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Introduzione
Nel 1993 ad Antalya, i paesi mediterranei e le Nazioni Unite si riunirono per discutere come la Convenzione di
Barcellona e il Piano d'Azione del Mediterraneo, adottati negli anni Settanta, avrebbero potuto essere aggiornati per
conformarsi al principio di sviluppo sostenibile, enunciato l'anno prima a conclusione della Conferenza di Rio. Due
geografi fecero di Antalya un interessante caso di studio per promuovere lo sviluppo sostenibile su scala locale.
L'ambiente naturale mostrava un doppio disegno: una planimetria irregolare nella città antica, dove una miriade di
strade strette si intersecano formando un labirinto non dissimile da quelli presenti in numerosi abitati storici delle
città mediterranee, e una planimetria a maglie ordinate nella parte recente, sviluppata alle spalle dell'abitato storico.
Lo studio ebbe cura di porre la crescita urbana in relazione all'espansione delle attività economiche. La
rappresentazione di quel disegno urbano in rapido cambiamento fu associata alla rappresentazione cartografica
degli usi del suolo, in modo da mettere in relazione l'espansione dell'economia con il consumo di risorse naturali.
Furono elaborate carte che valutassero la pressione umana esercitata sul territorio e sulle acque dolci, due risorse
essenziali per quel sito.
Per il tipo di risultati conseguiti e per i metodi impiegati, lo studio sarebbe stato apprezzato dagli uffici delle Nazioni
Unite preposti al Piano d'Azione del Mediterraneo, soprattutto da quelli che avevano il compito di ideare schemi di
gestione di aree costiere sottoposte a forte pressione umana. La prerogativa che maggiormente connotava il suo
lavoro era costituita dal fatto che egli aveva modellizzato la realtà: il disegno urbano era stato ricondotto al modello
della pianta mista; l'economia turistica, insieme alle altre attività terziarie collegate, era stata analizzata attraverso
un modello della diffusione degli usi del territorio; il consumo delle risorse naturali era stato interpretato da un
modello che poneva in evidenza i punti critici provocati dalla pressione umana.
In conclusione, la rappresentazione di Antalya costituiva un esempio di razionalizzazione della realtà territoriale.
L'altro geografo attribuì grande attenzione alla storia e alle radici culturali della città e, soprattutto, impiegò molto
tempo a percorrere strade, a visitare luoghi e a parlare con la gente, in modo da comprendere condizioni esistenziali,
atteggiamenti sociali e atmosfere spirituali. Eseguì un'esplorazione nella cultura locale. Cercò di interpretare il
paesaggio come una manifestazione di segni nel cui ambito la natura appariva essa stessa come un fatto culturale,
perchè i valori che le si attribuivano erano germinati dalla cultura, o meglio da culture diverse. Il risultato del suo
lavoro consistette nell'elaborazione di carte geo-simboliche, nelle quali i singoli punti del territorio di Antalya erano
connotati con i simboli che vi si erano sedimentati nel corso della storia e con i valori che la comunità locale
attribuiva loro.
I simboli e i valori accolti nei vari punti della città storica costituivano una sorta di sinfonia geografica che si rifletteva
sul comportamento della gente e costituiva un contrasto con i simboli che connotavano l'altra parte del tessuto
urbano, quella che si stendeva al di là dei quartieri storici. Nella fascia esterna, dominavano i segni del Razionalismo
occidentale. La seconda garantiva crescita economica a condizione che si sacrificasse ciò che maggiormente
connotava la prima, ossia l'identità culturale al mercato.
La rappresentazione del primo geografo rientrava nella geografia umana, soprattutto in quella sviluppatasi nella
seconda parte del ‘900 e profondamente influenzata dal pensiero strutturalista. La rappresentazione del secondo
geografo rientrava invece nella geografia culturale, soprattutto in indirizzi che si andavano sviluppando dalla metà
degli anni ‘80.
Il libro fornirà una visione della geografia culturale partendo dall'idea secondo la quale la specie umana si distingue
da ogni altra specie vivente per la sua capacità di creare simboli e di dedurne significati, e assumerà che la cultura sia
costituita dalle manifestazioni di questa prerogativa. Se fondata su questo postulato, la geografia culturale consiste
nello studio delle manifestazioni geografiche della cultura, cioè nello studio dei simboli e dei relativi significati
attribuiti a luoghi e spazi. Le radici più profonde per rappresentare la geografia della cultura in termini di simboli e
valori possono essere trovate addirittura nell'800, ma i presupposti e gli impulsi che ne hanno determinato il decollo
sono piuttosto recenti: possono farsi risalire alla seconda metà degli anni ‘70. Le prime manifestazioni nella
produzione scientifica sono ancora più recenti: possono ricondursi agli anni ‘80.
La cultura è ricondotta a fatti intellettuali e spirituali e il territorio è rappresentato come una tessitura di luoghi
connotati da simboli e da valori.
La prima parte (Discorso) parla dell'esordio della geografia culturale nella modernità e dei recenti sviluppi. Segue
l'esposizione del metodo semiotico finalizzato all'investigazione di valori espressi dalle connotazioni simboliche
dei luoghi.
La seconda parte (Luoghi) prende in esame i simboli che connotano i luoghi, i valori che esprimono e le condizioni
esistenziali con cui sono connessi. Sono considerati tre campi tematici, che riguardano rispettivamente i rapporti
esistenziali con la natura, con la società e nei riguardi della trascendenza.
La terza parte (Spazi) sposta l'attenzione su scale geografiche che evadono dall'ambito locale.
Dopo aver considerato i simboli che attengono al valore esistenziale del tempo e alle relazioni tra spazio e tempo,
si prendono in esame aggregati territoriali intesi come spazi prodotti dall'interazione tra comunità umane e
territorio. In questo contesto rientrano la regione e il paesaggio, quest'ultimo a ragione considerato da molti un
tema centrale della geografia culturale. Le etnie e le civiltà completano il quadro.
Il discorso conduce a immaginare i valori attribuiti ai luoghi e agli spazi come il risultato della sedimentazione di
simboli premoderni e moderni e, in qualche caso, dell'emergere di simboli postmoderni. In questo quadro la
modernità, le cui radici affondano nell'Illuminismo e nel Razionalismo, diventa il fulcro del discorso.
Le argomentazioni partono dal considerare l'europeizzazione, l'occidentalizzazione e la globalizzazione del mondo
come tre tappe attraverso le quali si è evoluta la modernità e giungono a proporre nell’epilogo due scenari
divaricanti: il primo prefigura che il mondo vada soggetto a un'accelerazione della produzione di simboli moderni,
destinata a costruire iper modernità; il secondo prefigura che si stia procedendo verso il superamento del modo
moderno di rappresentare il mondo e la propria esistenza e che lungo questo itinerario si possa produrre
postmodernità.
Parte prima: Discorso Presenta: la geografia culturale nella modernità; la nuova geografia culturale; la
cultura come creazione di simboli e di significati, discutendo: il concetto di cultura applicato in geografia; gli indirizzi
emersi nella geografia culturale; le relazioni tra teoria geografica e prassi.
Può essere utile osservare come il discorso geografico cambi a seconda che ci si muova all'interno dell'indirizzo
convenzionale, a sfondo strutturalista, o di quello semiotico.
Prendiamo in esame i due archi che caratterizzano il paesaggio parigino: l'Arc de Triomphe de l'étoile e la Grande
Arche de la Défense. Per loro natura, questi manufatti non rientrano nei temi cui la geografia culturale a sfondo
strutturalista dedicherebbe attenzione. Al contrario, la geografia culturale a sfondo semiotico attribuirebbe loro una
rilevanza speciale perchè li vedrebbe come simboli attraverso i quali è possibile approdare a narrazioni su Parigi,
sulla Francia e sul mondo (figura pag. 45: i due archi a confronto secondo l’indirizzo semiotico).
Arc de Triomphe de l’Etoile situato al centro dell’Etoile, in una posizione un po’ elevata, dalla quale lo sguardo si
spinge lungo le avenues che da quel punto si diramano a raggiera, l’Arco di Trionfo esibisce i segni della potenza
francese, che conducono a significati di solidità politica e sociale e di orgoglio nazionale, dove emerge la narrazione
secondo la quale la Francia possiede una tale dotazione di valori e di qualità da potersi avviare lungo cammini che la
conducano a traguardi degni del suo glorioso passato, fondato sull’Illuminismo.
Questo monumento conduce a significati certi, quelli connessi alla grandezza della Francia; è una porta di accesso a
un significato moderno, quello del progresso, un simbolo dal significato scolpito così chiaramente da essere imposto
al visitatore come il solo possibile, un significato che si rivolge alla ragione. È un segno urbano di modernità.
Proprio al di sotto del monumento, in uno dei principali nodi delle comunicazioni ferroviarie parigine, si può
prendere la metropolitana veloce, che in pochi minuti ci conduce alla periferia nord-occidentale della metropoli,
nell’area de la Defense.
Grande Arche de la Defense Usciti all’aperto ci si trova immersi in un ambiente caratterizzato da grandi edifici in
vetrocemento e da monumenti di vario stile. Il paesaggio è dominato da un parallelepipedo vuoto e liscio, alto 110m,
alle cui spalle, lungo il percorso della Senna, si stende la Parigi storica, dall’Etoile fino a Notre Dame e oltre, mentre
sul lato opposto, innanzi al monumento, si stende una campagna che si va urbanizzando.
Il termine “Arche” è ambiguo: significa tanto “arca”, nel senso l’arca di Noè, quanto “arcata” nel senso di arcata di un
ponte. Il paesaggio nel quale si inscrive, tutto improntato da forme nuove e da sculture di avanguardia, evoca
qualcosa che deve avvenire, ci spinge verso il futuro per cui siamo indotti a considerare la Grande Arche come
un’arca, che ci trasferisce in una nuova dimensione esistenziale.
Questo monumento fa riflettere sul passato, indica un futuro incerto, un futuro che può essere immaginato in vario
modo perché non vi è alcun segno che ci induca a disegnarlo in un modo specifico. È un segno, dunque che instaura
un rapporto ambiguo con il significato, che cioè ammette una pluralità di significati.
La Grand Arch è un portale aperto su un universo di significati possibili, costruiti attraverso l’immaginazione. È un
segno urbano di postmodernità.
L'esempio mostra come la geo-cultura in senso semiotico si preoccupi non soltanto di individuare simboli e segni
inscritti sul territorio, nel nostro caso in uno spazio metropolitano, ma consideri anche il rapporto tra simbolo e
significato. Lo fa all'interno di una retorica non razionalista, sviluppando dunque un discorso considerato debole.
Debole non perchè sia privo di validità e interesse, ma perchè rispetto alla prospettiva di costruire la spiegazione
preferisce quella di favorire la comprensione e l'immaginazione.
La rappresentazione del paesaggio dell'Adige in chiave spiritualista è introdotta da Andreotti rievocando un brano de
Il fuoco di Gabriele d'Annunzio: "Nella mia vita errante vidi allora per la prima volta un gran fiume. M'apparve a un
tratto, gonfio e veloce fra due ripe selvagge, in una pianura infiammata, quasi fosse stoppia, ai raggi orizzontali del
sole che ne rasentava il limite come una ruota rossa. Sentii allora quel che v'è di divino in un gran fiume a traverso la
terra. Era l'Adige, scendeva da Verona, dalla città di Giulietta". Muovendo da questa pagina letteraria, che denota
un'eccezionale sensibilità estetica, Andreotti fornisce una descrizione ove il paesaggio è colto in termini di valori
spirituali ed è assunto come l'insieme degli aspetti culturali del territorio: “L’Adige è il signore della buona o della
cattiva stagione, fa tremare o fa sperare, allaga Trento e la sua valle o ne fertilizza le campagne, concede o toglie
l’opportunità di comunicazioni. Nel passato si avvicinava a Trento rutilante e minaccioso, tanto che qualche
viaggiatore si confonde e invece di chiamarlo fiume, lo chiama torrente. È un’ampiezza ancestrale quella che questo
corso d’acqua porta con sé come fonte di vita o come sciagura. Allorquando il territorio era affidato a sé stesso e, per
i credenti, alla buona disposizione dei santi patroni, protettori, l’Adige che, venendo da sud, attraversava il Trentino
stava per l’abitante di allora come la sorte, come la punizione o come la fortuna. Le sue secche o le sue piene
determinavano il destino di un’annata. Trento poi, era coinvolta più della sua stessa campagna perchè,
attraversandola il fiume nel suo cuore ed essendo questo suo cuore impreparato a ricevere maggiori impulsi,
accadeva che ogni suo quartiere, quando la piena vi giungeva, fosse squassato e sconvolto dalle acque tracimanti.
Trento viveva di fortuna, della fortuna dell’Adige, e dell’esito, stando a quel che si diceva, delle novene che si
recintavano nelle varie parrocchie e talvolta anche nel duomo.
Occorre riconoscere con umiltà e con onestà, rigettando ogni nazionalismo, respingendo ogni pregiudizio, che l’Adige
è stato ricondotto nei limiti controllabili dall’opera del governo asburgico che metteva su pietra, impedendo al fiume
di entrare in Trento, deviandolo verso siti della periferia occidentale e avviando un’opera presaga di modernità. Oggi
che il pericolo è scampato e che solo le grandi alluvioni lo fanno ricordare, qualcuno biasima quei lavori e sogna una
città che abbia cadenze fiorentine, romane o veronesi, dove l’Arno, il Tevere e l’Adige hanno parte rilevante nel
disegno del paesaggio urbano. Ma la realtà era quella di un fiume disordinato, nemico delle città e delle campagne,
in quanto ogni variazione di tempo verso manifestazioni piovose, ogni temporale, portava con sé paure e talora,
immediatamente dopo, disgrazie.
Il governo austriaco con l’opera di ordinare il fiume nelle campagne, facendolo deviare dal centro cittadino, con la
correzione dell’ansa che chiudeva a nord l’insediamento urbano, portò pace geografica, e quindi umana, a tutta la
zona.
Passata la paura, non ci si ricorda più del malanno e si parla di paesaggio negato, più che di paesaggio negato,
sembra il caso di parlare di paesaggio trasferito. La fluvialità di Trento non è stata tradita. Forse è colpa di cattivi
architetti o amministratori del passato se, laddove scorreva l’Adige, non si è supplito con intelligenti ed estetiche
soluzioni. Ma questi ultimi errori non devono far rimpiangere il trascorrere di un fiume che invece, in passato, faceva
piangere. Diciamolo chiaramente: la concentrazione estetica dell’umanità trentina non sta lungo i fiumi, perché essa
tiene la testa e il cuore, per costruzione o per tradizione verso la montagna”.
Lo Spiritualismo in geografia ha radici piuttosto lontane nel tempo. Le prime basi, secondo Andreotti possono
trovarsi nella geografia influenzata dal Romanticismo, addirittura nei lavori di Krieg sulla geografia estetica (metà
dell'800) e in lavori di Helpag (inizio del ‘900).
Questi studi sono stati ripresi da Lehmann attraverso indagini sul paesaggio avviate a metà del ‘900. Lehmann
afferma che ogni porzione della superficie terrestre ha un proprio potenziale espressivo ricavabile dalla natura
geografica, ma si tratta di qualcosa di effimero e inconsistente se non viene "isolato" attraverso l'osservazione
consapevole. Non esiste un oggetto paesaggio valido di per sé stesso, ma un paesaggio culturale in quanto
valorizzato dalla percezione sensoriale, visiva, e che, quindi, poggia i suoi significati sul soggetto.
La ricerca del potenziale espressivo è compiuta non tanto attraverso la rappresentazione del territorio, quanto
piuttosto richiamando testimonianze poetiche, letterarie, figurative per cui l'attenzione è rivolta soprattutto al testo,
attraverso il quale il contesto geografico acquisisce senso. Secondo Lehmann la rappresentazione comprende la
valutazione, la partecipazione spirituale nell'imprimere senso ai luoghi, la considerazione delle radici storiche della
cultura, l'amalgama psicologico che caratterizza il paesaggio e il cromatismo.
La ricerca e la rappresentazione della struttura estetica interna della realtà territoriale diventa così l'obiettivo della
geografia culturale nella prospettiva spiritualista, e la geografia diviene sensibile alla rappresentazione artistica, da
quella poetica a quella delle arti figurative. È lungo questa strada che emergono collaborazioni tra geografia culturale
e geo-filosofia.
La natura è stata intesa come "principio di vita e di movimento delle cose", come la sostanza e la forma delle cose e
del loro divenire. Questa visione ha trovato credito nel pensiero di Aristotele, incline a interpretare la realtà in base
al principio di causa (motore che muove la vita) e di sostanza (forme assunte dalla vita). La natura è stata anche
considerata come l'ordine e la necessità che governano la realtà: la legge che governa ogni cosa. Questo fu
introdotto dagli stoici ed ebbe un ritorno di attenzione nel ‘700, nel quadro del pensiero illuminista. Kant, nella sua
Critica della ragion pura l'ha condiviso e ne ha fatto la base di partenza per enunciare le leggi che determinano
l'ordine nel mondo naturale. Per la terza filiera bisogna risalire a Plotino, secondo il quale la natura è l'espressione
"secondaria" dello spirito che ha provocato la creazione: una sorta di manifestazione di un principio trascendente,
attraverso la quale lo spirito si presenta al mondo visibile. In questa concezione, ripresa e amplificata dal
Romanticismo dell'800, si possono trovare concetti e spunti che riguardano la base teorica a sostegno dell'indirizzo
spiritualista in geografia culturale, soprattutto nell'analisi del paesaggio.
A queste 3 filiere il pensiero moderno ha aggiunto la concezione della natura come l'insieme degli oggetti sensibili
percepiti sia attraverso l'intuizione e l'arte, sia attraverso la ricerca scientifica. È questa una concezione non
dogmatica, ampiamente condivisa anche al giorno d'oggi, della quale si possono avvertire anche influenze sulla
geografia culturale. Offrendo il vantaggio di tener conto sia delle rappresentazioni su base analitica, sia di quelle che
rientrano nella "retorica morbida", questo modo di intendere la natura è aperto anche all'esplorazione dei simboli e
dei valori attribuiti al mondo naturale e ai suoi elementi.
La denominazione si può considerare un modo di essere universale del rapporto esistenziale delle comunità umane
con la natura.
Nell'800, e nel ‘900, la geografia umana ha studiato questo processo territoriale come se si trattasse di un mero fatto
di toponomastica (studio scientifico dei nomi del luogo), cercando di dare risposta a 2 questioni: se il toponimo
riflettesse le caratteristiche dell’ambiente fisico; quale sia il luogo o lo spazio cui il singolo toponimo si riferisse.
Più recentemente sono emerse altre 2 questioni: quali simboli siano generati per effetto della denominazione e della
delimitazione, il che ci conduce al problema della simbolizzazione (attribuzione di simboli); a quali significati
conducano i simboli, il che ci conduce al problema della significazione (attribuzione di significati). Sempre riguardo
alla fondazione di Roma: – il nome della città deriva da Romolo, che deriva da ruminale, l'albero di fico presso il
quale, appena nato, fu abbandonato con il fratello Remo, e ruma, nutrimento, e richiamerebbe il fatto che i due
bimbi, abbandonati, sopravvissero perché furono nutriti da una lupa. Questa sarebbe la componente linguistica della
territorializzazione del Palatino; possiede un'evidente carica simbolica: richiama l'idea che i romani fossero
predestinati a dominare perchè questa era la volontà divina e perché possedevano una dirompente energia come
quella della natura; – sul piano delle connotazioni simboliche hanno però rilevanza anche altri 2 segni: l'aratro
conduce al significato delle capacità umane di dominare e sfruttare la terra; il disegno geometrico dei confini
conduce all'idea di ordine, condizione primaria per esprimere potenza.
A questi simboli se ne aggiunsero altri 2: il fascio, che denotava al tempo stesso coesione e potere coercitivo; la lupa,
nell'atto di allattare Romolo e Remo. Ambedue costituivano altrettanti discorsi attorno alla cultura di Roma. Nella
prima metà del ‘900 sarebbero stati ampiamente usati dal Fascismo per trovare nella romanità le radici della sua
legittimazione politica.
La territorializzazione è un fenomeno insorto nella civiltà neolitica. In un primo tempo si è manifestata nel delimitare
campi e spazi d’allevamento, situati attorno a sedi isolate o a piccoli gruppi di sedi. Nel millennio successivo cominciò
a manifestarsi con modalità più complicate e su spazi sempre più estesi. I simboli diffusi negli insediamenti ci
forniscono un vasto materiale per comprendere le radici della rappresentazione simbolica del rapporto con la
natura. Il rapporto tra la città e la natura è il contenuto chiave del mito narrato da Protagora: l’uomo si trovò di
fronte a una natura ostile, aggredito da animali ed esposto a calamità; riuscì a difendersi perché gli Dei gli fecero
dono della tecnica con cui umanizzare l’ambiente. Dal momento in cui il pensiero classico si dedicò a rappresentare il
rapporto tra esistenza umana e mondo naturale si è snodata una storia di creazioni di simboli, in cui la natura è stata
intesa come ambiente fertile, adatto per sostenere l'uomo, creato da Dio e nel quale Dio si riflette e come ambiente
pericoloso, una perenne sfida per l'uomo. Con l'avvento della modernità s'impose la seconda visione e si diffuse la
persuasione che l'uomo, grazie al progresso della scienza e allo sviluppo delle tecnologie, avrebbe vinto la sfida.
La società moderna sarebbe stata capace di dominare la natura e di asservirla al soddisfacimento dei bisogni umani.
Il Razionalismo diffuse l'idea secondo la quale la natura è una realtà di per sé imperfetta, che soltanto attraverso un
intervento umano ispirato dalla ragione può essere trasformata in una realtà perfetta. La teoria economica classica
considerò la natura come una realtà che frenava il conseguimento di produttività. Il risultato finale fu che la natura
non fu vista più come una creazione divina, con la quale l'uomo dovesse vivere in armonia, ma come una realtà
ostile, che creava difficoltà e costi per l'azione umana, opponendosi così al progresso: una realtà che avrebbe dovuto
essere domata e artificializzata attraverso l'uso delle conoscenze e delle tecniche della scienza. Questo modo di
concepire la natura si è diffuso nel mondo a mano a mano che la modernità è stata esportata dall’Europa
Occidentale in altre regioni. Nelle regioni coinvolte dall’occidentalizzazione avveniva l’integrazione di modi
tradizionali, innestati nella cultura locale, con modi importati.
Secondo Livingstone nella modernità la natura è stata rappresentata come una fonte di risorse e come una
macchina, ora mettendone in evidenza la sua utilità per lo sviluppo economico, ora nutrendo sentimenti di pietà
verso specie animali e habitat posti a rischio dall'invadenza umana. La risposta circa i modi con cui il rapporto tra
uomo e natura è soggetto a trasformarsi varia a seconda dei livelli di ragionamento. Sul livello ontologico dobbiamo
tenere conto che è in atto una svolta senza riscontro storico, consistente nella creazione di tecniche bio
ingegneristiche che consentono di trasformare gli elementi biotici della natura. La bioingegneria consente di
intervenire nelle componenti organiche, che costituiscono il cuore della creazione. Le capacità di trasformare la
natura sono cresciute. Sul livello semiotico, piano della rappresentazione simbolica della natura, assistiamo alla
creazione di spazi virtuali, ove le visioni non trasmettono però significati divergenti dalla narrazione moderna: la
natura continua a essere rappresentata come una macchina banale, con scarsa considerazione per le dimensioni
estetiche e spirituali. Sul livello epistemologico non si intravede la costruzione di "grandi discorsi", che inducano a
rovesciare il pensiero della modernità circa il rapporto tra uomo e natura.
3 galassie di simboli connotano le manifestazioni geografiche del rapporto tra comunità umane e natura, galassie che
formano il quadro di riferimento per il discorso geoculturale:
1) la prima, che ha influito sulla storia del mondo occidentale fino all'Illuminismo, ci ha proposto la "narrazione
premoderna" della natura, in base alla quale il mondo naturale è concepito e accettato come manifestazione del
trascendente;
2) la seconda, ispirata dall'Illuminismo e dipanatasi sotto l'influenza del Razionalismo, ci ha proposto la "narrazione
moderna", secondo la quale la natura è una realtà da gestire in rapporto alle esigenze umane;
3) della terza, quella che potrebbe condurre a una "narrazione postmoderna" della natura, vi sono segnali vaghi, che
mostrano una progressiva tendenza a rappresentare la natura come una coltre di simboli che mostrano valenze
estetiche e spirituali e potrebbero farci allontanare da rappresentazioni razionaliste.
Lo stato d'avanzamento di queste visioni di frontiera è ancora troppo vago e debole per farci intravedere gli approdi
cui condurrà. All'interno di questo panorama, la geografia culturale può esplorare i quadri che la natura propone per
l'esperienza umana con il proposito di individuare i corredi di simboli che sono stati attribuiti loro nel corso della
storia e delle singole civiltà, e nell'intento di comprendere i significati cui i simboli hanno condotto.
La discussione può muovere lungo un itinerario in cui emergono due distinti milieu culturali, due ambiti con simboli
radicalmente diversi.
Nel milieu premoderno, il simbolo è strumento di rappresentazione mitologica, ove mythos è inteso come complesso
di segni che non conducono a spiegazioni, ma piuttosto a comprensione della natura. La comprensione è affidata a
narrazioni generate dallo spirito poetico e dall'immaginazione dell'individuo e della comunità, oppure discende da
una verità rivelata. Gli archetipi geometrici attraverso cui si esprimono le rappresentazioni dei singoli contesti hanno
un evidente valore culturale: il centro da cui si irradiano i fiumi del mondo presuppone che tutta la creazione derivi
da un'unica fonte, che sia la ragione di ogni cosa; il cerchio narra la speranza di vivere oltre la morte; la linea retta
racconta di un destino di progresso e di potere.
Nel milieu moderno, il simbolo è strumento di rappresentazione logica, ove lògos è inteso come spiegazione della
natura. Una volta enunciate le leggi che governano il comportamento del fiume e dopo aver individuato il gioco dei
fattori esterni che ne influenzano il comportamento, la spiegazione diventa la base per il progetto di trasformazione
della natura, il lògos diventa il terreno di fecondazione dell'agere. In questa rappresentazione, il simbolo assume le
vesti di un segno razionale, disegna rapporti di causalità che si snodano nello spazio quando ci si riferisce al fiume e
al suo bacino imbrifero, e che si snodano nel tempo quando ci si riferisce alle vicende climatiche. In questa
rappresentazione non v'è posto per l'invenzione poetica e l'immaginazione, né per la verità rivelata: arte e religione
non sono fonti di conoscenza vera, e la conoscenza scientifica è la sola cui sia conferita la funzione di disegnare
interventi sulla natura.
L'indagine geoculturale sul fiume parte dalla considerazione dei simboli attribuiti alle sue acque e al suo percorso e
finisce con il considerarli come tasselli di un discorso sulla rappresentazione premoderna e moderna, su mythos e
lògos, sulla conoscenza che si forma attraverso comprensione e quella che si forma attraverso spiegazione.
Legame tra terra Tempio di Dio Paradiso Ascesa come Ascesa come
e cielo, tra uomo terrestre presunzione purificazione
e Dio umana
Centro del
mondo
Tradizione
musulmana
Se ci spostiamo avanti nel tempo, fino al passaggio dal Medioevo al Rinascimento, possiamo notare con Bonesio
come la montagna comincia a diventare uno spazio simbolico diverso, in cui si riflettono differenti condizioni
esistenziali, differenti modi di attribuire senso alla natura. Bonesio avvia questa esplorazione rievocando la scalata
del monte Ventoux, in Provenza, che Petrarca eseguì il 26 aprile 1335. L'impresa ebbe luogo tra l'indifferenza e il
disinteresse delle genti del luogo e fu provocata dalle sollecitazioni intellettuali che Petrarca aveva tratto dalle pagine
in cui Tito Livio descrisse la scalata del monte Emo, Tessaglia, da parte del re macedone Filippo. Rispetto alla
descrizione di Tito Livio, quella di Petrarca possiede un diverso interesse perché sembra anticipare modi moderni di
attribuire simboli a questi tipi di paesaggio. La scalata si traduce in un'intensa fruizione estetica, in un forte impatto
emotivo, da parte di Petrarca. Ma, compiuta quest’esperienza, la lettura di un brano delle Confessioni di S. Agostino,
in cui si nota come gli uomini preferiscano perdersi nell'ammirazione della natura piuttosto che badare ai loro doveri
di cristiani, induce Petrarca a rammaricarsi di aver ceduto alla "semplice ammirazione delle cose terrene, anziché
dedicarsi soltanto alla propria anima". Emerge il dissidio tra il modo cristiano, secondo cui la natura va contemplata
come un veicolo per avvicinarsi a Dio, e il modo "laico", secondo il quale la natura è una fonte di godimento estetico.
In questo quadro, la montagna diventa il simbolo del dissidio tra richiamo terreno e richiamo celeste, come un'arena
di scelte esistenziali. Petrarca compie la scalata per pura fruizione estetica, ma al ritorno è assalito da una crisi etica e
si pente del "peccato".
Con l'avvento dell'Illuminismo e della modernità, il mito cessò di essere strumento di creazione di conoscenza e
venne progressivamente inteso come una manifestazione intellettuale "minore", in conflitto con la ragione. In quel
quadro perse rilevanza culturale la simbologia che si era venuta sedimentando attraverso i millenni e che possedeva
forti connotazioni mitologiche, proprio per il fatto che era caratterizzata da significati non spiegati.
Tabella pag. 114: rappresentazione simbolica della montagna, elementi discorsivi.
Nel Convivio, Platone attribuiva all'unione sessuale un simbolo che condurrebbe al significato della perduta unità. Le
pagine di Platone introducono al senso culturale del sesso. La geo convenzionale ha affrontato gli aspetti sessuali
attraverso lo studio del rapporto m/f, lo studio della mono/poligamia, della condizione femminile. Oltre i dati
oggettivi e quantitativi possiamo considerare i simboli con cui nelle singole civiltà sono rappresentati i rapporti tra i
sessi e a quali valori essi conducano.
Schema pag. 130: diffusione della poligamia e della monogamia e senso culturale del sesso nella civiltà occidentale.
Nei dipinti dell'antichità ellenica sono frequenti le rappresentazioni della bisessualità e del libero comportamento
sessuale, prerogative diffuse in quella società, ma riservate ai soli maschi adulti che non vivessero in schiavitù quindi,
la libertà sessuale non era assoluta. La circostanza è sottolineata anche dal fatto che, nella società ellenica, si
esaltava il valore della castità, atteggiamento che sarebbe diventato centrale nella cultura cristiana.
Perciò si attribuiva al sesso una duplice denotazione, quella della funzione riproduttiva e della manifestazione
dell'edonismo, da esprimersi con moderazione, ma con una libertà piuttosto ampia. Si parla di presenza del modello
dell'eros, costituito da simboli che conducono al significato della doppia funzione del sesso, sociale (riproduzione) e
individuale (piacere).
Il modello classico, pagano, fu confutato nell'ambiente cristiano (condanna omosessualità, rapporti extra-
coniugali, ecc). Così facendo, furono abbattuti tutti i simboli, dai dipinti alle statue, che celebrassero la
bisessualità come proprietà intrinseca alla natura umana, e che in senso più ampio, celebrassero l'amore
libero, come pura ricerca di piacere. Alle relazioni sessuali si attribuì soltanto una funzione riproduttiva,
ammantandola di senso etico e spirituale.
Il modello dell'eros fu sostituito da un altro modello, che potremmo chiamare modello dell'amore,
generando un irriducibile conflitto simbolico tra l'eredità classica e la visione cristiana; un conflitto che
avrebbe esercitato influenze profonde sull'evoluzione delle società e sulla posizione delle singole persone
nei contesti sociali.
Nella civiltà occidentale, alla concezione cristiana si è recentemente affiancata una nuova rappresentazione del
sesso, profondamente laica e caratterizzata da due connotati:
1. frutto di una sorta di liberalizzazione di costumi, è costituito dal ritenere lecito che l'individuo intrattenga sia
relazioni omosessuali sia relazioni eterosessuali; ne deriva una libertà molto più ampia di quella presente
nell'antichità classica;
2. è la conseguenza delle tecniche genetiche, che con l'inseminazione artificiale rimuovono per la prima volta
nella storia la relazione di necessità tra sesso e riproduzione.
3. Si può asserire che nell'ultimo scorcio di ‘900 si sia affiancato un terzo modello, che convenzionalmente
potremmo denominare modello edonistico (edonismo: indica sia la ricerca del piacere in sé, sia la dottrina
filosofica che considera il piacere come l’unico bene possibile, quindi come il fondamento della vita morale)
e che conduce al significato della dissociazione tra sesso e riproduzione.
Il tema dei rapporti tra i sessi conduce ovviamente a quello della posizione della donna nella società. A questo
riguardo i testi classici ci rappresentano 3 condizioni, in cui la donna è rispettivamente moglie, concubina ed etera. In
quella società all'uomo era attribuita una posizione di superiorità e c'era sempre l'idea di fondo che la donna dovesse
essere naturalmente assoggettata all'uomo. Questa condizione, che potremmo connotare come modello del primato
del maschio, è tuttora presente, soprattutto negli ambienti rurali, ed è attestata da una vasta iconografia che
costituisce un vero e proprio universo simbolico.
Il modello opposto, che orgogliosamente presentava la donna capace di fare le stesse cose che erano prerogativa
degli uomini, era rappresentato dal mito delle Amazzoni, le donne guerriere protette dalla dea Artemide, che
usavano gli uomini soltanto occasionalmente per scopi riproduttivi. L'universo simbolico connesso a questo mito, che
conduceva al modello del primato della femmina, rivive oggigiorno nelle rappresentazioni, ampiamente diffuse dai
media, in cui primeggiano i simboli dell'emancipazione femminile e che conducono a un esteso campo di significati,
da quelli della donna capace di fare tutto ciò che in passato era riservato all'uomo, comprese le attività militari, fino a
quelli della donna che eccelle nelle funzioni manageriali, e a quelli della donna che proclama la sua superiorità
usando il maschio a suo piacimento.
Il Cristianesimo ha introdotto un terzo simbolo, quello della donna che ha pari dignità con l'uomo e che, insieme
all'uomo, all'interno della famiglia costruisce un'atmosfera di amore e armonia, che diventa strumentale per elevarsi
spiritualmente. L'amore all'interno della coppia è vivificato dall'amore per il Cristo. Questa rappresentazione, che
conduce al modello dell'armonia tra i sessi ed è ben presente nell'iconografia cattolica, presuppone un significato più
profondo, quello che la società sia naturalmente equilibrata quando sia vicina a Dio e che ciò si realizzi, prima di
tutto, attraverso relazioni solidali, fecondate dall'amore, all'interno della coppia. L'amore della coppia sarebbe
dunque intimamente connesso alla solidarietà sociale, la quale a sua volta sarebbe il riflesso dell'armonia tra uomo e
Dio. L'evoluzione dei tre modelli – i 2 di derivazione classica e quello di ispirazione cristiana – sta influenzando
profondamente le trasformazioni della società occidentale: il primo modello (primato del maschio) è soggetto a
delegittimazione sociale, mentre il secondo (primato della femmina) si rafforza e si diffonde a mano a mano che
procede l'emancipazione femminile, mentre il terzo modello, quello cristiano, è soggetto a rischi di declino.
Il modello classico di matrimonio, diffuso nel mondo ellenico, aveva ovviamente soltanto carattere eterosessuale e
possedeva forti connotazioni simboliche che esaltavano l'unione della coppia: dal punto di vista sociale appariva
come un vero e proprio rito iniziatico; sotto il profilo giuridico si manifestava attraverso un contratto, che regolava i
beni dei coniugi. La famiglia che nasceva da quella ritualità e da quella configurazione giuridica era una
microstruttura sociale complicata e gerarchizzata, perché poggiava su un ampio numero di componenti: il padre, cui
era affidato il comando, la madre con responsabilità di governo domestico, le concubine a servizio del padre, i figli e i
servi. La famiglia appariva come una sorta di organismo in cui si rifletteva l'armonia e l'equilibrio dell'organismo più
alto, la polis (struttura politica, caratteristica dell’antica Grecia, in cui tutti i cittadini partecipavano al governo della
città) appunto. Il significato più profondo, comunque, consisteva nel ritenere che l'armonia riposasse sul rispetto dei
rapporti di gerarchia tra i membri della famiglia.
Ben diversa fu la connotazione culturale della famiglia creata dai simboli del Cristianesimo. La famiglia cristiana non
nasceva più da un rito che suggellava un patto tra i coniugi, ma da un rito iniziativo profondamente diverso perché il
matrimonio era concepito come un sacramento che univa la coppia nel nome di Dio e, così facendo, generava un
rapporto triangolare in cui le relazioni tra i coniugi facevano parte del loro rapporto esistenziale con la trascendenza.
La simbologia sacramentale attribuiva alla famiglia una funzione sociale essenziale nel creare un nucleo di persone
che condividessero stessi valori spirituali e che costituissero il cemento della comunità. Attraverso la diffusione
dell'istituto del divorzio, peraltro già presente nella Grecia antica, la società moderna ha creato un terzo modello,
quello della famiglia flessibile, caratterizzato da una complicata rete di rapporti tra figli, genitori naturali e genitori
acquisiti. La flessibilità, inoltre, sta ampliandosi a mano a mano che si diffondono tecniche genetiche per avere figli al
di fuori dei rapporti di coppia. Ne deriva un vasto apparato di simboli, ampiamente diffusi dai media, in base ai quali
la famiglia tende ad assumere il significato di un nucleo occasionale, privo di valori sacramentali. La modernità ha
inoltre introdotto il simbolo dell'unione tra persone dello stesso sesso, in ciò dando luogo a una figura di famiglia
finora assente in tutta la storia dell'Occidente. A questo punto subentra persino il declino del significato della
famiglia come ambiente di riproduzione biologica.
Concludendo, il mondo occidentale accoglie 4 modelli di famiglia:
1. famiglia patriarcale classica, di cui viso sopravvivenza in ambienti rurali sempre meno vasti;
2. famiglia cristiana, i cui valori sono entrati in sofferenza nelle fasi più recenti della società moderna;
3. famiglia flessibile, dove il divorzio è divenuto una pratica accolta e diffusa;
4. famiglia de-strutturata, dove avvengono matrimoni tra persone dello stesso sesso e dove i figli possono
essere creati mediante tecniche genetiche.
Le attribuzioni di simboli e valori al corpo, al sesso, alle relazioni sessuali e alla famiglia sono profondamente
interconnesse e costituiscono in sostanza i tasselli di un grande affresco culturale, quello delle condizioni esistenziali
primarie, che caratterizzano il nostro porsi verso noi stessi e verso le persone con cui veniamo più direttamente a
contatto. Questi aspetti non rientrano nel campo tematico della geo culturale classica, ma questo non esclude che
presentino rilevanza geografica.
Si potrebbe infatti realizzare una rappresentazione cartografica di simboli e valori, da integrare alle carte basate su
elementi oggettivi, imponendo così alla rappresentazione geografica un'impronta profondamente umanistica.
La maggior parte dei riti iniziatici presenti nella civiltà occidentale, soprattutto quelli che hanno maggiore influenza
nel determinare i valori e gli ideali cui s'ispira il rapporto tra la persona e il contesto sociale, possiede la stessa
struttura ternaria che contraddistingueva i riti iniziatici nell'antichità classica: in un primo momento ha luogo una
separazione, che segna l'abbandono di una condizione precedente ed è espressa spesso da una morte rituale; segue
l'avviamento alla nuova condizione, nel corso della quale il neofita sosta o soggiorna in ambienti particolari, scelti e
arredati per favorirne l'educazione al nuovo status; dopo questa fase, che può anche durare a lungo, ha luogo
l'ingresso a pieno titolo nella nuova condizione.
Dal punto di vista della geo culturale, comunque, è essenziale tenere presente che la società moderna ha attinto
simboli dall'antichità classica, in ciò attestando le sue radici più profonde, ma li ha aggiornati e integrati con
un'infinità di simboli nuovi, in ciò proclamando il suo avanzamento, anche culturale, rispetto alle fonti cui si ispira.
Attraverso questa vasta integrazione simbolica, la modernità si è ammantata di una profonda legittimazione
intellettuale, che deriva dal mantenere radici classiche e nello stesso tempo nel trascenderle. Dall'Illuminismo in poi,
infatti, la società moderna si è esibita in una continua creazione di simboli pertinenti alla progressione della persona
nella società. Avvicinandosi alla fine del ‘900 questa funzione ha subito una forte accelerazione sia perché la
simbologia si è ampliata notevolmente, sia perché ha cominciato anche a procedere mediante strumenti virtuali
dando vita alla generazione delle cyber-iniziazioni. Nella civiltà occidentale viviamo e trasformiamo le nostre
condizioni esistenziali muovendoci all'interno di due universi di simboli, quelli materiali e quelli virtuali, e sentendoci
trascinati lungo un cammino percorrere con spirito faustiano, quello della nostra omologazione nella modernità; un
cammino che appare qualitativamente superiore ed esistenzialmente più appagante rispetto ai cammini delle altre
civiltà, perché coniuga il fascino del classico con l'innovazione del moderno.
Per trovare le radici del modo moderno con cui costruire simboli e riti con elevata pregranza sociale occorre dunque
non perdere di vista i retaggi dell'antichità ma anche renderci conto delle solide radici che si trovano nel ‘700,
quando venne alla luce la "massoneria speculativa", ispirata al pensiero di Cartesio e di Kant. Simboli rappresentati
graficamente (come la volta celeste), simboli costituiti da strumenti (come gli attrezzi del muratore), simboli gestuali
(come segni di riconoscimento) conducevano a significati ben scolpiti e, di conseguenza, tra segno e significato si
creava una connessione stretta, un legame univoco, coerente con la prerogativa della modernità di cui parla Foucault
(1967): costruire rappresentazioni razionalizzate della realtà e partire da queste per approdare a significati certi. Non
per niente fu soprattutto l'ermeneutica razionalista, per la sua capacità di costruire simboli e significati razionali,
disancorati dalla religione, a far la fortuna della massoneria.
La rappresentazione è basata su dati quantitativi, circostanza grazie alla quale si ritiene che i risultati cui si approda
abbiano valore oggettivo perché sono basati sulla misura e che la rappresentazione geografica sia strumentale per
spiegare come la società si articoli, come si evolva, come possa essere migliorata. Tra questi 3 elementi (dato,
rappresentazione, spiegazione) si instaura una relazione stretta, che conferisce legittimazione all’opera del geografo.
Questo tipo di rappresentazione non riguarda l’individuo ma la società vista nei suoi caratteri generali. Proponendosi
di considerare la società nei suoi caratteri generali, la rappresentazione si dedica a spazi piuttosto che a luoghi.
L’impostazione conduce a un discorso geografico duro, perché corroborato da numeri e teso a fornire spiegazioni e a
una rappresentazione geografica alla piccola scala, perché orientata a considerare regioni, paesi, al limite l’intero
mondo. Nella prospettiva della geografia culturale su base semiotica perdono rilevanza i dati di struttura. La società
considerata in senso generale è posta nel sottofondo mentre in rilievo è posto l’individuo nelle sue condizioni
esistenziali. La rappresentazione diventa il frutto di un’esplorazione di simboli, utili per comprendere come i luoghi si
connotino per comprendere i valori che custodiscono nei riguardi della comunità locale. In questo ambito
l’attenzione si rivolge sistematicamente e prima di tutto ai luoghi. Il risultato consiste in un discorso geografico
morbido perché è basato su indagini caratterizzate da indiscutibile soggettività, ed è orientato a delineare la
comprensione di condizioni esistenziali connesse ai luoghi. e questo discorso è associato a una rappresentazione
geografica alla grande scala perché dedicata a territori di piccole dimensioni.
L’argomento può essere affrontato esplorando come lo spazio e il suo rapporto con il tempo siano stati intesi e
rappresentati a mano a mano che la modernità ha preso campo.
Possiamo partire da alcuni casi concreti, utili per i risvolti concettuali chiamati in causa.
Royal Greenwich Observatory, sul pavimento notiamo la linea rossa che lo attraversa segnando il tracciato del
meridiano fondamentale: linea che, se prolungata nei due sensi, condurrebbe ai poli.
Dal 1884, tutti i punti sulla superficie terrestre, nell’atmosfera e nello spazio gravitazionale della Terra, vengono
identificati e rappresentati misurandone la distanza rispetto a questa linea, oltre che rispetto all’equatore. Il
meridiano di Greenwich costituisce uno dei simboli fondamentali sia dell’essenza razionale della modernità sia del
nostro modo di concepire e immaginare il tempo e lo spazio.
Nelle sale dell’Osservatorio troviamo i cronometri inventati da Harrison per determinare la longitudine (Figure pag.
192: uno dei cronometri e l’inventore Harrison).
La decisione di realizzare il cronometro costituì una delle espressioni più alte del modo moderno di intendere il
rapporto tra scienza e politica. Fu adottata nel 1714 dal Parlamento inglese con l’obiettivo di scoprire un criterio
razionale di navigazione, che garantisse alla flotta britannica la supremazia in mare.
Johnathan Swift riteneva che la longitudine fosse simile alla pietra filosofale e al moto perpetuo, una realtà che la
scienza non sarebbe mai stata capace di delineare e la tecnologia di controllare. Molti pensavano che le difficoltà
dipendessero da un’ostilità divina, per cui il cronometro costituiva una sorta di confronto tra la scienza che si andava
affermando sulla base dei principi di certezza enunciati da Cartesio e il modo premoderno di costruire conoscenza, in
vario modo legata alla religione. L’invenzione del cronometro era un teatro della dialettica tra moderno e
premoderno, tra scienza e fede, una vera sfida per lo spirito dei Lumi. Divenne uno strumento meraviglioso, che
infondeva grandi certezze, frutto di una tecnologia avanzata.
Il cronometro aveva una doppia funzione: misurava il tempo in modo preciso; rendeva possibile la misura esatta del
tempo impiegato per percorrere una rotta. Inoltre, l’invenzione del cronometro e le conseguenze che ne derivarono
per il pensiero e la prassi della società dei Lumi, mostrano come la civiltà occidentale si sia avviata verso la modernità
disegnando una stretta relazione tra tempo e spazio, al punto da considerarli come parti di una stessa realtà.
7.2 Tempo- ritmo e ciclo.
In quanto a corredo di simboli e di conseguenti significati, che connotano lo spazio e il tempo, la civiltà occidentale
non ha eguali con nessun’altra, passata e presente. Questa civiltà ha costruito visioni del mondo e valori che la
legittimano a svolgere una funzione guida per l’umanità.
Dall’antichità classica all’epoca paleocristiana, dal Medioevo al Rinascimento e al mondo moderno sono stati creati
vari simboli che mostrano come l’esistenza sia stata rapportata allo scorrere del tempo.
La civiltà occidentale ha assorbito anche simboli dello spazio e del tempo provenienti da altri ambiti. Tra i simboli
importati interessano quelli di provenienza islamica ed ebraica che concepiscono il ritmo del tempo e il rapporto tra
tempo e spazio in termini diversi sia nei confronti dell’antichità classica sia in rapporto alla cristianità e che quindi
costituiscono un motivo di differenziazione simbolica innestato nel mondo occidentale.
Partiamo da un caso di studio. Immaginiamo di trovarci nel monumentale orologio astronomico che si trova nella
cattedrale di Strasburgo (Figura pag.195: profilo dell’orologio della cattedrale di Strasburgo, con la posizione dei
simboli rilevanti per il discorso sviluppato in questo capitolo: 1. I quattro evangelisti, 2. La creazione, 3. La
Resurrezione dei morti, 4-7. Le quattro stagioni, 8. Le quattro età della vita (infanzia, giovinezza, età adulta,
vecchiaia), 9. I giorni della settimana, 10. Il tempo siderale, 11. Il tempo apparente, 12. Le fasi lunari).
Questo capolavoro non solo esibisce un eccezionale meccanismo, ma ci racconta anche con quali simboli dovette
combattere la modernità quando irruppe nello scacchiere europeo per proporre e imporre nuove visioni del mondo.
Correlativamente ci mostra quanto di premoderno sussista ancora nel nostro modo di avvertire il tempo, soprattutto
di immaginare i ritmi attraverso cui scorre.
Sullo sfondo di 48 costellazioni e 1022 stelle, nell’orologio sono disegnati i percorsi della Luna e del Sole e il
calendario lunisolare. Le civiltà mediterranee furono attratte dall’idea di mettere il tempo in rapporto al movimento
della luna e così produssero calendari solari. Solo la civiltà egizia ideò calendari solari, e nell’antichità gli ebrei furono
i soli a produrre un calendario lunisolare, raffinato nella concezione e ricco di richiami all’Antico Testamento.
Nel Medioevo lo sforzo per ideare calendari che offrissero una visione generale del cosmo e delle sue influenze sui
ritmi dell’esistenza umana, approdò a simboli con forte energia connotativa, come quelli accolti nella cattedrale di
Strasburgo, dove la componente religiosa della connotazione è dovuta soprattutto al fatto che l’orologio gira grazie a
un ingranaggio dissimulato in un pellicano che apre il proprio petto per nutrire i piccoli, simbolo della redenzione e
del sacrificio di Cristo. Altra connotazione religiosa è espressa dal modo di rappresentare le ore: sono contate da un
angelo munito di scettro e il mezzogiorno è scandito da un carillon che esibisce il corteo dei 12 apostoli nell’atto di
rendere omaggio a Gesù.
L’idea di ciclo ritorna in una limpida visione. Il mondo è rappresentato come il risultato dei moti della Terra e quindi
come una realtà che vive ciclicamente. Nell’orologio di Strasburgo l'idea traspare prima di tutto nella
rappresentazione delle fasi lunari che chiamano in causa la dipendenza ciclica delle attività agricole rispetto al moto
di rotazione della Luna attorno alla Terra.
Il numero 4 è la chiave di volta per una rappresentazione multidimensionale: insieme alle 4 stagioni, l’orologio
rappresenta le 4 età della vita (infanzia, giovinezza, maturità, senilità), i 4 temperamenti attraverso cui si manifesta il
comportamento umano (sanguigno, collerico, flemmatico, malinconico), il tutto inquadrato nei 4 elementi della
natura (aria, terra, fuoco, acqua).
In questa visione complessiva non può mancare la rappresentazione del ciclo dell’umanità. Richiamandosi
all’Apocalisse, l’orologio mostra le scene della Creazione e del Giudizio. La rappresentazione di Strasburgo denota il
dì, le stagioni, la vita umana, il mondo e l’al di là come cicli di differente durata che si intrecciano tra loro.
Questi cicli conducono alla narrazione del mondo e del suo destino in conformità dei testi sacri. I simboli ci
raccontano di cicli riferiti alla natura e ci rimandano a una realtà oggettiva, esterna all’uomo, che genera le condizioni
in cui scorre l’esistenza umana. Ma ci raccontano anche di cicli, come la suddivisione dell’anno in mesi e settimane,
che sono prodotti della cultura e riguardano condizioni esistenziali create dalle comunità umane.
La seconda categoria di simboli, quelli creati dalla cultura, incastonati nell’orologio di Strasburgo, ci introduce in uno
dei terreni più interessanti per comprendere la civiltà occidentale: il modo di rappresentare e organizzare il tempo. A
tal proposito la settimana costituisce un tema cruciale perché la sua ideazione diede luogo a una ripartizione del
tempo che prescinde dal moto degli astri: le sequenze delle settimane formano blocchi che non coincidono né con le
stagioni, né con l’anno, ma si succedono sulla base di criteri estranei ai meccanismi cosmici.
La scansione del tempo in periodi settimanali ha origini antiche: era presente nella civiltà babilonese e si tramandò
fino ai romani.
Mentre il modo di riferire la settimana a visioni cosmiche veniva a costituire uno degli elementi più ricchi di senso
della cultura classica, gli ebrei procedevano a ripartire il tempo in settimane rifacendosi alla creazione narrata dalla
Genesi: 6 giorni lavorano e il settimo riposano. I cristiani adottarono la settimana per rifarsi all’Antico Testamento,
ma non riuscirono a cambiare la denominazione dei giorni presente nel calendario romano, salvo per il 6° giorno che
fu chiamato Sabbatum per rifarsi alla Genesi e per il 7° che fu chiamato Domini dies.
La settimana cristiana conteneva quindi un insieme di simboli che si rifacevano all’idea delle influenze degli astri
sull’esistenza umana e al tempo stesso si riconducevano alla creazione narrata nella Bibbia.
Anche l’Islamismo subì l’influenza dell’Antico Testamento tanto che il Corano adattò la settimana, ma lo fece
differenziandosi rispetto ai calendari ebraico e cristiano. Nella settimana islamica il giorno di risposo divenne il
venerdì, mentre per gli ebrei era il sabato e per i cristiani era la domenica.
La settimana è una rappresentazione del tempo esistenziale dotata di forti connotazioni religiose, per la quale tutte e
3 le religioni monoteiste si rifanno alla Genesi, ma esiste una differenza profonda tra Ebraismo e Islamismo da un
lato e Cristianesimo dall’altro. Le prime 2 hanno disegnato la settimana senza subire influenze laiche, mentre il
Cristianesimo lo ha fatto collegandosi anche alla cultura romana, dunque esibendo legami con la visione del mondo e
del tempo propria dell’antichità classica. È una manifestazione eloquente delle due radici, cultura classica e
Cristianesimo, che hanno sorretto la civiltà occidentale.
Inoltre, ogni calendario include sia festività civili che rievocano eventi storici o valori politici e morali e caratterizzano
un determinato paese o popolazione, sia festività religiose che si rifanno a documenti sacri o ricordano persone ed
eventi che hanno contraddistinto la storia della religione e sono riconosciute da popolazioni di numerosi stati o da
consistenti minoranze etniche, per cui posseggono una rilevanza geograficamente molto più estesa.
Il rilievo culturale delle festività dipende anche dalla loro persistenza nel tempo. Le festività civili sono soggette a
cambiare nel corso della storia, a ciò si aggiunga che nei paesi di recente indipendenza, che costituiscono la
maggioranza del mondo, esse sono state istituite da poco tempo. Il contrario accade per le festività religiose, le quali
permangono nel tempo e richiamano valori che trascendono quelli della contingenza storica e che si rifanno all’idea
di eternità.
La carica simbolica della festività religiosa è duplice: conferisce senso alle relazioni tra l’esistenza e la trascendenza
perchè la sua celebrazione si manifesta spesso mediante riti che implicano una proclamazione di fede; influisce sulla
posizione dell’individuo nella società perchè il rito è un fatto corale che rinsalda i rapporti tra persone che
condividono una stessa visione della realtà e hanno una stessa percezione del loro essere nel mondo.
Festività come la Pasqua per i cattolici, l’ascensione di Muhammad per i musulmani o la Pentecoste per gli ebrei
costituiscono rappresentazioni di valori spirituali dell’esistenza e nello stesso tempo affermano il valore della
coesione sociale.
Vi è poi una doppia natura simbolica del calendario: è una rappresentazione sacra che conduce all’idea del tempo
assoluto e della trascendenza come riferimento costante per l’esistenza umana, ma nello stesso tempo è una
rappresentazione sociale, che conduce all’idea del tempo storico e alla solidarietà che unisce attraverso la fede.
In quanto rappresentazione sacra, il calendario condensa nello spazio di un anno la storia del mondo narrata da una
religione. Nelle comunità cattoliche questa funzione è associata anche alla consacrazione dei singoli giorni a
personalità (santi); dedicare i singoli giorni a personalità produce 2 gruppi di simboli: un gruppo riferito a personalità
dell’Antico o Nuovo Testamento; l’altro riferito ai vari personaggi della Chiesa. Il primo gruppo ha natura etero-
referenziale perché si riferisce a fatti e persone che hanno preceduto la creazione della Chiesa, il secondo ha natura
auto-referenziale perché costituito da simboli che richiamano personaggi della storia della Chiesa e costituisce una
celebrazione permanente della funzione storica dei cattolici.
L’opera di consacrazione dei giorni a personalità distintesi nel campo spirituale fa sì che nel corso dell’anno si
succeda una sequenza di simboli che costituiscono una narrazione sacra, che si ripete ciclicamente.
In conclusione, i nostri spazi di vita sono contrassegnati da simboli derivanti da calendari in cui mito, cultura classica
e religione si sono sedimentati nel tempo fino a produrre un complesso di significati di varia ispirazione e natura.
Notiamo che ai simboli connessi ai giorni, vale a dire ai tempi brevi, si aggiungono quelli che le religioni hanno ideato
per connotare i tempi lunghi.
Soja chiarisce il senso esistenziale dell'eterotopia mettendo in evidenza come questo tipo di spazio, reale, si distingua
dall'utopia (pensiero che consiste nell’ideare una realtà immaginaria), che è uno spazio iperreale. Se andiamo alla
ricerca di spazi con simboli e significati generati dall'accelerata compressione del tempo cui andiamo soggetti
oggigiorno ci imbattiamo nei NONLUOGHI. Per Augè sono il risultato della differenziazione di simboli cui vanno
soggetti spazi e luoghi urbani per effetto di tre forme di eccesso:
– eccesso di tempo, dovuto ai fenomeni di accelerazione da cui è coinvolta la vita sociale;
– eccesso di spazio, generato dal fatto che vediamo gli spazi "aprirsi" per effetto della creazione di siti del tutto
particolari, come aeroporti, mall, esposizioni,...;
– eccesso di individualità e di auto-affermazione, che caratterizza l'uomo del nostro tempo.
Le tre forme di eccesso convergono nel creare un allungamento del tempo, un tempo che non è più sequenza, non
possiede più un "dopo" che dipende dal "prima", ma è esperienza esistenziale, compiuta qui e ora, per effetto della
suggestione generata dai luoghi che si aprono innanzi a noi in conseguenza dell'eccesso di spazio e che, per questo,
costituiscono appunto dei non-luoghi.
Per Augè questa condizione costituisce la SURMODERNITA'.
La natura del non-luogo può essere compresa meglio osservando come si distingua da quella del luogo, o da ciò che
Augè chiama "luogo antropologico". La differenza è dovuta a 3 proprietà antitetiche:
il luogo è identitario, perché offre un insieme ben definito di possibilità, prescrizioni e interdetti il cui
contenuto è al tempo stesso sociale e spaziale, es. la casa, dove ogni cosa ha una funzione in rapporto a
coloro che vi risiedono;
il luogo è relazionale, perché gli oggetti che contiene sono legati da relazioni specifiche, come appunto sono
gli oggetti di una casa;
il luogo è storico, coloro che vivono possono riconoscervi dei riferimenti che non possono essere oggetto di
conoscenza; il luogo antropologico, per essi, è storico nella esatta misura in cui sfugge alla storia come
"scienza".
Per effetto di queste proprietà, il luogo possiede una ben precisa "configurazione geometrica"; il non-luogo, al
contrario, è non identitario, non relazione, non storico; prodotto dalla sovrabbondanza di tempo, esso è legato al
viaggio, al trasporto, al movimento.
I non-luoghi sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (strade a
scorrimento veloce, svincoli, aeroporti) quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o, ancora, i
campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta.
Es. aeroporto di Gatwick, caratteristico nonluogo, attraente con i suoi centri commerciali e le sue confortevoli sale
business. È un sito che oltre a essere non identitario, non relazionale e non storico non possiede neppure un proprio,
consolidato, corredo simbolico, ma piuttosto un complesso effimero e volatile di simboli. In ciò contrasta con i
simboli, consolidati, non effimeri e non volatili che connotano la casa in cui viviamo e l'ufficio in cui lavoriamo:
simboli che ci parlano di esperienze più o meno intense, collocate in un tempo storico e ben spazializzate.
I luoghi e i non luoghi non esistono però come forma pura, sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai
completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente. Tuttavia, i non-luoghi rappresentano l'epoca,
ne danno una misura quantificabile ricavata addizionando le vie aeree, ferroviarie, autostradali, i mezzi di trasporto,
gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, le catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e
la complessa massa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così
peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di sé stesso.
In Germania è stato usato il termine di LANDSCHAFT, composto di LAND (terra), che ci conduce all'idea di una
porzione del territorio, e del suffisso SHAFT, che indica ciò che è legato insieme, un'appartenenza d'assieme e quindi
indica l'essenziale collegamento delle cose.
Bonnemaison nota che il termine LANDSCHAFT va riferito non tanto al paesaggio quanto a ciò che noi intendiamo
usualmente per regione e così facendo mette a nudo una non trascurabile ambiguità di fondo.
Hartshorne aveva rilevato che il termine indica sia un tratto della superficie terrestre, sia il frutto della percezione di
quel tratto. È in rapporto al primo significato, cioè di tratto della superficie terrestre, che LANDSCHAFT diventa la
base, sempre secondo Hartshorne per la costruzione di una teoria sistematica della regione. A conclusione di una
serrata analisi dei modi con cui è stato presentato il concetto di paesaggio dalle varie prospettive, Olwig conclude
che i suoi contenuti sono essenzialmente culturali. Se passiamo agli idiomi di origine latina notiamo che il francese
paysage, così come l'italiano paesaggio, hanno origine in pagense, aggettivo di pagus = villaggio, che aveva il
significato di "cippo di confine fissato in terra". Questa etimologia sembra condurci al paesaggio inteso nel senso
comune, che nei dizionari viene descritto come una "porzione di territorio considerata dal punto di vista prospettico
o descrittivo, per lo più con un senso affettivo cui può più o meno associarsi anche un'esigenza di ordine artistico o
estetico".
Questa variopinta tavolozza di termini non deve renderci diffidenti nei confronti delle teorizzazioni sul paesaggio: da
un lato, costituisce un fattore di disturbo per la sistemazione della materia, ma dall'altro alto, proprio grazie alle
ambiguità connesse alla terminologia, cioè ai segni attraverso cui costruiamo i nostri discorsi, il tema costituisce un
terreno fecondo per le rappresentazioni del territorio.
Schema pag.220: relazioni tra Landschaft e paesaggio (pagus).
Landschaft Paesaggio (pagus)
Territorio strutturato
Regione
Paesaggio Territorio visto da una speciale prospettiva,
essenzialmente artistico-estetica
L'impostazione su base semiotica si differenzia perchè pone nel sottofondo la descrizione degli elementi e delle
condizioni materiali e concentra l'attenzione sui simboli connaturati agli insediamenti e alle forme di uso del suolo
cercando di cogliere i significati (valori, credenze, ideologie) cui essi conducono. Nel far ciò si sforza di distinguere i
significati che appartengono alla cultura premoderna (armonia dell'uomo con la natura), moderna (assoggettamento
della natura da parte dell'uomo) e tardo-moderna (uso della natura secondo criteri di sviluppo sostenibile). Il campo
tematico si amplia notevolmente rispetto a quello convenzionale perchè si dà spazio ai valori estetici, al gusto, ai
colori, ai suoni, agli odori, e così via.
A ciò si aggiunga che l'impostazione convenzionale non lascia posto per i valori spirituali connessi ai luoghi mentre
l'impostazione alternativa dedica loro comprensibile attenzione. Differenze di fondo -> la rappresentazione
convenzionale si basa sulla fisionomia materiale della realtà e approda a una conoscenza oggettivistica del paesaggio
(forme del territorio) mentre la rappresentazione alternativa, pur non trascurando le forme, descrive tessiture di
simboli e significati e, così facendo, parte dal soggetto e dà del rapporto tra soggetto e realtà la fonte delle
rappresentazioni. Data la sua base essenzialmente strutturalista, la rappresentazione convenzionale tende a spiegare
il paesaggio individuando rapporti di causalità tra gli elementi e descrivendo le forme che ne derivano: in ultima
analisi, attraverso la rappresentazione del paesaggio si propone di scoprire un ordine sulla superficie terrestre. Così
facendo postula che vi sia un rapporto univoco tra i segni del paesaggio e i significati cui si approda. Ne consegue un
discorso-prigione e una retorica dura, mirata a dimostrare che il paesaggio è la manifestazione morfologica
dell'equilibrio tra uomo e natura. La rappresentazione su base semiotica cerca invece di comprendere il paesaggio,
prescinde dalla ricerca di nessi di causalità tra gli elementi, individua simboli e ipotizza relazioni ambigue tra questi e
i significati. Non postula che il paesaggio mostri forme di equilibrio tra uomo e natura e che sia governato da un
ordine, anzi assume un atteggiamento critico nei riguardi di questa impostazione. Da qui emerge un discorso-
creazione, associato a una retorica morbida. La rappresentazione convenzionale offre il meglio di sè quando
considera spazi con l'obiettivo di cogliere le conseguenze dei processi fisici e le manifestazioni d'assieme della
presenza umana. Nella rappresentazione semiotica in primo piano c'è invece il luogo, sicchè il paesaggio è
rappresentato come un complesso di luoghi, ognuno dei quali contraddistinto da propri simboli, i quali nel
complesso formano un unicum, con una propria individualità e una ben identificata personalità geografica.
Quale natura possiede il rapporto tra oggetto e oggetto nella rappresentazione del paesaggio?
Andreotti parla di rapporto reattivo. Il paesaggio contiene un complesso di stimoli, prodotti dai simboli generati dalla
cultura che si è sedimentata nei luoghi. Questi stimoli, indirizzati verso il soggetto, ne provocano una reazione, che si
esprime attraverso la percezione e la rappresentazione del paesaggio. Ogni persona avvertità determinati input, che
provocheranno determinate reazioni e la condurranno a costruire immagini nelle quali si riflette il rapporto tra le
proprie condizioni esistenziali e il complesso dei simboli individuati nel paesaggio. E alcune persone, dotate di
speciale capacità reattiva, come accade nelle arti figurative, manifesteranno la loro emozione attraverso un prodotto
artistico. Ciò spiega perchè uno stesso luogo infonda paesaggi diversi in rapporto alle persone: paesaggi
rappresentati banalmente da coloro che hanno manifestazioni re-attive deboli o addirittura refrattarei al corredo
simbolico custodito nei luoghi, e paesaggi rappresentati in modo affascinante, persino sublime, da coloro che hanno
manifestazioni fortemente re-attive. L'impulso prodotto dal corredo simbolico dei luoghi può essere ricondotto
appunto all'emozione. Per lungo tempo si è pensato che l'emozione non sia un'espressione elevata dall'intelligenza
umana ma piuttosto una condizione psicologica che non ha niente a che fare con il giudizio analitico. Secondo il
razionalista, infatti l'emozione conduce alla comprensione del poeta e del pittore, ma non alla spiegazione dello
scienziato. Le speculazioni sono mutate in tempi recenti grazie all'emergere di indirizzi che rivalutano l'emozione,
attribuendole una funzione rilevante sia nella produzione di conoscenza sia nella creazione di cultura. Si fa strada
l'asserto che, se si prescinde dall'esperienza emotiva – intesa come una reazione complessiva dell'uomo alle
situazioni in cui viene a trovarsi – non sarebbe possibile comprendere le condizioni esistenziali dell'uomo, la sua
stessa natura.
Emozione e ragione collaborano, sono espressione della varietà di reazioni di cui il soggetto è protagonista nel porsi
di fronte alla realtà e nel costruirne rappresentazioni. Si parla di "intelligenza emotiva".
Si può convenire che il paesaggio sia una realtà compresa e costruita emotivamente, sicchè la sua rappresentazione
sviluppa ed esalta la comprensione del mondo e conduce all'identificazione di valori, soprattutto di significati
spirituali ed estetici, attraverso i quali si realizza la nostra esperienza. Il paesaggio crea dunque una finestra emotiva
attraverso la quale le capacità intellettive possono inoltrarsi lungo sentieri di comprensione creativa. Da qui
consegue che, ove il paesaggio sia considerato come un complesso di simboli, occorre concentrare l'attenzione sulla
reazione emotiva che suscita nel soggetto e sulle rappresentazioni che il soggetto costruisce.
L'applicazione di questi principi conduce alla spiegazione del paesaggio, cioè all'interpretazione del paesaggio come
un insieme di oggetti connessi tra loro, legati da relazioni di causa ed effetto. Che cosa sarebbe escluso dalla
rappresentazione?
Per Andreotti il paesaggio può essere inteso in 3 modi:
1. Come "qualcosa di percettibile secondo la natura del soggetto che osserva";
2. Come "qualcosa in sé";
3. Come "qualcosa che possa essere soggettivo oggettivo insieme".
L'applicazione di impostazioni razionaliste ammette soltanto il secondo modo, vale a dire quello basato sulla
considerazione del paesaggio come realtà oggettiva, sganciata dal soggetto. Di paesaggio, infatti, non se ne parla
soltanto in senso analitico, "scientifico", ma anche secondo il senso comune, lo si percepisce nei prodotti letterari e
nella musica, lo si ammira nelle arti figurative.
L'impostazione razionalista con l'applicazione dei 4 precetti cartesiani ha dato luogo a una riduzione di modi di
rappresentazione, sia perché elimina il soggetto, sia perchè riduce il campo delle prospettive di cui tenere conto.
Per la geografia culturale esiste dunque una sfida, quella di considerare anche rappresentazioni non scientifiche.
Schema pag. 235: Epistemologia della rappresentazione del paesaggio su base razionalista.
Confronto tra la base razionalista (sinistra) e la base non razionalista (destra) della rappresentazione del paesaggio.
Evidenza Pertinenza
Riduzione Ragione spiegazione Emozione comprensione Olismo
Causalità Paesaggio Paesaggio- Teologia
Esaustività Oggetto vissuto Aggregatività
Olsson ha affrontato il problema in Mappa Mundi Universalis (2000), in cui è considerata una configurazione ternaria
della conoscenza, costituita da scienza, arte, religione, in base alla quale si perviene a considerare il paesaggio non
più come una questione di spiegazione, ma piuttosto come una questione di comprensione, che indica un "concetto
esistenziale" e va oltre la “mera sensazione immediata”. Attraverso la comprensione ci si rende conto che il
paesaggio non è solo un puro fluire di fenomeni e che la sua struttura incarna dei significati. Una fenomenologia dei
luoghi naturali dovrebbe partire dalle mitologie: non tanto come rievocazione, ma come ricerca delle categorie
complete di conoscenza che esse rappresentano.
Queste posizioni conducono a chiederci se sia possibile dar vita a un discorso sul paesaggio alternativo a quello
ispirato dal Razionalismo, ma dotato di un certo vigore persuasivo, l’obiettivo potrebbe essere raggiunto costruendo
una base epistemologica opposta.
Tabella Pag. 236: epistemologia della rappresentazione del paesaggio su base non razionalista.
Precetti Conseguenze nella rappresentazione del paesaggio
Pertinenza Del paesaggio sono rappresentati tutti gli elementi
Ogni oggetto è definibile solo in rapporto alle simbolici, pertinenti le relazioni esistenziali con la
intenzioni, esplicite o implicite, dell’osservatore. natura, la società e la trascendenza, avendo cura di
mettere in evidenza i simboli utili per l’identificazione di
significati chiave, essenziali per la comprensione.
Olismo Il paesaggio è considerato come un tutt’uno, dotato di
L’oggetto è considerato come una parte immersa in una un’identità culturale che d° vita al genius loci ed è visto
realtà più grande, è percepito globalmente e nelle sue in rapporto agli ambienti più vasti in cui si inserisce,
relazioni con il contesto in cui si inserisce. ambienti che formano il suo contesto.
Teologia Il paesaggio è considerato in termini di relazioni tra
L’oggetto è considerato in base al suo comportamento, simboli e significati. Nel far ciò si tiene presente che,
senza cercare di spiegare a priori il comportamento per per la sua ambiguità di fondo, uno stesso simbolo può
mezzo di leggi relative alla sua struttura. Il condurre a significati diversi, soprattutto nel corso del
comportamento è inteso in rapporto a progetti che tempo. Questa ambiguità è considerata fruttuosa agli
l’osservatore attribuisce all’oggetto. effetti della rappresentazione del paesaggio.
Aggregatività La rappresentazione del paesaggio non ha valore
Ogni rappresentazione della realtà è partigiana in sé, oggettivo, ed è esplicitamente enunciato il suo
non perché l’osservatore abbia omesso qualcosa, ma carattere soggettivo e partigiano.
perché lo è deliberatamente.
Dematteis ritiene che nella geografia del paesaggio si siano affermate 2 tendenze, che rispecchiano un'opzione di
fondo:
1. la prima consiste nel considerare il paesaggio come simbolo, vale a dire come un insieme di segni da
interpretare; il paesaggio è rappresentato in termini di comprensione e si ricorre a un'epistemologia non
razionalista;
2. la seconda considera il paesaggio come modello, vale a dire come "costruzione relazionale esplicativa di
realtà esterne"; in sostanza, il paesaggio è visto come un modello di "relazioni spazio-temporali", capace di
spiegare le forme sensibili di una data porzione di territorio, oppure anche i tipi di forme che si ripetono con
caratteri simili in aree diverse". Ne deriva un percorso logico nel quale il paesaggio è il punto di arrivo, un
percorso del tutto opposto a quello della tendenza a considerare il paesaggio come simbolo, nel cui contesto
viene assunto come base di partenza per scoprire significati.
Secondo Dematteis, ciascuna delle 2 tendenze ha generato una coppia di atteggiamenti (tabella pag.238: confronto
tra il paesaggio come simbolo e paesaggio come modello):
La concezione del paesaggio come simbolo dà luogo a due comportamenti, che dipendono dalla rilevanza
attribuita al soggetto e quindi introducono nel campo della geografia a sfondo soggettivistico:
1) il primo consiste nel considerare il paesaggio come mera costruzione mentale, sicchè il soggetto diventa il
solo referente della rappresentazione (quadrante nord-est);
2) il soggetto continua ad avere una posizione centrale, ma assumono rilevanza anche le sue relazioni con
l'oggetto, vale a dire con la realtà fisica del territorio; di conseguenza la rappresentazione del paesaggio
diventa il discorso su queste relazioni (quadrante sud-est).
La tendenza del paesaggio come modello genera due comportamenti, che dipendono dal peso conferito ai
contesti naturale e sociale:
1)se attribuiamo attenzione privilegiata alle condizioni fisiche, il paesaggio è rappresentato come un
geosistema, vale a dire come un sistema territoriale (quadrante sud-est);
2) se si attribuisce importanza privilegiata alle impronte che la comunità umana, in rapporto alla sua
organizzazione e alla sua dialettica interna, produce sul territorio, produce sul territorio, perveniamo a
considerare il paesaggio come un prodotto storico-sociale (quadrante nord-est).
La posizione del paesaggio come modello coincide con quella che è stata qualificata "convenzionale" mentre la
posizione del paesaggio come simbolo va nella direzione di quella qualificata "alternativa".
Schema pag. 241: le concezioni di paesaggi emerse nella geografia umana italiana nel corso del ‘900. Confronto tra la
prospettiva strutturalista con influenze positiviste e la prospettiva percezionista.
Prospettiva Forme naturali + Forme umane = Forme generali
strutturalista Paesaggio Paesaggio
naturale geografico
Prospettiva Paesaggio Paesaggio
sensibile geografico
percezionista Forme + Forme costruite = Forme generali
percepite: mediante
veduta razionalizzazione
panoramica +
aspetto
fisionomico
Almeno in apparenza al secondo termine, paesaggio geografico, è stato attribuito un significato molto esteso, che
dovrebbe abbracciare ogni aspetto derivante dalla presenza umana, non escluse, almeno in linea di principio, le
manifestazioni culturali. Su questa base nel '900 si sono diffuse teorizzazioni, delle quali nella geo italiana vi è traccia
fino agli anni '60.
V'è poi unna terza distinzione, di cui si occupa Biasutti, tra paesaggio sensibile, costituito da tutto ciò che si può
percepire attraverso un giro d'orizzonte, e paesaggio geografico, frutto di un'elaborazione di dati e, quindi, di
un'astrazione. I due concetti non derivano da una distinzione tra i contenuti del paesaggio, ma riflettono piuttosto
due momenti del porsi del soggetto nei riguardi del paesaggio: un primo momento, percettivo, da cui deriva il
paesaggio vissuto nella nostra esperienza quotidiana (paesaggio sensibile) e un secondo momento, elaborativo, che
ci fa approdare al paesaggio descritto scientificamente (paesaggio geografico).
Questo complicato intreccio di distinzioni costituisce il terreno sul quale si può affrontare la questione finale, quella
del rapporto concettuale tra paesaggio geografico e paesaggio culturale. La questione ha assunto consistenza nella
seconda metà del '900, soprattutto dagli anni '60, quando Lehmann aprì la strada per attivare integrazioni tra geo,
psicologia e estetica imprimendo così nuovi impulsi a quelle tendenze, già affiorate in passato, che nel concepire il
paesaggio ponevano il soggetto al centro dell'attenzione ed esaltavano i contenuti spiritualisti dell'incontro tra
comunità umane e luoghi.
Negli ultimi anni Andreotti ha affrontato varie volte il tema, mettendo a confronto i modi con cui concepire il
rapporto tra paesaggio geografico e paesaggio culturale. Dall'esame di questo panorama emergono, in sostanza, due
posizioni ricche di conseguenze:
la prima consiste nel ritenere che il paesaggio culturale costituisca un tipo di paesaggio geografico; per
Toschi, infatti come il tipo è il distintivo di una categoria di individui, nel paesaggio possiamo identificare
diversi tipi (agrari, rurali, turistici); il paesaggio culturale potrebbe dunque essere inteso come un paesaggio
ricco di impronte culturali nel senso di eredità culturali o come il complesso delle impronte culturali presenti
in un determinato luogo o spazio;
la seconda considera il paesaggio culturale come una categoria a sé, distinta dal paesaggio geografico, cioè
non come un tipo di paesaggio geografico; secondo questa posizione, radicata nel pensiero di Lehmann e
sostenuta da Andreotti, il carattere distintivo tra paesaggio geografico e paesaggio culturale sta nel fatto che
il primo è concepito come "apparenza visuale", mentre il secondo è percepito come "apparenza visuale e
integrata", cioè come il prodotto di un'intima associazione tra soggetto e realtà; quando è colto come mera
apparenza visuale, il paesaggio è rappresentato come insieme di aspetti umani (animazione antropologica),
mentre quando approdiamo all'apparenza visuale integrata, il paesaggio è rappresentato come l'insieme dei
segni che riflettono gli ideali, i valori e le esperienze intellettuali.
Da quest'ultima impostazione deriva una divaricazione sul piano della formazione della conoscenza:
quando si tratta di paesaggio geografico (apparenza visuale), la realtà esterna ci appare come un complesso
di forme: gli input partono dall'oggetto e si riflettono sul soggetto, producendo percezione,
rappresentazione, conoscenza;
quando si parla di paesaggio culturale (apparenza visuale integrata) la rappresentazione è provocata da un
patrimonio intellettuale e spirituale del soggetto che si riflette su una realtà esterna, cioè sul territorio,
attribuendo simboli e significati ai luoghi; il percorso è opposto al primo, perché parte dal soggetto che si
specchia sulla realtà. La rappresentazione del paesaggio diventa dunque una rappresentazione della
proiezione del soggetto.
Schema pag. 242: le due opzioni basilari sul modo con cui concepire il paesaggio
Obiettivo Campo disciplinare di Impostazione Prodotti
riferimento
Descrivere aspetti culturali Geografia umana Positivista, strutturalista Paesaggio come struttura
del paesaggio
Descrivere le Geografia culturale Semiotica, spiritualista Paesaggio come manto di
manifestazioni territoriali simboli dei luoghi
della cultura
A farne una categoria distinta contribuisce, in sostanza, il fatto che, nel paesaggio culturale, sorge con-senso
(consenso) tra soggetto e luogo: un cum-sentire, "sentire insieme". Si crea pathos, partecipazione simpatetica,
immedesimazione; in una parola, emozione. Se si condivide questo asserto, secondo Andreotti non tutti i paesaggi,
per il semplice fatto che posseggono tracce di cultura, costituiscono paesaggi culturali. Lo sono soltanto quelli in cui
la cultura è di elevato livello, ricca di segni eccellenti, intellettuali e spirituali: "cultura è sempre un apice, una freccia
lanciata dallo spirito: quando la freccia coglie nel bersaglio dell'universalità, quell'attimo culturale si tramanderà nei
secoli". Sotto questo punto di vista, il paesaggio culturale non è costituito da ogni tipo di segni cui comunemente si
attribuisce natura culturale (stili architettonici ad es.) bensì da simboli capaci di produrre emozione, e così facendo,
capaci di condurci verso nuove immagini del mondo. Così intenso il paesaggio culturale è in sostanza un paesaggio
geografico, ma osservato e studiato da un punto di vista consapevole della centralità della cultura; un paesaggio, per
così dire, intellettivo in quanto si perviene alla sua conoscenza mediante un'operazione intellettuale-discorsiva.
In sostanza, il paesaggio culturale è la manifestazione di una geografia dell'arte o della memoria, alla cui
comprensione si giunge in virtù di un atto conoscitivo istantaneo e sinottico; insomma, come il risultato di un
processo intuitivo, basato sull'immediatamente percepito. Questa impostazione conduce Andreotti a sostenere che il
paesaggio culturale è quel luogo che osservato o attraverso personali o soprattutto conoscenze storico-artistiche-
letterarie – queste ultime nel senso più ampio della parola – rivela le conoscenze medesime o si manifesta come
motivo di arricchimento.
Nel caso del paesaggio culturale, invece, il soggetto ha il primato sulla realtà esterna. La rappresentazione non
conduce a significati ricchi di senso, ma piuttosto mette in evidenza il con-senso, vale a dire le armonie che la cultura
ha creato tra esistenza, natura, società e trascendenza e ha manifestato attraverso le impronte sul territorio. A
questo si aggiunga la circostanza secondo la quale i luoghi, non più lo spazio, sono l'oggetto primario della
rappresentazione e in essi si cerca l'identità, la personalità culturale.
Ma questa concezione non può essere accolta nella prospettiva della geo culturale perchè:
il concetto di genere di vita non ha più ragione d'essere, come d'altra parte diventa sempre meno legittimato
il concetto "gemello" di modello di cultura;
l'attenzione della geoculturale, soprattutto se intesa come lo studio di simboli e delle relazioni tra simboli e
significati, tra segni e valori, non si concentra più sulla regione, ma piuttosto sui luoghi;
il concetto di regione presuppone quello di sistema di elementi connessi tra loro da relazioni di causalità, il
che è incompatibile con questa prospettiva della geo culturale.
Se si sceglie di sviluppare geo culturale in chiave semiotica il solo aggregato territoriale del trittico "paesaggio,
regione, genere di vita" che rimane, e guadagna valorizzazione, è il paesaggio. Gli altri due aggregati, regione e
genere di vita, perdono giustificazione.
Di cultura se ne è parlato nel primo capitolo mentre per quanto riguarda il concetto di civiltà, sappiamo che emerse
parzialmente nello scambio di lettere fra Moses Mendelssohn e Immanuel Kant. Tali lettere si interrogavano sul
significato di Illuminismo, di acculturazione, dell'universalità dell’uomo e del possesso della ragione che lo consentiva
di avanzare nel progresso, ossia l’idea di percorso che il genere umano doveva compiere ma anche l’idea di civiltà
intesa come il livello in cui il progresso si manifesta. Anche il concetto di etnia emerse durante l’Illuminismo: fu
introdotto nel 1787 da Chavannes per designare lo studio dell’uomo come membro di una specie diffusa sul pianeta
e divisa in gruppi per caratteristiche somatiche, culturali e sociali. L’idea era quella (tipicamente illuministica) di
studiare le popolazioni primitive per dimostrare che queste avessero alcune caratteristiche fondamentali in comune.
Alla base di quegli studi vi erano le idee circolanti in quel periodo riguardo il “buon selvaggio”. Voltare nel 1840, nel
Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, aveva distinto due fattori che sembravano determinare le caratteristiche
di un popolo: da un lato un fattore naturale in base al quale ogni comunità aveva caratteristiche fisiche e un fattore
culturale dove ogni popolo si distingue dagli altri generando diversità intellettuale.
Nell’800 le idee di etnia e civiltà si affiancarono a quella di cultura e si formano tre concetti attraverso i quali
carattere e cultura dei popoli sono state rappresentate in relazione alla modernità. Ciò significa che non sono le
visioni del mondo ad essere nutrite dalle culture ma singole culture, in rapporto alla modernizzazione del mondo, a
costruire i fulcri delle rappresentazioni. Etnia e civiltà conducevano a una visione dualistica del mondo: da un lato la
civiltà occidentale, dall’altro il resto del mondo (le cosiddette barbarie). In questa visione troviamo il contributo
hegeliano (tesi e antitesi) ma soprattutto quello darwiniano (civiltà occidentale come tappa finale di un processo
evolutivo).
La geografia culturale si è trovata ad indagare le manifestazioni geografiche: delle culture; delle etnie, soprattutto in
relazione all’antropologia culturale; e delle civiltà, insieme all’archeologia, la storia e la filosofia. Il trittico “cultura
civiltà etnia” può dunque essere affrontato da due prospettive. Da un lato abbiamo la prospettiva strutturalista che
considera etnia e civiltà in base ai modi di sfruttamento della natura, dell’organizzazione sociale e dei patrimoni
intellettuali. Tutto ciò conduce ad una conoscenza oggettivistica, che spiega il discorso prigione (Berdoulay). Dall’altro
abbiamo il livello semiotico, dove individuiamo i simboli che caratterizzano civiltà ed etnie e ci fanno approdare al
senso, dalle ideologie ai valori etici, che i simboli assumono. La conoscenza a quel punto diventa comprensione e si
avvicina al discorso creazione (Berdoulay). Anche ai giorni nostri la rappresentazione della civiltà avviene nella prima
prospettiva. Lo dimostrano gli atlanti dove le etnie si rappresentano attraverso la distribuzione di razza, lingua,
religione e sistema di scrittura. Tutti elementi che pretendono di rappresentare la “realtà così com’è”. Infine,
un'ulteriore difficoltà dipende anche dal fatto che la geografia culturale su base semiotica predilige lo studio dei
luoghi mentre quando si parla di etnie e civiltà ci si riferisce maggiormente a spazi.
L’etnia è stata intesa come un gruppo umano i cui elementi (caratteristiche antropologiche e elementi socioculturali)
hanno in comune una stessa origine. Nel senso comune ancora oggi vi è questa visione. Per quanto riguarda la
scienza, tale concetto è passato attraverso più vicende. La sua nascita è stata contemporanea all’etnologia e nasce
dall’esigenza di ripartire le popolazioni (in quel momento ci si concentrava sulle popolazioni semplici, le cosiddette
culture primitive) non solo in base a caratteri somatici ma anche economici, sociali e culturali. Anche l’idea di razza,
precedente a quella di etnia, nasce durante l’Illuminismo e riflette l’idea più generale di specie. All’origine di ciò c’è
Linneo con l’idea dell’ordine naturale che lo portò ad incasellare il mondo vegetale e animale in un disegno
tassonomico (tassonomia: teoria della classificazione nelle scienze naturali. Sono chiamate tassonomiche quelle
scienze, come la botanica e la storia naturale, il cui obiettivo è la classificazione di oggetti). Linneo elaborò un sistema
di suddivisione del genere umano in quattro grandi razze ma nel momento in cui all’idea di razza si aggiunse quella di
etnia insorse un’inquietudine concettuale. L’etnia doveva essere individuata mediante due gruppi di criteri: quelli
dell’antropologia fisica (che si basano sulle caratteristiche somatiche) e quelli delle scienze sociali, un campo
contraddistinto dalle conoscenze soggettive.
Negli anni ‘30 del ‘900, grazie agli studi di Ruth Benedict, si cercò di superare questo dilemma introducendo il
“modello di cultura” in base al quale ogni elemento sociale, culturale e spirituale del gruppo umano era composto da
un insieme di elementi legati in modo da costituire un tutt’uno. Nasce così l’olismo, un principio in base al quale
quanto più questi elementi sono legati fra loro, tanto più il gruppo etnico risulta ben strutturato e dà vita a un’etnia
compatta (essere “una realtà maggiore della semplice somma delle parti”).
Sia la fase che vede l’idea di etnia come una sorta di complicazione dell’idea di razza, sia quella dove l’etnia
sublimava il modello di cultura, hanno creato un doppio livello di rappresentazione. Da un lato vi era la
rappresentazione scientifica dove il mondo della ricerca trasferiva i dati sul campo ed apriva riflessioni teoriche che
riguardavano il modo stesso di rappresentare il mondo; dall’altro i media fornivano al pubblico una rappresentazione
banale che riduceva la diversità antropologica del mondo ai tratti somatici e la diversità culturale ai ceppi linguistici e
le religioni.
Il quadro è cambiato solo nel ‘900 quando gli studi sul genoma umano hanno portato a un nuovo concetto, quello di
“unità di popolazione” (detta anche deme). Un concetto che dal punto di vista della geografia culturale è interessante
perché: ha l’ambizione di sostituire il concetto di razza e dovrebbe chiarire il rapporto con il concetto di etnia.
Inoltre, all’idea di unità di popolazione conduce la genetica. Infatti, oltre a dimostrare la non scientificità del concetto
di razza, la genetica ha aperto la strada per studiare la differenziazione della popolazione del pianeta e costruirne la
storia attraverso il DNA. Sebbene anche il concetto di unità di popolazione tende a creare confusione come quello di
razza, la prospettiva cambia quando si osserva che l’unità di popolazione si identifica anche attraverso
comportamenti sociali e manifestazioni spirituali, dunque la sfera di quella che è definita etnia. Il deme si può
identificare anche attraverso criteri geografici, antropologici e linguistici. Le conclusioni, quindi portano a ritenere
che le unità di popolazione sono determinate anche da fattori culturali, gli studiosi (Cavalli-Sforza, Menozzi, Piazza)
sostengono che la struttura del patrimonio genetico è determinata da fattori geografici come le differenze
socioeconomiche e altri fattori culturali.
In conclusione, il concetto di unità di popolazione da luogo al progresso perché attribuisce ai fattori socioculturali una
funzione cardinale superando: le impostazioni positivistiche (che invece danno ai fattori fisici un ruolo centrale) e le
impostazioni strutturaliste, imperniate sul modello di cultura. Dunque, sembra che il concetto di razza sia stato
abbandonato e che quello di etnia sia sulla stessa strada. Tutto ciò porta a due prospettive: da un lato, ci si approccia
all’unità di popolazione, la quale rappresenta la specie umana come un gigantesco organismo che si differenzia lungo
piste genetiche per quanto riguarda i fattori generati dall’ambiente fisico e da altri insiti nei contesti socioculturali.
Dall’altro, ci si avvicina a un’idea che propone di superare il concetto di etnia per poter vedere le comunità umane
identificate non soltanto rispetto all’eredità genetica ma anche in merito al patrimonio simbolico in cui sono
comprese religione, lingua e visione del mondo, ovvero i valori che si sono sedimentati nel corso della loro storia.
L'essere musulmano comporta che si faccia parte del mondo dell'Islam, cioè di coloro che sono sottomessi a Dio e si
sentono solidali e fratelli, nonostante le numerose difficoltà di razza, lingua e civiltà. Questa condivisione può
trasformarsi, nei singoli stati, in atteggiamenti di dominio politico su base religiosa, dando così vita all'Islamismo;
atteggiamenti che possono raggiungere forti connotazioni quando sono ispirati a quella rigorosa osservanza dei sacri
testi che si manifesta nell'integralismo (movimento all’interno dell’Islam che vagheggia un ideale di ritorno alle
origini, riproducendo l’unione indissolubile tra religione e organizzazione statale. Gli integralisti rifiutano il
patrimonio di idee e i modi di vita del mondo occidentale e tentano di elevare a leggi dello stato i concetti giuridici
della shari’a) o in senso lato nel Fondamentalismo. Queste condizioni fanno sì che i singoli stati presentino un
mosaico di simboli influenzati da due fattori: in primis, il livello di adozione del credo islamico, in rapporto al quale si
distinguono islamisti e integralisti, a loro volta suddivisi in indirizzi di varia natura; in secondo luogo, i connotati
culturali della singola etnia. I fattori connaturati alla religione possono produrre conflitti a forte connotazione
simbolica, come quelli che hanno contraddistinto l’Egitto dove gli integralisti si sono spinti a creare la “Repubblica di
islamica di Imbaba” alla periferia del Cairo. I fattori connaturati all'etnia hanno provocato l'associazione di simboli
religiosi con altri generati dalla storia, dalla lingua e dalle manifestazioni spirituali dei singoli gruppi. È per questo, ad
esempio, che nel Sahara mediterraneo si contrappone la berberità all’arabità mentre in Siria e in Libano si
contrappone arabità e fenicità.
Schema pag. 273: concetto di civiltà e le sue relazioni con il concetto di cultura.
1732: Comparsa di civilisation 1756: introduzione di civilisation nel pensiero Mirabeau, Voltaire Gran
Bretagna: civilisation; Germania: Zivilisation; Paesi Bassi: Deschaving, Civilisatie; Italia: civiltà.
Relazione tra cultura e civiltà Kant: cultiviert (educato, colto), civilisiert (civilizzato); Variante a Kant: cultiviert
(educato, colto), civilisiert (processo di elevazione della società); Marx: cultura (patrimonio intellettuale,
sovrastruttura), civiltà (patrimonio materiale, infrastruttura).
Braudel ha elaborato una storia del concetto di civiltà: nel 1732 la parola civilisation appare nella letteratura giuridica
francese ma entra nel 1756 entra nella teoria della cultura con il Trattato sulla popolazione di Mirabeau e il Trattato
sui costumi e lo spirito delle nazioni di Voltaire. La parola propone finalmente una versione sostantivata agli aggettivi
civil (civile) e civilisé (civilizzato), che indicavano un comportamento individuale conforme alle regole del buon vivere
e, così facendo, contrapponevano lo stile di vita della società evoluta, di cui la borghesia francese era protagonista,
nei riguardi delle popolazioni che vivevano nella barbarie. Nel giro di mezzo secolo la parola si diffuse in Europa
dando vita a un interessante processo geografico: a partire dal 1772 in UK si afferma il termine civilisation che ha la
meglio su civilty; in DE si installa il termine Zivilisation al posto di Bildung; in Olanda si afferma il termine Beschaving;
al sud delle Alpi si afferma il termine italiano civiltà, che usava già Dante.
Mentre questo processo si stava diffondendo, civilisation si trovò ad affiancare il preesistente termine cultura e di
conseguenza venne alla ribalta il discorso sul rapporto tra le due parole: alcuni attribuirono ai due termini lo stesso
significato, mentre altri li videro differenziati fino al punto da rispecchiare una vera e propria divaricazione
ideologica. Cultura e civiltà furono considerate essenzialmente come sinonimi da Tylor e, in generale, dai cultori
dell'antropologia culturale. Il panorama delle posizioni che ai due termini hanno conferito significati diversi mostra
tre posizioni:
- la prima, che si può far risalire alla distinzione di Kant tra cultiviert (educato, colto) e civilisiert (civilizzato), ha
aperto la strada a riferire la cultura ai comportamenti individuali e la civiltà all'ambito sociale. Muovendo da questa
base, una parte della letteratura ha cercato di ripartire le popolazioni in rapporto al grado di civiltà raggiunto; il
frutto di questo lavoro è stato un ordinamento gerarchico, al cui vertice si dispone la civiltà occidentale e al di sotto
si dispongono le altre civiltà. L’esercizio mostra la stretta interazione tra le due funzioni alle quali s'è fatta menzione
poc'anzi: costruire conoscenza razionale e legittimare azione politica;
– la seconda, è sostanzialmente una variante della prima, poiché intende la civiltà come il complesso delle azioni
esercitate nel contesto sociale e rivolte a “migliorare, ad educare ed innalzare sia materialmente sia spiritualmente"
(Andreotti). Questo concetto è intimamente connesso con l'ambizione illuministica di elevare le singole comunità, e il
mondo nel suo insieme, attraverso il progresso assicurato dalla ragione;
– la terza, rievocata da Bruel, è stata introdotta dalla teoria marxiana secondo la quale si distinguono le
infrastrutture, costituite da oggetti materiali, dalle sovrastrutture, costituite da manifestazioni intellettuali;
basandosi su questa distinzione, la cultura è stata identificata nella componente intellettuale (sovrastruttura)
mentre la civiltà è stata identificata nella componente materiale (infrastruttura).
L'attenzione attribuita alle idee di civiltà e di cultura è stata diversa da un paese all'altro. In Germania, in Polonia e in
Russia ad es. a riscuotere maggiore interesse è stata l'idea di cultura, che corrisponde ai principi normativi, ai valori,
agli ideali, in una parola allo spirito. In altri paesi, come nel Regno Unito e negli USA, si è preferita l'idea di civiltà.
Queste posizioni, a giudizio di Braudel, subirono una svolta a opera del linguaggio adottato dall'antropologia
culturale, secondo il quale la cultura è propria delle società primitive mentre la civiltà è propria delle società
avanzate. Mentre l'antropologia culturale dava vita a una semplificazione del problema, la distinzione di origine
marxiana - cultura identificata nello spirito e civiltà identificata negli strumenti materiali – è stata sviluppata in
filosofia, approdando a risultati di sicuro interesse. Lo dimostra Abbagnano: se la cultura consiste essenzialmente in
un progetto di vita comune a una comunità umana, la civiltà costituisce l'armamento, cioè l'insieme degli strumenti
di cui una cultura dispone per conservarsi e progredire. Queste armi sono costituite, in primo luogo, dalle tecniche e
dalle forme simboliche, cioè dalla conoscenza, dall'arte, dalla moralità, dalla religione, dalla filosofia, che
condizionano e nello stesso tempo sono condizionate da queste tecniche. L'intreccio e la combinazione delle
tecniche e delle forme simboliche è alla base delle istituzioni economiche, giuridiche, politiche, religiose, educative,
alle quali comunemente si pensa quando si parla di civiltà o di civilizzazione.
Una posizione differente è quella di Spengler, nel testo Il tramonto dell’Occidente (1918-1922), il quale mette in
riferimento la civiltà, che è identificata nella Kultur, con la civilizzazione, Zivilization. La cultura in quanto civiltà è
concepita come l'intima associazione di due componenti. La prima componente è strutturale perché il mondo si
comporta come un organismo biologico, che si evolve secondo processi che si sviluppano nel lungo periodo; processi
che rispondono a letti evolutive e che possono essere identificati e spiegati attraverso un campo di studi che
Spengler chiama "sistematica". Sotto questo punto di vista consideriamo il mondo come natura. La seconda
componente è contingente e differisce dalla prima perché si manifesta attraverso fatti ed eventi unici e irripetibili,
che nel loro complesso indicano il destino verso cui la comunità si dirige; componente che ci induce a considerare il
mondo come storia. Lo studio di questi fatti ed eventi, che si manifestano senza un ordine particolare, costituisce
oggetto di studio della fisiognomica. Secondo Spengler, la cultura è dunque in continuo divenire e possiede aspetti e
processi che si possono far rientrare in schemi razionali e altri che ne evadono. Questa complicata costruzione
teorica conduce a ritenere che la civilizzazione sia lo stadio finale della cultura (in quanto civiltà): si dispiega quando
la cultura ha raggiungo il suo apice, dopo di che si irrigidisce, tramonta e ritorna a una condizione primitiva. L'idea di
ciclo, propria delle spiegazioni riferite al mondo organico, serve dunque a Spengler non soltanto per proporre
un'ipotesi originale del rapporto tra civiltà e civilizzazione, ma anche per dimostrare che la civiltà occidentale
sarebbe prossima a raggiungere il suo apice, quindi al suo declino.
Le rappresentazioni stadiali della storia dell'umanità proseguirono nella seconda metà dell'800 e per buona parte del
‘900. Queste visioni sono rilevanti anche dalla prospettiva della geografia culturale perché ci offrono il modo di
contestualizzare il discorso sui processi globali innestandoli in quadri di ampio respiro, nei quali si possono
individuare percorsi lunghi che affondano nell'antichità classica e si possono compiere passi per comprendere dove
stanno conducendo i processi dei giorni nostri. Claval, nei suoi fondamenti della geografia culturale (2003), presenta
un modello articolato su quattro stadi: una prima fase caratterizzata dalle culture dei raccoglitori e dei cacciatori;
una seconda fase condusse dalle culture senza scrittura fino alle grandi civiltà storiche; la terza fase è costituita
dalla società moderna; mentre la quarta fase dalla società postindustriale e dalle culture postmoderne.
È interessante concentrarsi sulle fasi che hanno segnato il passaggio da uno stadio all'altro per scandagliare come
avvenga la sostituzione di simboli e di significati nel passaggio tra differenti visioni del mondo. Il passaggio è un
momento di grande intensità culturale, una finestra dalla quale si può gettare lo sguardo su simboli che decadono, su
altri che insorgono, su narrazioni che perdono rilevanza e su altre che emergono, affascinano, si impongono e si
diffondono. Dunque, la fase di svolta innescata dall'Illuminismo è stata preceduta da altre tre svolte, in cui il sistema
dei simboli è cambiato radicalmente: la nascita della rappresentazione mitica, la nascita del discorso simbolico e la
nascita del discorso teologico.
Schema pag. 294: stadi storici, identificati in rapporto alla costruzione di simboli.
17.000 anni da 9.000 anni fa 5.000 anni fa 4.000 anni fa ‘700
Rappresentazione Rappresentazione Avvento della Debutto del discorso Rappresentazione
mitica simbolica scrittura teologico moderna
Culture di cacciatori Culture neolitiche Culture urbane Cultura monoteista: Cultura scientifica:
e raccoglitori ebraismo razionalismo
Media: amigdala Media: pitture Media: forme Media: come prima Media: come prima+
pietra scheggiata rupestri, sculture neolitiche + la trasmissione della
ceramica decorata scrittura voce e delle
immagini
1) La nascita della rappresentazione mitica, propria delle comunità di cacciatori e raccoglitori, è avvenuta nel
Paleolitico, tra 20.000 e 15.000 anni fa, proprio mentre si stava esaurendo l'ultima fase glaciale. Ne è stato
protagonista l'homo sapiens sapiens, che ha dato luogo alla prima colonizzazione del pianeta. Le pitture rupestri, in
cui compaiono animali e scene di caccia, mostrano l'esistenza umana in rapporto conflittuale con la natura, mentre
l'abbondanza di statuette con raffigurazioni femminili denota come i rapporti sociali fossero basati sull'idea della
sacralità femminile e sull'esaltazione della fertilità. La rappresentazione del mondo aveva natura mitica. Ries spiega
che vi erano: miti cosmogonici che mettevano in scena le acque primordiali e il Creatore, quest'ultimo simboleggiato
da una figura antropomorfa o da un animale acquatico; miti e riti relativi all'ascensione al cielo; miti e simboli
dell'arcobaleno e della sua replica terrestre, cioè il punto che collega con l'altro mondo; miti dell'origine dell'acqua e
del fuoco.
2) La nascita del discorso simbolico e delle comunità di agricoltori e allevatori ebbe luogo all'incirca 10.000 anni or
sono segnando l'avvento della civiltà neolitica, ha generato cambiamenti che, in quanto a portata, possono essere
paragonati soltanto a quelli della Rivoluzione industriale. L'invenzione delle tecniche di dissodamento del suolo e di
coltivazione, insieme a quelle dell'allevamento, condusse all'insediamento stabile, che con il tempo fece approdare
alla creazione della città e alla cultura urbana. La donna, avendo parte essenziale nella coltivazione e
nell'allevamento, e per di più avendo cura dell'abitazione, divenne il perno di un nucleo sociale stabile, qual era la
famiglia, che si avvaleva di una base economica ben localizzata sul territorio. Quella svolta nella condizione
femminile si ammantò di manifestazioni simboliche e di un ampio corredo di riti iniziatici, come la teogamia, secondo
cui si ritenne che gli Dei si unissero sessualmente a donne prescelte per generare i capi, e come la diffusione di
società segrete riservate ai maschi. La pregnanza culturale del Neolitico è attestata dà segni di straordinario impatto
culturale, dalle tombe ai villaggi, per finire ai complessi megalitici, ma le connotazioni più rilevanti di quella svolta
consistono nella rappresentazione mitica del mondo e nell'introduzione della scrittura.
La rappresentazione mitica si espresse attraverso forme di religione cosmica che portavano a disegnare un mondo
che si rinnovava periodicamente: al centro del mondo perveniva l'albero cosmico per cui il tempo era inteso come
uno sviluppo circolare attorno all'albero. Da qui è derivata probabilmente l'idea di ciclo, un archetipo che non ha mai
abbandonato le immaginazioni del rapporto tra l'esistenza umana e la realtà esterna. La vegetazione, infatti, dà
luogo a un ciclo in cui semina, crescita e raccolto si succedono senza interruzione e, nella visione mitica, quel ciclo si
rifletteva nel mondo, rappresentato anch'esso come una realtà che segue un percorso circolare. Regolando ogni
cosa, il cosmo costituiva l'elemento sacrale dell'esistenza umana, e il villaggio, che attraverso le coltivazioni e
l'allevamento regolava lo spazio circostante, era la riproduzione terrestre del cosmo. La rappresentazione, dunque si
basava su due chiavi di lettura, il cerchio che conduce verso un rinnovamento perenne, e l'organizzazione dello
spazio che imita l'organizzazione del cosmo: immagini positive, la prima riferita al tempo e la seconda allo spazio, che
infondevano fiducia nella vita e fede in entità che dall'alto vegliavano su ogni cosa.
L'introduzione della scrittura non soltanto condusse la creazione di simboli alle sue più alte espressioni, ma rese
possibile anche l'ideazione di insieme di simboli legati tra loro, pervenendo così a configurare un ordine.
Schema pag. 296: principali sistemi di scrittura.
Sistemi di scrittura
Pittogrammi
Logografico Sillabico Alfabetico
Primo Geroglifico Cinese Ultimo Cherokee Arabo Latino Cirillico
sumero sumero
cuneiforme cuneiforme
Il primo tipo di scrittura fu logografico, in cui le singole parole vennero rappresentate da simboli separati, per lo più
su base pittorica, denotando così i legami tra le rappresentazioni simboliche delle pitture rupestri del Paleolitico e le
rappresentazioni neolitiche, impresse sugli utensili e sulle dimore (scrittura sumera 3000 a.C., geroglifici egiziani
3000 a.C., cinese moderno 2000 a.C.). Seguirono la scrittura sillabica, in cui i simboli rappresentano sillabe, come
accade nella scrittura sumera più avanzata, e poi la scrittura alfabetica, in cui i simboli rappresentano unità di suono,
o fonemi. Vi appartengono i sistemi di scrittura arabo, latino, cirillico, greco. La connotazione simbolica della scrittura
è espressa da caratteristiche con alta caratura culturale. Foucault ricorda come la direzione della scrittura, palese
motivo di differenziazione culturale, non fu un mero fatto formale ma derivò dal manifestarsi di differenti immagini
del mondo: i popoli che presero a scrivere da destra e sinistra, come ebrei e arabi, volevano indicare il corso e il
moto giornaliero del "primo cielo", cioè la parte esterna del cielo, dove sta il motore che imprime movimento al
cosmo (Aristotele); i popoli che scrivevano da sinistra a destra, come georgiani e greci, volevano collegarsi al
"secondo cielo", la parte più interna del cielo dove ruotano i pianeti; i popoli che adottarono la scrittura dall'alto in
basso, come cinesi e giapponesi, vollero rappresentare l'armonia con la natura, che ha la testa in alto e i piedi in
basso; altri popoli, come i messicani, presero a scrivere non soltanto dal basso all'alto ma anche secondo linee spirali
per ricollegarsi al corso del sole durante l'anno, rimandando così all'idea di ciclo.
3) La nascita del discorso teologico fu causata dall'esordio della concezione monoteista del trascendente, che diede
vita a un universo simbolico dotato di un eccezionale impatto esistenziale perché era rivelato da un ente, capace di
distruggere o di salvare il mondo: ora simboli di castigo da parte di un Dio inflessibile (Ebraismo), ora simboli di
comprensione e di salvezza (Cristianesimo), ora simboli di unità nell'obbedienza (Islamismo). Dal discorso mitico si
passò così al discorso teologico. Le tre religioni monoteiste ripongono in Abramo, quindi in un periodo collocabile tra
il 2000 e il 1800 a.C., l'avvio di questa concezione. Partendo da questa base, il Cristianesimo ha impresso la svolta
che, dopo molti secoli, ha condotto alla civiltà occidentale. Mezzo millennio più tardi, la religione islamica ha creato
una base di civiltà che, almeno per estensione geografica, è la sola che possa competere con la civiltà occidentale.
Nell'ambito dell'Occidente, la rappresentazione ha proceduto secondo visioni ternarie fino all'avvento della
modernità: un triangolo a tre vertici dove si dispongono Dio, lo Spirito Santo e Gesù Cristo. Siccome il significato
ultimo è la parola di Dio, che si riflette sulla natura, il segno deve riflettere la realtà e deve semplicemente
comprenderla facendo riferimento alla rivelazione: Focault lo definisce un segno stigmate. È un poderoso sistema di
produzione di cultura.
Emergono dunque 2 modelli, rispettivamente connessi ai due tipi di trasmissione, fisica e virtuale:
nel primo modello due complessi di simboli e di significati vengono a contatto per effetto di
un'immigrazione di persone oppure della trasmissione di messaggi, veicolati ad esempio attraverso un libro
di successo o una campagna pubblicitaria; il luogo donde è partito l'impulso non subirà alcuna influenza,
mentre il luogo di arrivo sarà variamente influenzato. Se i messaggi sono veicolati da immigrati, il luogo di
destinazione si trasforma addirittura in un luogo multiculturale e probabilmente si formeranno eterotopie;
nel secondo modello v'è un universo di simboli e di significati che galleggia in uno spazio virtuale, al di
sopra dei luoghi di origine e di destinazione dell'impulso. Da questo universo i luoghi possono attingere
simboli in apparente autonomia, ma nella sostanza vi attingono nei termini ideati da operatori virtuali, veri
e propri registi della globalizzazione perché organizzano l'universo dei simboli in rapporto alle loro
strategie. Ad esempio, se si vuole diffondere l’idea che la religione musulmana non sia basata sulla
discriminazione del mondo su base religiosa, in Internet si troveranno documenti e informazioni
(imperniati su significati e simboli) che esaltano le caratteristiche di questa religione. La posizione
geografica del sito generatore diventa irrilevante agli effetti della strategia di persuasione. Non esistono
neppure luoghi prefigurati di destinazione, anche se il messaggio ha un obiettivo riferito a un determinato
comparto geografico del mondo. Gli utenti di Internet accedono al sito se lo vogliono, oppure lo fanno
casualmente, ma in ambedue i casi vengono a contatto con simboli che galleggiano in un oceano virtuale di
informazioni e messaggi.
Sotto questo profilo, la globalizzazione può essere immaginata come un insieme di rappresentazioni, vale a dire di
segni e di simboli, in cui esistono luoghi certi di partenza e luoghi potenziali di destinazione all'interno di un gioco di
comunicazione simbolica attivato da un regista virtuale. Le strategie di globalizzazione provocano l'innesto di simboli
e di significati nuovi, a contenuto universale, in un quadro di simboli e significati consolidati nei singoli. L'innesto
provoca l'interazione tra simboli disseminati attraverso spazi virtuali e simboli che le singole comunità hanno
costruito nel corso della loro storia. Per il geografo ha ovviamente rilevanza l'interazione tra simboli consolidati e
simboli importati che si riferiscono a luoghi e spazi poiché, se i secondi prevalgono sui primi, mutano i valori attribuiti
al territorio. Il risultato ultimo di questo processo può consistere in mutamenti delle nostre esperienze del mondo,
che si risolvono nel modo con cui rappresentiamo le nostre relazioni con la natura, la società e la trascendenza.
Tomlinson (2001) sottolinea che nell'interconnettività complessa, cioè nella globalizzazione, il "globale" diventa
sempre più l'orizzonte culturale nel quale noi incastoniamo la nostra esistenza. Pertanto, la penetrazione delle
località dovuta alla connettività produce un duplice effetto: da un lato dissolve le sicurezze della località, dall'altro
offre l'opportunità di interpretare l'esperienza in termini più ampi, sostanzialmente globali. Allora, emerge la tesi di
Andreotti, secondo la quale, almeno in linea di principio, la globalizzazione ha una funzione negativa nei riguardi
della cultura connaturata ai paesaggi, soprattutto perché è in grado di distruggerne la componente spirituale, che è
la loro eredità con più ricco contenuto simbolico. In ogni caso, nell'ambiente urbano si innestano elementi
dipendenti dalla connettività prodotta da nuovi sistemi di comunicazione e vengono alla ribalta nuove forme di
paesaggio, tali da far ritenere che la trasmissione e la diffusione di simboli potrebbe effettivamente far declinare la
possibilità di identificare aree culturali e potrebbe far emergere realtà meno strutturate e culturalmente dinamiche.
Conclude Hannerz (2001) che al giorno d'oggi si stanno diffondendo habitat culturali, che sono qualcosa di più
indistinto di un'area culturale, perché sono spazi non omogenei sia linguisticamente sia per valori di vita, quindi non
ben strutturati. Essi sarebbero la manifestazione, alla scala locale, dell'ecumene realizzato dalla globalizzazione e
consistente in un universo virtuale di simboli dalla fisionomia magmatica.
Queste visioni ci devono ricordare che la globalizzazione è la manifestazione di un processo iniziato con l’Illuminismo
e dunque conseguenza finale di strategie di europeizzazione sviluppatesi nell’800 e poi tramutate in strategie di
occidentalizzazione nel secolo successivo. L'essenza più profonda dei simboli e dei significati fatti circolare dalla
globalizzazione risiede, infatti, nella fede nel progresso realizzato attraverso processi di razionalizzazione del
pensiero e della società, che è in fondo la metanarrazione grazie alla quale la modernità si è imposta su estese parti
del mondo. Anche le teorie dello sviluppo sono una sua metanarrazione; infatti, lo sviluppo sostenibile, è presentato
con due proprietà che ne fanno l'ultimo prodotto dell'Illuminismo: è un principio universale, perché viene incontro
non soltanto alle esigenze di ogni popolo ma si adatta anche a ogni tipo di cultura, in ciò comportandosi come un
prodotto dell'ideologia illuminista; disegna una prospettiva di progresso, in ciò rinnovando la fede nella capacità
umane di miglioramento grazie all'uso della ragione.
Sviluppo sostenibile come manifestazione di progresso, globalizzazione come strumento per attuare e diffondere
sviluppo sostenibile: in rapporto ai punti di vista, questa coppia di asserti può essere vista come una manifestazione
di modernità, oppure come un avvio alla postmodernità. In ogni caso, è un'espressione di occidentalizzazione. È
naturale quindi che questa condizione crei uno spartiacque nell'umanità: da un lato le comunità che accolgono
questo messaggio, profondo e solido, di fede nel progresso; dall'altro lato, le comunità che lo rifiutano perché
vogliono non essere coinvolte nell'occidentalizzazione del mondo. Le conseguenze sono profonde, geograficamente
molto estese, e si dispongono in una catena che investe sia il campo dei processi materiali, come il commercio
internazionale, sia quello dei processi culturali: l'occidentalizzazione è fonte di modernizzazione; la modernizzazione
si esprime attraverso la mondializzazione (degli strumenti); la mondializzazione favorisce la globalizzazione (dei
simboli e dei significati). È significativo che, proprio mentre stava per essere attivato internet, Derrida abbia
intravisto le condizioni per ripristinare i vecchi fasti dell’Europa a vantaggio del Nord America nella produzione
culturale e nell’influenzare il mondo. Da qui l'emergere di una divaricazione del mondo che non è caratterizzata da
nazioni e paesi raccolti in aree geograficamente ben delimitate, all'interno delle quali tutti condividono
atteggiamenti comuni nei riguardi di processi globalizzanti, ma percorre piuttosto l'interno di nazioni e paesi,
dividendo le singole comunità.
Questa trasversalità, in rapporto alla quale una stessa nazione può dividersi tra chi accetta questa
occidentalizzazione estrema e chi la rifiuta, genera una categoria particolare di eterotopie, rapportate alla
globalizzazione. Hannerz descrive il mondo come una realtà geografica nella quale si costruiscono estesi spazi di
modernità, ma nello stesso tempo si creano spazi interstiziali all'interno di aree modernizzate, così come spazi
interstiziali tra aree modernizzate e aree non modernizzate. Se visti dalla prospettiva della geografia culturale, questi
spazi, nei quali emergono manifestazioni culturali nuove, caratterizzate da corredi nuovi di simboli e di significati,
potrebbero essere appunto fatti rientrare nella categoria concettuale delle eterotopie. Sotto questo punto di vista la
geo culturale del mondo può essere rappresentata come composta da un mosaico che comprende vasti spazi di
modernità in espansione, spazi di premodernità in riduzione e piccoli spazi interstiziali di protagonismo culturale.
Le riflessioni sulla globalizzazione potrebbero far pensare a un mondo che procede lungo la strada
dell'uniformizzazione. I processi di uniformizzazione richiamano l'idea di un centro, o di alcuni centri, che creano
simboli e li disseminano per il mondo. Il modello centro-periferia, ove il centro sarebbe un generatore di
occidentalizzazione attraverso reti mondiali e strategie globali, sarebbe dunque il presupposto stesso
dell'uniformizzazione. Questo scenario, che evocherebbe preoccupanti visioni orwelliane di riduzione del mondo a
schemi standardizzati, è ben lontano dal pensiero di Hannerz, che disegna invece uno scenario culturale nettamente
diverso: all'interno di spazi dominati dai rapporti centro-periferia generati dalla globalizzazione starebbero sorgendo
spazi con culture dinamiche, ove si innestano impulsi nuovi su una base tradizionale, dando luogo a una
"combinazione di diversità, interconnessione e innovazione". Verrebbero così a prodursi estesi spazi "creoli", nei
quali radici culturali antiche si troverebbero associate a innesti nuovi. La creolizzazione del mondo consisterebbe
dunque in un processo di diversificazione culturale accelerato dalla globalizzazione. Questa visione porta in campo il
tema della diversità culturale e induce a chiederci se stiamo andando incontro alla riduzione di diversità oppure
stiano sorgendo forme nuove di diversità. A questo proposito si può tenere presente che la parola "diversità"
possiede due significati:
un significato appartiene alla coordinata verticale, giacché la diversità riguarda l'articolazione sociale di una
stessa comunità; ad esempio, la trasformazione di una comunità da monoetnica in multietnica dà luogo a
una crescita di diversità verticale;
un altro significato riguarda la coordinata orizzontale, giacché la diversità culturale si esprime
nell'articolazione spaziale, che coinvolge luoghi e spazi contrassegnati da particolari simboli e significati;
sarebbe quindi il prodotto della geo dei simboli, sia di quelli prodotti dalla civiltà occidentale, sia di quelli
sorti in altre civiltà (Immagine pag.310: assetto del mondo in rapporto ai grandi sistemi culturali).
Epilogo: tra ipermodernità e postmodernità.
Huntington nota come l'Illuminismo abbia messo in cantiere tre concetti di civiltà, che si rincorrono nel discorso sulla
modernità e sull'occidentalizzazione del mondo. Il primo concetto è quello di civiltà attribuito alla singola comunità,
o a un gruppo di comunità tra loro integrate. In questo panorama rientrano civiltà tuttora vive e civiltà di cui restano
soltanto relitti. Nel loro insieme costituiscono il prodotto della diversificazione geografica e storica della capacità di
attribuire simboli alla realtà e di costruire significati muovendo dai simboli. La manifestazione più alta di questa
sequenza storica è l'universo di simboli e di significati creato nel contesto dell'Occidente; un universo di tale intensità
e vastità simbolica che ha provocato la divisione del mondo tra spazi che ne sono connotati e tutti di altri spazi. Da
questo processo è derivato il secondo concetto, cioè quello di civiltà occidentale, diventa il fulcro per rappresentare
il mondo contemporaneo. Il terzo concetto, frutto anch'esso del pensiero moderno, è quello di civiltà universale,
intesa come una base di simboli e di significati comuni a tutte le civiltà, sia di quelle esistenti sia di quelle estinte, e
che connoterebbe la specie umana nel suo insieme; ad esempio, alcune idee di fondo come quelle di progresso e di
solidarietà considerate valori universali. Questa condivisione è la prova dell'esistenza di una civiltà di fondo,
universale, di cui le singole civiltà sarebbero manifestazioni. Tomlinson interviene sul tema sostenendo che occorre
tenere distinte due manifestazioni:
– da un lato, v'è la cultura globalizzata, la quale si forma per effetto del trasferimento transnazionale di simboli e
significati prodotto dall'interconnettività complessa (vale a dire dalla globalizzazione);
– mentre dall'altro lato v'è la cultura globale, intesa come cultura unica, mondiale, propria del genere umano e
dunque coincidente con quello che Huntington chiama semplicemente "civiltà".
Rimanendo sul terreno proprio della geografia possono rivelarsi interessanti i termini con cui due atteggiamenti
sociali, rispettivamente propri dei cosmopoliti e dei locali, sono stati discussi da Hannerz e da Tomlinson. Mentre i
locali sono persone e gruppi umani con profili e prospettive culturali circoscritti al luogo in cui vivono (ad esempio, le
comunità dello spazio afgano); i cosmopoliti sono persone disponibile a percorrere il mondo e a immergersi in altre
culture, come ad esempio i ricercatori scientifici, che comunicano in inglese e nutrono la consapevolezza di
possedere piattaforme comuni per considerare il mondo. Non è detto che la consapevolezza della propria identità
culturale si attenui ma si affianca o ad essa si sovrappone la consapevolezza di condividere alcuni valori. Il
cosmopolita dell'età della globalizzazione non attribuisce contenuti ideologici a queste esperienze – quindi, è ben
lontano dall'idea di cosmopolitismo*, cioè dall'ideologia di non appartenenza ad alcuna nazione – ma ritiene
piuttosto di procedere lungo il cammino di quell'integrazione culturale tra le varie genti cui alludeva Kant quando
rifletteva sui destini del mondo.
La condivisione è ovviamente presente in altre categorie: funzionari e tecnici governativi, manager di impresa,
diplomatici, funzionari di organizzazioni internazionali, e così via. Il numero di questi hommes du monde sta
aumentando al punto da diventare una realtà sociale influente alla scala globale. In passato questi globetrotter
culturali provenivano soprattutto dall'Europa Occidentale e dal Nord America, poi dagli anni Novanta anche da altre
parti del mondo, sia dell'ex area sovietica e dalla Cina sia da paesi in via di sviluppo. Per il fatto che adottano modelli
di comportamento occidentali, e ne condividono simboli e valori, queste persone si trovano inserite in atmosfere che
potrebbero giocare a favore dell'occidentalizzazione del mondo. A ciò si aggiunge che esiste una relazione circolare
tra il compiere esperienze di cosmopolitismo e l'emergere di un gusto per una comunicazione culturale permanente
a livello globale: il primo rafforza il secondo e viceversa. Dunque, cosmopolitismo, occidentalizzazione e
globalizzazione appaiono come aspetti di un unico, avvolgente processo.
Secondo Hannerz questo processo potrebbe avere due esiti:
1) condurre alla scomparsa delle culture locali, con la conseguente eclisse di apparati simbolici che da sempre hanno
connotato i luoghi in base alle loro radici culturali;
2) un esito di segno contrario che consisterebbe non soltanto nella permanenza, ma addirittura in un rafforzamento
della diversità culturale.
Queste condizioni esistenziali, che si dispongono su itinerari divaricanti, l'uno diretto verso il declino della cultura
locale e l'altro verso la sua valorizzazione – addirittura verso la sua esaltazione grazie allo sfruttamento delle
possibilità offerte da processi globali – conferiranno ovviamente nuove connotazioni simboliche ai luoghi e agli spazi.
Ad esempio, la ricca simbologia che connota i mall delle città americane, australiane, del Sud-est asiatico e
dell’estremo oriente, fino ad arrivare all’Occidente, conduce a significati banali, edonisti e di consumo.
Questi due itinerari, che coinvolgono le condizioni esistenziali e le connotazioni di luoghi e spazi, possono essere
inseriti in discorsi scenariali. L'itinerario della "scomparsa delle culture locali" di Hannerz, associato alla simbologia
edonistica all'interno di una società che trova nell'espansione del consumo l'espressione della modernità, può essere
assunto come la componente di uno scenario che potremmo definire dell'ipermodernità, nel quale è configurata una
società che procede in termini accelerati verso la creazione e l'espansione di reti globali, vale a dire di strumenti di
mondializzazione, e nello stesso tempo verso l'attivazione di strategie globali, vale a dire verso la crescita della
globalizzazione. L'espansione dei consumi, resa possibile dalla standardizzazione alla scala globale di modelli di
comportamento sociale, associandosi al rafforzamento di strategie globali di persuasione, darebbe vita
all'accelerazione dei processi in atto, da quelli che coinvolgono la divisione internazionale del lavoro a quelli che
riguardano la produzione di beni e di servizi. Avrebbe luogo, in sostanza, ciò che è stato già descritto da Harvey
(1993) in termini di "postfordismo". Grazie a queste accelerazioni, la società moderna sarebbe esaltata e sarebbe
considerata come l'espressione più avanzata di un processo che è iniziato con la Rivoluzione industriale ed è
proseguito linearmente fino ai nostri giorni. Nello stesso tempo sarebbe esaltata la metanarrazione del progresso
quale traguardo cui sicuramente conducono una scienza sorretta dalla ragione e un ininterrotto sviluppo di
tecnologie. L'arricchimento della simbologia, essenzialmente edonistica, cui si è fatto riferimento non metterebbe in
causa questa metanarrazione, costruita nel secolo dei Lumi e continuamente rivitalizzata.
Il secondo itinerario, quello del rafforzamento della diversità culturale di Hannerz, associato alla produzione di
simboli che rappresentano la cultura locale in un quadro di comunicazione globale, condurrebbe a un altro scenario,
che potremmo chiamare delle postmodernità. In questo caso avrebbe luogo una reazione nei riguardi delle strategie
e dei messaggi diffusi attraverso la rete globale e la comunità locale produrrebbe visioni del mondo che, in vario
modo, differirebbero dalle visioni standardizzate diffuse attraverso i provider della comunicazione globale.
L'atteggiamento ostile verso le strategie globalizzanti potrebbe rivestirsi di valutazioni critiche nei riguardi della
modernità, soprattutto nei riguardi della metanarrazione del progresso e dell'esaltazione del modo razionale di
costruire conoscenza, che della modernità costituiscono appunto il fulcro. Queste visioni del mondo si
manifesterebbero attraverso una costruzione di simboli che, in varia misura, differirebbero da quelli, standardizzati,
finalizzati all'omogeneizzazione del mondo, e condurrebbero alla creazione di valori meno banali di quelli impliciti
nella metanarrazione di un progresso risolto nella mera espansione di senso edonistico. Emergerebbero ironia nei
riguardi della modernità, creazione di simboli antinomici a quelli moderni e incursioni nella cultura premoderna per
trarre spunti utili a costruire nuovi simboli e nuovi significati. E l'uomo postmoderno farebbe il proprio esordio come
protagonista di nuove frontiere culturali.