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Antropologia culturale, Corso di laurea in Lettere,


Anno Accademico 2015/2016

Traccia n. 1

L’allestimento etnografico:
dalle idee agli oggetti.
INTRODUZIONE

Gli studi dell'antropologo possono essere visti come un complesso procedimento che parte da
una realtà etnografica per arrivare a varie forme compiute di questi. L'allestimento etnografico
odierno può essere considerato una delle tappe finali della ricerca sul campo che ha preso piede
nell'antropologia soltanto con Bronislaw Malinowski verso metà Ottocento. Prima di lui abbiamo
quella che Dei definisce una ”antropologia da tavolino” [Dei, 2012: 57] secondo la quale lo studio
antropologico si basava essenzialmente sull'analisi comparata dei testi di vari resoconti di
viaggiatori, fossero essi missionari, mercanti, naturalisti o altro ancora. Malinowski è così
considerato il padre fondatore dell'antropologia moderna; tra il 1914 e il 1918 trascorse lunghi
periodi nell'arcipelago melanesiano delle Trobriand, dove condusse “una ricerca etnografica
intensiva e solitaria vivendo all'interno dei villaggi e documentando tutti gli aspetti della cultura e
della vita quotidiana dei nativi” [Dei, 2012: 60]. Da queste ricerche nacque “Argonauti del Pacifico
occidentale” testo che diventò un vero e proprio manifesto, un paradigma della nuova ricerca in
campo antropologico. Qui comincia il processo che trasformò i manufatti etnografici da oggetti
esotici esposti in collezioni privati e Wunderkammer in soggetti di nuovo studio, inizialmente nel
loro ambiente d'origine e poi tra i reperti dei primi musei etnografici.
Il museo, e quindi l'allestimento etnografico, acquisiscono nel tempo diversi significati e
adottano varie prospettive e paradigmi, ma la loro finalità ultima rimane comunque la fruizione da
parte del pubblico delle ricerche prima compiute. Esistono però diverse istanze a cui questa stessa
finalità risponde: attraverso gli oggetti si può cercare di far conoscere culture diverse, spesso
lontane nel tempo o nello spazio, oppure restituire alla stessa popolazione locale la sua cultura, in
un processo di riappropriazione della memoria o della tradizione. Questo ad esempio è stato il caso
del Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History, costruito grazie a una collaborazione tra
varie istituzioni inclusa la Missione Etnologica Italiana in Ghana (MEIG). Esso nasce prefissandosi
di restituire alla comunità Nzema la propria memoria,se non addirittura parte della propria storia.
Da questo punto si aprono infinite possibilità su come allestire un museo etnografico, infinite
scelte da compiere che variando anche solo minimalmente possono determinare risultati molto
diversi, alle volte opposti. Alcuni esempi possono essere rappresentati dalle scelte riguardo
l'illuminazione dell'allestimento, dal modo in cui gli oggetti vengono raggruppati, come vengono
introdotti e spiegati al pubblico, se utilizzare quindi didascalie o meno, se e quanto coinvolgere la
popolazione. L'elenco è potenzialmente infinito. La cosa però interessante è che ognuna di queste

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piccole componenti è rivestita da un preciso significato, portatore del messaggio di fondo della
mostra nel suo complesso.
Sono quindi due i principali blocchi che nel procedimento creativo ci sembra siano al tempo
stesso macrocontenitori della maggior parte delle altre componenti, sopra in parte elencate, che
rispettivamente il punto di origine e il punto di arrivo dell'azione: la prima è la postura curatoriale
che viene assunta nel realizzare il lavoro di esposizione, essa determina molte delle scelte che
porteranno alla seconda componente del nostro trattare, ovvero i diversi messaggi dati dalle scelte
fatte in precedenza. Di seguito passeremo ad analizzarle leggendo attraverso di esse alcuni casi
significativi e prendendo in esame al contempo alcuni degli altri fattori in essi contenuti.

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SAGGIO

Come accennato nell'introduzione, ogni allestimento etnografico ha alle sue spalle una serie
di scelte: modificando anche solo una soluzione cambia l'intera mostra. Si può dire quindi che
ogni allestimento è unico perché al variare della cosiddetta postura curatoriale si trasforma sia la
mostra, sia il messaggio che con essa si vuole comunicare al pubblico.
Prendiamo ad esempio le due mostre svoltesi nel 2006 a Honolulu e a Canberra: entrambe
sono state allestite con i medesimi oggetti, ovvero i reperti della collezione Cook-Forster
conservati a Göttingen. Essendo, però, state impostate in due modi diversi, trasmettono al.
visitatore due messaggi completamente differenti. I manufatti sono stati raccolti durante le tre
spedizioni che il capitano britannico James Cook intraprese nella seconda metà del Settecento. In
particolare questa esposizione raccoglie gli oggetti della seconda spedizione (1772-1775) alla
quale parteciparono anche i due naturalisti tedeschi Johann Reinhold Forster e suo figlio George.

La prima differenza da analizzare riguarda il titolo della mostra: all'Accademy of Arts di


Honolulu l'allestimento è stato intitolato Hele Mai: live in the Pacifico of the 1700's, mentre al
National Museum di Canberra il titolo scelto è stato Cook's Pacific Encounters. Già da questo
aspetto si può notare come cambino le prospettive: da una parte a Honolulu si è messa in
evidenza la vita nel Pacifico del Settecento; dall'altra a Canberra l'attenzione è stata concentrata
sulla figura del capitano britannico James Cook e sui suoi incontri nel Pacifico. Più dei titoli è
però soprattutto l'allestimento a comunicare visioni diverse, poiché è quest'ultimo a catturare a
pieno l'attenzione del visitatore e a indirizzarne lo sguardo e la sensibilità.
Nella mostra ad Honolulu “la semplicità delle teche di vetro rivestite in feltro blu pallido
evocava l'oceano e gli oggetti erano ben illuminati, amplificando l'iridescenza di conchiglie,
giadeite e piume. Il loro raggruppamento, non per paese, ma per tipo, metteva in evidenza le
profonde connessioni oceaniane e le sottostanti affinità culturali. […] Le didascalie erano minime
[…] e prive di qualsiasi contestuale informazione culturale che avrebbe fatto luce sugli usi o sui
significati.” [Jolly 2011: 34] L'attenzione viene quindi posta completamente sugli oggetti con
l'intento di farli parlare e raccontare le“storie della popolazione del Pacifico” [Carvalho 2006]
senza l'aiuto di didascalie. In questa mostra quindi sia Cook che i Forster sono relegati a mera
cornice poiché protagonista è la storia dell'Oceania suggerita dagli oggetti. Inoltre in questa
mostra, proprio per la mancanza di didascalie dettagliate, si fa molto affidamento sulla capacità

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interpretativa del visitatore e sulla forza di suggestione degli effetti di luci e colori creati
artificiosamente.
Al contrario nella mostra a Canberra si è voluto evidenziare la pratica del collezionismo nel
contesto europeo. “Mappe, incisioni e dipinti di provenienza europea invece di essere collocati ai
margini della mostra principale degli oggetti di Oceania sono stati piuttosto dislocati come a
costruire un'anticamera della mostra, un precursore narrativo. […] Pannelli a corredo degli oggetti
contenuti nelle vetrine riportavano citazioni dai testi di viaggio, che evidenziavano i processi di
scambio […] attraverso i quali gli oggetti erano stati ottenuti dagli europei. “ [Jolly 2011: 39] In
questo caso l'allestimento ha come protagonista il capitano James Cook e le sue spedizioni e non
più la storia intima dei manufatti. In questo allestimento si è quindi deciso di evidenziare la
pratica della raccolta degli oggetti attraverso gli scritti di Cook, presentando il capitano quasi
come una sorta di pacificatore e tralasciando di ricordare la violenza che caratterizzava le sue
spedizioni. Inoltre in questo allestimento si è voluto enfatizzare il cartografo e non il
colonizzatore, in altre parole questa mostra tende a nascondere la parte negativa di Cook e non
menziona, se non marginalmente, i due naturalisti tedeschi poiché essi erano poco conosciuti in
Australia.
Ciò che inoltre differenzia le due mostre è anche il luogo dove sono state allestite: ad
Honolulu la visione che si ha di Cook è una visione fortemente influenzata dalle violenze che
questo ha perpetrato nei confronti degli indigeni del posto, di conseguenza una mostra incentrata
soprattutto su di lui sarebbe stata fuori luogo e sarebbe risultata sicuramente un fallimento; a
Canberra invece Cook è considerato un cartografo importante. Di conseguenza è ovvio che ad
Honolulu non si potesse esaltare la figura di un uomo che nella storia di quel posto era ricordato
in modo fortemente negativo cosa invece possibile in un Paese che lo vedeva in modo positivo e
non lo considerava assolutamente responsabile di qualche violenza.
Tornando all'inizio, abbiamo accennato alla postura curatoriale affermando che è
quest'ultima ad allestire la mostra e quindi a decidere che messaggio trasmettere. Ciò di cui non
abbiamo ancora parlato è però di come anche l'atteggiamento che il curatore ha nei confronti dei
manufatti, che poi dovrà organizzare in un allestimento, gioca un ruolo importante. Vi sono infatti
due modi per denominare gli oggetti che potrebbero fare parte di una mostra, o che comunque
vengono tenuti nei musei o nei depositi: resti umani o reperti scientifici. Il primo ha una
connotazione più “calda”, porta con sé delle responsabilità e lascia intendere la presenza di un
passato che lo riguarda e nel quale non era solo un “resto”, un qualcosa di incompleto, ma un
“intero”. Parlando di resti umani inoltre si tende a dargli maggiore importanza e quindi si tende a

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sobbarcarsi di una maggiore responsabilità nel momento in cui lo si mette in mostra e ne si
racconta la storia.
Il secondo termine invece ha una connotazione più “fredda”. Un reperto scientifico viene
considerato meno prezioso di un resto umano, non lascia intendere la presenza di una storia che
potrebbe caratterizzare quel reperto come unico.
Dare una denominazione rispetto all'altra porta con sé una presa di posizione che
ovviamente influenza tutto il lavoro che viene svolto. Trattare un oggetto come un resto umano o
come un reperto scientifico porta il curatore ad organizzare la mostra in due modi opposti facendo
quindi trasmettere a quest'ultima messaggi opposti.
Oltre al luogo e all'atteggiamento del curatore riguardo gli oggetti, anche la decisione di
collaborare o meno con persone della cultura che si vuole rappresentare nella mostra ha un ruolo
fondamentale in questa. Al di là del modo di denominare un manufatto possono esserci più modi
di considerarlo. Il curatore può infatti usare un oggetto solo come strumento per creare una
mostra, ma può anche usarlo per cercare di ottenere un nuovo dialogo con la cultura da cui questo
oggetto proviene.
Nella mostra [S]oggetti migranti: dietro le cose le persone per esempio si è cercato di far
parlare gli oggetti e di usarli come “ambasciatori di una nuova possibilità di dialogo
interculturale.” [Lattanzi in Paini-Aria, 2014: 242] In questo caso quindi “i curatori li hanno (gli
oggetti) presentati come impronte di forme di vita. Non più relitti inanimati” [Lattanzi, 2014:
242].
In sintesi ogni mostra è unica perché per allestirla entrano in gioco molte varianti che
portano a infinite possibilità di scelta e, di conseguenza, a infiniti risultati. “Ciò che vediamo in
mostra, l'oggetto della nostra “visione” sarà tanto più nitido quanto più “densa” sarà la struttura
della rappresentazione. Della quale è parte in causa […] lo stesso curatore con le diverse
rappresentazione del suo sapere” [Lattanzi, 2014: 247,248].

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BIBLIOGRAFIA

Colombo-Dougoud R., “I bambù incisi, ambasciatori della cultura kanak tra Ginevra e
Nouméa”, in Paini A., Aria M.,2014, La densità delle cose, oggetti ambasciatori tra oceania
e Europa, Pacini Ed., Pisa

Dei F., 2012, Antropologia culturale, Il Mulino, Bologna

Jolly M., “Oggetti in movimento : riflessione sulle collezioni d'Oceania”, in Paini A.,
Gnecchi Ruscone E., 2011, a cura, numero monografico La ricerca folklorica, 63, pp. 29-50

Lattanzi V., “Il museo come campo etnografico: [s]oggetti in mostra” in Paini A., Aria
M.,2014, La densità delle cose, oggetti ambasciatori tra oceania e Europa, Pacini Ed., Pisa

Luquet G.-H., 1926, L'art Néo-Calédonien, inColombo-Dougoud R., “I bambù incisi,


ambasciatori della cultura kanak tra Ginevra e Nouméa”, a cura, Paini A., Aria M.,2014,
La densità delle cose, oggetti ambasciatori tra oceania e Europa, Pacini Ed., Pisa

SITOGRAFIA

AA.VV., 2002, Declaration on the Importance and Value of Universal Museums,


www.thebritishmuseum.ac.uk/newsroom/current2003/universalmuseums.html

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