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LA FORMA DEL TEMPO - George Kubler

● PREMESSA
La parziale definizione di arte come linguaggio simbolico ha dominato gli studi artistici
del nostro secolo.
Si è sviluppata così una storia della cultura tutta rivolta allo studio dei significati,
trascurando gli aspetti formali. Ma nessun significato può essere trasmesso se non gli
si da una forma, che può essere percepita indipendentemente dal significato. Scopo di
questo testo è attirare l’attenzione su alcuni dei problemi morfologici di durata e serie
in sequenza

1. LA STORIA DELLE COSE


Supponiamo che il nostro concetto di arte possa essere esteso a comprendere tutti i
manufatti umani, facendo coincidere l’universo delle cose con la storia dell’arte, con
conseguenti nuove linee di interpretazione. Se consideriamo la desiderabilità delle cose
allora saremo capaci di vedere quali sono gli oggetti utili.
Uno studio sistematico delle cose create dall’uomo è iniziato appena 500 anni fa, con
la descrizione delle opere negli artisti del rinascimento. oggi abbiamo archeologia,
etnologia e storia dell’arte, a confermarci che tutto ciò che esiste è una replica o
variante di qualcosa già esistito, in una concatenazione che deve pur ammettere alcune
suddivisioni. Sorge il problema di indentificare nella storia quelle sfaldature dove un
taglio netto permette la separazione di eventi di diversa natura.
Scuole e stili sono il prodotto dell’assiduo inventariare operato dagli storici d’arte
dell’800. Ma non si può continuare all’infinito in una tale catalogazione il cui frutto è
una pletora di impeccabili liste e tavole sinottiche. Tutta l’immensa letteratura artistica
esistente è radicata nei labirinti della nozione di STILE: le sue ambiguità e le sue
inconsistenze riflettono tutta l’attività estetica. Nel XX sec. sotto l’impulso di una nuova
interpretazione simbolica dell’esperienza si è andata formando una scienza chiamata
ICONOLOGIA; ad essa si aggiungono studi che ricostruiscono i momenti euristici della
storia, al fine di giungere al momento aurorale di ogni avvenimento.
Rintracciare il momento della scoperta e le sue successive trasformazioni in
comportamento caratteristico fa parte del programma della storiografia della scienza e
degli studi iconologici. Il metodo di ripartizione del materiale resta tradizionalmente
quello biografico, e poi in divisioni regionali oppure secondo stile e luogo (scuola
umbra, barocco romano)

1.1 LIMITAZIONI DELLA BIOGRAFIA


Accessi individuali. In ogni serie biografia la vita dell’artista è una unità a se stante. Ma
quando se ne fa un’unità fondamentale di studio in una stoia dell’arte, si cade in errore:
il prodotto della vita di un uomo non è che uno degli elementi di una serie che si
estende prima e oltre il suo tempo. Così il genio del rinascimento ci apparirà come un
individuo di talento in un momento particolarmente fortunato del grande rinnovamento
della civiltà occidentale. L’accesso dell’artista alla storia può avvenire dunque sotto
numi propizi o contrari. Due ruote della fortuna governano il suo fato: le doti naturali e il
momento del suo accesso a una sequenza storica.
Talento e genio. Talvolta il problema è razionale, altre volte è artistico: certo è però che
le cose fatte dall’uomo sono sempre soluzioni intenzionali di un determinato problema.
Metafore biologiche e metafore fisiche. Per una storia delle cose il modello biologico,
come stadi di sequenze di vita tutte collegate, non è il più appropriato. Metafore
derivate dalla fisica sembrano adattarsi meglio alla materia artistica, e il linguaggio
dell’elettrodinamica in particolare.
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La storia delle cose intende riunire tutte le materie lavorate dalla mano dell’uomo sotto
la guida di idee. Da tutte queste cose emerge una forma del tempo, un ritratto
dell’identità collettiva. La nostra inveterata
abitudine di distinguere arte e scienza ha avuto disastrose conseguenze, quale la
riluttanza a inquadrare nella stessa prospettiva storica i processi comuni sia all’arte
che alla scienza.
Scienziati e artisti. Scienziati e artisti si avvicinano in quanto artigiani, ma le differenze
rimangono comunque irriducibili. Per quanto elaborato possa essere, un arnese resta
sempre intrinsecamente semplice mentre un’opera d’arte resta, per quanto semplice
possa apparire il suo effetto, intrinsecamente complessa.

1.2 IL COMPITO DELLO STORICO


Il contributo particolare dello storico è la scoperta delle molteplici forme del tempo. Il
tempo biologico consiste di periodi ininterrotti di durata sistematicamente prevedibile
mentre il tempo storico risulta intermittente e variabile. Suoi elementi costitutivi sono
gli eventi e i loro intervalli. Se nella biologia gli intervalli di tempo non interessano, nel
tempo storico ciò che attira la nostra attenzione è proprio quel tessuto dinamico che
riempie gli intervalli e allaccia le esistenze. Il funzionamento dell’orologio culturale si
basa su frammenti di materiale rinvenuto. Solamente le arti di natura materiale sono
sopravvissute: della musica e della danza, della lingua parlata e dei riti non è rimasto
praticamente niente. La prova dell’esistenza dei popoli è perciò da ritrovare nella
materia e nello spazio più che nel tempo e nel suono.
Tra utilità assoluta e arte pura i prodotti dell’uomo includono sempre utilità e arte in
varie proporzioni e non possono concepire un oggetto senza l’uno o l’altro di tali
ingredienti.
Divisione delle arti
La divisione accademica fatta nel 600 tra arti liberali e mestieri cominciò a passare di
moda circa un secolo fa. Nel 1880 il concetto di “belle arti” già veniva bollato come
epiteto borghese. Un concetto di unità estetica venne così ad abbracciare tutte le
manifatture umane, invece di nobilitarne alcune a spese di altre.
Per il nostro studio è impellente proporre due distinzioni: in primo luogo c’è una grande
differenza tra l’apprendimento di un mestiere e il lavoro inventivo di un artista.
Secondariamente va tenuta in considerazione la natura utilitaria ed estetica di ciascun
ramo dell’attività artistica, in cui comunicazioni o temi iconografici formano la
sottostruttura utilitaria e razionale. Già nel 600 Lodoli anticipava il funzionalismo del
nostro secolo affermando che solo il necessario è bello. Sullo stesso argomento Kant
precisava che il necessario è anzitutto giusto e consistente. In breve un’opera d’arte è
tanto inutile quanto un attrezzo è utile, ma mentre le opere d’arte sono uniche e
insostituibili, gli attrezzi sono comuni e facilmente sostituibili.

1.3 NATURA DELL’ATTUALITA’


L’attualità è il vuoto che separa gli eventi; eppure l’istante attuale è tutto quanto
possiamo conoscere direttamente. L’istante presente è il piano sul quale sono proiettati
i segnali di tutto l’essere. I nostri segnali provenienti dal passato sono molto deboli; i
più deboli sono quelli provenienti dal momento inziale e finale di una sequenza di
eventi. Pochissimi sono gli indizi di questi momenti di passaggio: schizzi per buttare
giù forme appena immaginate.
Delle arti e delle stelle
Conoscere il passato è stupefacente quanto conoscere le stelle: gli astronomi vedono e
studiamo soltato luci passate. Molti eventi storici, come i corpi celesti, avvengono
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molto prima di apparire. Come l’astronomo anche lo storico è impegnato a ritrarre il
tempo. Ma subito le parallele divergono poiché per l’astronomia gli eventi futuri sono di
natura fisica e ricorrente, mentre per lo storico sono di natura umana e imprevedibili.
Segnali
Un’opera d’arte trasmette un certo comportamento dell’artista, ed è anche spesso
punto di partenza di trasmissioni che a posteriori vengono amplificate in maniera
straordinaria, in una sequenza di eventi, segnali, eventi riprodotti, nuovi segnali. Un
evento storico si compone quindi di un evento con i segnali da questo originati, e una
persona capace di riprodurli. La ricostruzione di eventi iniziali attraverso
l’interpretazione dei segnali è il prodotto principale della ricerca storica.
Relè
La conoscenza storica consiste di trasmissioni nelle quali il trasmettitore, il segnale e il
ricevitore sono tutti elementi variabili suscettibili di influenzare la stabilità del
messaggio. Quando il ricevitore diventa a sua volta trasmettitore possiamo
raggruppare i due insiemi sotto la rubrica dei relè: ogni relè è la fonte di qualche
deformazione del segnale originale, in modo volontario o involontario, a seconda della
sua posizione storica: il segnale ritrasmesso è composto da l messaggio ricevuto e da
altri impulsi forniti dal relè stesso. Il rinnovamento dei miti è un caso tipico: quando
l’antica versione diviene obsoleta al punto da essere inintelligibile, viene riformulata in
termini moderni e continua ad assolvere così i vecchi compiti interpretativi.
Uno dei compiti principali dello storico è condensare la molteplicità e la ridondanza dei
segnali usando vari schemi di classificazione. Del resto la storia si scrive anche per
molte ragioni eminentemente pratiche, ognuna delle quali impone allo storico una
visione: il suo lavoro consiste dunque in massima parte nell’elaborare messaggi
credibili sulla base dei fondamenti forniti dai segnali primari.

1.4 SEGNALI PROPRI E SEGNALI AGGIUNTI


Il segnale proprio è la silente dichiarazione di esistenza delle cose (il martello sul
banco da lavoro segnala che il manico serve a impugnarlo, ecc). Anche un quadro
emette un segnale proprio, attraverso i suoi colori e la distribuzione della superficie
sulla tela creano connessioni ottiche. Eppure nel considerare un’opera d’arte i segnali
aggiunti sono quelli che maggiormente attirano l’attenzione. I segnali propri da soli non
provano altro che l’esistenza; i segnali aggiunti provano l’esistenza di un significato. Le
correnti artistiche recenti – l’espressionismo astratto ad es. – mettono in risalto i soli
segnali propri; d’altra parte gli studi iconografici e accademici hanno concentrato la
loro attenzione solo sui segnali aggiunti: il risultato è stata un malinteso tra storici e
artisti, una divergenza vecchia quanto l’arte e la storia. Si trovano certo degli storici che
possiedono la sensibilità e la precisione di un critico; ma sono molto pochi.
Le opere d’arte si distinguono dagli arnesi in quanto contengono un intricato
complesso di segnali aggiunti, come una porta attraverso cui l’osservatore può
accedere allo spazio personale del pittore, per fare lui stesso esperienza dello spazio
che l’artista ha disegnato.
Studi iconografici
L’iconografia è lo studio delle forme assunte dai significati aggiunti, a tre livelli: naturale,
convenzionale, intrinseco. Il significato naturale riguarda la prima identificazione di
cose e persone; il convenzionale sopraggiunge quando si rappresentano azioni o
allegorie leggibili attraverso fonti letterarie; l’intrinseco è l’oggetto dell’iconologia,
dedicata alla spiegazione dei simboli culturali. L’iconologia è dunque un ramo della
storia della cultura nel quale si studiano le opere d’arte allo scopo precipuo di trarne
conclusioni riguardo la cultura stessa.
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Analisi strutturale
La strukturforschung presuppone che poeti e artisti di uno stesso luogo e epoca siano
portatori di uno schema sensitivo centrale. Una tale interpretazione concorda con
quella dell’iconologo, per il quale letteratura e arte sono intercambiabili. Per gli
archeologi invece resta ancora difficile mettere in equazione l’epica omerica e i vasi del
dipylon. La stessa perplessità appare negli studiosi di arte moderna.
La sezione trasversale di un istante, presa su tutta la lunghezza di un momento in un
luogo determinato, assomiglia pi a un mosaico di pezzi in differenti stadi di sviluppo e
appartenenti a diverse età che non a un disegno radiale che conferisce il suo
significato a tutti i pezzi.
Tassonomia del significato
I significati aggiunti variano categoricamente a seconda delle entità che rivestono: i
messaggi architettonici sono diversi da quelli pittorici. I significati subiscono delle
trasformazioni per semplice trasferimento, che vengono scambiate per mutamenti di
contenuto.
Nel medioevo e durante l’antichità tutta l’esperienza trovava le sue forme visuali in un
singolo sistema metaforico: gesta deorum, metafore mitologiche, vite dei santi,
secondo una tendenza a ridurre tutta l’esperienza entro un numero ridotto di temi
campione. L’esperienza viene così incanalata in un unico flusso più potente. È attorno
al 1400 che appare uno schema diverso di rappresentazione dell’esperienza: la
tradizione classica e il suo rinascimento formano una sola corrente nel torrente di
nuove forme che arrivano ad abbracciare tutta l’esperienza; da allora questo torrente
non ha mai smesso di crescere.

2. CLASSIFICAZIONE DELLE COSE


Si vogliono scoprire validi principi generali applicabili all’immenso dominio
dell’esperienza artistica. In questa direzione si muovono, all’inizio del 900 Wickhoff e
Riegl che sostituiscono al moraleggiante giudizio di degenerazione riferito all’arte
romana post-classica, la storia che a un sistema di organizzazione si fosse andato
sostituendo un nuovo sistema, diverso ma di uguale valore. Queste considerazioni
differivano radicalmente dalle nozioni di “sequenza necessaria” avanzate da Wolfflin,
che aveva messo a confronto l’arte italiana del 400 con quella del 600 riconoscendo
fondamentali differenze morfologiche tra i due periodi. Sulle sue orme altri distinsero il
classico dal barocco, riconobbero il manierismo, aggiunsero il rococò e il neoclassico,
tutti come stadi distinti di un ciclo vitale. Le categorie di Wolfflin hanno influenzato la
storia di arte, musica, letteratura. Ma nello stesso tempo storici rigorosi, come Focillon,
condannavano questo approccio che trascurava le qualità individuali di cose e artisti.
Le forme del tempo sono la preda che vogliamo catturare: la nozione di stile, la
biografia, le storie convenzionali delle diverse discipline, la monografia, tutte si lasciano
sfuggire troppi importanti dettagli e non sono in grado di riconoscere il disegno
generale.

2.1 SEQUENZA FORMALI


Ogni opera d’arte può essere considerata la soluzione di un problema. Con
l’accumularsi delle soluzioni il problema cambia di aspetto. In ogni caso il problema
viene messo in luce dalla stessa catena di soluzione adottate.
Soluzioni collegate. Il problema e le sue soluzioni costituiscono un’entità della CLASSE
FORMALE. Soluzioni collegate da legami di tradizione formano una sequenza
concatenata. in matematica una serie significa un gruppo finito; una sequenza invece
suggerisce una successione aperta e estendibile. Un individuo isolato non riuscirà mai
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a esaurire tutte le possibilità di una sequenza formale; ma dove sono i confini di una
sequenza formale?
Ogni opera d’arte ci costringe a una rivalutazione delle opere precedenti. La sequenza
può continuare quando nuovi bisogni aumentano la dimensione del problema.
Sequenze aperte e chiuse
La pittura vascolare greca è una sequenza chiusa. la classificazione sequenziale ci
permette di colmare il vuoto che separa biografia e storia dello stile; è una concezione
dotata di un potere descrittivo più forte della biografia. La lunga la nozione di sequenza
può tonarci utile come ponteggio, da eliminare più tardi, dopo che è servito ad accedere
a parti prima invisibili dell’edificio storico. È seccante vedere l’individualità sminuita
dalle classificazioni. Siamo dunque presi tra due fuochi: le cose sono, ognuna
individualmente, delle entità estremamente complicate, che possiamo aspirare di
comprendere solo per principi generali. La definizione più precisa di sequenza formale
è: rete storica di ripetizione di uno stesso tratto, gradatamente modificate. In sezione
trasversale presenta una rete di tratti subordinati: in sezione longitudinale una struttura
di stadi cronologici di magliatura variabile dall’inizio alla fine. Ogni classe di forme
consiste di un problema reale e di soluzioni reali. Noi vogliamo prendere in
considerazione tutti gli oggetti fatti da l’uomo o soltanto una scelta? Arnesi e attrezzi
hanno abitualmente lunghissima durata, tale che è difficile a volte (le pignatte) notare
grandi cambiamenti.
Mode
le mode hanno durate che sono tra le più brevi. Una moda è simile a una classe, ma
differisce dalla sequenza in quanto non ha una dimensione temporale apprezzabile.

2.2 OGGETTI PRIMI E REPLICHE


Gli arnesi da una parte e le mode dall’altra segnano i confini della nostra demarcazione;
ora dobbiamo distinguere tra oggetti primi e repliche. Gli oggetti primi sono come i
numeri primi, non c’è regola per la loro apparizione e si rifiutano di essere scomposti; il
loro ordine storico è enigmatico. Si tratta perlopiù di stelle estinte: non conosceremo
mai, infatti, i nomi degli autori delle tombe etrusche; in questo senso la storia dell’arte
somiglia ad una catena più volte rotta e riparata per tenere insieme le poche ingioiellate
maglie rimaste.
Difficoltà diagnostiche
Per ogni momento critico di mutamento in ogni classe deve esserci un oggetto primo,
che rimane però comunque sfuggente per sua stessa natura. Con oggetti di origine
europea riusciamo spesso ad avvaicinarci al punto focale dell’invenzione più di quanto
possa accadere con oggetti estraeuropei. Del resto in nessuna altra parte del mondo ci
sono stati collezionisti e critici che abbiano tentato di ordinare le cose in modo
sistematico.
Apprezzamento della serie
Una piacevole esperienza comune ad artisti, collezionisti e storici è la scoperta che
un’opera d’aret non è unica, ma che il suo tipo esiste in una varietà di esemplari sparsi
in epoche anteriori e posteriori all’opera data, in alto e in basso nella scala di qualità,
anticipi e derivati, originali e copie, trasformazioni e varianti.
La soddisfazione deriva proprio dalla contemplazione di una sequenza formale, dal
riconoscere una forma nel tempo. Tale ricerca è sempre operata da numerose persone:
l’opera è meglio apprezzabile e più comprensibile se inserita nel continuum di uno
sforzo concatenato.

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Innovazioni tecniche
Ci interessa far notare come una sequenza possa cedere il passo a un’altra quando si
verifica una notevole alterazione di uno degli elementi della sequenza originale. La
sequenza formale corrisponde sempre del resto a una chiara serie di mutamenti
potenziali. va notato d’altra parte che molte innovazioni tecnologiche non provocano
sviluppo immediato (è già accaduto che oscuri insuccessi tecnici fossero riportati alla
luce dopo lunghi periodi di oblio pr riprenderne lo sviluppo).
La serie di soluzioni che formano una sequenza non è necessariamente limitata a una
sola arte.
La catena invisibile
L’artista non è un essere libero. la sua situazione è rigidamente condizionata da una
catena di eventi che lo hanno preceduto; fanno sì che egli debba continuare ubbidiente
sulla strada della tradizione o ribellarsi. Gli eventi precedenti esercitano una azione
selettiva sulla gamma dei temperamenti. Eventi precedenti e possibilità future
all’interno della sequenza: queste sono le dimensioni che controllano la posizione di
ogni opera d’arte.
Artisti solitari e artisti con istinto gregario
Altri elementi variabili dipendono dal temperamento e dalle doti naturali di ogni
individuo. Alcune sequenze hanno bisogno di differenti sfere di sensibilità. Molti sono
gli esempi di coppie di artisti rivali, occupati nello stesso momento e con mezzi diversi,
a risolvere lo stesso problema. Poussin contro Rubens, Bernini contro Borromini, Eliot e
Joyce, Klee e Picasso. L’artista innovatore per eccellenza, come Caravaggio, è però
funzionalmente un solitario. Soltanto in certi casi l’artista si presenta come un ribelle;
più comunemente è un cortigiano. oggi l’artista non è più ne un buffone ne un ribelle.
Solamente il commediografo opera ancora come artista

2.3 POSIZIONE NELLA SERIE, ETA’ E MUTAMENTO


Regola della serie
Ogni forma nuova limita le successive innovazioni della stessa serie, quindi riduce la
durata della classe a cui essa appartiene. I limiti di una classe sono stabiliti del resto
dall’esistenza di un problema. Ogni serie che trae origine dalla propria classe di forme
ha una durata propria minima per ogni posizione, a seconda dello sforzo richiesto. In
questioni puramente tecnologiche ciò è lapalissiano.
Ogni bisogno fa sorgere un problema. La congiunzione di un bisogno con le successive
soluzioni conduce al concetto di sequenza. È un concetto molto più stretto eppure più
labile di qualsiasi metafora biologica, poiché in esso si considerano soltanto i bisogni
umani e il loro soddisfacimento, in un rapporto bilaterale tra bisogni e cose.
Età sistematica
Questo libro non si propone di trattare delle tecniche di diagnosi cronologica, ma è
necessario fissare alcuni principii: soluzioni appartenenti al primo periodo
(promorfiche) sono tecnicamente semplici; a un periodo tardo (neomorfiche) sono
invece costose, difficili, complicate. Primo e tardo sono ovviamente dei concetti relativi
a un punto di partenza ben definito.
Cominciamo con l’idea di simultaneità: l’esistenza simultanea di serie vecchie e nuove
si verifica in ogni momento della storia, salvo il primo (attono al 1908 i dipinti di Renoir
appartengono a una vecchia classe e le prime esperienze cubiste di Picasso a una
classe nuova). L’esistenza di questa età sistematica per l’intero complesso di questi
prodotti manufatti di una civiltà è rimasta a lungo nascosta da vari schemi

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Mutamenti linguistici
Il concetto storico di mutamento è collegato a quello linguistico di deriva illustrato dal
progressivo allargarsi della distanza che separa due lingue dello stesso ceppo. Questa
deriva può essere paragonata alle interferenze che distorcono ogni comunicazione
sonora. Si tratta di mutamenti irregolari e inattesi e perché il linguaggio sia efficiente è
necessario mantenerli a un livello minimo. Nella storia delle cose è compresa anche la
storia dell’arte. Le opere d’arte, più degli arnesi, rappresentano un sistema di
comunicazione simbolica che deve essere esente da eccessivi disturbi. Grazie alla sua
posizione intermedia tra storia generale e linguistica, la storia dell’arte potrà forse
rivelare un giorno inattese possibilità come scienza del futuro: meno produttiva della
linguistica, ma assai più di quanto possa esserlo la storia in generale.

3. PROPAGAZIONE DELLE COSE


Oltre ai legami tra bisogni e cose, esistono legami tra le cose. Il significato profondo
della “Vita delle forme” di Focillon sta nell’aver colto forze riproduttive che sembrano
risiedere nelle cose. L’apparizione delle cose è governata dai nostri mutevoli
atteggiamenti verso i processi di invenzione, ripetizione e scarto.
Senza spreco o scarto troppe cose sopravviverebbero alla loro durata utile. La nostra
epoca è caratterizzata da una netta ambivalenza in tutto ciò che riguarda il mutamento.
Tutta la nostra tradizione culturale sostiene i valori durevoli, ma le condizioni della
nostra attuale esistenza richiedono l’accettazione di mutamenti continui. L’idea di
copiare è caduta in disgrazia sia come processo educativo che come pratica artistica:
eppure plaudiamo allo sperpero, riprovevole nelle antiche società agricole.

3.1 INVENZIONE E VARIETA’


Le invenzioni sono parte della stessa umile materia di cui si compone il nostro
quotidiano. In ogni classe l’innovatore è colui che gioisce del quotidiano contatto con
certe difficoltà, e quando inventa qualcosa, egli è il beneficiario di ciò che abbiamo
chiamato un accesso favorevole, essendo stato lui il primo a percepire un legame. Un
altro avrebbe potuto farlo ugualmente bene, e allora si tratta di coincidenze quali molte
se ne conoscono nella storia (Darwin e Wallace sulla teoria delle specie, ad esempio).
Se dovessimo avere la sventura di incontrare davvero il nostro futuro, così come
accadde agli indiani d’America nel 500, saremmo costretti ad abbandonare tutte le
nostre posizioni per accettare totalmente quelle del vincitore.
Più sappiamo e più siamo capaci di accettare nuove conoscenze. Le invenzioni
risiedono in questa penombra tra l’attualità e il futuro, nella quale si possono
intravvedere i contorni degli eventi possibili, cosicché nessuna invenzione oltrepassa il
potenziale della propria epoca.
Invenzione artistica
Ci sono state più scoperte e invenzioni negli ultimi tre secoli che in tutta quanta la
precedente storia del genere umano. In che modo l’invenzione estetica si distingue
dall’invenzione utile? Le invenzione estetiche si centrano sull’esistenza individuale ed
espandono il campo delle percezioni umane allargando i canali del discorso emotivo.
La sensibilità è il nostro unico canale di comunicazione con l’universo; se si riesce ad
aumentare la capacità di questo canale la conoscenza dell’universo si allagherà allo
stesso modo. Le emozioni assolvono le funzioni di una valvola principale nel circuito
tra noi e l’universo.
Ogni atto è un’invenzione. Eppure tutta l’organizzazione del pensiero e del linguaggio è
una negazione di questa semplice affermazione di non identità. Possiamo cogliere
l’universo soltanto semplificandolo con idee di identità distinte in classi, tipi, categorie,
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in un sistema finito di similitudini. Nella natura del nostro pensiero noi possiamo
comprendere gli eventi solo attraverso identità che immaginiamo esistere tra loro.
Convenzione e invenzione
Dato che ogni atto ha natura di invenzione, questa è aperta a tutti in qualsiasi
momento. È perciò spesso fraintesa in due modi: come un pericoloso distacco dalla
tradizione o come un avventato salto nel buio.
Così molte società metto al bando i comportamenti inventivi e il loro riconoscimento e
preferiscono favorire la ripetizione rituale. D’altra parte una società che permettesse a
ognuno di variare le proprie azioni senza limiti è impensabile. La situazione umana
ammette quindi l’invenzione soltanto come prova difficile ed eccezionale. Persino in
una società industriale, la cui esistenza dipende da un costante rinnovamento,
l’invenzione in se stessa è un atto sgradito alla maggioranza. Tradisce la paura del
cambiamento.
La categoria di invenzioni più comunque comprende tutte quelle scoperte che derivano
dall’intersezione o dal confronto di complessi di conoscenze precedentemente non
collegate. Più di rado l’invenzione è radicale ed esclude qualsiasi posizione
prefabbricata. La differenza delle invenzioni artistiche sta nel loro apparente distacco
da tutto ciò che le ha precedute: Le invenzioni utili invece, considerate in sequenza
storica, non presentano sbalzi altrettanto grandi.
Prendiamo in considerazione il caso dell’improvviso cambiamento di espressione e di
contenuti che si verifica quando un intero linguaggio formale cade improvvisamente in
disuso. Un esempio sono le rivoluzioni dell’architettura e dell’arte attorno al 1910 –
come se un grande numero di uomini si fosse improvvisamente reso conto che il
repertorio di forme da loro ereditato non corrispondeva più all’attuale significato
dell’esistenza. L’arte moderna che ne nasce presenta pochissimi legami con il
precedente sistema di espressione.
Un oggetto primo è prova di una invenzione radicale, mentre le repliche differiscono dai
loro archetipi per dettagli maturati a seguito di continui confronti.

3.2 REPLICAZIONE
In un’epoca pervasa dalla passione per il cambiamento fine a se stesso siamo giunti a
scoprire la semplice gerarchia delle repliche di cui è pieno il mondo. La replicazione
che riempie la storia prolunga in relatà la stabilità di molti momenti; abbiamo scelto il
termine replicazione per evitare l’accezione negativa di “copiare” ma anche per
includervi per definizione quelle variazioni che sono una caratteristica essenziale della
ripetizione: poiché qualsiasi ripetizione continuata porta inevitabilmente a un
progressivo allontanamento dall’originale, dobbiamo interessarci a questo lento
processo di mutamento.
Permanenza e mutamento
La nostra percezione del tempo dipende dalla regolare ricorrenza di eventi, a differenza
della nostra coscienza della storia che dipende dai mutamenti. Senza mutamento non c’è
storia; senza regolarità non c’è tempo. Il tempo e la storia stanno tra loro come la regola
e la variazione. Lo stesso rapporto esiste tra repliche e invenzioni. La replica è collegata
alla regolarità e al tempo; l’invenzione è collegata alla varietà e alla storia. Ad ogni
istante i desideri umani sono divisi tra replica e invenzione, tra il desiderio di tornare
agli schemi conosciuti e quello di sfuggirne attraverso nuove variazioni. In generale il
desiderio di ripetere il passato ha sempre prevalso sull’impulso a staccarsene
Anatomia della routine
La replicazione è simile alla forza di coesione. Ogni copia ha proprietà adesive in
quanto mantiene uniti il presente e il passato. La variazione illimitata è invece sinonimo
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di caos. Ogni società fascia e protegge l’individuo entro una invisibile struttura di
usanze, dai rischi di una originalità disgregante. L’esistenza di un simbolo è basata
sulla ripetizione: la sua identità dipende dalla capacità di tutti di attribuire uno stesso
significato a quella forma. È improbabile che una qualsiasi copia possa essere
accettata come tale senza un forte sostegno di associazioni simboliche. Tutte le cose,
le azioni, i simboli – l’intera esperienza – non sono altro che repliche gradualmente
differenziate più dalle alterazioni minute che dai bruschi sbalzi dell’invenzione. Troppo
freddo o caldo, troppa aria o troppo poca, bastano a ucciderci. Il nostro limite di
tolleranza per le variazioni e sempre piuttosto basso.
Deriva storica
La replicazione obbedisce a due tipi di movimento contrastanti, da e verso la qualità.
Un miglioramento di qualità quando Beethoven arricchisce i canti popolari scozzesi; un
peggioramento si ha ad esempio con le repliche paesane dei vestiti e mobili di corte. La
perdita di qualità ha due velocità diverse: quella provinciale che porta a un prodotto più
grezzo; quella commerciale che porta allo sgargiante. Circa 5000 anni fa non
esistevano grandi città. I documenti di quell’antico periodo presentano una gradazione
qualitativa assai meno sensibile di quelle di opere moderne. la monotonia del villaggio
resta ancora il più antico di tutti i gradi qualitativi della vita civile.

3.3 SCARTO E RITENZIONE


Decidere di scartare qualcosa non è semplice. Come e quando farlo: necessarie
diverse considerazioni in merito.
Desuetudine e rituale
Un mezzo importante di conservazione del passato è dato dagli elaborati arredamenti
sepolcrali di certi popoli: qui le vecchie cose veniva contemporaneamente scartate e
conservate. Quando la fabbricazione di oggetti richiedeva sforzi notevoli, era più facile
ripararli che sostituirli; le occasioni di cabiare erano molto meno numerose.
L’eterno problema dello storico è sempre quello di trovare l’inizio e la fine dei fili del
divenire. Il momento appena trascorso è spento per sempre e non restano che le cose
che in quel momento sono state fatte. Un atto di scarto si collega alla fine di una durata
così come un atto di invenzione ne segna l’inizio.
Scartare cose utili è un atto diverso dallo scartare cose piacevoli: l’eliminazione dei
vecchi arnesi è spesso irrevocabile. Un oggetto inteso a creare un’emozione invece ha
un significato che trascende il suo uso.
Dato che l’ossatura simbolica dell’esistenza si muove in modo molto più lento delle
esigenze utilitarie, così gli utensili hanno vita molto più breve delle opere d’arte. Per la
tecnologia della vita medievale ci basiamo solo su supposizioni e ricostruzioni; per
l’arte abbiamo invece gli oggetti stessi, preservati come simboli.
La conservazione delle vecchie cose è sempre stata uno dei riti centrali delle società
umane., anche se i musei sono una istituzione recente che trae origine dalle collezioni
reali e dai tesori delle cattedrali.
Affaticamento estetico
Le cose solo utili scompaiono più completamente di quelle piacevoli e dotate di un
significato. Il criterio di scarto di queste ultime corrisponde a uno stato di fatica
mentale. Goller scrive dell’affaticamento estetico: architetto, mirava a spiegare perché
le sensazioni di piacere ottico che si manifestano nel succedersi degli stili sono in
continuo cambiamento: teorizza che il piacere che noi ricaviamo dalla bellezza delle
forme deriva dallo sforzo mentale di formulare il loro ricordo. Il piacere diminuisce
dunque mano a mano che la forma si fa sempre più distinta nella nostra memoria. La

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dimestichezza genera il disprezzo, e conduce alla ricerca di forme nuove. Queste
differenziazioni, il loro ritmo, accelera in prossimità della fine di uno stile.

4. ALCUNI TIPI DI DURATA


4.1 DIVENIRE LENTO E VELOCE
Il tempo presenta varietà categoriche: ogni campo gravitazionale del cosmo ha un
tempo differentevariabile secondo la massa. Così le cose fatte dall’uomo hanno durate
differenti dai coralli o dalle scogliere calcaree. Ciò nonostante il nostro linguaggio
convenzionale non conosce che la misura dell’anno solare con i suoi multipli e
sottomultipli. Nel 200 S. Tommaso d’Aquino speculando sulla natura del tempo per gli
angeli, ripristinava l’antica nozione di aevum per indicare la durata dell’anima; una
durata intermedia tra il tempo finito e l’eternità, dato che aveva inizio ma non fine.
Limitando la nostra attenzione alla storia più che al futuro delle cose fatte dall’uomo,
quali elementi dobbia considerare per spiegare il variabile ritmo di mutamento?
L’esistenza di masse di copie è testimonianza di un vasto pubblico. Le repliche
potranno forse riflettere direttamente certe grandezze come la ricchezza, lo sviluppo
demografico e l’energia. Ma queste non sono grandezze che possono da sole spiegare
l’incidenza delle espressioni originali. Le espressioni prima a loro volta ricorrono in
sequenze formali: le invenzioni non sarebbero dunque episodi isolati, ma posizione
concatenate delle quali possiamo riconoscere i legami.
Tipologia delle vite degli artisti
È antistorico supporre che un qualsiasi periodo di tempo abbia mai una struttura
uniformemente programmata; sarebbe però ugualmente antistorico rappresentare la
storia come imprevedibile.
Le vite degli artisti forniscono molte indicazioni sulla loro situazione storica. Di regola
seguono uno sviluppo costante: apprendistato, primi incarichi, matrimonio, famiglia,
opere mature, alunni e seguaci.
Talvolta l’artista viaggia. Ma la nostra documentazione è limitata a carriere che hanno
resistito agli assalti del tempo: di tutti quei fortuiti adattamenti tra individuo e momento
storico conosciamo soltanto quelli che hanno avuto un esito felice, e tra questi
emergono soltanto alcuni, limitatamente all’Europa e all’estremo oriente, soli luoghi ove
viene praticata la biografia artistica.
Ci sono pittori lenti, pazienti, come Lorrain o Cezanne, la cui vita contiene un unico vero
problema, per esempio il paesaggio: così gli anonimi pittori delle pitture murali di
Ercolano si ricollegano ai pittori del 600 e a Cezanne, anche se a intervalli irregolari, di
uno studio millenario della struttura luminosa del paesaggio, che a ritmi ancora
imprevedibili proseguirà ancora a lungo. L’opera moderna aggiungerà elementi
precedentemente sconosciuti alla topografia di quella classe di forme, come
accadrebbe per una nuova carta geografica che include maggiori dettagli.
Altro genere sono gli artisti versatili: il loro ingresso avviene in coincidenza con
momenti di rinnovamento sociale o tecnico, quando la società si ristabilizza dopo
grandi sconvolgimenti, su nuove linee di forza, nuovi assunti esistenziali. Troviamo la
più forte concentrazione di questi artisti versatili nell’italia del rinascimento.
Beneficiando di ingressi favorevoli artisti come Michelangelo o Fidia hanno saputo
assumere in rapida successione un gran numero di posizioni non ancora occupate:
essi prefigurano tutta una futura classe di forme.
Tra gli altri tipi biografici di artisti ci sono gli ossessivi. Hokusai e Paolo Uccello
condividono la stessa ossessione per la prospettiva e il calcolo. Tra gli architetti,
Borromini e Guarini.

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Al polo opposto si trova l’artista evangelizzatore, missionario, che migliora il mondo
imponendogli la sua sensibilità.
Gli innovatori appartengono a due categorie: i precursori come Brunelleschi, Masaccio,
Donatello; i ribelli come Caravaggio e Picasso. Il precursore non può avere imitatori,
mentre il ribelle ha molti seguaci. Il precursore dà forma a una nuova civiltà; il ribelle
segna il limite di una civiltà che si va disgregando.
Questi sei tipi di artisti (precursori, versatili, ossessivi, evangelizzatori, meditativi, ribelli)
coesistono nella civiltà occidentale odierna, e ognuno occupa diverse sequenze
formali: ogni sequenza offre le opportunità della sua particolare età sistematica
soltanto a quel gruppo che presenta le condizioni di temperamento necessarie a un
ingresso favorevole. Quando ci volgiamo a studiare altre società più indietro nel tempo,
la categorizzazione diventa sempre più ardua.
Tribù, corti e città
Emerge una spiegazione provvisoria al fenomeno dei mutamenti rapidi o lenti nella
storia delle cose. I due casi estremi sono quello della piccola tribù in cui tutti sono
occupati nella lotta per l’esistenza e quello della grande metropoli dalle mille facce: il
tipo di mutamento più lento e quello più vertiginoso. Ma il fattore vita urbana non
basta. La velocità degli eventi artistici è legata a 4 fasi societarie:
1) vita tribale;
2) città di provincia;
3) società tribali artigiane e professioniste;
4) città o corti.
I differenti climi storici di patronato artistico favoriscono in maniera diversa i sei tipi di
carriere a cui abbiamo accennato. Concludendo ci sono due velocità significative nella
storia delle cose. Una è quella dello slittamento cumulativo, lento come quello dei
ghiacciai, tipico di piccole società nelle quali è scarsa la spinta a modificare i ritmi.
L’altra invece assomiglia al rapido propagarsi del fuoco da un punto all’altro di una
foresta, quando centri assai distanti tra loro ardono della stessa attività. Nel divenire
veloce esistono anche andamenti intermittenti, legati a classi di forme premature che
risorgeranno quando il momento sarà più favorevole.

4.2 LE FORME DEL TEMPO


Nel determinare le categorie del tempo la difficoltà è sempre stata trovare una
descrizione della durata, variabile secondo gli eventi e insieme capace di misurarli in
rapporto a una scala fissa. La storia conosce soltanto la misura solare.
Valori di posizione
Molte cose presentano caratteristiche di gruppo che prevedono esse vengano
percepite secondo un ordine prestabilito, un effetto narrativo d’insieme. È impossibile
di regola comprendere interamente una cosa senza ricostruire o ripristinare il suo
valore di posizione. A questi valori evidenti e derivanti dalla posizione nello spazio
possiamo aggiungerne altri che dipendono dalla posizione nel tempo. L’età di un
oggetto ha anche un valore sistematico espresso dalla sua posizione nella sequenza
appropriata. Ogni cosa si collega così ai suoi sistemi di forme.
Periodi e loro lunghezze
Ogni cosa ha tratti propri, ognuno dei quali ha una propria età sistematica, e proprie
associazioni con altri tratti di altri oggetti. Il tempo storico appare così non come un
flusso bensì come molti involucri, in piccole grandi famiglie di forme. Ci si interessa qui
di quelle forme e durate più lunghe di una vita umana, che richiedono il tempo di più di
una persona, una durata collettiva.

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Il solo vantaggio nel calcolare le epoche attraverso secoli sta nel fatto che esso non
corrisponde a nessun ritmo naturale del divenire ma solo a quell’umore escatologico
che sembra sorprendere la gente all’avvicinarsi di un numero tondo. Così il millennio
romano (dal 600 a.c. al 400 d.c.) è stato definito in modo arbitrario. Proviamo dunque a
considerare quei periodi che possono corrispondere a durate “pratiche”.
L’anno è certamente una durata accettabile: rappresenta lo spazio di 4 stagioni e molti
tipi di lavoro rientrano in questi limiti. Il lustrum, o quinquennio romano, è tornato di
moda per i piani economici dei paesi socialisti. Sia la decade che il secolo non sono
durate pratiche ma tempistiche arbitrarie.
La lunghezza più appropriata è una generazione umana: 25 anni per gli studiosi di
demografia, 33 per la storia in generale. Lo spazio di 3 generazioni corrisponde dunque
a un secolo e può essere ritenuto il ciclo più appropriato ai nostri studi
L’indizione come modulo
La vita lavorativa di un uomo d’arte è di 50/60 anni. I 4 periodi di 15 anni –
preparazione, maturità, maturità piena, tarda – ricordano le indizioni del calendario
romano o i periodi climaterici della psicologia dello sviluppo, e sono una misura ideale
per cogliere le fasi della vita di un artista.
Passiamo alla durata di serie collegate di eventi: le classi di innovazioni nella storia
dell’arte richiedono circa 60 anni per la loro formulazione e altri 60 per le prime
applicazioni sistematiche (così vale per la pittura vascolare in Grecia o il rinascimento
italiano, ad esempio). Queste durate abbracciano la sola invenzione, finchè cioè il
sistema diviene di uso comune in regioni più vaste, costituendo un’entità suscettibile di
ripetizione indefinita. Il periodo di 60 anni suggerisce l’esistenza di una lunghezza
comune alla storia e alla biografia produttiva di un artista: ma la piena capacità
inventiva di un individuo si riduce a non più di 15 anni, una indizione, in giovinezza.
Quando studiamo i pulsamenti delle serie collegate di eventi, esse comprendono un
periodo di 120 anni in due stadi di 60 anni ciascuno, divisi da generazione artistiche di
15 anni. L’indizione serve dunque a misurare molte diverse lunghezze nella durata
storica. È un’unità di misura derivata dall’esperienza, come i passi, i piedi, le braccia, e
risulta un modulo adatto a collegare le cose con le vite.
Su durate più lunghe, una unità di misura può essere il periodo di 300 anni,
corrispondente a stadi di civiltà calcolati sulla base di ritrovamenti di oggetti durevoli.
Possiamo infine fare una distinzione tra calssi continue e classi intermittenti: le prime
riguardano soltanto i più grandi gruppi di cose, come l’intera storia dell’arte, o le classi
più comuni, come le ceramiche di uso domestico, la cui produzione non si è mai
interrotta.
Classi intermittenti
Ve ne sono di due tipi: che ricadono nello stesso gruppo culturale oppure che si
estendono a comprendere differenti culture. La storia della diffusione transculturale
presenta a sua volta vari meccanismi: penetrazioni commerciali o missionarie, oppure
azioni militari violente. Non rari sono anche i casi di colonializzazioni alla rovescia:
recuperi 900eschi di classi incomplete di arte indigena americana del 400.
Civiltà estinte possono infatti sopravvivere attraverso la sopravvivenza del loro
vocabolario formale, che può influenzare artisti di una civiltà totalmente diversa a
distanza di secoli. nel rinascimento fu l’opera incompiuta dell’antichità greco romana a
prendere possesso della mente collettiva e a dominarla fino al 900. Oggi all’antichità
classica sono venuti a sostituirsi modelli anche più remoti, dell’arte preistorica. È
questo uno dei meccanismi più significativi della continuità delle culture. Soltanto il
funzionalismo, intorno al 1920 ha cercato di liberarsi completamente da tutte le
formule espressive precedenti. Fasi simili si trovano nei movimenti iconoclasti a
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Costantinopoli, nella firenze del 400, nell’Islam, nel mondo ebraico e nel puritanesimo
protestante. In tutti questi casi solo il necessario viene riconosciuto come bello.
Classi interrotte
Abbandonate prima di essere completamente sfruttate, oppure conquistate, quando il
vincitore sovverte le istituzioni indigene e le sostituisce con proliferazioni delle
istituzioni proprie. Come ovvio le classi incomplete sono le meno documentate.
Non è facile dare una definizione universalmente accettabile di società coloniale: ma in
ogni caso si tratta di una società nella quale non si registrano importanti scoperte o
innovazioni, dove l’iniziativa principale viene dal di fuori e non dall’interno della società
stessa.
Serie prolungate
Gli stati coloniali presentano anche molti tipi di serie prolungate che testimoniano della
dipendenza della colonia dallo stato madre. Le proliferazioni coloniali hanno di solito
effetto benefico sul paese colonizzatore, aumentando la richiesta di artisti e artigiani.
Studiosi di storia dell’economia hanno suggerito l’esistenza di una correlazione tra
fioritura artistica e disordini economici (caso emblematico il Siglo de Oro spagnolo).
Serie vaganti
Certe classi, per continuare a svilupparsi sembrano avere bisogno di periodici
cambiamenti di scena, con spostamenti dal centro focale di invenzione (vedi il gotico, il
manierismo barocco, i grandi pittori nelle corti d’europa nel 500 o nei ricchi centri
commerciali nel 600). Ogni forma fortunata satura la sua regione d’origine impedendo
ad altre forme più nuove di occupare quella posizione. Una forma di successo crea
attorno a sé un sistema protettivo che ne assicura la perpetuazione. I più pericolosi
concorrenti di un artista contemporaneo non sono infatti i suoi contemporanei.
Serie simultanee
Il presente è un complesso mosaico che si risolve in forme leggibili solo molto tempo
dopo essere retrocesso a far parte del passato storico. Inoltre, più vecchi sono gli
eventi e più siamo portati a trascurare le differenze di età sistematica.
Quanto più completa è la nostra conoscenza della cronologia degli avvenimenti, tanto
più diventa chiaro che eventi simultanei hanno età sistematiche diverse: il presente
contiene varie tendenze che dovunque si contendono gli obbiettivi più ambiti. La
topografia delle classi simultanee si divide in classi guidate e classi autodeterminate.
Le prime dipendono esplicitamente da modelli presi dal passato (revivals,
rinascimenti); le seconde sono più rare (la prima arte cristiana). Tradizione e rivolta
suggeriscono l’idea di sequenze cicliche in cui l’una diventa l’altra. Così i movimenti
autodeterminati sono necessariamente brevi mentre i movimenti guidati sono la
sostanza della storia.

5) CONCLUSIONE
Lo studio storico dell’arte sulla base di principi sistematici è vecchio di quasi duemila
anni, inclusi Vitruvio e Plinio. Se è poco probabile la scoperta di pittori misconosciuti, è
possibile che diversi artigiani vengano accolti nel pantheon degli artisti, una volta che
la loro disciplina viene nobilitata al rango di arte, così come l’action painting ha
rivalutato una pratica simile della Cina del IX secolo.

5.1 FINITEZZA DELL’INVENZIONE


La riduzione purista della conoscenza
Il purista rigetta la storia e ritiene necessario tornare alla forma primaria di materia,
pensiero, sensazione. Riducendo il traffico alla porta della percezione, egli nega la
realtà della durata.
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Allargare la porta
È preferibile, noi riteniamo, allargare la porta in modo da permettere l’ingresso di più
messaggi. È possibile in ogni caso codificare i messaggi in arrivo in modo da eliminare
le ridondanze: quando raggruppiamo le cose secondo il loro stile o la loro classe noi
riduciamo le ridondanze a spese però dell’espressione. In questo senso la storia
dell’arte può essere paragonata a una miniera con diversi pozzi, molti dei quali già
chiusi da tempo. Ogni artista lavora nel buio guidato dalle gallerie e dai pozzi scavati
prima di lui, sperando di trovare un filone nuovo, sempre timoroso che la sua vena
possa esaurirsi domani.
Il mondo finito
Qualora il rapporto tra posizione scoperte e posizioni da scoprire dovesse risultare
favorevole alle prime, dovremmo pensare a un futuro nel quale i pochi cambiamenti
ancora possibili saranno di un tipo di cui il passato già detiene la chiave.

5.2 EQUIVALENZA DI FORMA ED ESPRESSIONE


L’archeologia e la storia della scienza si interessano alle cose soltanto come prodotti
della tecnica, mentre la storia dell’arte è spesso ridotta a mera disquizisione sui
significati, senza riferimenti alla loro organizzazione tecnica e formale. È compito della
nostra generazione costruire una storia delle cose che renda giustizia al significato e
all’essere delle cose, al piano dell’esistenza e alla sua pienezza, allo schema e alla
cosa. Ciò che una cosa significa non è più importante di ciò che essa è. Iconologia e
morfologia si possono e devono incontrare.
Diminuzioni iconologiche
Gli iconologi rintracciano le circonvoluzioni di un tema attraverso il tempo: ogni periodo
contribuisce al tema con certi arricchimenti, riduzioni, trasformazioni. Ci troviamo
come di fronte a un libro scritto da molti autori. Quando manca la letteratura di
supporto mancano i documenti scritti necessari per ampliare la nostra conoscenza
delle immagini. Quando invece si dispone di un testo l’iconologo riduce la pienezza
delle cose a quegli schemi che l’apparato testuale consente, fino a diminuire l’opera a
puro significato.
Simili deformazioni schematiche non riguardano solo gli iconologi ma anche i
morfologi che sommergono le cose in torrenti di termini astratti.
Le deficienze dello stile
Tra i tanti esempi che si possono fare scegliamo quello di “stile barocco”; parlare di arte
barocca ci impedisce di vedere gli esempi divergenti, i sistemi rivali, le varianti
provinciali o internazionali nel 600. In realtà i nomi degli stili sono entrati a far parte
dell’uso comune solo dopo che l’abuso o l’incomprensione li avevano rigonfiati al punto
tale da avere maggiore credibilità delle cose stesse.
Pluralità del presente
Non possiamo mai fissarci su una qualità invariabile come quella suggerita dall’idea di
stile, separando le cose dal loro ambiente. Lo stile è come un arcobaleno: un fenomeno
di percezione soggetto alla coincidenza di certe condizioni fisiche. Lo stile è legato alla
considerazione di gruppi statici di entità ma svanisce non appena queste entità sono
reintegrate nel flusso del tempo. Il nostro obbiettivo era di suggerire altri modi (che non
fossero biografismo, stile, significato) di allineare gli eventi. Se l’idea di stile abbraccia
troppe associazioni, noi abbiamo preferito delineare una successione concatenata di
opere prime e replicazioni distribuite nel tempo e identificabili come prime e tarde
versioni dello stesso tipo di azione.

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LA CRITICA D'ARTE DEL NOVECENTO - Gianni Carlo Sciolla
CAPITOLO 1 – LA SCUOLA DI VIENNA
Scuola di Vienna: coniato da von Schlosser, intende una successione di personaggi
eminenti che hanno contribuito allo studio della storia dell’arte, intesa come analisi
delle opere in quanto oggetti materiali e delle fonti documentarie. Molti arrivavano da
passate esperienze museali, per cui valorizzano:
1. il contatto con l’opera, valutata in modo filologico e non estetico;
2. la considerazione paritaria di ogni forma artistica;
3. la ricontestualizzazione degli oggetti artistici grazie alla Kunsttopographie, il cui
punto di riferimento è la Commissione imperiale centrale per lo studio dei
monumenti artistici e storici e che muove i primi passi da esperienze francesi e
tedesche.
Rudolf Eitelberger: a lui andò la prima cattedra di Storia dell’Arte nel 1852. Scrisse
Monumenti artistici degli stati imperiali (1850-1860), analisi e schedatura topografica, e
Fonti per la storia dell’arte e delle tecniche del Medioevo e del Rinascimento (1870).
Theodor von Sickel: diresse l’Istituto per le ricerche storiche e diede grande importanza
alla diplomatica, alla paleografia e alla cronologia.
Moritz Thausing: successore di Eitelberger. In La posizione della storia dell’arte come
scienza (1884) sosteneva che l’analisi scientifica dovesse avere un taglio storico, e che
si distingueva da altre indagini per la peculiarità del vedere artistico.
Robert Zimmermann: in Storia dell’estetica come scienza filosofica (1858) e in Estetica
generale come scienza della forma (1865) porta avanti la filosofia herbartiana, per cui:
1. il concetto di bello è unito alla forma, cioè la coerenza degli elementi;
2. la forma è riferita agli organi di senso.
Konrad Fiedler: in alcuni saggi (Scritti sull’arte, 1896) riprende gli assunti di
Zimmermann, elaborando la teoria della pura visibilità: l’uomo si avvicina al mondo con
le sensazioni, di cui la vista è la più completa, e poi rielabora internamente quanto
percepito; da questa interpretazione della natura nasce l’arte. Inoltre, l’arte si giudica
secondo la coerenza visiva, attuata nella forma regolare.
Adolf von Hildebrand: in Il problema della forma (1893), il parametro di giudizio diventa
il modo di rappresentazione della forma, fondata sulla visione ravvicinata o a distanza.
La prima è tattile, ma manca di unità; la seconda è ottica, e sarà dunque unita e
artistica. Questa teoria trova conferme in quella percettiva scientifica
dell’impressionismo, in quella della forma e in quelle psicofisiologiche.
Annuario delle collezioni storico-artistiche (1883): fondato da Quirino von Leitner, le
trattazioni puntano a illustrare sistematicamente i fondi delle raccolte imperiali
viennesi e a ricostruire storicamente collezioni e raccolte statali. Nella prima sezione si
studiano oggetti di arte antica, nella seconda antiche collezioni. Inizia intanto la
revisione critica di periodi storici sino ad allora considerati di decadenza.
Altre riviste: Annuario della commissione imperiale centrale (1856), Informazioni della
commissione imperiale centrale per lo studio e la conservazione dei monumenti
artistici e storici (1902), Le arti grafiche (1878), Comunicazioni storico-artistiche
(1904).
Franz Wickhoff: interessi principali: arte classica, medievale, miniatura, arte del
Rinascimento e arte contemporanea.
La Genesi di Vienna (1895): nella prefazione sostiene per primo l’autonomia dell’arte
romana, che consisteva:
1. nel carattere pittorico-coloristico, anche nella scultura;
2. nel valore illusionisticospaziale della rappresentazione, soprattutto con
l’invenzione della “narrazione continuata”;
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3. nel realismo della ritrattistica.
Con grande attenzione per una impostazione scientifica e per i testi figurativi, ribadiva
l’importanza, da un lato di studiare ogni momento dell’arte antica nei suoi specifici,
dall’altro di considerare le sue continuità col mondo moderno. Si interessa di arte
medievale in gioventù (Guido da Siena, 1889; Il mosaico absidale della Basilica di San
Felice da Nola, 1890; La figura d’amore nella fantasia del Medioevo italiano, 1890). Si
concentra sulla miniatura, ispirato dalla rivalutazione delle “arti minori” data dalle
Esposizioni universali, dal movimento della Secessione e dai nuovi musei d’arte
applicata, tra cui il Museo austriaco per l’arte e l’industria.
Per quanto riguarda il Rinascimento, studiò i problemi dell’arte italiana rinascimentale, il
tema della continuità dei motivi classici e il disegno degli antichi maestri (Raffaello,
1903; Rembrandt, 1906).
L’ispirazione di Thausing: prese da lui la passione per il disegno antico e anche il
metodo d’indagine morelliano, che voleva dare un’oggettività all’attribuzione,
sospendendo il giudizio soggettivo e soffermandosi su aspetti peculiari, come ad
esempio particolari anatomici apparentemente secondari. Il disegno è ideale per
questa tecnica perché lo stato di conservazione è normalmente migliore e perché lo
stile dell’artista trapela con maggiore immediatezza. Prese le difese di Klimt nel 1900,
attraverso una conferenza intitolata Che cosa è brutto?, in cui sosteneva il relativismo
delle categorie di brutto e bello.
Altri autori viennesi interessati nell’arte contemporanea: Joseph Strzygowski e Hans
Tietze.
Alois Riegl: Problemi di stile (1893), Industria artistica tardoromana (1901), Il ritratto di
gruppo olandese (1902), L’origine dell’arte barocca a Roma (1908), Scritti brevi generali
(1929), scritti sul restauro (1898, 1907), Grammatica storica delle arti figurative (1966).
Problemi di stile: esamina storicamente l’evoluzione dei motivi decorativi negli oggetti
di arte applicata in un quadro temporale di cinquemila anni e in un ampio spazio
geografico. Vuole dimostrare che i motivi sono schemi iconografici indipendenti e,
soprattutto, vuole dimostrare che l’evoluzione di tali motivi non è data dalla
spontaneità, quanto dalla Kunstwollen.
Ispirazioni: Jugendstil viennese, che ispirò Antichi tappeti orientali (1891) e Arte
popolare, arte domestica e industria a domicilio (1894); la Grammar of Ornament
(1856) di Owen Jones e la Grammar of Lotus (1891) di W.H. Goodyear; l’universalismo
di Max Büdinger, che si ritrova in Storia dell’arte come storia universale (1898);
evoluzionismo della storia artistica, trattato in Lo stato d’animo contenuto dell’arte
moderna (1899).
Il problema della genesi delle forme artistiche: Riegl respinge l’assunto che ogni stile
nasca unicamente dalla tecnica e dai materiali usati dagli artisti, mettendosi in
contrapposizione con Semper che sosteneva questo condizionamento, così come
l’imitazione della natura. Per Riegl fondamentale è il Kunstwollen (a cui non dà una
definizione precisa, ma potrebbe essere una volontà superindividuale o la direzione
dell’impulso artistico).
Industria artistica tardoromana: analisi dell’arte sotto Costantino e Giustiniano del
tutto inedita e che ne rivaluta i valori simbolici e anticlassici, si divine in tre parti:
1. studia il linguaggio di quest’arte attraverso le arti emergenti, cioè architettura,
pittura e scultura;
2. analizza le tecniche suntuarie praticate nelle botteghe;
3. i lineamenti fondamentali della volontà artistica tardoantica.
La scelta di questo periodo risiede nella convinzione che non esistano periodi di
decadenza, ma tutto va analizzato nel suo quadro storico di riferimento. L’analisi delle
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singole opere è condotta secondo le loro leggi interne e in particolare si adottano i
seguenti schemi visivi, opposti a coppie:
1. visione tattile;
2. visione ottica;
3. visione plastica;
4. visione coloristica;
5. visione spaziale/di profondità;
6. visione planimetrica.
In questa teoria, Riegl è molto vicino ad Adolf von Hildebrand ne Il problema della
forma nelle arti visive (1893) e alla filosofia hegeliana: l’opera è intesa come forma di
percezione e fruizione, in cui lo spettatore ha un importante ruolo di interpretazione
(pag. 18). L’opera deve inoltre molto a Wilhelm Wundt e Immanuel Löwi per quanto
riguarda l’analisi dell’elemento psicologico percettivo. L’insieme di queste prospettive di
valutazione, in cui grande peso ha l’esperienza soggettiva, è detta “estetica della
disintegrazione”. Particolarmente importante è il capitolo sulle tecniche praticate nelle
officine altomedievali, in cui si sentono le influenze del clima secessionista austriaco e
quelle di Semper (pag. 19).
Allora Riegl inserisce il concetto di Kunstwollen, mai chiarito perfettamente, ma che
appare come quell’impulso che orienta l’insieme della produzione artistica dei diversi
periodi: esso è il prodotto delle condizioni di vita sia sociale che culturale. Secondo
questa idea, non esistono periodi di decadenza: riabilita dunque il barocco olandese
(Ritratto di gruppo olandese, 1902) e romano (L’arte barocca a Roma, 1908). Questo
processo di rivalutazione continuerà poi con Cornelius Gurlitt, Wölfflin o Schmarsow.
Riegl scrive poi Il moderno culto dei monumenti (1903) in cui prende in esame i
principali valori insiti in un monumento storico, esaminando le linee guida per il giusto
restauro. I valori del monumento sono:
1. storici: memoria e documento;
2. artistici: ideali estetici;
3. d’uso: funzione
4. pratica;
5. di novità.
Bisogna preservare le testimonianze del passato.
Grammatica storica delle arti figurative (1966): opera postuma. La tesi è che il
linguaggio artistico si evolve nel tempo con mutevoli regole grammaticali; ciò è da
porre in relazione con la visione del mondo dell’artista, il Kunstwollen e le leggi della
natura.
Max Dvorak è un elemento di originalità all’interno del periodo viennese. egli intende
l’indagine artistica come prettamente storica ed atta ad approfondire proprio le
conoscenze in questo ambito; proprio questo differenzia la storia artistica dall’estetica
(pag. 22-23). Ad ogni modo, la storia artistica è una scienza sì storica, ma con una
propria autonomia rispetto ad altre discipline simili e da non confondere con la storia
della cultura. Si può dunque dire che la specificità della storia artistica è l’analisi delle
forme e dello stile (pag.23-24). Tutto questo è in linea con gli studiosi che lo avevano
preceduto, mentre Dvořák si distingue per il modo di intendere la storia e il suo
processo: egli infatti li concepiva come un processo spirituale e indivisibile, che è
anche mezzo conoscitivo della realtà, di cui la storia dell’arte faceva parte, con una
propria specificità. La sua produzione storiografica si può suddividere in tre periodi:
1. la formazione: è ispirato da von Sickel, ma anche dalla lettura stilistico-formale
delle opere, e scrive opere sulla pittura o miniatura boema del Trecento, ma

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anche sulla resistenza della cultura bizantina nel tardo medioevo, mettendo in
risalto anche il contesto;
2. l’approfondimento e il superamento: si scava nelle teorie di Riegl, per poi
andare oltre. In questo periodo, in Das Rätsel der Kunst der Brüder von Eyck,
imposta il problema della genesi del naturalismo nella pittura fiamminga di
inizio Quattrocento, facendo proprio il concetto di storia ininterrotta riegliano e
l’importanza dello stile (pag. 28);
3. la maturità: in vari saggi mette a punto la sua teoria di storia dell’arte come
storia dello spirito e il concetto di Zeitgeist (pag. 29): in questo modo la
Weltanschauung di un’epoca diventa determinante per la storia delle forme
artistiche (es. il gotico e la filosofia tomista). Per Dvořák sono importanti anche
la conservazione e la tutela, e intende il bene culturale come testimonianza
della vita di una determinata cultura.
Tietze: convergente col pensiero di Dvořák è Tietze in Die Methode der
Kunstgeschichte (1913): il fondamento di questo trattato è la storia dell’arte concepita
come scienza storica, organizzata in ricerca euristica e interpretazione critica,
secondo il modello di Ernst Berheim. Essa si configurava comunque come autonoma
rispetto alle discipline confinanti (pag. 24-25), unico modo per indagare geneticamente
l’evoluzione dell’essenza dell’arte. La storia dell’arte è dunque approdo di una
concezione che passa per due fasi:
1. la fase narrativo-didattica: una descrizione delle opere artistiche in scritti di
carattere estetico, tecnico e topografico, dove domina l’intento pratico;
2. la fase didattico-genetica: emerge un atteggiamento di tipo storico nei
confronti dell’arte, che però non è ancora un approccio scientifico.
La storia artistica genetica si occupa invece di ricercare le cause che stanno a monte
degli elementi specifici delle opere e i loro collegamenti; ciò che secondo Tietze
garantisce la scientificità è l’estetica: essa dà il via alla comprensione dell’artisticità
che può illuminare l’interpretazione storica. Questo, insieme ad altri mezzi, serve a
studiare l’Erlebnis (esperienza) di un’opera nel tempo. Importanti risultano anche le
posizioni estetiche del passato.
Tietze è inizialmente fortemente influenzato dai primi maestri viennesi e
dall’evoluzionismo: secondo lui l’arte si evolve secondo meccanismi interni ed è questa
la chiave di volta della storia dell’arte scientifica. Più avanti, si discosta da questa
concezione rigida e dà importanza anche alla personalità dell’artista e alla funzione
individuale nella costruzione dell’opera d’arte; alla fine, la storia artistica (cioè quella
degli artisti che producono opere) e l’evoluzione artistica sono concetti assai
complessi, che non per forza comportano un miglioramento. Conferisce importanza
anche ai contenuti iconografici e alla Kulturgeschichte: in particolare, l’indagine
iconografica deve essere integrata allo studio della storia delle forme (pag. 27) ed è
fondamentale perché è il ponte che unisce tutti gli ambiti spirituali di un’epoca.
Julius von Schlosser: Schlosser era un umanista dallo spirito enciclopedico, e ciò si
intuiva già dai lavori di catalogazione pubblicati sullo Jahrbuch, in perfetto stile
viennese (pag. 30). I primi trattavano di numismatica antica, quelli degli anni ottanta di
oggetti tardomedievali, ma il denominatore comune era l’arte di corte (pag. 31).
Proprio in questo ambito Schlosser presentava le opere accanto al contesto storico e
culturale in cui si sviluppano; l’elemento portante di questa nuova visione storica e
antiformalistica è l’iconografia (pag. 32). Da questo taglio innovatore nascono opere
come Die Kunst und Wunderkammern der Spätrenaissance (1908), caratterizzata dal
fenomeno del collezionismo, e Geschichte der Porträtbildnerei in Wachs (1911), dove si
rivaluta il ritratto in cera. Il tutto attribuendo grande importanza alle fonti letterarie
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storicoartistiche: non per niente già nel 1892 scrisse un volume sulle fonti dell’arte
carolingia.
Kunstliteratur (1924): opera nata da uno scritto sui Commentarii (1912) e da
Materialen zur Quellenkunde der Kunstgeschichte, quest’opera costituisce il manuale
fondamentali sulle fonti delle arti, dall’antichità all’Ottocento. È strutturata in nove
capitoli su periodi diversi (pag. 33-34), affrontati sotto il profilo euristico e storico
interpretativo. Viene data grande importanza alle testimonianze letterarie e all’ipotesi
storiografica di Benedetto Croce (pag. 34): l’opera risulta infatti una storia di scrittori
che si interrogano sulle opere d’arte. Ad avvicinarlo al pensiero crociano è Karl Vossler.
Stilgeschichte und Sprachgeschichte der bildenden Kunst e Xenia (1938): saggi in cui
si affronta il tema del linguaggio nella storia artistica (pag. 35).

CAPITOLO 2 – TENDENZE FORMALISTICHE E FILOLOGICHE


Adolfo Venturi: con lui ha inizio in Italia la critica d’arte in senso moderno. Egli
aderisce:
1. alla “scienza del conoscitore”, che sintetizza nel concetto di “vedere e rivedere”,
cioè di aderenza primaria ai testi figurativi;
2. allo studio dei documenti d’archivio;
3. alla tendenza positivista, così come al darwinismo e all’evoluzionismo delle
forme. Deve molto a Morelli, sia per l’interesse per il disegno sia per quanto
concerne l’evoluzione degli stili, e a Cavalcaselle, soprattutto per quanto
riguarda la natura policentrica dell’arte italiana.
Venturi intuisce quanto può essere importante la diffusione dell’arte con periodici: fino
a quel momento c’era stata solo l’esperienza de L’Arte in Italia (1869-1873) e Arte e
Storia, perché altrimenti gli scritti di critica venivano pubblicati in riviste letterarie o
storiche (pag. 52). Dal 1888 invece, parte con Venturi e Domenico Gnoli, Archivio
storico dell’arte: traendo ispirazione da periodici italiani, in queste pagine viene fondata
la nuova critica italiana, offrendo:
1. saggi generali o monografici, una parte documentaria, una cronaca d’arte
contemporanea e la bibliografia;
2. vari temi, dal Rinascimento all’iconografia (pag. 53). Dieci anni dopo cambia
nome in L’Arte e rende sistematica l’informazione nei vari settori dell’arte.
Altre riviste:
1. Gallerie nazionali italiane (1894), che vuole documentare il lavoro di
2. riorganizzazione di Venturi nei musei;
3. Emporium (1895), in cui sono privilegiate le arte soprattutto contemporanee;
4. Miscellanea d’Arte (1903);
5. Rivista d’Arte (1903);
6. Bollettino d’arte (1907).
Storia dell’arte italiana (1901-1940): esce in venticinque tomi, esaminando dal
tardoantico al tardo Cinquecento. Non vuole solo sintetizzare, ma anche dare un
panorama completo, contribuire all’unità nazionale e concentrarsi sulle arti applicate.
Ad ogni modo, l’opera è sbilanciata sul Rinascimento, in linea con il pensiero
ottocentesco, e questo periodo, già a partire dal Trecento, è analizzato con maggiore
frammentarietà, concentrandosi sì sull’analisi formale delle singole opere, ma anche e
soprattutto sui vari artisti (pag. 55); inoltre, usa per scultura e pittura gli stessi
parametri dell’architettura. Più involuti sembrano gli studi dal Cinquecento.
Pietro Toesca: allievo di Venturi, dalla sua tesi di laurea derivò Precetti d’arte italiana.
Nei suoi primi saggi:
1. commenta la cripta di Agnani (1902);
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2. parla del ciclo pittorico di San Vincenzo al Volturno (1904).
Questi studi mostrano come sia allineato con i metodi medievisti europei del momento.
Il libro Pittura e miniatura in Lombardia (1912), con la sua preparazione filologica, sarà
poi fondamentale per Il Medioevo (1913-1927) e Il Trecento (1951), in cui c’è
chiaramente l’intenzione di continuare la tradizione dei volumi mastodontici
tardoottocenteschi, in cui i fatti sono analizzati sotto il profilo stilistico e iconografico
(pag. 60). In Toesca confluiscono dunque più ispirazioni (pag. 61).
Fondamentale nella connoisseurship è Bernhard Berenson, con i suoi quattro volumi
sulla pittura del Rinascimento italiano, ognuno strutturato così:
1. una prefazione di carattere teorico;
2. elenco dei pittori con relative opere.
Si nota subito l’asistematicità della trattazione del critico, che si concentra piuttosto sul
dare un valore alle opere, gli artisti e le correnti. Nello scritto sui pittori fiorentini e
dell’Italia centrale (1896, 1897) emergono alcune considerazioni critiche di giudizio:
1. l’opera è un organismo vivente che trasferisce nello spettatore un accresciuto
senso di capacità vitale;
2. gli elementi di un’opera possono essere decorativi, cioè gli aspetti formali, e
sono: tattili, il movimento, la composizione spaziale, i raggruppamenti
compositivi, il coloro e il tono (pag. 62). Questi sono eterni, perché connessi a
processi psichici invariabili nel tempo;
3. possono essere anche illustrativi, come iconografia, allusioni sentimentali e
ideologiche, cioè il contenuto. Sono relativi perché legati alle ideologie del
committente.
Fu influenzato:
1. dall’ambiente tardovittoriano anglosassone di John Ruskin;
2. dall’Art Noveau conosciuta grazie alla frequentazione con Charles Eliot Norton;
3. calla pura visibilità, data la considerazione delle opere come pura forma e nella
sua concezione delle stesse come decorazione e illustrazione;
4. dall’Einfühlung, per ricollegare il momento del processo creativo all’empatia
(pag. 63-64), che Berenson probabilmente conobbe grazie ad Adolf Hildebrand.
Drawings of Florentine Painters (1903): opera da conoscitore che parte dal metodo
morelliano percependone l’insufficienza, che tenta di superare tramite la valutazione
soggettiva della qualità di un maestro nei confronti di un altro o del suo contributo
all’umanizzazione dell’uomo, che insieme alla difesa della classicità, diventerà tema
ricorrente in Berenson (pag. 64). Berenson riservò a taluni periodi dell’arte antica e
moderna un giudizio negativo, dato che le considerava un ritorno al barbaro
primitivismo (pag. 65).
Roger Fry: il suo pensiero si può studiare soprattutto in Vision and Design (1920). Si
occupa soprattutto di primitivi e artisti arrivati dopo l’impressionismo, proprio perché i
primi avevano elementi incredibilmente moderni (es. padronanza del disegno, sintesi
formale, semplificazione compositiva, rigore dell’impostazione prospettica), quasi
anticipatori dei secondi. A Fry interessa come questi artisti risolvano il problema
formale, centrale nell’esperienza visiva artistica, considerata come risultante
dell’intuizione delle relazioni tra forme delle opere. L’elemento formale che prevale è
quello che comunica idee plastiche, che suscitano l’essenza dell’emozione estetica, la
quale a sua volta porta lo spettatore a contemplare i contenuti emotivi della vita reale.
In questa teoria c’è poco di nuovo: vi confluiscono semmai l’influenza dell’Einfühlung, di
Berenson (a cui dedicò North Italian Painters, 198) e da Clive Bell (pag. 66). Fu anche
conoscitore, che si nota nella sua collaborazione con varie riviste, in particolare The
Burlington Magazine.
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Clive Bell: in Art (1914) teorizza la significant form, in cui l’emozione suscitata
dall’opera è “forma significante”, combinazione di linee, colori, forme e rapporti.
In Francia è ancora forte la tradizione storico-documentaria, come si può evincere da
numerosi periodici e repertori d’inventario.
Émile Male: con la sua opera L’art religieux du XIII siècle en France (1898), in cui
l’autore prende in considerazione il gotico alla luce dei significati religiosi, si inaugura
un’analisi più approfondita, dove si prendono in considerazione le fonti letterarie coeve;
seguono L’Art religieux de la fin du Moyen Age en France (1908), L’Art religeux du XII
siècle en France (1922) e L’art religieux après le Concile de Trente (1932). Male, però,
trascura la realtà cattolica delle pratiche liturgiche, la sua dimensione contemplativa e
la mediazione tra artisti e manufatti (pag. 68).
Proseguono gli studi di Male: Louis Brehier e André Grabar.
Trattano l’arte bizantina: Kondakoff, Millet, Diehl e de Jerophanion, che in parte
accettano le tesi di Strzygowski (Orient oder Rom, 1901) sull’arte orientale (pag. 68).
Archeologia, architettura, scultura e miniatura del medioevo: Choisy, Brutails, de
Lasteyrie, Durrieu, Perrault-Dabot.
André Michel: nella sua Histoire de l’art (1905-1929) considera lo sviluppo delle arti
nell’area occidentale e in parte nell’America latina. Scrisse anche di arte industriale
(pag. 69).
Elie Faure: con la sua Histoire de l’art (1909-1921), oltre che considerare l’Occidente,
scrive anche dell’Oriente e delle cosiddette “civiltà primitive” (anche nel discutibile
L’esprit des formes, 1927). Vengono pubblicate le riviste Revue de l’art ancien et
moderne (1897) e Les Arts (1902).
In Spagna: Monsò, Cossio, Cadafalch, rivista Archivio Español de Arte y Archeologia.
In Germania: prevale anche qui l’indirizzo storico filologico con Anton Springer
(Manuale di storia dell’arte, 1855), Carl Justi, Hubert Janitschek, Alfred Woltmann
(redattore di Repertorium für Kunstwissenschaft, 1875), Georg Dehi, Wilhelm Vöge
(studioso di arte medievale con ottima capacità di mettere in relazione opere e testi
letterari), August von Schmarsow. Schmarsow scrisse molte monografie, ma codificò le
sue idee in Contributi sull’estetica delle arti figurative (1896-1899) e Concetti
fondamentali della scienza dell’arte (1905): lo scopo era quello di scoprire le “leggi di
codificazione” che presiedono alla storia delle forme (pag. 72). In particolare, per
l’autore ogni epoca va intesa quale risultato della contrapposizione tra elemento
pittorico e plastico. I suoi studi influenzarono Wilhelm Worringer (Astrazione e Empatia,
1908; Problemi formali del Gotico, 1911). Gli autori precedenti provenivano da
Strasburgo o Lipsia, mentre a Berlino si formarono Hermann Grimm, Heinrich Wölfflin e
Adolph Goldschmidt (si occupò dapprima di codici miniati medievali, poi di scultura in
avorio). Vanno ricordati poi nella capitale l’Handbuch der Kunstwissenschaft
(1913-1930, Burger), Propyläen der Kunstgeschichte), Wilhelm von Bode, Max
Friedländer e, infine, lo Jahrbuch e l’Amtliche Berichte (pag. 73). A Marburgo, infine, va
citat Richard Hamann.
In Olanda: Cornelis Hofstede De Groot e Abraham Bredius applicarono i sistemi del
conoscitore per revisionare analiticamente gli archivi delle fonti documentarie della
pittura olandese (pag. 74).
Heinrich Wölfflin:
Renaissance und Barock (1888): è organizzato in tre parti: esami dei caratteri stilistici
in opposizione tra i due movimenti, individuazione delle cause che hanno portato al
barocco (per l’autore ogni produzione formale viene dalla reazione psicofisica di fronte
alla realtà: dunque è importante l’esperienza personale tradotta in opera, che l’uomo fa
confluire nello stile e nelle varie epoche), descrizione delle tipologie architettoniche tra
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XVI e XVII secolo. I caratteri del barocco sono: il pittoresco, il monumentale, il
massiccio, il senso del movimento –contrari a quelli armonici del rinascimento (pag.
75).
Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur (1886): studio del rapporto tra
architettura e reazioni psicofisiche individuali: se le forme sono regolari, si percepirà
piacere; se sono alterate, la psiche reagirà con eccitazione e disagio.
Jacob Burckhardt: dapprima valuta il barocco come “tardo fiore del Cinquecento”, poi,
in un secondo intervento, il barocco ha una prima formulazione storica per tipi, generi,
forme. Infine, in ricerche successive (anche di Droysen, Brunn e Nietzsche, pag. 76-77)
si ha una riscoperta del barocco che diviene ufficialmente stile autonomo.
L’arte classica (1899): per Wölfflin l’arte classica italiana diviene quella del
Cinquecento, con Michelangelo e Raffaello, le cui opere vengono analizzate sotto il
profilo dell’evoluzione formale e spiegate alla luce di reazioni psicologiche (che in
questo caso portano a rapporti armonici).
Die Kunst Albrecht Dürers (1905): la tesi fondamentale consiste nell’adattamento del
tedesco alla forma classica e le sue differenze formali con gli italiani, tematica ripresa
nel saggio L’Italia e il sentimento tedesco della forma (1931).
Concetti fondamentali della storia dell’arte (1915): per l’autore la storia artistica
consiste nel mutare del modo di vedere il mondo, come “proiezione del sentimento
corporeo” (pag. 78). Individua dunque le cinque coppie di principi formali che
esprimono due visioni opposte e due modi di vita in contrapposizione:
1. visione lineare/visione pittorica;
2. superficie/profondità;
3. forma chiusa/forma aperta;
4. molteplicità/unità;
5. chiarezza assoluta/relativa.
L’autore è convinto che queste coppie possano essere usate per leggere le forme di
tutti i tempi; così facendo svaluta l’individuo e crea una “storia dell’arte senza nomi”,
orientata da una logica interna e specifica (pag. 80). Così facendo, si oppone alla
visione romantica e individualista di Buckhardt, a favore di un positivismo naturalista e
psicologico, il cui meccanismo si può rinviare a Comte (pag. 80).Nelle due opere
successive, La spiegazione dell’opera d’arte (1921) e Riflessioni sulla storia dell’arte
(1940), l’autore cerca di revisionare il concetto di “storia dell’arte senza nomi” e di
definire la funzione della critica che studia le forme nel loro sviluppo autonomo.

CAPITOLO 3 – IL METODO ICONOLOGICO


Warburg e l’istituto di Amburgo
Con Warburg, nel primo decennio del Novecento si comincia a studiare l’arte sotto
l’aspetto contenutistico culturale e iconografico. La sua attività era strettamente legata
a quella della biblioteca di Amburgo, organizzata in una disposizione sistematica di
testi storico-artistici e di altre discipline in quattro piani (pag. 111-112). Il suo ambito di
studio preferito fu il Rinascimento, grazie alla frequentazione di alcuni storici: Thode,
Schmarsow e Janitscheck (pag. 114). Fu inoltre influenzato da Burckhardt, Springer e
Justi (pag. 115).
La nascita di Venere e la Primavera (1893): lo studio su Botticelli analizza i due dipinti
attraverso tre momenti:
1. individuazione delle fonti letterarie ispiratrici (pag. 112);
2. ricerca dei modelli figurativi e la loro trasmissione nell’ambiente fiorentino (pag.
112);
3. studio della committenza.
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I costumi teatrali per gli intermezzi del 1589 (1895): studia i significati degli apparati
scenografici di Bernardo Buontalenti per le feste del 1589, ricostruendo anche le attività
dei direttori.
Metodo: per Warburg l’immagine artistica è supporto all’espressione d’una memoria
artistica, documento dai complessi significati, indispensabile nella cultura (pag. 113).
La storia dell’arte diventa quindi una storia della cultura per immagini –per Bialostocki,
Warburg si pone come iniziatore sia della multidisciplinarietà che degli studi
contestuali; inoltre, fu il primo a collegare l’immagine ad altri campi del sapere, come
nota Bing. Egli, in particolare, si fissa su:
1. rappresentazione iconografica: la intende in modo molto diverso dagli altri
studiosi (pag. 114), dato che la sua indagine coinvolge la modalità di
espressione e di rappresentazione degli stessi;
2. funzione sociale dell’opera: si precisa attraverso lo studio della committenza e
della destinazione.
A differenza degli autori citati in precedenza, Warburg si concentra sui fattori che
conducono all’applicazione e alla formazione di determinati forme e generi di immagini,
in particolare quelli psicologici –eredità di Usener e Lamprecht, ma anche degli scritti
di Vignoli e Darwin, nonché il concetto di “simbolo” (benché modificato) di Visscher
(pag. 116).
Arte del ritratto e borghesia fiorentina (1902): analisi del ciclo francescano del
Ghirlandaio, soffermandosi sullo stile naturalistico dei ritratti, dovuto alla cultura del
committente.
Arte fiamminga e Primo Rinascimento (1902): ritrova nell’ambiente fiorentino una
corrente fiamminga, in contrapposizione con quella idealizzante umanistica (pag. 117),
bipolarità dionisiacoapollinea che Warburg generalmente vede in tutto il rinascimento.
Arte italiana e astrologia internazionale nel Palazzo Schifanoia di Ferrara (1912):
studiando il celebre lavoro di Francesco del Cossa, Warburg ne indica le fonti e il
responsabile del programma iconografico per il committente. Altro saggio simile fu
Divinazione antica pagana in testi ed immagini dell’età di Lutero (1920), entrambi
influenzati da Boll (pag. 117).
Ultimi anni: con i diari e l’Atlante della memoria, indaga appunto il ruolo della memoria
nella storia della cultura come elemento di trasmissione e trasformazione delle
immagini; d’altronde l’importanza della memoria sociale è qualcosa che l’autore aveva
sempre analizzato. In conclusione, Warburg inseriva la storia dell’arte nell’ambito delle
scienze sociali.
Fritz Saxl, inizialmente, fu sostenitore della tradizione filologica tedesca, per poi
diventare un warburghiano. Si formò a Vienna e si interessò in particolare di Rembrandt
(Rembrandt e l’Italia,1924; Rembrandt’s Sacrifice of Manoah, 1939; Rembrandt and
Classical Antiquity, 1941). Nei saggi iniziali, si interessa alla comprensione storica di
stile e forme –direzione che comunque non abbandona neppure dopo l’insegnamento
di Warburg, come dimostra Ragioni della storia dell’arte (1948), dove distingue valori
storici e visivi. Incontra Warburg nel 1911.
Catalogo dei manoscritti astrologici e mitologici illustrati nel Medioevo (1915-1933):
ennesima impresa per abbattere i muri tra varie discipline.
Con la malattia di Warburg, fu lui a reggere la biblioteca, trasformandola nel 1921 in un
Istituto di ricerca. Tra il 1922 e il 1932 promosse una prolifica attività editoriale, con ben
ventiquattro studi e nove conferenze, i quali mettevano a fuoco la tessitura complessa
dell’immagine. Prosegue poi le sue attività interdisciplinari con: Durer’s Melancolia I
(1923), Un discorso di Jacopo Zucchi e gli affreschi di Palazzo Rucellai (1927), ecc.
(vedi pag. 120). In questo percorso, Saxl indaga le credenze e le immagini antiche, ma,
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a differenza di Warburg, dà importanza al Medioevo, visto come periodo fondamentale
per la trasmissione al Rinascimento dell’eredità classica.
1933: l’Istituto si sposta a Londra grazie al finanziere Courtland e poi, dopo i
bombardamenti, viene evacuato alla Watts Gallery, fino all’incorporazione con
l’Università nel 1943.
Attività dell’Istituto Warburg: si può seguire sulla rivista Journal of the Warburg and
Courtland Institute (pag. 121), i cui intendimenti sono:
1. seguire la linea dettata dall’Istituto;
2. studiare principalmente Rinascimento e Umanesimo;
3. scrivere studi con lo scopo di esplorare simboli, segni e immagini antiche
impiegate nella modernità.
Dal 1937 in particolare, i saggi sottolineano l’interdisciplinarità; proseguirono poi gli
Studien (pag. 122) e furono organizzate esposizioni fotografiche allo scopo di
presentare al pubblico gli originali delle opere trasferite durante la guerra; furono
quattro (pag. 122):
1. Introduzione visiva al mondo classico (1939);
2. mostra dedicata all’arte indiana (1940);
3. L’arte inglese e il Mediterraneo (1941);
4. Volto e carattere (1943).
Studiosi tra le due guerre: Wittwoker (la tendenza warburghiana è testimoniata in
particolare dagli studi sulla migrazione dei simboli da Oriente a Occidente), Wind
(pubblicò numerosi saggi iconografici su artisti e opere rinascimentali), Seznec
(affronta il problema della trasmissione delle immagini delle divinità dall’antichità
classica al Rinascimento sotto il punto di vista del soggetto e delle forme) e Kurz
(analizza il tema della biografia, del disegno antico, di falsi, di arte islamica, di arte
bizantina e di storia della tradizione classica) (IMPORTANTE: opere e approfondimenti
da pag. 123 a pag. 127).
Erwin Panofsky: Nel 1921 è tra i collaboratori dell’Istituto Warburg e inizia i suoi studi
teorici trattando la riflessione che fa da sfondo all’esame dei fatti storico-artistici.
Il problema dello stile (1915): l’autore discute le tesi di Wölfflin: quest’ultimo sostiene
che le caratteristiche delle opere dipendono dalle possibilità del vedere del periodo a
cui appartengono; Panofsky ribatte con la convinzione che la visione sia qualcosa di
immutabile nella storia. Ciò che varia è piuttosto l’interpretazione di ciò che si vede: su
queste interpretazioni si basa lo stile. Passa poi a trattare il concetto di Kunstwollen:
secondo lui, questo concetto non deve essere analizzato né dal punto di vista
psicologico, né da quello sociologico, ma secondo il senso che l’opera in sé porta, cioè
il suo significato. Secondo lo studioso, l’arte visiva è da concepire come linguaggio le
cui forme espressive sono cariche di significato.
Dürers Melancolia I (1923): contribuì a far conoscere l’Istituto Warburg come
laboratorio specializzato per lo studio di enigmi iconografici complessi.
Idea (1924): saggio sulla storia e il significato del concetto dell’idea del bello
dall’antichità classica fino al Seicento.
La prospettiva come forma simbolica (1927): demolisce l’idea secondo cui esista
un’evoluzione, a livello scientifico, del sistema di rappresentazione prospettico-spaziale;
questa sarebbe invece una forma simbolica, elaborata dalla cultura di ogni periodo.
Dimostra dunque che non esiste una vera contrapposizione tra spazialità antica e
rinascimentale, semplicemente sono influenzati da culture e principi diversi (pag. 130).
Infine, nei suoi saggi del periodo di Amburgo si sommano le influenze della tradizione
storiografica viennese a quelle del pensiero di Cassirer. Ernst Cassirer, nelle sue prime
opere, era un interprete neokantiano, e al centro delle sue riflessioni sta il concetto di
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simbolo: esso è l’organo essenziale del pensiero e la realtà si estrinseca attraverso
forme simboliche. Egli fu collega di Panofsky a lungo e lo influenzò profondamente.
Così, al culmine del periodo di Amburgo, egli scrive due saggi: Ercule al bivio (1930) e
Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto (1932). Panofsky
afferma la necessità della considerazione stilistica per l’identificazione del soggetto e
scandisce in tre tempi i livelli di accostamento all’immagine:
1. esterno o fenomenico;
2. semantico;
3. documentario.
Studies in Iconology (1939): parte dalla distinzione tra iconografia e iconologia, che
recupera da un testo del Cinquecento, secondo cui l’iconografia sarebbe descrizione e
classificazione delle immagini, mentre l’iconologia si fonda più sulla sintesi e si fonda
sull’interpretazione delle immagini. Tre sono dunque i livelli per l’interpretazione globale
dell’opera:
1. interpretazione del soggetto primario o naturale;
2. identificazione del soggetto secondario o convenzionale;
3. significato intrinseco o contenuto.
C’è un’influenza di Karl Borinski e Karl Mannheim. Dunque, l’iconologia nasce
dall’esigenza di superare la contrapposizione tra storia delle forme artistiche e
iconografia: tale esigenza si nota in tutte le sue opere. Nel periodo americano, poi, il
rapporto tra immagine e concetto in particolare viene indagato attraverso due modalità:
1. la forma visiva viene interpretata come esemplificazione diretta di un certo
concetto (vi include i “tipi visivi”);
2. l’immagine è considerata secondo un’intera teoria filosofica (il contenuto di
un’opera si identifica con un determinato pensiero). (pag. 133-134)

CAPITOLO 4 – PURA VISIBILITÀ E IDEALISMO CROCIANO


Lionello Venturi
Primi scritti (elaborazioni filologiche con commenti descrittivi e psicologici
dell’opera): Le origini della pittura veneziana (1907), Giorgione e il Giorgionismo (1913).
La critica e l’arte di Leonardo da Vinci (1919): non era una monografia tradizionale, ma
aveva un taglio per problemi (la natura, gli artisti contemporanei, la scienza, le fonti, il
disegno). In questo scritto applica l’estetica di Benedetto Croce (pag. 150-151) e,
polemicamente, anche gli schemi di lettura formalisti derivati dalla pura visibilità, utili a
livello storico e critico.
Avanza il fondamento dell’importanza dei giudizi critici per la ricostruzione
storico-artistica. Fa infatti molta attenzione alle fonti della letteratura artistica,
ereditando questa “passione” da von Schlosser, ma differenziandosi da quest’ultimo:
per Venturi questa non era indistintamente ogni sorta di testimonianza letteraria o
documentaria sull’arte, quanto una storia delle idee critiche ed estetiche affidate alla
scrittura e dedicate alla produzione artistica.
Il gusto dei primitivi (1926): è un’opera polemica, dove accanto a primitivi e
neoprimitivi, esaltava il valore mistico e rivelatore dell’espressione artistica.
Introduceva inoltre il concetto di gusto, utile per inserire un artista in una scuola o
epoca, in opposizione col classicismo del regime.
La storia della critica d’arte (1936): un compendio sulle reazioni critiche e delle idee
estetiche; per Venturi la storia del pensiero critico si identificava con la storia dell’arte
stessa, perché fondamentale per la ricerca del valore dell’operare artistico.
Lavori sugli Impressionisti: Cézanne, son art, son oevre (1936), Les Archives des
Impressionisme (1939), Camille Pissarro (1940). In Italia era già stato rivalutato grazie
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a esposizioni, alla Biennale, Pica e Soffici, soprattutto in opposizione all’accademismo
pittorico e come segno di rinnovamente: sono le stesse ragioni, anche morali, per
Venturi, soprattutto dato il clima politico (queste stesse esigenze, prima dell’esilio, si
ritrovavano anche nel suo appoggio al gruppo dei Sei torinese).
Painting and Painters. How to Look at a Picture, from Giotto to Chagall (1945): opera
dal carattere didattico e divulgativo, come ricorda un’opera di Marangoni. Dopo la
guerra continuò a studiare artisti antichi (Caravaggio, Botticelli, ecc.) nell’ambiente in
cui avevano operato, così come artisti più recenti (Roualt, Chagall, astrattismo,
post-cubismo, gruppo degli Otto), collaborando con la Biennale di Venezia.
Roberto Longhi
I primi scritti di Longhi furono pubblicati su L’Arte dal 1913, dedicandosi al Preti (1913),
al Borgianni (1914), al Battistello (1915), ai Gentileschi (1916) e così via (da
aggiungere: Breve ma veridica storia della pittura italiana). Questo patrimonio figurativo
era stato in parte ripreso dai tedeschi, ma l’approccio di Longhi è diverso: considera la
corrente caravaggesca antibarocca e non cede né all’iconografia, né allo schematismo.
Piero de’ Franceschi e lo sviluppo dell’arte veneziana (1914): crea una linea di ricerca
orientata sulle derivazioni del maestro nell’Italia settentrionale.
I dati culturali: linea filologica visiva tipica del positivismo, formalismo fiedleriano e
puro visibilista, idealismo crociano (sebbene con differenze, pag. 155) e omaggio a
Berenson.
Bisogno di rinnovamento rispetto al simbolismo e alla staticità cubista: scrive saggi a
favore del Futurismo, come Pittori futuristi (1913) e La scultura futurista di Boccioni
(1914).
Produzione anni Venti e Trenta: Precisazioni nella Galleria Borghese (1926), Lettera
pittorica a Giuseppe Fiocco (1926), Congiunture italo-spagnole tra il Cinque e il
Seicento (1927), Quesiti caravaggeschi (1928). Escono su Vita artistica e Pinacotheca.
Piero della Francesca (1927): libro filologico, sia per quanto concerne la ricostruzione
dell’artista, sia per l’analisi dei fatti e delle scuole quattrocentesche in Italia centrale.
Officina ferrarese (1934): commento alla scuola ferrarese del Quattrocento e
Cinquecento, presentata alla mostra del 1933 (pag. 157).
La peculiarità degli scritti: in queste due opere della maturità si notano i due piani su
cui sono costruiti i suoi scritti. Al primo corrisponde il testo, l’analisi, la traduzione delle
ricerche figurative; al secondo l’apparato filologico e documentario, affidato a note e
appendici. Il testo non viene mai cambiato, mentre si possono implementare le postille.
Lo stile è colto, si affida alla traduzione letteraria di fatti figurativi, interrogando la
pittura da ogni punto di vista. La sua “iperscrittura” è costruita con effetti di
punteggiatura particolari e singolari procedimenti sintattici.
Gli scritti delle ultime intuizioni: Frammenti di Giusto a Padova (1926), La pittura del
Trecento nell’Italia settentrionale (1935), Giudizio sul Duecento (1948). In queste opere
riscopre il Trecento italiano e, soprattutto, si concentra sui linguaggi “provinciali”, la
limitazione dell’apporto senese, l’importanza della corrente extra-giottesca, la
rivalutazione dell’arte padana partendo da quella Emiliana.
Riviste d’arte in Italia (1920-1940)
L’Arte (Adolfo Venturi): orientamento storico e filologico. Inizialmente positivista, si
apre poi a nuovi interessi e indirizzi metodologici: si fa avanti il formalismo
purovisibilista (a cui sono ispirati i saggi di Longhi e Giuseppe Galassi) e anche
l’idealismo crociano (tipico di Lionello Venturi, Sergio Ortolani e Matteo Marangoni,
pagg. 159-160). Poi ospita saggi dedicati a settori poco indagati, come l’arte barocca
(dopo la mostra Pittura italiana del Sei e Settecento organizzata da Ugo Ojetti nel 1922)

26
e l’arte nel Novecento di Manet, Renoir, Daumier, Gauguin, Cézanne, Picasso, Arturo
Martini e Utrillo (pag. 160).
Dedalo (Ugo Ojetti, 1920): studia arte antica con impostazione storico-filologica e i
collaboratori fanno parte delle soprintendenze. Le posizioni nei confronti dell’arte
contemporanea erano retrograde e intransigenti (es. Marcello Piacentini e Francesco
Reggiori).
Vita artistica (Tullio Gramantieri, 1926): la rivista si poneva in antitesi allo storicismo,
per ergersi contro le analisi integrali (pag. 162) e le interpretazioni mistico religiose;
inoltre, invitava a studiare solo su opere originali e non trattava di arte contemporanea
per non far eco alle polemiche. Alcuni scritti importanti:
1. Alfredo Gargiulo confuta l’estetica crociana e rivaluta il momento tecnico;
2. i trattati longhiani: Precisazioni nelle Gallerie italiane, Saggi in Francia, Lettera
pittorica a Fiocco;
3. recupero della pittura ottocentesca italiana (pag. 163) da parte di Somaré,
Ojetti, Carrà e Soffici, senza alcuna verve nazionalista;
4. collaborazione tra Longhi e Cecchi, che proseguirà poi sulle pagine di
Pinacotheca con Me pinxit e Quesiti caravaggeschi.
La critica d’arte (Carlo Ludovico Ragghianti, Ranuccio Bianchi Bandinelli, 1935): aveva
come scopo il superamento della filologia stilistica e documentaria, per cogliere i
significati autentici delle personalità e forme artistiche; inoltre, poneva nuova
attenzione sulla tecnica, intesa come determinante dell’espressione linguistica. Infine,
era in continuo aggiornamento sul dibattito internazionale sul problema metodologico.
Le arti: conteneva contributi filologici, sotto l’egida del regime.
1927 Problemi di arte attuale (Raffaello Giolli): commentava gli eventi artistici
contemporanei – esaltando il razionalismo architettonico- ed esprimeva la convinzione
che l’arte dovesse essere portatrice di valori civili e morali nella società.
Architettura e arti decorative (Marcello Piacentini, Gustavo Giovannoni): rivista al
servizio della retorica del regime. La casa bella (poi Casabella) e Domus, invece,
sostenevano apertamente i nuovi indirizzi dell’architettura.

CAPITOLO 5 – FRANCIA E BELGIO TRA LE DUE GUERRE


Henri Focillon
Nella bottega del padre, in gioventù, Focillon si impratichì nelle tecniche incisorie.
Proprio per questo, i primi scritti sono dedicati a Hokousaï, Dürer, Rembrandt e Daumier
(saggi raccolti in Maitres de l’estampe, 1930). Queste opere, completate con Téchnique
et séntiment (1919), postulano che la tecnica è un dato fondamentale per cogliere
essenza e significato espressivo dell’opera: essa sarebbe infatti il mezzo che consente
all’artista di esprimere i suoi principi stilistici. Proprio per questo apprezza l’incisione
(soprattutto quella dei “visionari”, capaci di trasfigurare gli oggetti): essa consente
all’artista, con pochi mezzi, di formulare il proprio pensiero.
Interesse per l’Estremo Oriente: scrive Essais sur la génie japonais (1918) e Art
bouddhique (1921), ed è influenzato da Guimet, Gonse e Kakuzo.
La peinture au XIX et XX siècle (1926-1928): opera enciclopedica sulle opere dal 1848
al 1914, in cui introduce la concezione della storia come organismo vivente. Studia il
Romanticismo secondo lo sviluppo della tecnica, ma il suo rapporto con le avanguardie
è distaccato.
L’arte del Medioevo: scrive L’art des sculpteurs romans (1931), Peinture romanes des
églises de France (1938), Art d’Occident (1938), Moyen-Age (1943), L’An Mil (1952).
Suddivide l’arte medievale in stile romanico e gotico, che sono successivi all’arte

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dell’alto-medioevo. Durante il periodo romanico –che Focillon studia introducendo
nuove categorie (pag. 177 e secondo una riflessione sui fenomeni come fatti di stile:
1. la tecnica guida è l’architettura, assai estesa, che nell’area mediterranea vira
verso la volta in pietra (pag. 177), mentre in Germania rimane l’eredità
carolingia;
2. la scultura è a vocazione architettonica, ed è visionaria.
L’arte gotica inizia nel XII secolo, si prolunga in quello dopo e si conclude nel XIV, ma
egli analizza il fenomeno più a fondo, nel contesto delle varie influenze e delle regioni.
Facendo ciò, egli si concentra in particolare sulle forme, la rappresentazione, gli stili, i
fatti sociali e sul rapporto tra architettura e altre forme artistiche.
Vie des formes (1934): le forme artistiche hanno radice nella fantasia umana, che
concepisce la realtà come forma. Le forme sono entità autonome, ma mosse da un
principio dinamico che le trasforma continuamente: ognuna di esse è il risultato di
precedenti metamorfosi e preannuncia caratteri espressivi futuri. Esse non sono infatti
avulse dalla storia e vanno considerate, al contrario, in relazione al “tempo storico”. Altri
concetti:
1. lo stile (pag.179): esso attraversa varie fasi, cioè quella arcaica, del
raffinamento, barocca;
2. l’esperimento: è il processo di conoscenza della realtà formale, attraverso
tecniche, materiali e strumenti;
3. tempo storico: è costituito da tradizione,
influenze e tentativi (pag. 179-180). Focillon, nel suo formalismo, deve molto a Fiedler,
Bell, Wölfflin e Riegl, ma al contrario di questi, egli esplora il regno delle forme
occupandosi del processo genetico che porta al concepimento dell’opera. In questa
impostazione, ricorda più Valéry, Alain, Leroi-Gourhan e Bergson.
Tra le due guerre prosegue in Francia la grande tradizione di studi di archeologia
medievale. In questo ambito, centrali furono Marcel Aubert e Jean Porcher. Si assiste
poi a una nascita di ricerche sull’arte francese dal Rinascimento al tardo Settecento:
grande importanza in questi studi li ha Louis Dimier, che comunque aveva molti
interessi, come mostrano le numerose opere (pag. 181). Altri nomi da ricordare sono
Louis Hautecoeur e Louis Réau per quanto riguarda il classicismo (pag. 182).
In Belgio, le personalità che portano avanti studi di tipo filologico sono Georges Hulin
de Loo, Marcel Laurent e Jacques Lavalleye (pag. 183).

CAPITOLO 6 – LA GERMANIA TRA LE DUE GUERRE


Tra le due guerre in Germania si discute di storia dell’arte come scienza, geografia
artistica, genesi dello stile e modalità di trasmissione. Si dibatteva sulle idee di Wölfflin
e Riegl, con verve critica nei confronti della concezione evoluzionista tedesca.
Storia dell’arte come scienza: Richard Heinrich Hamann e Karl Mannheim sostengono
la necessità di una Kunstwissenschaft storicista e neopositivista; Panofsky, invece, in
due opere prende una posizione più husserliana e diltheyana:
1. Sul rapporto tra storia dell’arte e teoria dell’arte (1925); definisce la ricerca
storicoartistica come scienza dell’interpretazione, che si ottiene da teoria
dell’arte (analizza i problemi fondamentali e particolari dell’opera) e storia
empirica dell’arte (individua le proprietà caratteristiche di una certa opera e i
suoi aspetti stilistici in un certo periodo storico).
2. Problemi di storia artistica (1927); saggio, definisce l’approccio dell’autore
consiste nell’analisi dello stile (considerato il carattere specifico della forma
artistica) attraverso cui l’artista esprime il suo mondo ideale.

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Kunstgeographie: viene sviluppata da Hugo Henninger, Kurt Gerstenberg, August
Grisebach e Paul Frankl. Quest’ultimo considera la geografia artista come elemento
cardine del sistema delle arti (pag. 195).
Stile: la riflessione più originale è quella di Wilhelm Pinder. Nel 1926 pubblica Il
problema della generazione nella storia dell’arte europea, in cui la storia artistica è
analizzata sotto il profilo della psicologia storica: l’opera è risposta dell’uomo agli ideali
del mondo e va analizzata formalmente e stilisticamente, senza trascurare aspetti
culturali e psicologici. Questa storia è fatta da varie generazioni in un determinato
spazio temporale: ogni generazione è regolata da impulsi e ritmi che conducono a
soluzioni individuali e da fattori costanti (es. la razza, la religione ecc.). Ogni era ha poi
forme artistiche dominanti e due polarità, che rendono l’arte e il suo processo ritmici e
antitetici: l’armonia e il suo contrario.
Studiosi del Medioevo: Wilhelm Pinder si occupa di scultura medievale e del gotico,
rivalutando l’arte tedesca in modo quasi nazionalistico –in linea col periodo storico. Si
promuovo in questi anni iniziative editoriali che illustrano i monumenti artistici secondo
la suddivisione regionale del territorio, nonché collane storie sistematiche. Paul Frankl
analizza la cultura romanica e gotica e scrive Le fasi evolutive (1914) e un volume
sull’architettura medievale europea (1926); poi, ispirandosi a Wölfflin, scrive Il sistema
della scienza artistica, in cui analizza sistematicamente i più grandi problemi teorici
della disciplina. Il problema dello stile lo analizza ancora in Gli Interrogativi dello stile
(1988), postumo (pag. 197). Fondamentali, infine, i suoi studi sul gotico, sintetizzati in
The Gothic Literary Sources and Interpretations (1960).
Arte italiana (manierismo, barocco, Settecento veneziano): ne scrive Hermann Voss
sin dai suoi esordi, poi in opere come Pittura del tardorinascimento a Roma e Firenze
(1920) e La pittura del barocco a Roma (1924), trattazioni sul Seicento napoletano e
veneto. La storiografia tedesca esplora anche arte spagnola, del nord dei Paesi Bassi, e
varie tecniche artistiche.
Disegno: Jakob Rosenberg fu esperto di grafica nordica del Seicento e tedesca del
cinquecento. L’interesse per il disegno comunque è coltivato anche da Wilhelm
Valentiner, Detlev von Hadeln, Hans ed Erica Tietze, Fritz Saxl, Otto Kurz, Johannes
Wilde, Theodor Parker, Arthur Mayger Hind, Arthur Ewat Popham e Frederick Antal.
Arte tra Ottocento e Novecento: iniziatore di questo interesse è Alfred Julius
Meier-Graefe, la cui vicinanza alle avanguardie e agli ambienti parigini lo portano a
diffondere gli orientamenti della Art Nouveau e postimpressionismo, in
contrapposizione con il realismo impressionista. Altra notevole personalità è Gustav
Pauli, che si occupa di musei e istituzioni per il rilancio delle arti, ma anche di critica
degli artisti dell’Ottocento o a lui contemporanei. La sua opera più importante sono i
suoi Ricordi, editi nel 1936.
La rivalutazione del manierismo, che finora aveva avuto caratterizzazione negativa,
avviene proprio ad opera della critica tedesca in questo periodo. Inizia questo processo
Werner Weisbach, che aveva affrontato il problema in stretta connessione col barocco:
il suo scopo è quello di individuarne i caratteri stilistici, che esaltavano la libertà
creativa dell’artista. Grande importanza ha anche
Dvorak: egli sostiene che il manierismo sia iniziato con Michelangelo e si sia concluso
con El Greco, e la sua manifestazione vitale consisteva nell’elemento soggettivo, la
fantasia –ciò provocò reazioni tutt’altro che univoche dalla critica (pag. 200-201).
Anche Walter Friedländer in L’origine dello stile anticlassico nella pittura italiana intorno
al 1520 (1925) analizza il fenomeno, ponendolo cronologicamente tra 1520 e 1590 e
introducendo la categoria dell’anticlassico: all’armonia rinascimentale, infatti, il
manierismo contrappone l’irrazionalismo.
29
Il significato culturale del manierismo: per Weisbach, si tratta di un riflesso delle
tendenze umanistiche coeve e da un certo gusto cortigiano. Nikolaus Pevsner,
influenzato da Dvorak e storicista, considera il manierismo come qualcosa di parallelo
agli ideali della riforma cattolica (pag. 202). Vanno ricordate poi le posizioni di
Hubertus Lossow. In corrispondenza con questo interesse per il manierismo, risorge
anche quello per il barocco (come ben spiega Rudolph Wittwoker, pag. 202-203).
Albrecht Erich Brinckmann: affronta i problemi dello stile e delle tipologie barocche
sotto il profilo delle categorie formali del suo maestro, Wölfflin. Da ricordare in
particolare Theatrum Novum Pedemontii (1931).
Altri testi importanti: Sul genio del barocco di Wilhelm Hausenstein e Il barocco arte
della controriforma di Werner Weisbach (questo secondo ispirerà le teorie di Nikolaus
Pevsner sul manierismo ed ha una tesi simile a quella proposta da Marcel Raymond;
anche Wölfflin, d’altro canto, aveva teorizzato che il barocco avesse le proprie radici nel
Cinquecento).
Nikolaus Pevsner: nel 1928 esce La pittura barocca nei paesi latini, in cui la lettura
dello spazio figurativo è pensata come empatica e percettiva –cosa che aveva già
anticipato Schmarsow nel 1897 in Barocco e Rococò).
Altre interpretazioni:
1. Worringer e Hamann lo interpretano come movimento tipico della Germania nel
quale rivivono i principi del tardogotico;
2. Huebscher con Barocco come forma antitetica della vita interpretava, con poca
produttività, il barocco come l’epoca delle antinomie;
3. si cominciò ad applicarlo anche alla musica e la poesia nel XVI e XVII.
La nuova scuola di Vienna
A Vienna, Hans Sedlmayr e Otto Pächt riscoprono l’interpretazione formalista in delle
riviste:
1. Kritische Berichte (1927-28) fu frequentata da grandi studiosi (Pinder, Antal, tra
gli altri) e si occupò di recensioni;
2. Kunstgeschichtliche Forschungen, edita a Berlino dal 1931.
Questo nuovo indirizzo di studio era caratterizzato da:
1. reazione a una storia dell’arte come storia dello spirito e della cultura;
2. validità di un’analisi delle opere in chiave formalista;
3. ipotesi di creazione di una scienza storico-artistica.
Si criticava la concezione di Dvorak di storia dell’arte come storia dello spirito: risultava
infatti impossibile porre in parallelo fatti artistici e appartenenti alla spiritualità di
un’epoca. Bisognava dunque rivalutare l’opera sotto l’aspetto formale e stilistico, in
senso strutturalista. Inoltre, si riprendono in considerazione (La quintessenza
dell’insegnamento di Riegl di Sedlmayr, 1929) due concetti cari a Riegl: lo stile e il
Kunstwollen (pag. 207). L’interpretazione di Riegl conduceva dunque a ritenere l’opera
un microcosmo inteso non come unità indistinta, ma come una totalità articolata in
una struttura; Sedlmayr approdava infine all’esigenza di una storiografia artistica di
carattere scientifico e che collaborasse altre scienze (pag. 208). In questo modo, si
potevano analizzare i significati insiti all’opera (che risultano stratificati), le costanti
storiche (possono essere nazionali o regionali), i suoi caratteri dinamici (il valore
immanente che si coglie attraverso la percezione), quelli fisiognomici (i valori
d’espressione di un’opera, che si colgono solo con un certo punto di vista), quelli
trascendenti, il senso di direzione dei prodotti artistici (indica quanto sia stato
raggiunto a livello formale e quanto deve essere ancora raggiunto). Sedlmayer sembra
ispirato da molte correnti di pensiero: dal positivismo logico, da quello di Carl von
Lorck, da quello di Philip Lersch, dallo strutturalismo viennese (pag. 209).
30
Psicologia della forma: nasce in Germania a inizio Novecento con Wertheimer, Koffka e
Koehler. Si poneva in contrapposizione con la psicologia sperimentale per tre ragioni:
1. quella sperimentale esaminava il rapporto tra stimolo e sensazione, sostenendo
che il loro mutare fosse proporzionale geometricamente;
2. ogni sensazione sarebbe dipesa dallo stimolo di una determinata struttura
fisiologica;
3. la comprensione della realtà sarebbe avvenuta secondo un dualismo
epistemologico. La psicologia gestaltica, invece, propone un’interpretazione
strutturale unitaria della percezione, in cui le forme sono percepite come unità
prima di essere analizzata (pag. 210).
I gestaltici formularono une serie di leggi dei processi percettivi:
1. della vicinanza;
2. della somiglianza;
3. della forma chiusa; d) della continuità di direzione;
4. del movimento solidale;
5. della pregnanza;
6. dell’esperienza.
Questi enunciati vennero ad esempio utilizzati da Seflmayr in:
1. L’architettura di Borromini (1930);
2. L’architettura barocca austriaca (1930).
Nei saggi successivi (pag. 211), l’autore approfondisce quindi una storia dell’arte
fenomenologica attenta alla funziona delle opere, alla loro contemporaneità e il loro
rapporto col futuro, dove la storia dello stile e delle strutture vengono messe a riscontro
con lo spirito del tempo –dà però una discutibile interpretazione dell’arte moderna a
partire dal Settecento, applicando lo schema della secolarizzazione.
Otto Pächt: rende noti i risultati delle sue ricerche strutturali applicate al gotico
internazionale. I saggi su questo argomento iniziano con Antica pittura austriaca su
tavola (1929); la sua attenzione era rivolta a evidenziare i principi formali delle varie
zone europee: questi, che egli considerava costanti, riguardavano:
1. la resa spaziale;
2. gli schemi compositivi;
3. organizzazione delle immagini (esempi a pag. 212).
Durante le leggi razziali, emigrò a Londra, dove in un primo momento collaborò col
Warburg Institute, salvo poi rientrare a Vienna nel 1963: in questa ultima fase si
interessò dei problemi di metodo e dell’arte europea dei secoli XIV e XV. Le sue lezioni
vengono raccolte nel 1977 in Metodo e prassi nella storia dell’arte: qui l’autore
sintetizza le sue posizioni teoriche sulla storia artistica, intesa come scienza dell’arte e
disciplina autonoma; dunque, l’opera deve essere analizzata formalmente in una
prospettiva storica (pag. 213). L’opera, per Pächt, non è solo un messaggio: l’opera deve
essere analizzata sì stilisticamente, ma in connessione con l’aspetto iconografico.
Esiste insomma un intreccio inscindibile tra forma visibile e significato e ogni opera
deve essere posta in una catena evolutiva –l’autore fa insomma uso della convinzione
evoluzionista di Riegl (pag. 214). Questa storia dell’arte genetica studia le varianti e
costanti nello stile delle opere rispetto alla tradizione.
Guido Kaschnitz von Weinberg: con questo autore, l’analisi della struttura delle forme
trovò applicazione anche nell’arte antica, dando inoltre grande importanza al contenuto
simbolico proprio delle forme (pag. 215).
Emile Kaufmann: sostiene che i principi formali degli edifici neoclassici siano
diametralmente opposti da quelli dominanti nell’età precedente (pag. 216). Ciò,
secondo Kaufmann, rifletterebbe i cambiamenti sociali dell’età della ragione.
31
Michael Alpatov: è attento ai principi dell’organizzazione formale nelle opere, agli
aspetti di contenuto, ai principi psicologici del fruitore e ai fattori sociali che
influenzano l’artista.

CAPITOLO 7 – STORIA SOCIALE DELL’ARTE 1950-70


Come reazione alla storia dell’arte autonoma e strutturale delle forme, nasce lo studio
del problema della produzione artistica in rapporto con la società. In questo sistema
strutturale, un certo tipo di arte o attività spirituale sarebbe anche portavoce di un
determinato ceto; l’arte in particolare però si differenzia dalle altre per la diversa natura
sociale e il diverso grado di “saturazione ideologica” (cioè è più vicina alla realtà e
schiettamente arma ideologica). Gli studi si sono quindi concentrati su fenomeni come
la committenza, il pubblico, l’oggetto come documento e le istituzioni, ma anche sui
materiali, le tecniche, e sul rapporto dell’arte con altre discipline: insomma, è una “storia
delle condizioni materiali dell’operare artistico nei secoli. La committenza è vista come
“regista” dell’opera, mentre sul pubblico ci sono più strati di ricerca: quello sul
collezionismo, sull’esperienza percettiva dei vari gruppi sociali e, infine, sulle differenti
modalità di diffusione delle immagini e opere. Le istituzioni artistiche, invece, sono
prese in analisi secondo il significato e la funzione dei luoghi di promozione delle
opere.
Le tre opere che fanno partire il dibattito sulla storia sociale dell’arte: Art and the
Industrial Revolution (1947) di Francis Klingender, Florentine Painting and its Social
Background (1948) di Frederick Antal e Social History of Art (1951) di Arnold Hauser.
Queste tre opere non sono casuali, ma sono il prodotto di un ambiente (l’Inghilterra)
con una feconda ricerca sociologica, che abbraccia poi anche l’arte –e in questo senso
pioniere era stato Aby Warburg, come scrive Antal. Fondamentali erano comunque stati
anche:
1. Herbert Read, che in Art and Industry (1934) e Art and Society (1937) aveva
dato all’esperienza artistica una lettura etica ed educativa;
2. Nikolaus Pevsner, che con Academies of Art (1940), concentra la sua
attenzione sulle istituzioni artistiche, affrontate però ancora alla maniera di
Dvorak, a metà tra Sozialgeschichte e Geistesgeschichte.
Pevsner, in Inghilterra, pubblica anche (pag. 238-239) Pioneers of the Modern
Movement (1936), An Enquiry into Industrial Art in England (1937), The Englishness of
English Art (1956), An Outline of European Architecture (1942) e The Buildings of
England (1949).
Francis Klingender: si concentra sulla rivoluzione industriale inglese e i suoi effetti
sulle arti, non come fossero eventi secondari (pag. 239-240).
Frederik Antal: avendo frequentato ambienti come il Circolo della domenica, aveva
sviluppato un interesse per i fenomeni culturali in relazione con i fatti sociali, che
acuisce in Germania. In Inghilterra pubblica Florentine Painting, che analizza oltre
centotrenta anni di pittura toscana, secondo tre storie parallele: socioeconomica,
filosofica e culturale –in cui la terza è intesa come riflesso degli accadimenti delle altre
due. Proprio per questo, l’opera di Antal è stata tacciata di eccessiva riduzione
schematica e determinismo: l’opera, infatti, non è un documento passivo, né è detto
che l’artista aderisca a una corrente ideologica coscientemente. Scrive poi sul
manierismo (per Antal suddiviso in classicista e manierista), per poi pubblicare:
1. Fuseli Studies (1956), in cui una delle chiavi di volta nel pensiero dell’artista è
proprio l’incontro con il manierismo italiano, rivalutato nella cultura inglese
tardobarocca;

32
2. Hogarth and his Place in European Art (1962), in cui Antal sviluppa i temi
riguardanti le tecniche dell’artista in relazione con le tradizioni, la committenza,
il trattato da lui steso, il gusto e via dicendo.
Arnold Hauser: influenzato da Weber, Simmel e Mannheim, nel 1951 dà alle stampe la
Storia sociale dell’arte, il primo tentativo di discutere sociologicamente tutta l’arte
occidentale:
1. adotta tre categorie storiche, cioè gotico, manierismo e barocco;
2. indaga le mutazioni di stile;
3. tratta le condizioni materiali della produzione artistica. Ci sono comunque,
come nota Gombrich, delle parti insoddisfacenti in questa trattazione (pagg.
243-244).
Hauser sviluppa la sua teoria in Philosophie der Kunstgeschichte (1958) e in Soziologie
der Kunst (1974), in cui sostiene che:
1. l’arte sia un prodotto della società, in particolare dei fatti economici e dei ceti
dominanti;
2. il valore ideologico e propagandistico è centrale nelle opere;
3. la lettura psicoanalitica dell’opera è preziosa, ma insoddisfacente;
4. quella stilistico-formale separa il processo formativo da quello creativo, nonché
da quello socioeconomico;
5. una storia dell’arte scientifica deve considerare la struttura sociale;
6. importanti sono la ricezione e lo studio dell’arte secondo i vari strati sociali.
Francis Haskell: nel 1963 pubblica Patrons and Painters, un’analisi approfondita della
committenza in Italia tra Seicento e Settecento, secondo fonti scritti e d’archivio. Nel
1976, quando il suo interesse si è spostato su ricezione e gusto, dà alle stampe
Rediscoveries in Art, in cui ha indagato la fortuna di varie correnti analizzando
collezionismo, istituzioni museali e scritti d’arte. La ricerca si fa più ristretta
sull’argomento “gusto” nella collaborazione con Penny, Taste and Antique (1981), in cui
si analizza la fortuna della scultura classica presso amatori, artisti e collezionisti.
Questo viaggio nell’ambito del gusto si conclude con i saggi contenuti in Past and
Present in Art and Taste (1987).
Michael Baxandall: esordisce nel 1971 con Giotto and Orators. Humanist Observers of
Painting in Italy and the Discovery of Pictorial Composition 1350-1450), cui si
analizzano i pensieri dei maggiori umanisti sull’arte, nonché come grammatica e
retorica abbiano influenzato il nostro modo di intendere e descrivere le opere. Questo
argomento è presente anche in Painting and Experience in Fifteenth Century in Italy
(1972), dove però sono considerati anche il pubblico, che si abitua alla ricezione
attraverso l’apprendimento e memorizzazione di determinate strutture (pag. 246-247),
e la produzione, analizzata secondo una revisione dei contratti tra artisti e committenti.
Scritti di rilievo:
- The Limewood Sculptors of Renaissance Germany (1980), in cui si analizza la
scultura lignea del Quattrocento in Germania meridionale in rapporto al clima
socioeconomico;
- Patterns of Intention (1985), quattro letture su Benjamin Baker, Picasso, Chardin
e Piero della Francesca, come pretesto di verifica di problemi teorici e
interpretativi (pag. 247).
Pierre Francastel: l’arte è per lui struttura, e la sua storia è intercambiabile con la
sociologia. Applica questa convinzione in Peinture et societé (1951), dove, accettando
parzialmente la tesi di Panofsky, sostiene che la prospettiva non sia reale, bensì la
proiezione dell’uomo nella società: partendo dalla definizione teorica di arte come
“funzione”, sostituisce solamente l’interpretazione simbolica con una sociologica. In
33
questo contesto, la prospettiva è una struttura sociale, cioè un sistema che unisce dati
estratti dal reale con altri dati, e in cui l’uomo esprime tutta la complessità della sua
vita interiore e delle relazioni con la società (pag. 248). Francastel fu ispirato da
Goldmann, Scheler, Mukarowsky, Piaget, Durkheim e Merleau-Ponty.
Nicos Hadjinicolau: nel saggio del 1973 Histoire de l’arte et luttes de classes rivaluta
Antal, sostituendo il concetto di “ideologia” con quello di “ideologia figurativa” (pag.
249). Inoltre, in Italia Antal era stato ben considerato, anche se non da tutti i critici (pag.
250).
Ranuccio Bianchi Bandinelli: iniziatore di un indirizzo sociologico in Italia. Ispirato dalla
scuola dell’arte critica, 1976), dall’arte contemporanea e Benedetto Croce –anche se
poi lo rivaluta negativamente (pag. 250-251), i suoi saggi giovanili (I caratteri della
scultura a Chiusi, 1925-1926; Sovana. Topografia ed arte, 1929) evidenziano il filone
anticlassico dell’arte etrusca e italica, ponendola nei giusti limiti tra la necessità di
rivalutare produzioni artigianali e evitare interpretazioni irrazionali del fenomeno. Scrive
per la Critica d’Arte, il Contemporaneo e nel 1939 esce Maestro delle Imprese di
Traiano. Tra il 1950 e il 1960 si avvicina a uno storicismo integrale e un materialismo
storico, che lo portano a scrivere una serie di saggi (Il problema della scultura romana
del III e IV secolo, 1952; Il ritratto tardoromano, 1957; Organicità e astrazione, 1956;
Archeologia e cultura, 1961), in cui in polemica con l’astrattismo irrazionale richiama
all’umanesimo e all’impegno civile razionale. In Archeologia e cultura, definisce l’opera
non come raptus irrazionale dell’artista, quanto come nata dalla struttura sociale.
Suggerisce quindi un piano metodologico (pagg. 253-254) articolato nei seguenti
momenti:
1. analisi filologica e cronologica;
2. iconografia e stile epocale;
3. committenti;
4. giudizio storico-artistico.
Dirige due riviste (Enciclopedia dell’arte antica e Dialoghi di archeologia) e scrive:
Formazione e dissolvimento della koiné ellenistico romana (1965), Arte plebea (1967),
Osservazioni sulla forma artistica in Oriente e Occidente (1968), L’arte al centro del
potere (1969), Roma: la fine dell’arte antica (1970), Etruschi e Italia prima di Roma,
1973).
Manfredo Tafuri: studia l’architettura sotto un punto di vista sociologico e marxista,
ispirato da Carlo Ginzburg e dagli Annales. Importanti sono Teoria e storia
dell’architettura (1968) e Progetto e Utopia (1973), per le sue opinioni su capitalismo e
avanguardie, e per le posizioni contro architetti che si davano alla ricerca storica
(pag.256).

CAPITOLO 8 – RICERCHE PSICOANALITICHE


Sigmund Freud: scrisse una monografia su Leonardo (1910) e un saggio sul Mosè di
Michelangelo (1913-14). Nella prima, si concentra su tre aspetti dell’artista: la sete di
sapere, la lentezza con cui porta avanti le opere e il rifiuto della sessualità; è in
quest’opera che anticipa gli studi della scelta narcisistica dell’oggetto amoroso. Per
quanto riguarda il Mosè, si ritiene probabile che Freud si identificò con lui, patriarca con
la verità che trova le sue genti a idolatrare falsi dei. Secondo Kris, ogni analisi di Freud
sulla creazione artistica ha origine dal motto di spirito (pag. 269). Studiosi che si
uniscono a questo filone per cadere in conclusioni rozze: Ernst Jones e Karl Abraham
(pag. 270).
Ernst Kris: si formò con Schlosser e Dvorak e fu ispirato da Freud, che conobbe
personalmente, e grazie a cui cominciò a studiare artisti e opere sotto il profilo
34
psicologico, supportato da una solida base filologica. Assunse la direzione di “Imago”,
ma le sue prime analisi con il metodo psicoanalitico riguardano gli studi fisiognomici
delle sculture di Franz Kaver Messerschmidt (1932), dimostrandone i caratteri psicotici.
Iniziò poi a indagare sul mito e sul potere magico degli artisti nell’antichità classica e
nel Rinascimento (il tutto confluì in Die Legende von Künstler, 1934), fino a studiare la
caricatura: tra il 1934 e il 1935 scrive Zur Psycologie der Karikatur (1934), in cui
teorizza che questo genere, sorto a Bologna e a Roma nel XVI secolo, nasce nel
momento in cui può creare in piena libertà.
Si occupa poi dell’arte degli psicotici, verificando alcuni dati con esempi trovati nella
storia figurativa e tenendo stretti contatti con l’Istituto Viennese di psicologia di Karl
Bühler. Egli analizzò i meccanismi dell’apparato psichico a livello del preconscio,
utilizzando gli studi di Freud per chiarire in quale misura il processo di simbolizzazione
si traduca in forme precise, nonché quale rapporto conduca il meccanismo
dell’ispirazione al processo espressivo. Dunque, studia la psicologia dei processi
creativi: Kris ne discute il carattere preconscio, la natura libidica, la confluenza delle
pulsioni e dei desideri e il carattere sessuale; poi, in un secondo momento, prende in
considerazione i rapporti di interazione esistenti tra pensiero razionale e fantasia
durante il processo (continuano esempi a pag. 273). Infine, sviluppa l’importanza del
riso e della comicità nei processi psicologici. Negli Stati Uniti abbandona le ricerche
storico-artistiche.

CAPITOLO 9 – FORTUNA DEL METODO ICONOLOGICO


L’istituto Warburg nel dopoguerra
Principles in the Age of Humanism (1949): opera fondamentale di Wittwoker. Mette in
luce il significato dell’architettura sacra rinascimentale, l’organizzazione proporzionale
e le sue derivazioni dalla teoria musicale; analizzava poi le tipologie dell’opera
palladiana e offriva una lettura specifica della chiesa di San Francesco della Vigna.
Questi interessi erano già nati col soggiorno a Roma, dove si occupa di Michelangelo
(in cui trova principi del manierismo) e collabora con Heinrich Braun (presta attenzione
filologica ai disegni del Bernini). In Principles, comunque, preminente diventa il
significato storico-culturale dell’opera. Nel decennio successivo prosegue poi con saggi
di questa risma. Rimangono tra i suoi interessi:
1. Palladio, con la sua architettura e la sua diffusione in area inglese;
2. barocco italiano;
3. Bernini con tutti i problemi e le peculiarità delle sue opere (pag. 279);
4. Annibale Carracci;
5. Nicolas Poussin;
6. architettura piemontese barocca, con Guarino Guarini e Bernardo Vittone.
Art and Architecture in Italy 1600 to 1750 (1958): scritto per la Pelican. Applica uno
schema topografico, prendendo in considerazione i vari centri dell’arte italiana,
considerando anche quelli normalmente trascurati e privilegiando architettura e
scultura. A fine carriera, comincia a considerare Piranesi in rapporto con l’egittomania,
con la trattatistica di Winckelmann e il filone tardocinquecentesco. Postumo esce
Sculpture (1977), che analizza la scultura dall’antichità classica al Novecento.
Anthony Blunt: nel 1939-40 si unisce alla direzione del Journal of the Warburg Institute.
È stato uno specialista del barocco e si è concentrato sulla cultura francese del
Seicento (con attenzione particolare a Poussin) e sul barocco italiano. Di Poussin
studiò ogni tecnica, fino a pubblicare il catalogo critico complessivo dei dipinti (1979).
Costruì poi i profili di Mansart, il catalogo dei disegni francesi di Windsor e scrisse un
volume per la Pelican. Sul versante italiano si occupò dei disegni di Castiglione e del
35
barocco campano, siciliano e romano. La sua saggistica si caratterizza per un
approccio storico e concreto, senza cedere al riduzionismo di certa sociologia e
criticando l’interpretazione estetizzante ruskiniana. Henri Frankfort diresse dal 1948
l’Istituto Warburg, poi dal 1954 da Gertrud Bing, quindi da Ernst Gombrich. Tra gli
editors del “Journal” poi figurava anche Frances Yates, che si occupò del Cinquecento e
Seicento in relazione con tradizioni scientifiche, alchemiche e astrologiche. L’attività
dell’Istituto prosegue anche nel dopoguerra con varie opere (pag. 282-283).
Ernst H. Gombrich, dopo la formazione rigorosamente filologica e filosofica a Vienna
con Schlosser, entra in contatto con il Warburg Institute nel 1935. Prima, fece la tesi
sull’architettura di Giulio Romano a Mantova. Fondamentale fu l’incontro con Kris, con
cui collaborò a una ricerca sulla caricatura. Con il passaggio a Londra, si apre a ipotesi
di Kulturgeschichte (“una storia descrittiva della cultura”), in contrasto con Panofsky e
Dvorak, ma anche con l’evoluzionismo positivistico hegeliano, la teoria di Dilthey sui
parallelismi interni alla cultura e la sociologia. Preferiva, piuttosto, ispirarsi
all’antistoricismo di Popper (pag. 285).
Aderendo all’iconologia, nel dopoguerra tratta arte rinascimentale sotto questa
prospettiva, anche se mette in guardia dalle interpretazioni iconografiche troppo
semplici, a favore di una analisi severamente rigorosa a livello filologico e
documentario (pag. 286), come sostiene in Aspirazione e limiti dell’iconologia (1972).
Importanti sono anche i dati dello stile, in cui ritorna in Art and Illusion (1959) e la
figurazione, che è per Gombrich originata dal confronto dell’artista con la tradizione e la
sua interpretazione nasce dal paragone dell’immagine artistica con le esperienze
percettive dell’osservatore. Proprio in questo scritto, una parte rilevante viene assunta
dalla psicologia della percezione visiva, che fa riferimento al movimento newyorkese
“New Look on Perception”: gli studiosi che ne fanno parte (pag. 289) ritengono che la
fenomenologia percettiva sia condizionata dalle esperienze e dalla cultura. Gombrich
recensì invece polemicamente Arnheim.
Art and visual perception (1954): con la teoria gestaltica, si mette a fuoco il
meccanismo della percezione della “legge della pregnanza”: l’arte figurativa sarebbe
l’attività che soddisfa l’esigenza di chiarezza del fruitore, il che porta l’autore a prese di
posizione normative.
Visual Thinking (1969): non tiene conto del contesto storico e culturale.
Riguardo Freud: Gombrich ritiene l’apporto di Freud importante, soprattutto però per
quanto riguarda l’interpretazione della forma e della struttura dell’opera che comunica
con l’osservatore.
The Image and the Eye (1982): perfezione una teoria dell’immagine visiva intesa come
forma comunicativa.
André Chastel: fu profondamente influenzato da Focillon, da cui imparò:
1. la trasformazione delle forme nel tempo;
2. leggere le opere in rapporto col presente;
3. la storia dell’arte come frutto di continuità e innovazioni.
Importante fu anche il rapporto con l’Istituto Warburg, che cominciò a frequentare nel
1934 per poi tornarvi nel dopoguerra: grazie a questa ispirazione, diede grande peso al
contesto culturale dei fenomeni artistici e all’iconografia. Si interessò di arte italiana già
dagli anni Trenta, anche se i suoi primi studi sul Rinascimento fiorentino uscirono tra
anni Quaranta e Cinquanta, secondo una linea dettata da Augustin Renaudet (pag.
292). Oltre a Arte e religione nel Rinascimento italiano (1945) e La teologia di
Michelangelo (1948), scrisse Marcil Ficin et l’art (1954), dove spiega che l’originalità di
Ficino sta nell’avere fondato un sistema filosofico dal carattere artistico, e Arte e
Umanesimo a Firenze ai tempi di Lorenzo il magnifico (1956), in cui all’immagine
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stereotipata della città in quel periodo se ne sostituisce una di un ambiente in crisi;
questi studi proseguono in Le Grand Atelier d’Italie (1965) e L’Europe de la Renaissance
(1965). Queste opere intendono ricostruire le vicende e le complesse individualità
italiane di alcuni centri culturali durante la seconda metà del XV secolo. Più tardi, negli
anni Settanta, oltre che insegnare, è grande animatore della scena artistica, redigendo
le riviste “Art de France” e “Revuede l’art”, collaborando con “Le Monde” e promuovendo
l’Inventaire monumental. Non smette di scrivere e in questo periodo sa cogliere in
modo acuto la svolta che stanno avendo gli studi storici-artistici e la loro
marginalizzazione; egli tenta dunque un allargamento interdisciplinare e, al contempo,
insiste sull’arte come manifestazione dell’immaginario.
Robert Klein: si occupò principalmente di saggi e recensioni, raccolti in La forme et
l’intelligibile (1970), che creano un quadro storico complessivo, i cui temi sono
rappresentati dall’attenzione del pensiero rinascimentale verso la fondazione di una
scienza (pag. 294); questo pensiero scientifico era sempre indagato nel suo rapporto
con la magia e in corrispondenza della nuova interpretazione della prospettiva
rinascimentale come elemento compositivo della historia. Klein si occupa poi della
trattatistica e la letteratura antica sull’arte, vari nodi teorici e di arte contemporanea.
Henri van De Waal: affronta i problemi artistici dal punto di vista antropologico. L’uomo
nell’arte visiva esprime la sua percezione del reale, in cui l’opera è il punto d’incontro
della tradizione culturale e pratica individuale con la storia culturale; dà poi rilevanza a
fenomeni scientifici e letterari. Il metodo migliore per portare avanti questo pensiero è
l’iconologia. In particolare, egli mette a punto uno strumento per l’identificazione
iconografica delle immagini. Molti studiosi importanti si muovono ad Utrecht, come
Jan G. van Gelder e Jan Ameling Emmens, con annesse riviste prestigiose (pag.
295-296).
Jan Bialostocki: la costante della sua produzione è il riconoscimento delle opere e il
loro collegamento con il mondo delle idee, che già si percepiscono nei suoi primi lavori
su Rinascimento e barocco. Aderisce all’iconologia quando incontra Panofsky. Egli non
cede mai al riduzionismo, ma esplora l’opera come sintomo di cultura e complesso di
valori. Punto di arrivo di questa ricerca originale è il volume Stile e iconografia (1966), in
cui esamina e interpreta alcuni temi figurativi e della storiografia centrali (pag. 297). Il
suo contributo più originale è quello sulle “immagini archetipa”: figurazioni che
persistono nel tempo, ma cambiano di significato. La sua attenzione alla complessità
di questi problemi, lo porta a considerare la storia dell’arte come una delle discipline
umanistiche più raffinate e complete. Culmine della sua produzione sono alcune sintesi
e raccolte in cui si ribadisce la necessità di esaminare le immagini con attenzione per
coglierne le esatte funzioni.
In Nord Europa un centro importante fu la Danimarca, dove fu costituita la rivista
Hafna.
Giorgio Pasquali: fu il primo a intervenire su Warburg e il suo metodo in Italia.
Arturo Farinelli: tenne una conferenza su “Dante e le stelle” nel 1928.
Mario Praz: nel 1934 recensisce su “Pan” le opere complete di Warburg.
L’Arte: si apriva alle tematiche attuali, considerando vari fattori, tra cui quello
iconologico.
Storia dell’arte: fondata da Giulio Carlo Argan nel 1969. Sin dal principio il creatore
sottolinea Argan è però più complessa: egli fu influenzato da Lionello Venturi e
dall’idealismo crociano, il che lo porta a intendere il processo storico-artistico come
fatto essenzialmente critico. Già nei suoi saggi giovanili si nota il carattere
problematico di una storia dell’arte che è insieme storia della critica e di personalità
critiche (Palladio, 1939; Sebastiano Serlio, 1932; Architettura protocristiana
37
preromanica e romanica in Italia, 1936). Influenzato poi da Warburg, Panofsky, il
marxismo, la fenomenologia e la sociologia, allarga i suoi studi ad un contesto
culturale più ampio. I saggi del dopoguerra (Walter Gropius e la Bauhaus, 1951;
Borromini, 1952; Brunelleschi, 1955) riflettono queste ricerche, con alcuni postulati
teorici:
1. la convinzione che artisticità e storicità coincidano;
2. l’opera è componente costitutiva di un sistema culturale;
3. l’opera ha anche un carattere sociale. Queste conclusioni le trae con molteplici
e approfondite esplorazioni nel settore dell’arte del passato (pag. 301).
Più tardi, negli anni Sessanta, elabora il concetto di città come opera d’arte: questo gli
perviene dalla storiografia tedesca (es. Albrecht Erich Brinckmann e le sue
considerazioni sui centri in epoca barocca) e anglosassone (es. Lewis Mumford aveva
studiato l’artisticità dei centri urbani in relazione ad altri prodotti culturali e al
linguaggio). Argan si occupò inoltre, già dagli anni Quaranta su “Le arti”, di arte del
Novecento: in questa trattazione superò la problematica estetica a favore del carattere
sociale delle produzione artistica, teorizzandone al contempo una crisi irreversibile, che
coinvolge anche la critica, la quale rinuncia a un giudizio storico e di valore. È chiaro
insomma che l’analisi arganiana ammette un notevole pluralismo metodologico.
s fondata da Dezzi Bardeschi, Fagiolo e Battisti, unisce l’iconologia alla psicoanalisi e il
metodo marxiano.
Millard Meiss: architetto, si occupa di arte italiana tra Trecento e Quattrocento, nonché
di miniatura fiamminga e francese tardogotica. Nel 1951 pubblica Painting in Florence
and Siena after the Black Death, in cui l’analisi è caratterizzata da tre momenti:
1. mutamento di stile, cioè molto più simbolica e antinaturalistica;
2. cambiamenti dei soggetti iconografici, che mirano a esaltare la Chiesa in
quanto gerarchia, il mistero del divino e la funzione sacerdotale della Vergine
Maria;
3. cause a monte di queste variazioni linguistiche, cioè le trasformazioni
socioeconomiche e politiche, accompagnate da un profondo recupero del
senso religioso.
Questo metodo dà importanza sia al conoscitore (tradizione che gli arrivò tramite
Sydney J. Freedberg, mentre l’attrezzatura per la lettura stilistica gli derivava da Richard
Offner), che alla necessità di una ragionata verifica delle mutazioni iconografiche
(ripresa da Erwin Panofsky, Horst Janson e Wolfgang Stechow). Fondamentale è però
anche scoprire il significato storico autentico dell’immagine, in relazione al suo
contesto, ispirandosi da un lato a Walter Friedländer, Meyer Schapiro e Richard
Krautheimer, dall’altro alla sociologia e in particolare a Frederik Antal (pag. 305). Negli
anni Sessanta, poi, si dedicò ad un’opera sulla pittura francese alla corte di Jean de
Berry (1967 e 1968), attraverso una notevole ricostruzione storica, dove lo stile è
correlato con l’iconografia; contemporaneamente, sui problemi dell’affresco italiano
scrive The Painting of the Life of St. Francis in Assisi (1962) e The Great Age of Fresco
(1970)
Meyer Schapiro: si occupò di scultura romanica, arte dell’Ottocento e del Novecento,
teoria artistica. Sul primo argomento scrisse moltissimo in gioventù (opere a pag. 306),
ispirato da Wilhelm Vöge e Arthur Kingsley Porter, ma con una grande differenza: egli
infatti studiava gli aspetti dello stile e gli intrecci culturali e socioeconomici
dell’ambiente degli artisti –metodo per cui vi fu una diatriba con il formalista
Baltrusajtis. Per definire questo intreccio, parlò di “modi espressivi degli artisti” (già
usata da Charles Rufus Morey), ma il suo interesse per il contesto socioeconomico era
principalmente di derivazione marxista: egli riteneva che l’opera non fosse meramente
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il riflesso di una situazione sociale, ma un complesso campo dinamico di energie
conflittuali, dove primaria era la libertà creativa dell’artista e la sua reazione psicologica
al contesto sociale. Più tardi, negli studi sull’arte dell’Ottocento e del Novecento, porta
avanti la tesi secondo cui l’arte avrebbe “condizioni autonome che la distinguono da
tutte le altre attività umane” (pag. 307), influenzato dalla critica americana, ma anche
dallo scambio diretto con artisti. Negli anni Quaranta fondamentale fu il contatto con il
pensiero warburghiano e di Panofsky. Il totale di tutti questi bisogni teorici, si può
trovare nei saggi su Courbet (1940-41), Van Gogh (1946), Cézanne (1952) e Seurat
(1958). Il suo intervento sull’arte è bilanciato tra problemi di iconografia e stile, analisi
delle forme e del significato, senza escludere l’aspetto culturale. Scrive inoltre molti
interventi sul concetto di stile (in Style del 1953 sostiene che l’indissolubilità tra stile e
significato), sui principi della rappresentazione pittorica e sul rapporto immagine-testo
(pag. 308).
Richard Krautheimer: nel 1925 pubblica un libro sulle chiese degli ordini mendicanti in
Germania, con un capitolo intitolato “Architettura e storia culturale”, in cui da subito
esprime l’opinione per cui architettura e contesto storico e culturale sarebbero
inscindibili –questa disposizione si approfondirà in Corpus Basilicarum Christianarum
Romae e altre opere (pag. 309). Più tardi, la sua attenzione si sposta sulla scultura
rinascimentale e sul Ghiberti, su cui scrive una monografia nel 1956, in cui si basa
soprattutto sulla sua trasformazione da artigiano ad artista e sul rapporto tra arte e
Umanesimo. Nelle opere successive, invece, continua ad approfondire la questione
della contestualizzazione delle opere (pag. 310):
1. Early Christian and Byzantin Architecture (1965);
2. Rome: Profile of a City (1980), in cui inventa un nuovo genere storiografico: la
storia di una città attraverso i suoi monumenti;
3. altre, la cui particolarità è essere erudite, mettendo l’edificio come centro
dell’indagine, in ampio contesto storico-culturale.
James Ackerman: specialista del mondo rinascimentale, che affronta sotto il profilo
storicoculturale; inizialmente, si occupa di architettura e architetti in stretta relazione
con i condizionamenti del periodo. In un secondo gruppo di saggi, passa al rapporto tra
scienza e arti visive in Italia nel Quattrocento (pag. 311). Un terzo filone di studi mette
in evidenza il significato della critica d’arte e della metodologia nella ricerca
storico-artistica. In Ackerman convergono il pensiero di Krautheimer, Gombrich,
Shearman, le teorie marxiste, psicologiche e strutturaliste.
Irving Lavin: vuole fondare la ricerca storico-artistica sulla verifica delle fonti
documentarie, allargando il campo all’esame del contesto. Il suo contributo in questo
campo è riassunto soprattutto dai suoi saggi su Bernini (pag. 312).

CAPITOLO 10 – RICERCHE STORICHE E FILOLOGICHE NEL DOPOGUERRA


Paragone-Arte (1950, Longhi): l’orientamento metodologico è espresso nell’editoria
del primo numero (pag. 331):
1. è contrario alla critica come storia delle dottrine filosofiche o estetiche che
percorrono le varie epoche;
2. è contrario anche alle interpretazioni individualistiche;
3. la vera critica è quella testuale, con la sua traduzione letteraria;
4. critica e storia si equivalgono;
5. nel saggio Omaggio a Croce (pag. 332) ribadisce l’adesione quasi sensoriale al
testo;
6. verifica indispensabile dei rapporti tra opere coeve, non solo a livello stilistico,
ma anche sociale, senza finire in considerazioni deterministiche. Inizialmente si
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occupa principalmente di beni culturali, Caravaggio (soprattutto per revisionarle
l’interpretazione idealista, pag. 334) e pittura italiana del Trecento.
Si trattano poi tutti gli argomenti più attuali del periodo a livello artistico, con apporti di
Francesco Arcangeli, Ferdinando Bologna, Giuliano Briganti e Federico Zeri (pag.
334-335).
Carlo Ludovico Ragghianti: fonda La Critica d’Arte nel 1935, in cui sviluppa un pensiero
ben strutturato che dà grande importanza all’aspetto metodologico e teorico:
fondamentale è il concetto di circolazione dello spirito tra le varie forme e dell’identità
di pensiero e forma. L’arte, creata dall’impulso divenuto forma e linguaggio, è dunque
una forma conoscitiva (ma anche d’esperienza) raffinata e il giudizio critico è un atto di
comprensione della stessa. Al centro del processo di costituzione della forma c’è la
personalità dell’artista che tende al linguaggio, che il critico deve verificare. Inoltre, lo
studioso deve identificare e scoprire gli elementi di cultura figurativa, per poi
storicizzarli. Si costruisce, insomma, una biografia del “fare artistico”. Ma soprattutto,
per Ragghianti è centrale il valore educativo di arte e critica.
Michelangelo fino alla Sistina (1942): l’arte viene presentata con stile terso e il
linguaggio cerca aderenza a quello artistico di Michelangelo (pag. 337). Vanno ricordati
Profilo della critica d’arte in Italia (1942), “La critica d’arte”, “Sele-arte”, Mondrian e l’arte
del XX secolo (1962), nonché le numerose iniziative culturali portate avanti dallo
studioso, attraverso cui promulga idee sempre nuove (pag. 338-339). Non si può poi
trascurare il suo interesse per le arti dello spettacolo, ad esempio il cinema, e la sua
difesa anacronistica della critica crociana (pag. 339).
Louis Grodecki: si occupa di Medioevo e gotico. I suoi studi sono condotti con rigorose
analisi stilistiche e formali, che vogliono individuare precedenti influenze. Crede che il
gotico nasca a settentrione per poi diffondersi fino all’Inghilterra, e studia numerose
vetrate, non solo a livello stilistico, ma anche delle tecniche, delle botteghe operanti, il
valore simbolico e l’iconografia.
Charles Sterling: rivaluta i pittori della realtà del XVII secolo e la natura morta, ponendo
al centro lo studio dello stile. Si unisce a questo filone anche Michel Laclotte.
Kurt Badt: si occupa di arte dell’Ottocento. In particolare, applica il concetto di
spazioavvenimento alla forma artistica; esso implica un’attività dinamica che è quella
connessa alla produttività dell’evento artistico che la produce (pag. 341).
Herbert von Einem: influenzato da Heiddeger, rileva l’importanza della critica dello stile
e valuta positivamente l’analisi iconografica (pag. 342).
Mario Praz: con il volume Il gusto neoclassico (1939) comincia la rivalutazione
neoclassica, anche se interventi in tal senso erano già esistiti e proseguirono anche
dopo (pag. 341).
Hans Belting: influenzato da Panofsky, comincia con la cultura bizantina per poi
spostarsi sulla funzione dell’immagine nel medioevo e il rinascimento. Si è concentrato
in particolare su determinate figure devozionali, soprattutto dal punto di vista del
cambiamento iconografico (pag. 343). Importanti sono La fine della storia dell’arte
(1983) e I tedeschi e la loro arte (1992).
Hans Jantzen: applica il metodo filologico alla scultura romanica e ottoniana; suo
importante allievo è stato Willibald Sauerländer.
Ludwig H. Heydenreich e Wolfagang Lotz: esperti di architettura rinascimentale
italiana (pag. 344).
Otto Demus: si dedicò allo studio dell’irraggiamento dell’arte bizantina nel mondo
occidentale.
Renate Wagner Rieger: si occupò di architettura a tutto tondo.
Eva Frodl-Kraft: applica l’analisi stilistica al campo della pittura vetraria.
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In Inghilterra la tradizione della connoisseurship è portata avanti principalmente da due
riviste: The Burlington Magazine e Apollo, con annessi vari studiosi: Denis Sutton
scrisse a lungo su critici del suo tempo, John Pope-Hennessy (con numerosi interessi,
pag. 346), Johannes Wilde, Arthur Ewart Popham; sul versante più storico e culturale
troviamo invece Kenneth Clark e John Beckwith (pag. 346-347).
In Olanda abbiamo altri nomi di peso, come Hofstede de Groot, Abraham Bredius, Frits
Lugt, Vitale Bloch e Horst Gerson (questi ultimi due di origine tedesca); va ricordato poi
Johan Huizinga, che dava grande importanza all’opera d’arte come testimonianza per
la ricostruzione degli eventi della civiltà. Altri tre nomi: J.G. van Gelder, Herbert
Haverkamp-Begemann e Julius Held (pag. 347-348).
Esistono poi studi anche nell’est Europa e in Scandinavia (pag. 348).

CAPITOLO 11 – STRUTTURALISMO E SEMIOTICA


La lettura delle opere in chiave strutturalista e semiotica non ha avuto gran fortuna,
soprattutto a causa della diversa accezione di “forma” in campo estetico rispetto a
quello linguistico. Nonostante ciò, in ambito formalista già si erano palesati interessi
riguardanti i processi di strutturazione culturali delle forme, che si possono dire
prestrutturalisti: un esempio, come ricorda Cesare Brandi, sono le opposizioni binarie di
Wölfflin (pag. 376). Argan, poi, vede qualcosa di simile in Longhi e l’iconologismo, per la
sua capacità di ricostruire lo sviluppo e il percorso delle varie tradizioni e sistemi di
immagini; proprio il concetto di “sistema”, però, è problematico, perché quello delle
opere è molto diverso da quello linguistico: sono stati numerosi gli studi per la
definizione dello specifico segnico degli avvenimenti non-verbali, riguardo la sua natura,
la sostanza del suo messaggio, la possibilità di usare parametri già utilizzati per
fenomeni linguistici e via discorrendo (pag. 377).
Tentativi strutturalisti erano stati anche la Strukturanalyse, che però era mediata dalla
psicologia, e gli ultimi studi di Argan, che comunque ribadiva anche l’importanza della
storicità.
Cesare Brandi: in Struttura e Architettura (1976) analizza le difficoltà dell’applicare il
metodo strutturalista all’architettura: egli mette in discussione la linguistica della
disciplina e si rivolge a scoprire la struttura della “astanza” dell’opera, diversa dalla
“flagranza” (definizioni a pag. 378); questa analisi dunque è antropologica,
metalinguistica. Ne conclude che l’architettura non è un sistema di comunicazione
come la scrittura, in quanto la coscienza ne coglie prima di tutto l’astanza, cioè
l’estetico come pura presenza.
Renato De Fusco: autore di Segni, storia e progetto dell’architettura (1973), cerca di
evidenziare lo specifico segnico dell’architettura. I segni dell’architettura sono definiti
da De Fusco riprendendo nozioni di Fiedler e Schmarsow, soprattutto riprendendo il
concetto secondo cui lo spazio interno sarebbe la componente del “significato” del
segno, lo spazio esterno il “significante” (pag. 379), con corrispettivi “sottosegni” dati
dalle “figure” o componenti.
Ipotesi per il segno urbanistico (1973): nel saggio di De Fusco, l’individuazione del
sistema di un impianto urbano viene condotto a tre livelli:
1. soffermandosi sulla condizione topografica, in cui si possono ritrovare il
significato nell’invaso del vuoto urbano e il significato nella messa piena dei
fabbricati;
2. sulla tettonica, si avverte la dicotomia prima citata con la differenza che i muri
separatori ora sono sia significanti del sistema architettonico e significati di
quello urbano;

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3. sulla percezione, per cui cogliamo la catena delle componenti del significato e
riconosciamo il significante per il “verso” delle strutture del significato (pag.
380).
Su quest’ultimo punto ha insistito recentemente anche Sergio Bettini.
Boris A. Uspenskij: rileva la difficoltà dell’applicazione della semiotica al linguaggio
della pittura, dato che spesso ignoriamo il contenuto di un quadro antico: non
sappiamo infatti cosa fosse rilevanti per l’artista, né possiamo esaminare il grado di
convenzionalità (prende d’esempio le antiche icone russe, pag. 380).
Louis Marin: in un saggio del 1968, Marin verifica se esista un’equivalenza tra lo
specifico della lingua e dell’immagine, trovando analogie (pag. 381):
1. nell’esistenza di una sintagmatica pittorica;
2. nella paradigmatica pittorica costituita da elementi seriali secondari;
3. nel codice figurale entro il quale si svolge la differenza tra referente e senso;
4. nella denotazione-connotazione;
5. nella presenza di strutture doppie e di simboli-indici;
6. nell’individuazione di strutture elementari della significazione pittorica.
Sul versante delle verifiche, si concentra su Philippe de Champaigne.
Hubert Damish: in Théorie du nuage (1972), dedicato all’analisi semiotica della
“nuvola”, è convinto che il sistema pittorico sia l’articolazione gerarchica dei piani di
connotazione (pag. 381).
Jean-Louis Schefer: si propone una trascrizione dell’icona in codice linguistico,
utilizzando il concetto di intertestualità.

CAPITOLO 12 – CULTURA MATERIALE, BENI CULTURALI E TERRITORIO E


ANTROPOLOGIA
Con l’influenza marxista e l’elaborazione di concetti come “bene culturale”, “territorio” e
“cultura materiale”, in Italia si sviluppa lo studio dei fenomeni storico-artistici come
espressione di cultura materiale connessa all’ambiente umano in cui questi fenomeni
si manifestano.
Bene culturale: viene introdotto negli anni Sessanta, come “ogni testimonianza
materiale avente valore di civiltà”; più tardi si approfondisce:
1. viene allargato a oggetti prima di allora trascurati;
2. si accentua il suo collegamento con il contesto;
3. si afferma la sua utilità sociale;
4. si tende ad eliminare ogni gerarchia.
Ciò avviene in concomitanza con la nascita del concetto antropologico di cultura, cioè
la “cultura materiale”.
Territorio: superato grazie agli studi di geografia umana il concetto di paesaggio (pag.
390), con la parola “territorio” si intende un punto di riferimento spaziale, geografico e
ambientale entro cui si sviluppa la produzione umana; esso è dinamico ed inseparabile
dalla società che lo ha prodotto – dunque questo concetto diviene insolubile da quello
di bene culturale (pag. 389).
Andrea Carandini: archeologo, dirige il Centro per lo studio della cultura materiale in
epoca classica. In Archeologia e cultura materiale (1973) propone un’archeologia
rinnovata, considerata attraverso le testimonianze materiali, sociali, economiche,
gestuali. In questo studio, quindi, il patrimonio appare legato alla comunità e al
territorio; si sentono le influenze delle ricerche della cultura materiale e degli archeologi
medievali anglosassoni, ma soprattutto di Antonio Gramsci (pag. 391).
Ricerche storico-artistiche:

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- studio dei centri storici, ispirato dalle Istruzioni per la tutela dei centri storici
(inserite nella Carta del restauro del 1972), non si limita più ai grandi centri
urbani, ma si estende a tutti gli insediamenti umani. I centri sono considerati
come organismi viventi, in relazione col territorio e analizzati globalmente;
- catalogazione dei beni culturali nel territorio, legata al bisogno di eliminare
gerarchie tra varie forme d’arte e usata per cogliere le specificità di ogni
territorio, da un punto di vista globale e antropologico, senza però dimenticare
che ogni bene culturale ha un’importanza diversa in ogni contesto.
George Kubler: studia l’architettura in epoca coloniale e l’arte dell’America
precolombiana, e usa queste conoscenze, unite al metodo antropologico, in The Shape
of Time (1962). Riprendendo Focillon, propone una storia dell’arte come studio degli
oggetti, inseriti in una griglia strutturale di “sequenze formali” o “serie”, che spiegano i
mutamenti di stile e le innovazioni, senza tirare in ballo concetti tradizionali qualità e
gerarchia. Fu ispirato anche da Rynyanov, Jakobson e Kroeber (pag. 394).

CAPITOLO 13 – DIBATTITO DEGLI ANNI NOVANTA


Anni Novanta: si teorizza che la disciplina storico-artistica sarebbe prossima alla sua
fine.
Henri Zerner: in un editoriale di Art Journal (1982) registrava il disagio nei confronti
della metodologia tradizionale, sottolineando la necessità di ridefinire l’oggetto della
storia artistica, in virtù della “cultura materiale” e dei nuovi studi antropologici. Per farlo,
è necessario:
1. superare l’eurocentrismo;
2. eliminare la distinzione tra arte colta e popolare;
3. dimenticando la distinzione tra creatività e produttività nel processo artistico;
4. mettere in discussione i concetti di storia e storicità, evitando le posizioni rigide
di idealismo, positivismo e in parte anche antropologia, a favore di una visione
relativista e non solo estetizzante (pag. 400).
Hans Belting: nel 1983 scrive Das Ende der Kunstgeschichte?, in cui sostiene che non
esista più un modello autorevole di trattazione storica per quanto riguarda la storia
dell’arte –dato che ormai esistono solo molte teorie che sezionano aspetti dell’opera
(pag. 401): Belting analizza la modalità Ottocentesca, quella iconologica, quella ispirata
ad Heidegger e Gadamer, quello psicoanalitico. Queste sono forme obsolete, per creare
una disciplina nuova: a) il punto di partenza deve essere lo studio della forma artistica,
chiamata “forma storica”; b) tale forma si esprime attraverso uno “stile iconografico”
(pag. 402); c) la storia dello stile non può essere sostituita da nessun’altra, ma è
comunque importante lo studio della ricezione. Si è percepito il bisogno di
internazionalizzare la storia artistica, trovare strumenti d’analisi scientifici e si è
analizzata la possibilità di applicare modelli ermeneutici.
Jan Bialostocki: nel 1979, sosteneva che bisognasse studiare la storia dell’arte su un
modello comparativo internazionale, mondiale, così da prendere in considerazione
anche opere e culture prima non considerate, pur non sottovalutando l’aspetto sociale
specifico.
Oleg Grabar: con un saggio pubblicato nel 1982 su Art Journal, ha insistito con la
necessità di una storia dell’arte universale.
Per Jonas Nordhagen: vede le tecniche empiriche come modo per uscire dalla crisi.
John Shearman: è tra coloro che propone una nuova interpretazione dell’opera che
tenga anche conto della valutazione soggettiva (pag. 404).

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