
Oltretutto, sia l’una che l’altra di queste due versioni del Novecento finirebbero per fare il
paio con una tesi rivelatasi altrettanto discutibile, come quella del politologo
nippoamericano Francis Fukuyama, che tanto affascinò a suo tempo i mass media con la
diagnosi sulla “fine della Storia”. Come a dire che, una volta crollata l’Unione Sovietica e
affermatasi l’egemonia mondiale degli Stati Uniti, la tela della storia si sarebbe dipanata
in avvenire con lo stesso ordito e le medesime coloriture. E questo perché, venuta meno
la forza propulsiva del comunismo, nessun’altra opzione ideologica, nessun’altra ipotesi
per il futuro, avrebbe conteso il campo alla democrazia e al capitalismo. Perciò non
sarebbe rimasta che una sola e unica direttrice di marcia, senza sostanziali scarti e
varianti, lungo una traiettoria segnata sia dal definitivo sopravvento nel proscenio
mondiale degli interessi mercantili sugli antagonismi nazionali e su altre pulsioni
conflittuali, sia dalla progressiva democratizzazione su scala mondiale degli ordinamenti
politici e dei sistemi di governo.
Quanto è accaduto nell’ultimo scorcio del Novecento ha dimostrato l’infondatezza di
questo referto. Del resto, così come la storia non ha mai seguito in passato una strada
rettilinea, in base a uno svolgimento evolutivo delle istituzioni politiche e delle relazioni
internazionali, all’insegna di determinati principi e valori universali, così ancor oggi il
suo cammino continua a essere indecifrabile, e tantomeno essa è giunta o in procinto di
approdare a una sorta di happy end del suo lungo corso.
Dopo che si è dissolta l’utopia comunista, altre ideologie sono rimaste per sempre in vita
o sono emerse frattanto alla ribalta, ugualmente incompatibili con i principi della
democrazia e dello Stato di diritto o in antinomia con le proiezioni del sistema
capitalistico. Inoltre, la predilezione di coloro che davano per scontata una progressiva
pacificazione del mondo, è stata smentita da una trafila di moti separatisti, rigurgiti
sciovinisti, di azioni terroristiche, di conflitti interetnici e di sovranità, che hanno
investito da allora questa o quella regione del mondo, e che non possono certo essere
considerati dei semplici e insignificanti incidenti di percorso.
In Africa, per esempio, negli ultimi quindici-vent’anni del Novecento, quel che è
avvenuto (fra guerre civili e lotte tribali, fra dispute territoriali e scontri armati fra diversi
Stati nazionali, fra un genocidio e l’altro) ha provocato un numero di vittime che
s’avvicina a quello registratosi nella seconda guerra mondiale. Senza contare quanti
hanno perso la vita nei Balcani durante i conflitti locali e le operazioni di “pulizia etnica”
che hanno rievocato nel cuore dell’Europa certi inquietanti fantasmi del passato.
D’altro canto, la fine della guerra fredda non ha inaugurato per il momento un’era di
autentica cooperazione fra gli ex nemici, fra la Russia e l’Occidente. Venuti meno i
motivi di contesa ideologici, sono rimasti in campo quelli di natura geopolitica, dopo che
Mosca ha visto ridursi il suo impero ai confini settecenteschi di Pietro il Grande.
Ma c’è un ulteriore fenomeno che contraddice la tesi secondo cui il Novecento è stato
caratterizzato sostanzialmente da un filo conduttore di natura politica-ideologica, tale da
coinvolgere in un modo o nell’altro gran parte del mondo. Ed è l’irruzione sulla scena, fin
dagli anni Settanta, del fondamentalismo religioso islamico, che non ha alcun legame con
la contrapposizione fra Est e Ovest. Ma che ha finito per investire un sempre maggior
numero di paesi.
Dalla resurrezione di un sodalizio integralista come quello dei “Fratelli Musulmani”
attivo fin dagli anni Trenta, alla rivoluzione degli ayatollah in Iran nel 1979, dall’avvento
al potere dei Talebani in Afghanistan alla nascita di Al Qaeda negli anni Novanta, il
fondamentalismo estremista islamico non ha coinvolto solo il mondo musulmano, in
nome di una riedizione integrale delle norme primigenie del Corano anche nella vita
pubblica. Si è proposto, fin dall’inizio, in termini antagonistici nei confronti
dell’Occidente, intrecciandosi sia con la reviviscenza dell’etnonazionalismo sia con le
reazioni tradizionaliste alla modernizzazione, ai principi della democrazia e della laicità
delle istituzioni. Tant’è che l’attentato terroristico del settembre 2001 alle Torri Gemelle
di New York è stato il patto di un insieme di suggestioni e di prospettive mistico-utopiche
concepite nell’ultimo ventennio del Novecento, all’insegna di un totalitarismo
confessionale e di un fanatismo nichilista (come quello del martirio-suicida).
Dunque, anche per questo, il secolo ventesimo è stato più “lungo” e più “largo” di quanto
s’immaginasse alla fine degli anni Ottanta sull’onda travolgente di certe valutazioni
politiche e impressioni emotive suscitate dal collasso del comunismo in Europa.
D’altronde, il secolo ventesimo, si è concluso nel segno di un’estrema incertezza,
smentendo talune profezie, tanto più gratificanti quanto di più facile maneggio, che
l’epilogo dell’antitesi fra Est e Ovest fosse il preludio di un itinerario rettilineo e a senso
unico, culminante necessariamente nell’avvento di una nuova epoca, contraddistinta dagli
sviluppi della democrazia politica e dalla pacifica composizione dei contrasti fra i popoli
e le nazioni. Anche perché fin dagli anni Ottanta il Novecento si è posto un problema
cruciale, quello di stabilire se e in che modo sia possibile governare l’economia globale,
affinché essa non sia esposta a tempeste finanziarie sconvolgenti (come quella che ci
troviamo ora a vivere) e contribuisca alla crescita di una società più giusta e progredita, e
valga quindi a debellare la povertà e il degrado del Terzo Mondo.
Non ci sono, perciò, per il futuro pagine di storia già bell’e scritte ma tanti fogli bianchi o
quasi ancora da riempire. Tutte le prospettive sono aperte, e quel fenomeno di
accelerazione della storia che ha caratterizzato il corso del ventesimo secolo, ha assunto
negli ultimi tornanti cadenze ancor più concitate al punto che siamo costretti a rincorrere
affannosamente il succedersi degli avvenimenti.

sv

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