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Alcune persone (come gli antichi Greci) ritengono che le diversità sia fisiche, sia culturali degli
esseri umani dipendano dai fattori naturali terrestri. Questa teoria viene chiamata determinismo
ambientale ed ebbe una grande diffusione tra i geografi per poi essere rapidamente abbandonate,
perché:
• non era dimostrabile scientificamente la relazione di causa- effetto;
• fattori ambientali identici non necessariamente danno luogo a pratiche culturali o
comportamenti umani simili;
• era una semplice ideologia per giustificare il colonialismo di quel periodo.
In relazione ai paesaggi, dobbiamo parlare dell’analisi regionale, che non si limita solo ad
osservare la superficie, ma si occupa di indagare i fattori che determinano la diversità dei territori.
Tuttavia, le regioni non sono altro che delle costruzioni mentali, un modo di raggruppare i luoghi in
base a caratteristiche comuni. es—“la regione delle foreste” distinguo un insieme di foreste (per
caratteristica ambientale); La Ciociaria, la regione della provincia di Frosinone, che ha delle
caratteristiche particolari anche di cultura, di dialetti (regione di tipo culturale)
Possiamo individuare diversi tipi regioni. La prima distinzione che si può fare è tra regioni formali,
un’area definita in base a una o più caratteristiche fisiche o culturali distribuite uniformemente →
le Alpi sono una regione formale caratterizzata dai rilievi [In questa categoria rientrano le regioni
storiche, che sono aree che presentano omogeneità socioculturale dovuta al fatto che sono state
unite a lungo politicamente, come la Provenza in Francia]. E tra regioni funzionali, un’area in cui i
luoghi sono connessi tra loro da relazioni più intense → funzionali urbane (formate da una grande
città e da centri più piccoli che dipendono dalla prima— es. Napoli e i centri che le ruotano
attorno, da cui ogni giorno si trasferiscono tantissime persone per lavoro e/o studio). Abbiamo poi
le regioni economiche, ossia i vari tipi di distretti economici (industriali, tecnologici, turistici)
caratterizzati dalle forti relazioni che legano le imprese presenti al loro interno. Infine ci sono
anche le regioni istituzionali → gli Stati, le unioni di Stati e le unità politico-amministratrive. In
Italia abbiamo le regioni, le province, i comuni.
Le regioni italiane sono venti e sappiamo che di queste alcune sono a statuto speciale e altre a
statuto ordinario; Le cinque regioni a statuto speciale sono: Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Friuli-
Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige.
| Per ragionare come un geografo bisogna avere una certa curiosità per i luoghi del mondo e
connettere i fatti che si osservano sulla superficie terrestre per sviluppare un’analisi che includa i
concetti di: luogo, spazio, diffusione spaziale, interazione spaziale, territorio, scala.
LUOGO → Per luogo si intende una località con specifiche caratteristiche fisiche, culturali e sociali.
Ciascun luogo può essere identificato tramite:
- la sua ubicazione assoluta, o posizione geometrica, che viene misurata per mezzo della sua
latitudine, longitudine1 (sono semi-circonferenze che circoscrivono la terra) e altitudine;
- la sua posizione con riferimento agli elementi dell’ambiente circostante: si fa riferimento in
questo caso al sito, ovvero alle caratteristiche fisiche di un luogo, e di come forma del suolo,
vegetazione, acque…;
- la sua situazione (posizione geografica), in relazione al contesto più ampio con riferimento alla
rete delle comunicazioni e alle possibili relazioni del luogo con tale contesto, cioè cosa gli sta
intorno.
I luoghi sono importanti perché sono parte delle nostre identità. Infatti, possiamo parlare di senso
del luogo per indicare quel sentimento di appartenenza che le persone sviluppano nei confronti di
determinate località, che può svilupparsi verso uno o più luoghi. Il sentimento di appartenenza di
una persona ad un gruppo sociale (un quartiere, una città) è strettamente legato al suo senso del
luogo. Al giorno d’oggi, ognuno di noi può sviluppare un senso di appartenenza a più luoghi
diversi.
SPAZIO → Per spazio i geografi intendono un’estensione della superficie terrestre di dimensioni
non definite. Esistono diversi tipi di spazio ai quali si fa riferimento:
lo spazio assoluto, un’entità geometrica le cui dimensioni, distanze, direzioni e contenuti
possono essere definiti e misurati con precisione con la metrica corrente (metri,
chilometri). E’ lo spazio delle normali carte geografiche, dove ogni oggetto ubicato, ogni
luogo, ogni regione trovano una loro esatta collocazione.
lo spazio-tempo (che rientra nel concetto di spazio relativo) è uno spazio le cui proprietà
variano a seconda dei contenuti, cioè dei fenomeni che vi si svolgono. Un esempio è lo
spazio relazionale che è definito dalle interazioni umane e infatti può cambiare a seconda
delle persone e degli oggetti che vengono coinvolti. (es. gli scambi commerciali: quando
due paesi avviano degli scambi commerciali, creano uno spazio relazionale di tipo
commerciale, che esiste fino a quando vengono soddisfatte queste condizioni). Un altro
esempio è offerto dai social network, come facebook: quando si effettua il log-in per
entrare in uno di questi siti e si chatta con gli amici, si crea e si partecipa ad uno spazio
relazionale.
Lo spazio geografico, quindi, è sempre uno spazio relativo e relazionale, in quanto le sue proprietà
dipendono dalle relazioni e dalle interazioni che sussistono tra i soggetti e oggetti scelti per
l’indagine. Ogni geografia è la costruzione mentale di uno spazio relazionale, che risponde
all’esigenza sociale di conoscere la posizione di certi oggetti e soggetti e le relazioni che li legano
tra loro.
Adottare una prospettiva spaziale significa prestare particolare attenzione alle differenze tra un
luogo e l’altro, tra uno spazio e l’altro, nelle dinamiche della società e nei rapporti tra ambiente e
società. La variazione spaziale (cambiamenti nella distribuzione di un fenomeno da un luogo
1
* latitudine e longitudine sono le coordinate principali che si servono delle linee immaginarie meridiani e paralleli che
i geografi utilizzano per "tagliare" la superficie terrestre, ed entrambe si misurano in gradi perché sono grandezze
angolari dato che la terra non è piatta.
latitudine— distanza angolare di un punto dall'equatore (latitudine zero)
longitudine—distanza angolare di un punto dal meridiano zero (meridiano di Greenwich)
all’altro) e la correlazione spaziale (il grado in cui due o più fenomeni condividono una stessa
distribuzione e variazione spaziale) sono altri concetti chiave utilizzati dai geografi, entrambi usati
sullo studio della distribuzione spaziale dei fenomeni.
Il mondo nel quale viviamo sta diventando sempre più globale. La globalizzazione, ovvero la
crescente interconnesione e interdipendenza tra persone e luoghi in tutto il mondo, è il risultato
del dilatarsi progressivo in tutto il pianeta dell’interazione spaziale, ovvero di una relazione tra
due o più soggetti nel corso della quale essi si scambiano idee, merci, servizi e modificano le loro
azioni in relazione alle idee e ai comportamenti dell’altro. La globalizzazione è stata avuta quando
le reti di infrastrutture, o anche le comunicazioni virtuali, hanno cominciato a coprire l’intero globo
terrestre, permettendo a tutti i luoghi della Terra di interagire tra loro. Infatti, la forza trainante di
tale unificazione mondiale è stata l’economia capitalistica di mercato. Le interazioni spaziali a scala
globale hanno potuto svilupparsi con la penetrazione europea alla scoperta dei nuovi continenti.
Molto parziale è tuttora la globalizzazione del mercato del lavoro, che riguarda solo poche
categorie molto qualificate, mentre i lavoratori non qualificati dei paesi poveri che cercano di
raggiungere i paesi ricchi per trovare lavoro, o vengono respinti o diventano “clandestini”.
Ancora assente è poi la globalizzazione legislativa, specie per quanto riguarda i diritti umani e la
possibilità di regolamentare i mercati finanziari allo scopo di evitare le crisi economiche globali,
che riflettono negativamente sulla vita di miliardi di esseri umani.
Per spiegare meglio l’interazione spaziale, i geografi utilizzano la legge di Newton: le probabilità
che un cliente potenziale si rifornisca abitualmente in un centro commerciale è direttamente
proporzionale ai beni offerti e inversamente proporzionale alla distanza da percorrere per
raggiungerlo. L’effetto decrescente della distanza, dunque, è un fattore che influisce fortemente
sulla localizzazione di un’impresa o di un servizio pubblico.
Le innovazioni tecnologiche nei trasporti e nelle comunicazioni hanno reso possibile ridurre
l’attrito della distanza, facendo sembrare i luoghi più vicini l’uno all’altro. Questo processo,
studiato da David Harvey è stato chiamato compressione spazio-temporale, riferita alla radicale
trasformazione del nostro senso dello spazio e del tempo. Questo processo fa sembrare i luoghi
più vicini anche se rimangono lontani. La globalizzazione, infatti, non modifica la distanza assoluta
tra i luoghi, ma può cambiare la loro accessibilità e renderli più interagenti tra loro.
[LA TERRA è un ellissoide di rotazione perché tende ad essere allargata, ha una sorta di
rigonfiamento ad est e ad ovest dato dai due movimenti permanenti della Terra, uno di rotazione
attorno al proprio asse che va in senso orario e uno di rivoluzione attorno al sole in senso
antiorario. Il tempo che gira attorno al proprio asse è misurato in quelle che per convenzione
chiamiamo le 24h, l’alternanza giorno e notte che abbiamo suddiviso in maniera equa nel corso dei
millenni. E così anche il tempo che la terra impiega per tornare nella stessa posizione di partenza
rispetto al sole è l’anno solare 365 giorni e 6 ore che vengono sommate ogni 4 anni.
La circonferenza equatoriale misura 40.076 km, misurazione che riuscì ad essere calcolata in
maniera abbastanza prossima 39.000 km circa, da Eratostene, il primo a scrivere un libro intitolato
“Geografia” nel III secolo a.C. Il raggio equatoriale, invece, misura 6378 km, il raggio polare 6357
km. Questa differenza di 20 km circa mi dà la misura di questa forma di ellissoide.
Infine, la distanza tra il Sole e la Terra, se è massima è chiamata Afelio, se minima è Perielio.
La nostra superficie terrestre ha delle gobbe, delle profondità, delle bassure e delle alture, delle
montagne, delle altitudini, degli altopiani, non è perfettamente liscia come un ellissoide di
rotazione o una sfera precisa. Questo motivo la possiamo definire un geoide: la misurazione reale
che avviene tramite satellite e che tiene conto di queste irregolarità gravitazionali prodotte dalla
presenza di regioni montuose e di regioni meno dense come le depressioni oceaniche. Difatti il
geoide è quello che riesce a rappresentare le irregolarità diversamente dall’ellissoide.]
| C’è una varietà di strumenti diversi che si possono utilizzare nella ricerca sul campo. Tra questi ci
sono apparecchi tecnologici divertenti e relativamente nuovi, come il GPS, le immagini satellitari, i
sistemi informativi geografici (GIS), le mappe interattive, e anche strumenti più tradizionali, come
le carte, le fonti d’archivio, ecc. È necessario distinguere tra tecniche e strumenti. Le prime sono il
prodotto delle nostre conoscenze e capacità operative, mentre i secondi sono attrezzi che
utilizziamo per migliorare alcune nostre procedure e metodologie, come ad esempio la raccolta di
dati e la loro visualizzazione.
Dunque, le CARTE GEOGRAFICHE sono gli strumenti più associati alla geografia che ci permettono
di rappresentare e visualizzare la superficie terrestre (o di una sua porzione) ridotta, approssimata
e simbolica.
1. simbolica perché negli angoli della carta troviamo dei simboli, una leggenda che ci
permette di capirla e di leggerla. Nelle carte fisiche i colori si chiamano tinte
altimetriche e indicano l’altitudine.
2. approssimate, non soltanto perché è impossibile rappresentare esattamente in piano
la superficie curva della Terra, ma anche perché tra tutti gli oggetti presenti su di essa
ne vengono riprodotti solo alcuni, che a seconda degli scopi della carta vengono
ritenuti più importanti.
3. ridotta perché non si possono riprodurre le superfici reali nella rappresentazione su un
piano bidimensionale. Questa riduzione non è altro che una divisione e conduce al
concetto di scala, che rappresenta il rapporto di riduzione tra le distanze lineari
misurate sulla carta e quelle corrispondenti.
Le carte geografiche hanno una legenda, cioè una spiegazione dei simboli usati. La maggiore
difficoltà nella costruzione delle carte sta nel rappresentare in piano una superficie curva
deformandola il meno possibile. A tal scopo si ricorre a trasformazioni geometriche, dette
proiezioni cartografiche. Vi sono proiezioni che mantengono le proporzioni tra le distanze, in
questo caso si dicono equidistanti: sono di questo tipo le carte stradali. Possono invece mantenere
proporzionali le aree, in questo caso sono dette equivalenti: sono di questo tipo le carte polche ed
economiche. Oppure possono mantenere esatti gli angoli tra meridiani e paralleli, allora sono
detto isogone: di questo tipo sono le carte nautiche. Nessuna proiezione può conservare
proporzionali le distanze, lo arco e gli angoli tra meridiani e paralleli contemporaneamente. Le
deformazioni saranno maggior quanto più è vasta la superficie rappresentata, mentre per quelle
che rappresentano territori piccoli la deformazione non è avvertibile.
A seconda della porzione di superficie terrestre che si vuole rappresentare, le carte prendono
nomi diversi. I mappamondi o planisferi rappresentano il mondo intero. Le carte geografiche che
rappresentano un continente o un paese, con una scala che va da 1:50 milioni a 1:100.000, sono
tipo le carte turistiche e quelle stradali. Per rappresentare in maniera più dettagliata il territorio si
usano le carte topografiche, con una scala compresa tra il 100.000 e Il 10.000. Infine, il tipo di
carta più dettagliato, con scala inferiore al 10.000, si chiama mappa, che viene usata per esempio
per rappresentare i limiti delle singole proprietà, e in questo caso vengono dette mappe catastali.
Se rappresentano una città vengono dette piante. Le carte generali si distinguono in fisiche che
rappresentano i tratti naturali fondamentali (mari, monti, fiumi, laghi ecc.) e politiche, che, oltre a
pochi tratti fisici, riportano i confini degli Stati, le vie di comunicazione, le città e quanto è opera
dell'uomo.
Per lo studio di singoli fenomeni e delle loro variazioni correlazioni spaziali sono molto importanti
le carte tematiche. Esse possono anche rappresentare cose che non si vedono nel paesaggio, come
le caratteristiche sociali o economiche della popolazione, le diverse produzioni, la distribuzione
della ricchezza ecc. Le carte possono servire di base per rappresentazioni particolari dette
cartogrammi, in cui dei dati numerici sono riportati sulla carta rappresentati da colori e figure
diverse per identificare quel fenomeno. Un cartogramma molto usato in geografia è il
cartogramma a mosaico.
L’approssimazione > la sfera terrestre, definito geoide, ha forma sferica > se vogliamo
rappresentarla in un piano dobbiamo chiaramente modificarla, poiché non è possibile trasferire
una superfice sferica (tridimensionale) su un piano (bidimensionale). Es: pensate a quando
sbucciate un mandarino, se volete appiattire la buccia di quel mandarino chiaramente dovete
incorrere in delle rotture di quella carta o di quel pezzo di buccia perché effettivamente non può
essere trasposta la sfera su un piano bidimensionale e, quindi, attraverso delle strumentazioni
geometriche o matematiche cerchiamo di rendere quanto più simile la trasposizione sul piano di
quella sfera. Per contenere le deformazioni si ricorre alle tecniche di proiezione, uno scopo di
procedure matematiche e geometriche che servono a delimitare le deformazioni. Le tre grandi
famiglie di proiezioni sono: prospettiche, di sviluppo e convenzionale. Le proiezioni ci aiutano
proprio a trasporre la tridimensionalità della sfera sulla bidimensionalità del piano. In base a cosa
scegliamo le proiezioni? In base, ad esempio, a cosa si vuole rappresentare o lo scopo della
rappresentazione perché diverso è se ho bisogno di una carta che mi serva per le tratte marittime
o aerea, oppure per analizzare i rapporti geo-politici dei territori. Aldilà delle motivazioni per le
quali scelgo una proiezione piuttosto che un’altra (la proiezione che scelgo deve sempre essere
annunciata all’interno della mia carta perché se non lo facessi potrei incorrere in delle
deformazioni) esistono diversi tipi di proiezioni:
Le proiezioni Prospettiche -> nelle quali immaginiamo di avere un fascio di luce che illumina la
nostra terra e quindi la proiezione che deriva la andiamo a rappresentare come proiezioni
CENTOGRAFICA - la fonte luminosa al centro - STEREOGRAFICA - la fonte luminosa al polo -
ORTOGRAFICA - la fonte luminosa dall’altro;
Le proiezioni di Sviluppo -> secondo cui analizziamo quanto il calco della terra può essere
impresso su un cilindro o cono che avvolgiamo intorno alla nostra sfera.
Proiezioni convenzionali -> quando non vi sono dei calcoli geometrici che applichiamo
specificamente bensì cerchiamo di unire diversi tipi di traduzione per avere una rappresentazione
quanto più veritiera possibile. Perché ci interessano tanto queste proiezioni? Diversi tipi di
proiezioni generano diversi tipi di carte. Quando nell’ambito delle proiezioni scelgo di mantenere
inalterate le aree, parlo di proiezioni Equivalenti. Quando scelgo di mantenere inalterate le
distanze, parlo di proiezioni Equidistanti. Quando scelgo di mantenere inalterati gli angoli del mio
reticolato geografico, cioè delle porzioni matematiche, parlo di carte Isogone. Le tre proprietà
ovviamente non possono coesistere.
Non è rilevante quale tipo di carta geografica o di proiezione io sto usando ma sapere che quella
realtà che consideriamo oggettiva in realtà è una realtà costruita
matematicamente/geometricamente e che dobbiamo sempre decifrare per comprendere quali
sono gli errori che possiamo evitare nell’analisi stessa.
Qualsiasi cartografia si dice che è etnocentrica cioè centrata sul Paese che si pone al centro e
guarda verso il resto del mondo (es. quelle statunitensi sono centrate con l’America al centro).
La scienza che studia gli ecosistemi è l’ecologia. La sua etimologia significa “discorso/studio sulla
casa dell’uomo". Il primo teorico fu Haeckel che la definì come l'insieme di conoscenze che
riguardano l'economia della natura.
Con il termine ambiente si fa riferimento a tutti quei fattori viventi (biotici: persone, animali,
piante
—antroposfera/biosfera) e non viventi (abiotici: litosfera-rocce, idrosfera-acqua, atmosfera-aria),
con i quali persone, animali e altri organismi coesistono e interagiscono. L'insieme di questi
organismi, le interazioni tra loro e con l'ambiente, viene definito come ecosistema, ne è un
esempio è la Terra stessa, così come gli oceani, i deserti, le foreste pluviali, gli estuari, le praterie. Il
termine ecosistema viene usato per studiare le interazioni tra le diverse componenti
dell’ambiente, con riferimento a diverse scale. La terra è formata da diversi tipi di ecosistemi:
• L'ecosistema terrestre, formato da varie tipologie di suoli, ognuno dei quali dà vita a
degli ecosistemi diversi: tundra, savane, foreste, deserti e praterie;
• Gli ecosistemi acquatici, che si dividono in ecosistemi di acqua dolce (laghi, fiumi,
stagni) e salata (mari e oceani);
• Gli ecosistemi artificiali, definiti da Marx "natura costruita", come città e paesi ma
anche campi coltivati, perché senza il lavoro dell'uomo non ci sarebbe quel tipo di
territorio o quell'uso del suolo.
| Degradare qualcosa significa danneggiare una o più parti delle sue proprietà fisiche. Negli ultimi
decenni la biodiversità si sta fortemente impoverendo a causa dell’estinzione di molte specie. In
questo caso possiamo parlare di degrado ambientale antropogenico, cioè causato da attività
umane, e può essere diretto o indiretto: l’estrazione del petrolio sulla terraferma o in mare, per
esempio costituisce un rischio diretto per le persone e la natura, dovuto alle sostanze tossiche che
potrebbero essere rilasciate; la costruzione di strade in zone montuose o collinare può causare
l’instabilità dei versanti e le politiche governative che promuovono queste infrastrutture senza
considerarne gli impatti ambientali sono cause indirette di degrado ambientale.
Generalmente vi è degrado ambientale quando:
• una risorsa viene sfruttata a ritmi più rapidi di quelli della sua rigenerazione;
• le attività umane danneggiano la produttività a lungo termine o la biodiversità di un
luogo;
• le concentrazioni di sostanze inquinanti superano il massimo livello consentito da
leggi che tutelano la salute.
Un limite di questa definizione di degrado ambientale è che non riconosce come alcune attività
umane siano benefiche per l’ambiente (ad es. il ripristino di zone fluviali, ecc.).
| Le risorse di proprietà comune, dette anche beni comuni naturali, sono tutte quelle risorse
naturali, attrezzature o strutture condivise da una comunità di utilizzatori chiaramente
identificabili e che possono includere, ad esempio, foreste, pascoli, acque e zona di pesca. Nel
mondo molte persone che non possiedono una terra dipendono dai beni naturali comuni per
ottenere le risorse necessarie, come la legna da ardere, i beni alimentari e i pascoli per il bestiame.
Le risorse di proprietà comune differiscono dalle risorse a libero accesso, che sono beni sui quali
nessun singolo individuo ha pretese di esclusività e che sono disponibili a chiunque, come l’aria
che respiriamo, i mari, l’energia solare, i parchi nazionali. In alcuni casi, il controllo e l’utilizzo di
queste risorse sono sottoposti a regole ben precise, mentre in altri l’accesso ad esse è del tutto
libero.
Un argomento che ha molto interessato gli studiosi riguarda la relazione trai beni comuni, il libero
mercato e il degrado ambientale. Garret Hardin nel suo saggio The Tragedy of the Commons, si
chiede se il perseguimento dell’interesse individuale contribuisce al bene comune, fa l’esempio di
un pascolo comune aperto a tutti, i cui costi di mantenimento sono suddivisi tra i vari pastori
mentre i profitti sono a vantaggio del singolo. Ne deriva che l’interesse del pastore sia di
massimizzare il pascolo, ma se esso venisse perseguito da tutti coloro che lo utilizzano, il pascolo
verrebbe distrutto dal sovraffollamento. Hardin afferma che la proprietà privata provvede solo in
parte alla soluzione del problema della tragedia dei beni comuni, in quanto questa può prevenire il
degrado ambientale dei terreni, ma non serve ad esempio a risolvere l’inquinamento dell’aria in
quanto non può essere privatizzata. Per Hardin questo significava che le politiche governative,
incluse le tasse e le regolamentazioni sono indispensabili per prevenire la tragedia dei beni
comuni. Elinor Ostrom però ritiene che il limite nel lavoro di Hardin consista nell’errata
supposizione che le proprietà comuni siano prive di regole che ne governino l’utilizzo e che siano
quindi equiparabili alle risorse a libero accesso. Esse sono invece utilizzate e gestite secondo leggi
e pratiche tradizionali insite nelle comunità di utilizzatori. In Italia un esempio è fornito dalla
Magnifica Comunità della val di Fiemme. Ad esempio, i pescatori dello stretto di Torres nel nord
dell’Australia interrompono la pesca quando notano che il volume del pescato diminuisce.
La geografia della popolazione si occupa dell'analisi della spiegazione delle interrelazioni tra i
fenomeni della popolazione e il carattere geografico dei luoghi, guardando al variare di entrambi
nel tempo e nello spazio. Si avvale di alcuni strumenti propri della demografia > la scienza che si
dedica allo studio quantitativo dei fenomeni concernenti la popolazione considerata sia nei
caratteri in essa presenti in un determinato momento, sia nelle variazioni che intervengono in
conseguenza delle nascite e delle morti.
I cambiamenti irreversibili sul nostro ecosistema Terra possono compromettere a tal punto il
capitale naturale che non ci sono più possibilità di ricostruire gli elementi originali che lo
compongono. Un esempio di civiltà che ha esaurito tutte le sue risorse naturali ed è arrivata
all’estinzione è quella che popolava l’isola di Pasqua.
| PETROLIO
Sebbene non rinnovabile, il petrolio è una fonte di energia versatile per quei paesi industrializzati
che hanno le infrastrutture necessarie per poterlo estrarre, raffinare e trasportare. Il petrolio può
essere bruciato come carburante per il riscaldamento di edifici e per generare elettricità, oppure
raffinato e trasformato in benzina, cherosene o gasolio. Nell’ambito delle risorse non rinnovabili,
le riserve certe sono costituite dalla quantità stimata che potrebbe essere estratta in futuro, in
base alle attuali condizioni finanziarie, tecnologiche e geologiche. È importante ricordare che le
riserve certe, nonostante il nome, sono comunque misure stimate: non c’è modo di sapere con
certezza quanto petrolio contenga la Terra e anche se riuscissimo a calcolarlo, non ci sarebbe
alcuna certezza del fatto che saremmo in grado di estrarlo. L’ammontare delle riserve varia in base
all’ammontare dei consumi, alla scoperta di nuovi giacimenti o all’evoluzione di tecnologie
estrattive. Una stima di quanto dureranno ancora le riserve di petrolio viene espressa attraverso il
rapporto riserve/produzione ottenuto dalla divisione delle riserve totali rimanenti nel globo per la
percentuale annuale della produzione di petrolio. Dieci anni fa il rapporto R/P per il mondo era
41,6, l’intero petrolio del mondo avrebbe dovuto durare poco più di quattro decenni. Ma
recentemente si richiedono nuove stime. Secondo vari studiosi un tema di cui preoccuparsi è
quello di stabilire quando verrà raggiunto e superato il picco di produzione di petrolio nel mondo,
concetto sviluppato per primo da Hubbert, il quale segnalò anche che la produzione di petrolio
sarebbe scemata e che ciò avrebbe costretto la popolazione a cercare altre fonti di energia, con
serie conseguenze sull’economia globale. Il lavoro di Hubbert è importante perché focalizza
l’attenzione su una prevedibile transizione energetica.
Il maggiore produttore di petrolio a scala globale è l’Arabia Saudita. In generale, giocano un ruolo
importante i paesi del Golfo Persico, appartenenti all’OPEC — Organizzazione Paesi Esportatori Di
Petrolio, creata nel 1960. L’OPEC provvede a coordinare la produzione petrolifera tra i suoi vari
membri, funzionando come un cartello: cioè come un’intesa controlla la fornitura di un bene e
quindi il suo prezzo. L’efficacia del cartello dipende dalla capacità dei suoi membri di coordinare le
proprie produzioni. L’OPEC è formata per lo più da paesi africani (Libia, Algeria, Arabia Saudita,
Iraq, Iran, Nigeria, Qatar ed Emirati Arabi) e nasce in un periodo storico pieno di conflitti
internazionali che determinarono il primo shock petrolifero (1973). Le compagnie che si
formeranno verranno poi denominate corporation e si trasformeranno successivamente in
oligopolio (oligos—pochi; polio— controllo). Nel periodo in cui nascono le multinazionali di
petrolio, i paesi ora appartenenti all’OPEC erano molto poveri, condizione che li portò ad accettare
accordi con queste in cambi io di lavoro e dunque maggiori ricchezza nei propri paesi. Tuttavia, i
fondi ricavati non venivano dati a questi paesi ma a quelli in cui la multinazionale aveva sede, per
lo più dei paradisi fiscali che permettevano a queste multinazionali di evadere migliaia di euro. Gli
stati membri dell’OPEC controllano il 78-80% delle riserve accettate di petrolio e il 50% di quelle di
gas. Attualmente uno dei produttori più grandi di gas è la Russia, che però non rientra nei paesi
dell’OPEC. I più grandi consumatori di petrolio risultano essere la Cina (seconda consumatrice di
petrolio) e gli Stati Uniti d’America, che sono dl 2015 al primo posto sia come produttori sia come i
maggiori consumatori nel mondo. L’Italia e il Giappone, risultavano essere e lo sono tuttora le
due potenze che importano maggiormente petrolio, in quanto scarseggiano le risorse energetiche.
In Italia è presente una sola zona produttrice di petrolio, in Basilicata.
Il petrolio è un combustibile di origine fossile i cui prodotti vengono ottenuti tramite raffinazione
del greggio. Le raffinerie possono produrre derivanti del petrolio in quantità differenti anche se la
maggior parte della raffinazione è orientata alla produzione di carburanti, olio combustibile e
benzina. Tra i prodotti raffinati di notevole importanza vi è la produzione di sostanze chimiche per
la realizzazione di materie plastiche. L'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio negozia con
le campagne petrolifere aspetti relativi alla produzione, prezzi e concessioni e controllano circa il
78% delle riserve accertate di petrolio e quasi il 50% di quelle di gas.
| IL CARBONE
Il carbone deriva da depositi legnosi di alberi e piante parzialmente decomposte accumulatisi in
ambienti paludosi e poi ricoperto da altri sedimenti e compattato dalla forte pressione.
Il carbone è il combustibile fossile più abbondante e più diffuso al mondo e il combustibile più
usato per la produzione di energia elettrica. Più di settanta paesi dispongono di riserve lavorabili di
carbone e le principali concentrazioni si trovano negli Stati Uniti, in Russia e in Cina. Il rapporto R/P
del carbone indica che a livello globale le riserve potranno durare ancora 133 anni, in base ai ritmi
di produzione attuali. Le popolazioni usano il carbone come combustibile da migliaia di anni,
sfruttato per la produzione di energia elettrica e per la produzione di acciaio. La Cina dipende
pesantemente dal carbone e ne è contemporaneamente il maggior produttore e consumatore,
situazione analoga in Cina.
L’estrazione e utilizzo di questa risorsa presentano una serie di gravi problemi ambientali e sociali.
Il metodo di estrazione più controverso e diffuso è quello delle miniere a cielo aperto. I minatori
liberano la superficie da tutta la vegetazione poi, con potenti esplosivi, rimuovono la roccia che sta
sopra il giacimento e la traportano in aree libere nei dintorni. Infatti, in alcuni paesi c’è l’obbligo di
riempire le valli, ma ciò porta a un accumulo di materiale instabile che può causare frane. Negli
Stati Uniti una pratica analoga viene chiamata mountaintop removal, ovvero decapitazione delle
montagne. Oltre all’estrazione anche il suo utilizzo presenta seri problemi ambientali. Il carbone
brucia in maniera meno pulita di altri combustibili fossili, contribuendo all’inquinamento
atmosferico. L’utilizzo di combustibili fossili costituisce una delle maggiori fonti di inquinamento
per l’aria e contribuisce al fenomeno delle piogge acide. Oltre a rilasciare mercurio, la
combustione del carbone produce anidride solforosa e ossido d’azoto. Anche le ciminiere
rilasciano sostanze nocive nella fascia più alta dell’atmosfera, che poi vengono trasportate dal
vento.
| L’ENERGIA DA BIOMASSA
La biomassa, ovvero il materiale organico di un ecosistema, è un importante risorsa energetica in
tutto il mondo. Le più comuni fonti per le biomasse – animali o vegetali – includono legno,
carbone, residui di colture e letame bovino. A differenza dei combustibili fossili, l’energia da
biomasse può invece essere considerata rinnovabile, fino a quando la risorsa che la genera viene
gestita in maniera sostenibile. Esistono due maniere per ottenere energia dalle biomasse: una
diretta e una indiretta. Quella diretta consiste nel bruciare materiale non trattato e usare l’energia
per il riscaldamento. Il metodo indiretto invece comporta la conversione della biomassa in gas o
combustibile liquido con l’ausilio di microbi esistenti in natura. Il gas metano così prodotto può
essere usato per cucinare, riscaldare o illuminare. Gran parte della domanda globale di questa
risorsa deriva dal suo utilizzo come combustibile per cucinare. Un grosso problema associato alla
dipendenza dalla legna è che essa può intensificare lo sfruttamento esercitato sulle foreste locali e
alimenta l’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera.
| L’ENERGIA IDROELETTRICA
L’idroelettrico si afferma come la terza risorsa per la produzione di elettricità. Su base pro-capite il
Nepal ha uno dei maggiori potenziali idroelettrici del mondo. A livello mondiale, il maggior periodo
di costruzione di grandi dighe è stato tra gli anni 30 e gli anni 70 del 1900, quando molti esperti
ritenevano che queste enormi strutture avrebbero aiutato a risolvere il problema delle
diseguaglianze nello sviluppo economico, diminuendo la dipendenza dalle esportazioni e creando
occupazione. Le grandi dighe però apportarono numerosi problemi ambientali, infatti
interrompono il corso dei fiumi e alterano così l’ecosistema dei fondali. Oltre all’impatto fisico
sull’ambiente, la costruzione delle dighe ha pesanti conseguenze per le popolazioni, causando
trasferimenti forzati o la perdita dei mezzi di sussistenza. Oggi le piccole strutture idroelettriche
(PSI) vengono preferite ai grandi impianti, ai quali rappresentano un’alternativa più sostenibile. A
seconda delle caratteristiche del fiume e del sito nel quale vengono installate, queste piccole
centrali riforniscono di energia le comunità locali o singole unità domestiche. Tra i maggiori
produttori di energia idroelettrica c’è la Cina con la sua diga delle Tre Gole.
L’acqua muovere la turbina che si trasforma in un albero di trasmissione, che trasforma l'energia e
la porta alle linee di alta tensione.
| L’ENERGIA GEOTERMICA
L’energia geotermica deriva dall’interno della terra. Alte pressioni combinate al lento decadimento
radioattivo di elementi del nucleo del pianeta, producono enormi quantità di calore che vengono
assorbite dai materiali rocciosi circostanti. L’energia geotermica viene sfruttata scavando pozzi in
profondità per raggiungere le riserve sotterranee di acqua riscaldata. Quest’acqua può essere
utilizzata come fonte diretta di calore per le case o altri edifici, o può essere convertita in vapore
per azionare turbine e generare energia elettrica: in Islanda il geotermico costituisce il 25% della
produzione energetica. Un tipo di energia geotermica è anche quello utilizzato dalle pompe di
calore, congegni più o meno sofisticati in grado di sfruttare piccole differenze di temperature tra il
sottosuolo o le acque sotterranee e l’esterno, per accumulare energia termica, destinata di solito
al riscaldamento domestico o al condizionamento dell’aria.
| LA CARBON FOOTPRINT
L'anidride carbonica è uno dei principali fattori presi in considerazione dagli studi sul
surriscaldamento globale. Essa persiste nell'atmosfera per lunghi periodi di tempo. I più ricchi e
industrializzati paesi della Terra contribuiscono a quasi metà delle emissioni di anidride carbonica,
mentre i paesi dell'Africa subsahariana generano meno del 3% delle emissioni totali di questo gas.
I due maggiori produttori del principale gas serra sono Cina e Stati Uniti. Negli ultimi anni si è
diffuso il concetto di carbon footprint (impronta di carbonio) ovvero la quantità di anidride
carbonica emessa dalle attività umane, che rende evidente ad esempio come le emissioni totali di
passi come la Cina e l'India sovrastino quelle dei paesi più poveri. Per promuovere la responsabilità
ambientale e la diffusione dell'energia pulita, Carbonfund.org ha ideato la compensazione delle
emissioni di anidride carbonica, un modo attraverso cui le imprese o i privati cittadini possono
offrire un contributo economico al fine di supportare le energie rinnovabili.
Gli scienziati riconoscono che un altro fattore d'impatto sul clima globale è rappresentato dai
cambiamenti nell'uso e nella copertura del suolo. Ad esempio, la conversione di zone boschive in
campi coltivati, la bonifica di zone umide, l'espansione delle città e delle aree asfaltate. Non tutti
questi cambiamenti, comunque, sono direttamente indotti dalle attività umane. La siccità o altri
stress naturali, per esempio, possono influenzare la capacità della vegetazione di rigenerarsi e
alterare le biodiversità locali o regionali. Nelle foreste pluviali dell'Amazzonia brasiliana, per
esempio, la deforestazione è stata uno degli aspetti principali dei cambiamenti nell'uso del suolo,
in particolar modo a partire dagli anni ‘80. La deforestazione spesso determina temperature più
caldo e condizioni climatiche più secche perché meno acqua evapora dalla vegetazione
all'atmosfera, condizioni che hanno importanti conseguenze sulla formazione delle nubi e di
conseguenza sui cicli delle piogge.
Gli indicatori demografici sono dei dati che permettono di riconoscere alcuni fenomeni relativi alla
popolazione di una certa zona geografica. Questi sono:
• densità (abitanti per kilometro quadrato);
• tassi di natalità e mortalità;
• saldo naturale (differenza tra natalità e mortalità);
• saldo migratorio (differenza tra immigrati ed emigrati);
• popolazione urbana;
• fecondità;
• speranza di vita;
• speranza di vita alla nascita;
• vita media;
• vita probabile.
LA FERTILITÀ
La fertilità, che in generale indica la possibilità di avere dei figli, fa riferimento al numero di nascite
all’interno di una determinata popolazione (natalità). Questa, così come la mortalità, influenza
fortemente i cambiamenti demografici ed è condizionata da fattori biologici, economici, sociali,
politici e culturali. Per misurare la fertilità i geografi utilizzano due indicatori: tasso di natalità
(numero annuo di nati vivi ogni mille abitanti) e tasso di fecondità di una popolazione (numero
medio annuo dei nati vivi per donna in età feconda tra i 15 e i 50 anni). Questi fattori consentono
di valutare le dimensioni dei nuclei familiari e di effettuare delle previsioni sulla popolazione.
Quando questo tasso ha un valore di 2,1 figli per donna, si dice che la popolazione ha raggiunto il
livello di sostituzione delle generazioni, quello necessario ad una popolazione per consentire di
riprodursi senza diminuire di numero.
La fertilità varia di paese in paese e da regione a regione. Essa può venire condizionata da fattori
biologici ma anche da modelli culturali che ne regolano la riproduzione. I tassi di fecondità più
elevati li troviamo nelle popolazioni in cui le donne diventano sessualmente attive molto presto e
che si sposano in giovane età. In alcuni paesi in via di sviluppo, le discriminazioni di genere
pongono le donne in una condizione subordinata, impedendo loro di esprimersi riguardo alla
pianificazione familiare, e i figli vengono considerati solo per il contributo economico che possono
portare alla famiglia in termini di lavoro e guadagni.
Anche se spesso alla povertà vengono associati alti tassi di fecondità, la relazione tra questi due
fattori è più complessa di come sembra ed è legata, ad esempio, al fatto che le persone con un
reddito inferiore hanno spesso un grado di istruzione più basso. La fecondità varia, infatti, in base
ai paesi, alle regioni e ai gruppi sociali.
I governi possono controllare la fertilità, introducendo politiche nataliste o anti nataliste, per
incentivare o limitare la crescita della popolazione, influenzando i comportamenti riproduttivi delle
persone e di conseguenza i tassi di fecondità. Il tasso di fecondità totale della Francia (2,0 figli x
donna) è in linea con la media mondiale, ma è più elevato di quello degli altri paesi europei grazie
anche a politiche nataliste a sostegno delle famiglie, che promuovono l’uguaglianza di genere e
permettono il lavoro delle giovani coppie di genitori (interventi come sostegni agli asili, protezione
dell’occupazione, ecc..). La Cina, ad esempio, ha applicato rigide leggi anti-natalità per regolare il
tasso demografico, imponendo alle famiglie di avere un unico figlio in quanto si riteneva che la
crescita della popolazione avrebbe limitato lo sviluppo del paese. È stata avviata infatti la
cosiddetta ‘’politica del figlio unico’’ applicata in alcune parti del territorio cinese. Alle famiglie che
appartengono ad alcune minoranze etniche, per esempio, è consentito avere fino a 3 figli e alle
coppie che vivono nelle aree rurali è concesso un secondo figlio, a patto che il primo sia una
femmina e che tra le due nascite trascorrano almeno 5 anni. Queste politiche hanno portato il
tasso di fecondità a scendere al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni, con la
conseguenza che nei prossimi decenni ci sarà un numero crescente di anziani a carico della
popolazione più giovane e questo ha indotto le autorità cinesi ad allentare la stretta antinatalista.
LA MORTALITÀ
Accanto alla fertilità, un altro principale fattore che influenza le dinamiche demografiche è il tasso
di mortalità, che è il rapporto tra il numero delle morti in una certa popolazione in un dato
periodo di tempo (solitamente un anno) e l’ammontare medio della popolazione nello stesso
periodo. Paesi con basso tasso di mortalità sono per esempio il Qatar e il Kuwait (2 morti ogni
1000 abitanti), con alto tasso ritroviamo la Sierra Leone (con 23 morti ogni 1000). Così come la
fecondità, anche la mortalità può essere influenzata da fattori politici (guerre), economici, sociali o
naturali (epidemie). I disastri naturali possono portare ad un improvviso incremento di decessi,
come si è verificato a New Orleans, dopo prima dell’uragano Katrina, il tasso di mortalità era 11,3
mentre dopo 14,3. Tra i fattori politico-sociali oggi ci sono le guerre e le guerriglie locali. Nei paesi
più poveri spesso non sono disponibili medici, ospedali, vaccinazioni, medicine. È importante
ricordare che i tassi di mortalità non sono indicatori della qualità della vita o della salute della
popolazione di un paese.
L’INDICE DI MASCOLINITÀ
L’indice di mascolinità è uno strumento per analizzare la composizione di una popolazione per
sesso, ovvero il rapporto in percentuale tra il numero dei maschi e quello delle femmine di una
popolazione. I fattori che possono creare una disparità tra il numero di uomini e donne è il tasso di
mortalità degli uomini che hanno durata media inferiore rispetto alle donne. Anche le guerre e le
dinamiche migratorie possono incidere sull’indice di mascolinità. Alcuni paesi asiatici, tra i quali
l'India e la Cina, hanno indici di mascolinità particolarmente elevati. In entrambi i paesi una delle
cause di questo squilibrio va ricercata nella forte preferenza culturale che viene attribuita alla
nascita di un figlio maschio, anche se in Cina è determinante anche il ruolo della politica del figlio
unico. I mass media e varie istituzioni religiose, educative, politiche o aziendali contribuiscono a
rafforzare le divisioni dei ruoli di genere, come dimostra il fatto che anche in molti paesi
democratici le donne per molto tempo non furono ammesse al voto. La persistenza di ruoli di
genere può contribuire allo sviluppo di disuguaglianze di genere, cioè disparità tra uomini e donne
per quanto riguarda opportunità, diritti, benefici, comportamenti e status sociale. Il diritto di voto
fu concesso alle donne, per esempio, a partire dal 1918 negli Stati Uniti o nel Regno Unito, in
Francia e in Italia, soltanto nel 1946, rivelando una visione radicata e difficile da modificare
riguardo ai ruoli di genere.
In molte parti del mondo, i ruoli di genere sono influenzati da tradizioni antiche, che ancora oggi
condizionano la vita delle famiglie e delle comunità, Alcune donne islamiche e induiste, per
esempio, praticano la purdah, ovvero indossano abiti che coprono interamente il corpo, lasciando
scoperte solo piccole porzioni del volto. Questa tradizione è solo uno degli elementi della
segregazione sociale delle donne, pensato non solo per impedire che esso vengano viste da uomini
con i quali non hanno vincoli di parentela, ma anche per definire i comportamenti considerati
accettabili e i ruoli di genere. In Arabia Saudita, ad esempio, dove la segregazione della
popolazione femminile è sancita dalla legge, alle donne non è stato fino a oggi consentito guidare
ed è necessario un permesso scritto da parte di un uomo della famiglia perché ad esse venga
permesso di imbarcarsi su un aereo. In tutto il paese, inoltre, esistono banche con sportelli
separati per uomini e donne, oltre ad università e Iuoghi di lavoro esclusivamente maschili o
femminili, secondo un rigido sistema di segregazione istituzionale, che solo negli ultimi vent'anni
ha consentito alle saudite di aspirare ad alcune carriere lavorative, come quella di giornalista o di
architetto. L’indice di disuguaglianza di genere (gender gap index) è un indice creato nel 2006 per
valutare quanto siano efficaci le misure adottate in molti paesi del mondo per ridurre le
disuguaglianze di genere, in termini economici, politici e di salute.
| LE MIGRAZIONI
Oltre a tener di conto il tasso di natalità e mortalità di un paese, dobbiamo considerare anche le
migrazioni, gli spostamenti permanenti di una persona o di un gruppo dal proprio luogo d’origine
a un altro, e perciò va distinto dalla circolazione delle persone che comprende migrazioni
temporanee e movimenti pendolari (in quel caso parliamo di circolazioni → lo spostamento
temporaneo, spesso ciclico, dal proprio luogo d’origine ad un altro luogo). Ogni migrazione
prevede un’emigrazione, la partenza da un luogo e un’immigrazione, l’arrivo in un altro luogo. Il
calcolo del saldo migratorio netto considera i cambiamenti nella popolazione di un determinato
luogo in seguito alle immigrazioni e alle emigrazioni: saldo migratorio netto = immigrati – emigrati.
Il cambiamento demografico, quindi, può essere calcolato attraverso l’equazione demografica, che
considera la crescita naturale di una popolazione e il suo saldo migratorio in un determinato
periodo di tempo.
I profughi ambientali sono coloro che emigrano per cause legate ai cambiamenti climatici del
pianeta, quali siccità e desertificazione, innalzamento del livello marino, inondazioni. Le migrazioni
ambientali si presentano problematiche perché si risolvono sempre più spesso nello sradicamento
definitivo di milioni di persone dalle loro terre. Tali profughi comprendono intere famiglie con
bambini che necessitano istruzioni e anziani non più autosufficienti, senza più averi e questo
aggrava sui paesi confinanti che li ospitano. L’Italia, per la sua posizione a cavallo tra un continente
particolarmente vulnerabile quale l’Africa e l’Europa mediterranea anch’essa a rischio siccità, sarà
particolarmente coinvolta nel problema, anche a causa del grande sviluppo delle sue coste che
rappresentano un facile approdo. In questa situazione non è sufficiente l'intervento umanitario dei
singoli paesi coinvolti, ma è l'intera comunità mondiale che deve farsi carico del problema.
ITALIA
Fino alla metà del XX secolo, l’Italia, insieme a Spagna, Grecia e Portogallo fu tradizionalmente
esportatrice di manodopera. Fino al XIX secolo la maggior parte dei migranti si recava in America;
in molte città, come New York, si creano interi quartieri popolati da italiani, mentre in Brasile e In
Argentina la maggior parte si stabiliva in campagna, a lavorare la terra. Un'altra grande ondata
migratoria si ebbe dopo la Seconda guerra mondiale, soprattutto verso l'Europa centro-
occidentale, il Canada e l’Australia. In seguito, a partire dagli anni ’70, con lo sviluppo dell’industria
e il conseguente aumento dei posti di lavoro, l’emigrazione verso l’estero diminuì notevolmente e
l’Italia da paese di emigranti divenne invece un paese di immigrazione. I principali fattori che
hanno favorito il flusso migratorio in Italia sono due:
- la vicinanza alle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo e il grande sviluppo
delle coste che ne fanno la principale porta d'ingresso dell'Europa, sia per i cittadini
africani che per quelli dei paesi balcanici;
- la differenza socioeconomica tra l’Italia e i paesi di provenienza degli emigranti, che
funziona da richiamo per molte persone che sperano di migliorare le loro condizioni di
vita.
I principali paesi di provenienza sono nell'ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina.
Questi dati pongono l'Italia al quarto posto per numero di immigrati in Europa, dopo la Germania,
il Regno Unito, la Francia e la Spagna, La distribuzione degli stranieri residenti sul territorio italiano
non è uniforme: I'84 % degli stranieri risiede nel Nord e nel Centro del Paese, il restante 16% nel
Mezzogiorno. Le concentrazioni maggiori di immigrati si hanno a Roma e a Milano, ma essi sono
presenti in tutte le grandi città sia del Nord che del Sud; alcuni gruppi sono insediati in centri
minori (cinesi a Prato dove lavorano nell'industria tessile) o in aree rurali per svolgere lavori
stagionali come la raccolta della frutta (Emilia-Romagna, Piemonte, Calabria), oppure per dedicarsi
alla pastorizia. A partire dagli anni Settanta, tan alla fine del secolo scorso il grappo più numeroso
era appresentato da cittadini detti comunemente extracomunitari (cioè non appartenenti
all'Unione europea), provenienti soprattutto dall'Albania, da paesi africani, sud -americani e
asiatici. Nell'ultimo decennio un fenomeno nuovo, ancora in corso, ha riguardato il nostro paese:
l'arrivo di migliaia di immigrati, in gran parte profughi, provenienti dalle coste africane, sbarcati
lungo le coste meridionali delia penisola. Nel 2011 un primo flusso, formato in gran parte da
tunisini, fu determinato da quella che fu chiamata «primavera araba», movimento di protesta –
sfociato in manifestazioni e scontri con le forze dell'ordine fino a giungere, in alcuni paesi, alla
guerra civile – scatenatosi nella maggioranza dei paesi arabi della sponda mediterranea dell'Africa,
dalla Tunisia, al Marocco, all’Egitto fino alla Libia, i cui cittadini chiedevano una svolta democratica
di loro governi.
AFRICA
Gli africani costituiscono il 9% di tutti i migranti internazionali e sono molte le migrazioni tra gli
stati del continente. Per molti anni le miniere e le piantagioni aperte dagli Europei nelle colonie
hanno sfruttato la forza lavoro africana, gettando le basi per flussi migratori che durano tuttora. In
paesi come il Sudafrica, ricchi di miniere, o come la Libia, ricca di petrolio, attirano numerosi
lavoratori dai paesi circostanti. Inoltre, sono presenti anche numerosi profughi interni, persone
costrette ad abbandonare le proprie località d’origine per migrare verso un’altra regione dello
stesso paese. Soprattutto si tratta di flussi provenienti dall’Africa sub sahariana verso Marocco,
Libia e Tunisia. I disordini interni dei paesi del Maghreb e soprattutto la guerra in Libia, hanno
portato migliaia di africani a fuggire verso l'Europa, sbarcando con mezzi di fortuna sulle coste dei
paesi del Mediterraneo. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo deve affrontare la questione
della cosiddetta fuga di cervelli, l’emigrazione verso l’estero delle persone più istruite e preparate,
che vanno in cerca di luoghi dove possano ottenere guadagni superiori e una migliore qualità della
vita. L’Africa è la regione del mondo dove il problema della fuga di cervelli raggiunge le proporzioni
più preoccupanti: ogni anno oltre il 10% dei professionisti del settore sanitario dei paesi africani
emigra, mettendo a rischio la capacità di questi stati di gestire le emergenze sanitarie. Nel
continente africano anche le guerre continuano ad incidere in modo decisivo sui flussi migratori.
ASIA
Gli asiatici costituiscono il 25% dei migranti in tutto il mondo. Un aspetto importante delle
migrazioni asiatiche è rappresentato dal movimento dei rifugiati, presenti in Asia in proporzioni
superiori a quelle delle altre regioni del mondo, in particolare provenienti da paesi di guerra come
l’Afghanistan e l’Iraq. Nell’Asia orientale e meridionale, la maggior parte delle migrazioni avviene
all’interno dei confini dello stesso paese, in particolare nelle aree rurali verso le città, come accade
in Cina. I paesi asiatici con il maggior numero di cittadini che vivono all'estero sono la Cina (40
milioni, India (20 milioni), le Filippine (8 milioni) e il Pakistan (4 milioni), mentre quelli con il
maggior numero di emigrate di sesso femminile circa il 60%, sono le Filippine, lo Sri Lanka,
l'Indonesia. In alcune parti dell'Asia molte donne e molti bambini sono costretti a migrare, a causa
del traffico di esseri umani, spesso usato per rifornire il mercato della prostituzione o per ottenere
forza lavoro da sfruttare. Anche se mancano statistiche precise sul volume globale del traffico di
esseri umani, si stima che questo crimine coinvolga tra i 2 e i 4 milioni di persone ogni anno,
soprattutto nel sudest asiatico, da dove le vittime partono per destinazioni come il Giappone, la
Thailandia, la Malaysia e la Cambogia.
IL TRANSNAZIONALISMO
A partire dagli anni ’90, molti esperti hanno iniziato ad interrogarsi sull’impatto della
globalizzazione sulle migrazioni internazionali, in particolare quelle del contesto latino-americano.
Da questi studi è emerso che spesso tra gli aspetti dell’identità del migrante c’è il transazionalismo
(economico quando riguarda i rapporti finanziari comunitari tra i migranti e il proprio paese
d'origine; socioculturale quando si istituiscono dei legami politici, sociali o familiari nei valori e
nelle pratiche dei paesi delle comunità d’origine, es—diffusione di specialità gastronomiche nei
paesi di arrivo dei migranti, celebrazione di feste tradizionali o costruzioni di luoghi di culto). Il
transnazionalismo è il processo mediante il quale i migranti costituiscono reti di interazioni che
legano tra loro il paese d’origine e quello di insediamento. Il suo sviluppo è favorito dalla
globalizzazione e dalla crescente interconnessione tra i luoghi. Questo fenomeno è
particolarmente importante per i geografi e i demografi poiché dimostra che la migrazione implica
un sistema di circolazione nel quale i flussi migratori non sono semplicemente uni-direzionali, ma
mettono in moto sempre dei contro-flussi in senso opposto. La testimonianza più evidente di
questi contro flussi ci viene data dalle rimesse dei migranti, ovvero denaro, beni e servizi che
questi inviano nei propri paesi d’origine. Esso si manifesta ad esempio nella diffusione di specialità
gastronomiche nei paesi di arrivo dei migranti. Il caso più diffuso In America e in Europa è quello
della cucina cinese.
L’interconnessione e l’interazione tra chi vive in una stessa regione o in diverse regioni del mondo
dipende in buona parte dalla capacità di comunicare. Tutti noi usiamo il linguaggio nel corso della
nostra vita dandolo per scontato e dimenticando quanto sia importante per il funzionamento della
società e per definire la nostra identità. C’è uno stretto rapporto tra la cultura a cui apparteniamo
e il linguaggio in cui ci esprimiamo, di conseguenza la geografia delle lingue corrisponde ad una
geografia delle culture. Lo prova il fatto che volendo suddividere il mondo in aree o regioni
culturali diverse tra loro, l’indicatore più efficace è quello delle lingue. Infatti, le lingue si
distribuiscono sul pianeta per regioni omogenee, caratterizzate dal fatto che in ciascuna di esse la
maggioranza degli uomini e delle donne comunicano tra loro in una determinata lingua. Quando
due persone parlano la stessa lingua si innesca un processo di interazione comunicativa fondato
sul fatto che i parlanti sanno quali significati attribuire ai simboli rappresentati dalle parole e come
utilizzarli per costruire concetti complessi. Ogni lingua presenta poi al suo interno varianti
geografiche e sociali dette dialetti. Non è semplice definire i dialetti, ma in genere le lingue sono
dei dialetti impostati sugli altri in un’area più vasta di quella originaria, per motivi letterari, sociali e
politici. Alcuni dialetti sono considerati vere e proprie lingue, sono parlati in aree ristrette. Oltre ai
dialetti abbiamo anche le lingue minoritarie.
Il linguaggio → è un sistema di comunicazione basato su simboli ai quali vengono attribuiti
significati condivisi.
Il dialetto → è una varietà linguistica usata tra di loro da abitanti originari di una particolare area
geografica, in aggiunta alla lingua ufficiale.
La lingua → è un idioma che si è imposto sugli altri in un’area più o meno vasta per motivi
letterari, sociali o politici.
La lingua minoritaria → è una lingua usata nel territorio di una lingua ufficiale da un gruppo di
persone meno numeroso del resto della popolazione.
Anche i fattori socioculturali possono influenzare lo sviluppo di una lingua. L’assenza di una parola
in una lingua non implica comunque che questa non sia in grado di esprimere uno stesso concetto
utilizzando altri termini o perifrasi. Anche se siamo abituati a considerare la lingua come un
sistema di comunicazione parlato o scritto, esistono tipologie di linguaggio che non possono essere
sviluppate oralmente e tantomeno sotto forma scritta. Il linguaggio dei segni, ad esempio, è
utilizzato per comunicare con persone che non sono in grado di sentire o parlare, sostituendo i
suoni con i movimenti del corpo e delle mani. Esso è diverso da paese a paese. Un altro tipo di
linguaggio è la lingua tattile, la cui più nota espressione è il sistema Braille, che si serve di una
serie di punti in rilievo per rappresentare lettere, numeri o simboli.
Un’ulteriore distinzione è quella tra lingue naturali, nate ed evolutesi nel corso della storia delle
comunità umane, e lingue artificiali, inventate intenzionalmente dall’uomo per facilitare la
comunicazione internazionale o anche nazionale, o come lingue di mondi di finzione, come nel
caso della lingua degli elfi del Signore Degli Anelli. Alcune lingue artificiali sono state ideate con il
proposito di creare una lingua universale che potesse essere parlata e compresa in tutto il mondo,
come nel caso dell’esperanto, inventato da un medico polacco nel XIX secolo, con una grammatica
molto semplice e regolare. Queste lingue artificiali, però, non sono mai riuscite ad imporsi perché
non c’è una cultura universale.
LE MINORANZE LINGUISTICHE
Le minoranze linguistiche sono comunità storicamente insediate in un territorio, che oltre alla
lingua ufficiale del Paese, parlano una lingua minoritaria diversa dalla lingua più diffusa in un dato
paese. Le lingue minoritarie sono molto numerose. In Europa, per esempio, oltre le 11 lingue
ufficiali, sopravvivono altre 60 lingue minoritarie. Si calcola che 40 milioni di persone usi una lingua
diversa da quella della maggioranza della popolazione nazionale. Di queste, alcune come il
Catalano, CHE è parlato da circa 7 milioni di persone in Spagna, Francia e nella zona di Alghero, in
Italia, sono molte diffuse nel territorio, mentre altre come il Sarni, che è una famiglia di lingue
parlate da popolazioni della Finlandia, Svezia e Norvegia, sono a rischio di estinzione. La varietà di
linguaggi rappresenta una ricchezza che è importante conservare come un patrimonio, per questo
il Consiglio d’Europa ha stabilito di proteggere e favorire iniziative di promozione delle lingue
minoritarie, riconoscendo alcuni fondamentali diritti, come l’insegnamento nelle scuole, l’uso nelle
pubbliche amministrazioni, ecc..
DIALETTI E TOPONIMI
I dialetti sono idiomi subordinati ad altri, generalmente affini, che in un certo momento della
storia si sono imposti come lingue sovraregionali, di regola nazionali. In Italia, ad esempio, fu
scelto per la prima volta come linguaggio letterario nel medioevo da autori come Dante, Petrarca e
Boccaccio. I dialetti sono diversi l’uno dall’altro, in base alla loro grammatica, al loro vocabolario e
alla pronuncia delle parole. Quando sentiamo parlare italiano con accento diverso, significa che
quell’individuo nella sua regione parla un dialetto e di questo se ne occupa la geografia dialettale,
che studia la distribuzione spaziale dell’uso dei diversi dialetti.
Com’è noto, l’italiano deriva dal toscano letterario, che dopo essere stato utilizzato dai grandi
scrittori, che lo ritennero tra i linguaggi parlati al loro tempo in Italia, quello che meglio si
ricollegava al latino, nel corso dei secoli si è poi trasformato nella lingua italiana. Nel 1861, quando
per la prima volta il nostro paese fu unificato nel Regno d’Italia, la maggioranza degli italiani si
esprimeva ancora nel dialetto locale e la lingua italiana era parlata solo da una minoranza di
persone colte. In seguito, grazie all’istruzione obbligatoria, alla leva militare, alle trasmissioni radio
e poi alla televisione, la conoscenza dell’italiano si è diffusa in tutta la penisola. Oggi l’italiano è
lingua ufficiale in Italia, Svizzera, a San Marino e nella Città del Vaticano. È inoltre una delle 27
lingue ufficiali dell’Unione Europea. In Italia il 44% parla italiano corretto, il 51% lo alterna con un
dialetto, il 5% parla solo dialetto. La maggior parte delle lingue e dei dialetti in Italia, a cominciare
dalla lingua italiana, derivano dal latino. Esso si modificò nel tempo e si ibridò con le lingue
originarie parlate da etruschi, celti, greci, ecc., di cui restano tracce nei linguaggi odierni. I dialetti
italiani sono molto numerosi e si dividono in 6 grandi gruppi: 1. gallo italico e veneto (Italia padana
e settentrionale), Toscano-Corso, Marchigiano-Umbro-Romanesco, Abruzzese-Molisano-Pugliese-
Campano- Lucano, Siculo-Calabrese meridionale-Salentino (Italia peninsulare). E poi altri idiomi
caratteristici, ad esempio il Ladino, e altre lingue parlate al di fiori dell’Italia, come il Tedesco e lo
Sloveno.
L’INESISTENZA DELLE RAZZE UMANE Il concetto di << razza >> deriva dall’idea, scientificamente
infondata, ma storicamente diffusa e influente, che si possano utilizzare uno o più tratti somatici
per suddividere gli esseri umani in categorie distintive e esclusive. Il naturalista Carlo Linneo, padre
del sistema di classificazione delle specie animali e vegetali utilizzato ancora oggi, fu il primo, nel
XVIII secolo, a identificare 4 grandi gruppi di popoli, da lui chiamati “varietà”: africani, nativi
americani, asiatici e europei. Si trattava di un vero e proprio metodo di classificazione, basato su
un solo tratto esteriore. A questo primo tentativo di suddividere gli esseri umani in gruppi intesi
come razze, ne sono seguiti molti altri, con un numero di razze che variava da 3 a 30 in base alla
scelta dei caratteri somatici.
Questa varietà di opinioni in merito al numero delle razze esistente sulla Terra mette in luce il fatto
che il confine tra queste presunte razze è sempre arbitrario, come dimostrano la geografia e la
biologia. La geografia ci dice che i tratti fisici degli esseri umani tendono a variare gradualmente
nello spazio, determinando zone di transizione piuttosto che confini netti, tra le aree abitate da
popoli caratterizzati da diversi tratti somatici. In biologia, la genetica distingue tra fenotipo, cioè
l’aspetto esteriore degli individui e il genotipo, che è l’insieme dei suoi caratteri ereditari, detto
anche genoma o più precisamente DNA. I fenotipi hanno una variabilità enorme all’interno di una
stessa specie, mentre la variabilità genetica, cioè quella su cui dovrebbe fondarsi il concetto
biologico di << razza >> è minima.
Oggi nel dibattito scientifico la razza viene considerata una costruzione sociale, un’idea o un
fenomeno che non esiste in natura, ma che viene creato dalle persone, che attribuiscono un
significato alle apparenze somatiche degli individui. In estrema sintesi, gli studi post-coloniali sono
tesi a indagare l’eredità culturale dei fenomeni del colonialismo e dell’imperialismo, nonché le
varie modalità attraverso le quali i poteri coloniali hanno mantenuto e continuano a mantenere
strutture e relazioni di potere.
Razza: l’idea che un gruppo umano possa essere individuato in base ad apparenze somatiche che
di regola non sono correlate con differenze genetiche rilevanti.
Razzismo: intolleranza nei confronti di persone considerate geneticamente inferiori.
Ideologia: sistema di idee e di valori che giustifica le opinioni, le pratiche e gli orientamenti di un
gruppo.
Il concetto di etnia viene sovente usato come sinonimo di cultura quando pratiche e credenze
condivise sono pensate come caratteristiche peculiari di un gruppo etnico. La civiltà, invece, è
un’etnia o cultura diffusa su un’ampia area geografica, che presenta forme di organizzazione
tecnica e sociale considerate evolute in base ai criteri di giudizio prevalenti nel mondo occidentale.
In origine il termine veniva applicato alle società europee e mediterranee in contrapposizione alle
altre società ritenute ‘’barbare’’.
I luoghi sacri sono i luoghi ai quali viene attribuito un particolare significato religioso e che agli
occhi dei fedeli è luogo di devozione e rispetto. Ad esempio, gli islamici, proibiscono l’accesso a La
Mecca e a Medina, le due città sante, a tutti i non musulmani, ritenendo che questo sia un mezzo
per mantenerne la sacralità. Gerusalemme è considerato il luogo sacro più conteso del mondo. Un
luogo sacro non deve essere necessariamente definito, tanto che anche la pratica di rituali religiosi
individuali può generare luoghi sacri molto personali.
I Sacri Monti sono dei complessi devozionali, mete di pellegrinaggio, posti su un colle o sul
versante di una montagna, in una posizione appartata rispetto al centro urbano. Consistono in una
serie di cappelle o edicole in cui sono rappresentate, con dipinti e sculture, scene della vita di
Cristo, di Maria o dei Santi. I Sacri Monti sono numerosi non solo in Italia ma anche in altri paesi
d’Europa.
Un pellegrinaggio, invece, è un viaggio compiuto da un fedele, verso un luogo sacro, per motivi
religiosi. Alcuni di essi, come l’haji musulmana, sono precetti obbligatori, mentre altri possono
essere svolti per motivi diversi, come la purificazione dell’anima, la penitenza o un ringraziamento.
I geografi studiano i pellegrinaggi come una categoria unica, esplorandone le destinazioni
principali e secondarie e i processi di circolazione delle persone ad essi legati.
La religione offre una base fondamentale per l’identità di un individuo o una comunità. Nell’Islam,
per esempio, l’idea di una comunità dei musulmani viene espressa frequentemente, con diverse
scale di riferimento, da quella globale a quella individuale. La parola araba ‘’umma’ indica la
‘’comunità dei fedeli’’. Mentre dar-al-islam (casa dell’islam) invece si riferisce ai paesi a
maggioranza musulmana, ma rientrano in alcuni casi in questa definizione anche le popolazioni
islamiche che vivono in paesi di altre religioni. Un’altra scala di riferimento per i musulmani è la
moschea, luogo della preghiera settimanale. Il digiuno durante il ramadan o il velo che copre il
capo delle donne, infine, rappresenta un modo di esprimere la propria fede e la propria identità su
scala più piccola, ovvero quella del corpo.
La relazione tra comunità religiose e il territorio si possono manifestare anche attraverso comunità
religiose diasporiche, costrette ad abbandonare un luogo a causa della loro fede e che considerano
le loro terre sante come patrie nelle quali la comunità di fedeli auspica di insediarsi.
Il ritorno ad Israele è l’aspirazione di ogni buon ebreo. Il popolo ebraico ha un rapporto particolare
con la tema di Israele, che ritengono sia stata promessa ad Abramo direttamente da Dio e che per
questo viene chiamata proprio Terra Promessa. Il ritorno a Israele divenne l'obiettivo principale
del movimento sionista, sviluppatosi nel XIX secolo con l'ambizione di create una patria religiosa e
politica per tatti gli ebrei, realizzatasi in parte nel 1948, con la nascita dello stato di Israele, che
tuttavia portò ad una serie di complesse e drammatiche problematiche. L'istituzione dello Stato di
Israele, nel 1948, ha portato a un primo compimento il sogno sionista di una patria per il popolo
ebraico, che ricordava il Regno di Israele di biblica memoria. Contemporaneamente, questa
decisione politica privò di uno Stato la popolazione palestinese, a maggioranza musulmana, che
viveva in quella stessa regione. Il sogno sionista si realizza completamente quando Israele occupò
la Cisgiordana. La situazione politica di Gerusalemme e della Cisgiordania rimane duramente
contestata, dal momento che sia i palestinesi sia gli israeliani rivendicano il diritto a controllare
questi luoghi. Alcune comunità ebraiche di coloni hanno costruito degli insediamenti in
Cisgiordania. La religione è senza dubbio un elemento fondamentale del conflitto tra Israele e
Palestina; tuttavia, è Importante ricordare che esso coinvolge anche questioni come la
cittadinanza, la povertà e il controllo dell'acqua.
Il termine modernismo indica quella corrente intellettuale che incoraggia il pensiero scientifico, la
diffusione della conoscenza e la fiducia del progresso. All’inizio del XX secolo, Papa Pio X condannò
ufficialmente il modernismo, perché metteva in discussione alcuni dogmi fondamentali del
cattolicesimo, come l’autorità insindacabile della Bibbia. La tensione tra tradizione e cambiamento
è evidente ancora oggi nelle posizioni del Vaticano in merito al clero femminile o alla
contraccezione. Nel caso dell’induismo la principale tensione tra modernità e tradizione riguarda il
sistema delle caste, una forma di stratificazione sociale in quattro classi sociali chiamate varna, la
cui prima descrizione si trova nei Veda, caratterizzate da diversi gradi di purezza. Il sistema delle
caste è ereditario e nel passato esisteva una rigida relazione tra la casta alla quale apparteneva
una persona e la professione alla quale poteva ambire. Anche se la legge indiana ha abolito le
caste, nelle aree rurali questo sistema continua ad esistere.
Le resistenze nei confronti dei cambiamenti vengono talvolta espresse attraverso il
fondamentalismo religioso, che in diverse forme, richiede che la fede e i principi religiosi di una
persona permeino ogni aspetto della sua vita privata e pubblica. Un esempio è l’islamismo, un
movimento che auspica la conservazione dell’Islam tradizionale pre-moderno e oppone resistenza
all’occidentalizzazione e alla globalizzazione. I gruppi che hanno iniziato a fare riferimento a questa
ideologia hanno iniziato a praticare atti di violenza e di terrorismo che spesso vengono associati al
concetto di jihad. Anche se l’islam ufficiale e la maggior parte dei fedeli rifiuta quest’ultima visione,
i movimenti più tradizionalisti la interpretano in senso letterale, al punto da giustificare l’uso del
terrorismo come strumento al quale i musulmani possono fare ricorso per difendere la propria
fede.
“Gli stati nazionali sono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro
chance di potere, orientamenti, identità, reti”. (Beck)
Ovviamente le dinamiche economiche non possono essere disgiunte da quelle politiche perché le
penetrazioni di mercato sono consentite dagli attori istituzionali (lo Stato e i suoi apparati). Le
multinazionali o le transnazionali addirittura possono condizionare nei paesi più poveri le scelte
politiche, possono finanziare delle dittature.
Esistono degli altri attori, illegali, ma che incidono fortemente nei mercati dei circuiti
internazionali, e figurano tra i primi attori che si sono globalizzati: le mafie, le associazioni criminali
internazionali. Queste ultime, avendo da sempre legami internazionali, hanno dei mercati
potentissimi che alimentano produzione di capitale illegale che però attiva un circuito economico
importante a sua volta. Possono competere con la potenza di grandi stati perché hanno una
quantità di capitali enorme che però deve essere “riciclato”. Esistono quindi una serie di
investimenti di copertura fatti per poter avere questo circuito di ri-legalizzazione di capitali.
1. Fase germinale: comincia in Europa tra il 15° secolo e la metà del 18° secolo, stimolata
dai famosi viaggi di colonizzazione, periodo dei grandi viaggi e delle grandi scoperte
geografiche. Si cominciano a trasferire tutta una serie di prodotti da una parte all’altra
del mondo, al punto che incide nel locale sui regimi alimentari, sulle tecniche di
produzione (arrivano prodotti fino ad allora sconosciuti come il pomodoro, la patata o
il cacao);
5. Consumo di massa: dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli anni ’90 c’è un intensificarsi
del consumo di massa che però è già cominciato nei primi del ‘900 con il sistema
fordista e taylorista (la famosa catena di montaggio e l’invenzione del consumo di
massa). Si accentua una sorta di coscienza globale, la coscienza dei rischi ecologici
globali che però non sembra sufficiente. Finisce la guerra fredda e cade il muro di
Berlino nel 1989. Con quest’ultimo avvenimento si pone fine al bipolarismo tra il
mondo capitalista ed il mondo a ispirazione socialista, mettendo a capo all’inizio degli
anni ’90 un’unica potenza egemone: l’unilateralismo degli Stati Uniti. Tra gli anni ’50 e
gli anni ’70 nasce internet e viene diffuso come consumo di massa grazie alle
invenzioni del linguaggio di Steve Jobs e Bill Gates. Nel 1968 si diffonde la teoria di
Marshall McLuhan del «villaggio globale» per cui la popolazione umana è considerata
come un grande villaggio perché siamo interconnessi. Tutto questo processo era già
stato descritto da Carl Marx nel XIX secolo che aveva analizzato il fatto che
l’intensificazione del sistema di produzione capitalistico avrebbe portato, secondo una
metafora che Marx utilizza che poi viene ripresa dal geografo David Harvey,
all’annichilimento (distruzione) dello spazio attraverso il tempo (compressione spazio-
temporale).
Come già stato anticipato ci può essere una globalizzazione economica, una di tipo culturale e una
di tipo tecnologica – scientifica.
• la globalizzazione economica spinge verso:
• Dal punto di vista culturale c’è uno scambio, per quanto riguarda le religioni e le
civiltà diverse tra loro. C’è uno scambio e un confronto che ci arricchisce molto ma
al tempo stesso il multilateralismo apre la porta a molte più guerre.
• Un aumento dei flussi di capitale finanziario, come risultato del commercio, degli
investimenti internazionali;
Il sistema di produzione capitalistico funziona grazie alle varie operazioni finanziarie, le quali
gestiscono la quantità enorme di capitale che circola attraverso il globo. Per aprire un’attività,
infatti, qualunque essa sia, c’è bisogno di capitale, di fondi. I capitali inizialmente vengono dati in
prestito, con delle inevitabili garanzie.
CAPITALISMO→ sistema economico e sociale in cui il capitale produttivo è detenuto di regola da
privati (individui o società), che lo utilizzano per ottenere profitti dalla vendita dei beni e servizi
prodotti da lavoratori dipendenti, per poi reinvestirli in attività produttive o finanziarie al fine di
accrescere il capitale stesso.
CAPITALE→ insieme dei mezzi di produzione che, combinandosi con il lavoro salariato,
permettono la produzione dei beni e servizi. Esso comprende il denaro (capitale finanziario), gli
immobili, i macchinari, gli impianti produttivi, ecc.
Le sedi della finanziarizzazione non sono altro che le borse. Il movimento di borsa è
particolarmente grande a New York e dipende soprattutto dal tipo di azioni e dalle connessioni con
altre borse, tra cui: Parigi, Lisbona, Amsterdam, Bruxelles. Importanti sono anche quelle di Londra
e di Milano. Ciascun paese investe una parte nel suo interno e una parte diretta all’estero.
L’Europa, gli Stati uniti e il Canada già dagli anni ’70 investono soprattutto all’estero, mentre in
Asia ciò non avvenne prima degli anni ’90.
Uno dei cambiamenti politici legati all’affermazione della globalizzazione è la creazione, nel 1995,
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO - World Trade Organization). L’obiettivo
principale della WTO è quello di istituire ed attuare una regolamentazione in senso liberista del
commercio internazionale. Tra gli aspetti principali della globalizzazione ci sono l’aumento
dell’importanza del ruolo e delle imprese multinazionali nell’economia mondiale e l’incremento
degli investimenti diretti all’estero e dei flussi di capitale che si spostano in tutto il mondo. Ciò che
caratterizza le imprese multinazionali o transnazionali è il possesso di uffici e stabilimenti in vari
stati. Per finanziare la propria attività, le multinazionali trasferiscono denaro proprio, o preso in
prestito da banche multinazionali, ai paesi stranieri nei quali tengono le sedi o degli interessi,
mettendo in atto quelli che vengono definiti investimenti diretti all’estero (IDE). Ne è un esempio
l’acquisto o la costruzione di impianti per la produzione di beni in un paese diverso da quello della
casa madre dell’azienda. Il giudizio sugli effetti degli IDE è controverso: da un lato gli IDE
aumentano i flussi di capitale rivolti verso un paese e possono contribuire a promuovere le attività
economiche e aumentare l’occupazione, ma dall'altro lato limitano la concorrenza delle imprese
locali che non hanno le stesse risorse finanziarie delle multinazionali.
GLI IMPATTI CULTURALI DELLA GLOBALIZZAZIONE
LA CULTURA DI MASSA → è il fenomeno che si riferisce a prodotti di grande diffusione, come la
musica, videogiochi, programmi televisivi, abbigliamento, gli svaghi. Essa è influenzata dai mass
media, dalla tv, da internet. Si tratta delle pratiche, delle attitudini e le preferenze condivise da un
gran numero di persone e considerate parte del modello dominante. I diversi modi in cui vengono
considerate le conseguenze culturali della globalizzazione si possono ricondurre alla diffusione
spaziale, osservando come essa avvenga per diverse modalità, come la diffusione gerarchica e la
diffusione per contagio. Talvolta un ruolo importante viene svolto dalla diffusione gerarchica
inversa che agisce dal basso verso l’alto secondo uno schema bottom up.
Riguardo agli effetti della globalizzazione, gli scienziati sociali hanno proposto uno schema
semplice, che si basa su tre tesi, o concetti chiave: l’omogeneizzazione, la polarizzazione e la
glocalizzazione. L’omogeneizzazione— mira a far sì che la globalizzazione tenda a far convergere i
gusti, mode, abitudini di vita, le convinzioni e le pratiche culturali, rendendole simili in tutto il
mondo. La diffusione globale di catene come i fast food, di ristoranti, alberghi ecc. viene spesso
citata come una prova a sostegno della tesi dell’omogeneizzazione. Una delle sue conseguenze è la
TRASFORMAZIONE DEI LUOGHI IN NON LUOGHI, cioè, l’antropologo Marc Augé li ha definiti come
spazi locali simili in tutto il mondo senza storia né identità specifica, sovente frequentati da grandi
folle, ma dove i soggetti che le compongono non hanno relazioni tra loro. Si tratta per lo più di
luoghi urbani: centri commerciali, grandi stazioni, aeroporti… Poiché nel mondo contemporaneo,
la maggior parte delle trasformazioni culturali, sociali ed economiche è una conseguenza del
capitalismo, ne consegue che i paesi più avanzati esercitano un’influenza economica
preponderante sul resto del mondo, che porta all’affermazione di valori e modelli come il
consumismo, la libertà e l’individualismo, i quali entrano in conflitto con quelli delle culture locali,
minacciando di cancellarle.
Polarizzazione— secondo questa teoria, la globalizzazione, proprio perché tende a creare un’unica
cultura di massa globale, contribuisce ad aumentare il senso di identità delle diverse società e
culture, generando divisioni e conflitti tra persone e paesi di cultura diversa. I sostenitori di questa
tesi ritengono che la globalizzazione abbia fomentato le forze più separatiste e integraliste,
aumentando i rischi per la sicurezza. Un esempio sono le guerre e conflitti identitari che si sono
sviluppati nei Balcani o in Africa negli stessi anni in cui si affermava la globalizzazione.
La glocalizzazione → è il processo per cui gli attori globali e quelli locali interagiscono,
influenzandosi a vicenda. Oltre a produrre forze omologatrici, la globalizzazione può anche
stimolare la consapevolezza delle diversità locali, fenomeno indicato come neolocalismo che
indica il rinnovato interesse per il sostegno e la promozione delle specificità di ciascun luogo.
Uno degli effetti della globalizzazione economica è quello di mettere in competizione tra loro i vari
territori. Tale competizione riguarda soggetti privati, pubblici e misti che, vivendo in uno stesso
territorio, si conoscono, hanno una identità territoriale comune e possono mettersi in rete tra loro
per elaborare e condividere progetti di sviluppo, combinando risorse locali con risorse che
circolano nelle reti globali.
Tale insieme di potenzialità rientra nel concetto generale di milieu territoriale locale. Esso fa leva
su tutte le caratteristiche che nel corso del tempo si sono sedimentate e legate stabilmente a un
territorio e che possono in qualche modo costituire le prese per lo sviluppo. Si tratta di condizioni
naturali originarie che nel corso della lunga durata storica si sono combinate con i prodotti della
cultura materiale (infrastrutture, monumenti, edifici) e immateriale (tradizioni) con il cosiddetto
capitale sociale (Rapporti di cooperazione, volontariato, associazionismo) e con il capitale
istituzionale locale (istituzioni civiche, scientifiche, scolastiche, musei, biblioteche…). L’insieme
formato da una rete di soggetti e da un milieu territoriale costituisce il sistema locale territoriale,
un sistema formato da una rete locale di soggetti che cooperano per valorizzare le risorse
specifiche del loro contesto territoriale, interagendo con grandi imprese che operano su scala
globale. Secondo la tesi della glocalizzazione il rapporto delle reti globali con i sistemi locali non è
sempre un rapporto di dominanza, perché questo accade se i soggetti locali non sanno reagire e
auto-organizzarsi. Per evitare ciò essi devono collegarsi in rete tra loro e far valere le risorse del
loro milieu territoriale. La glocalizzazione è quindi il risultato di una relazione tra forze globali e
locali, tale per cui le forze locali si globalizzano e quelle globali si localizzano.
LA MERCIFICAZIONE DELLA CULTURA
Essa trasforma in materia di mercato la cultura, una creazione sociale che consiste nell’insieme di
pratiche e credenze condivise da un gruppo di persone, e che prima non aveva una natura
commerciale.
Le manifestazioni o espressioni della cultura, possono prendere forme materiali o immateriali: la
cultura materiale include gli artefatti, strumenti e strutture tangibili e visibili create dalle persone,
come i mobili, le abitazioni, gli strumenti musicali o gli attrezzi da lavoro; la cultura immateriale,
invece, non è tangibile ed è legata alle tradizioni orali e alle pratiche di comportamento (canzoni,
feste, lingue, dialetti…).
Le città sono quelle che vengono usate più di altri aspetti culturali come prodotto di consumo
culturale e vengono inserite in una vera e propria competizione globale. Questo tipo di marketing
territoriale lo abbiamo visto anche a Napoli, quando c’è stato il governo di Antonio Bassolino:
l’immagine che diffusero, anche come stereotipo discriminante, era che in questa città c’erano
solo immondizia e topi, tanto che uscivano sui giornali immagini di una Napoli orribile devastata da
questo aspetto. Si decise così di agire nel senso opposto e sponsorizzare la città fotografando le
sue parti più belle, anche modificandole. Alcuni decenni dopo, con un’altra operazione di
marketing urbano, operata dal sindaco De Magistris, è stato creato il famoso Lungomare liberato
che, nonostante una prima contrarietà da parte di commercianti e abitanti della zona, attira
migliaia di persone al giorno. Questo tipo di politica può essere legato anche alle serie televisive.
Per esempio, nella provincia di Ragusa, città della serie “Montalbano” ci sono i vari cartelli dei
luoghi della serie e questo ha creato un incremento economico decisivo per gli abitanti del luogo.
Queste politiche possono essere fatte anche per riqualificare una città o una parte di essa e in
questo caso parliamo di gentrificazione. Il primo intervento di gentrificazione è stato fatto a
Lochness, Londra, una zona portuale che era assolutamente degradata: gli investitori in immobili
compravano a poco prezzo le strutture preesistenti e i ceti più poveri venivano espulsi da
quell’area poiché nell’investire e riqualificare tali immobili non potevano più permetterseli. Queste
zone riqualificate vengono riconvertite anche in attività come per esempio quelle commerciali o
culturali.
Nella stessa città di Napoli questo processo si è verificato in due momenti: quando ci fu il
terremoto dell’80 e quando vennero create le vele di Scampia in seguito alla legge 167 dove ci fu
un’espulsione massiccia degli abitanti che vivevano negli stabilimenti del centro storico e nella
zona dei quartieri spagnoli. Napoli, però, è una città particolare dove c’è ancora una sorta di mixité
sociale di alto e basso.
La geografia culturale è una branca della geografia umana che attribuisce particolare importanza
alle idee e alle attività delle persone e come esse si relazionano con l’ambiente e il paesaggio. I
geografi culturali prestano molta attenzione alla mercificazione della cultura, la trasformazione in
merce delle espressioni culturali materiali e immateriali, ma anche a come la cultura influenza i
nostri consumi.
IL PATRIMONIO DELL’UMANITÀ
Con patrimonio mondiale si indicano quei siti ai quali viene attribuito un valore eccezionale e
universale per tutta l’umanità. La pratica di individuare dei siti di straordinaria bellezza o
importanza risale almeno all'antica Grecia, quando vennero identificate le cosiddette “7 meraviglie
del mondo”. Le campagne per la protezione del patrimonio mondiale, però, si sono intensificate
soprattutto nella seconda metà del secolo scorso sotto la guida del Unesco.
L’UNESCO è l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza, la Cultura, fu fondata
nel 1945 per incoraggiare la collaborazione tra le nazioni. Attualmente conta 192 membri. Nel
1972 l’UNESCO ha adottato la Convenzione sulla Protezione del patrimonio mondiale, culturale e
naturale dell’umanità, gettando le basi per un comitato per il Patrimonio mondiale dell’umanità
tra i cui compiti c’è quello di creare un elenco di siti, culturali e naturali, caratterizzati da un valore
universale eccezionale. Alla lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità è stato riconosciuto un
importante ruolo nell’aumento della consapevolezza riguardo alle risorse culturali globali e
nell’aver stimolato lo sviluppo di nuove destinazioni turistiche, anche se non sono mancate le
critiche:
• eccessiva percentuale di siti europei, compresi edifici e luoghi legati alla cristianità,
che riflette un certo pregiudizio eurocentrico;
IL SAPERE LOCALE
Indica la conoscenza collettiva di una comunità, che deriva dalle attività e dalle esperienze
quotidiane di ciascuno dei suoi membri con milieu sociale e territoriale in cui è inserito.
Il concetto di sapere locale viene descritto da tre sue caratteristiche:
• viene tramandato oralmente e sono rare le fonti che lo attestano. In molti casi
questa trasmissione orale viene accompagnata da attività o racconti;
• è dinamico e muta continuamente a nuove scoperte o informazioni;
• non è un’entità unica, all’interno di una comunità vi sono diversi saperi locali.
Le conoscenze locali offrono gli strumenti per la risoluzione dei problemi, contribuendo
all’affermazione di un modello di sviluppo sostenibile, cioè che soddisfa i bisogni economici del
presente senza compromettere le generazioni future.
Gli indicatori economici sono legati anche al concetto di povertà, un fenomeno estremamente
complesso che raramente ha una sola causa e che può essere considerato una condizione sia
economica sia sociale, in quanto non riguarda solo il reddito, ma anche altri aspetti del benessere,
come l’istruzione e la salute. La povertà è la condizione di mancato accesso ai beni essenziali e
primari d’importanza vitale. Il termine povertà può assumere diversi significati a seconda dei
contesti storici e sociali, per questo sono concetti assolutamente relativi, come teorizzava già Karl
Marx.
La povertà costituisce anche la principale causa di esclusione sociale, dato che se si è poveri non si
riesce ad accedere a tutta una serie di aspetti che fanno parte del benessere, tra cui salute e
istruzione. Il tasso di povertà, cioè il numero di persone povere sul totale della popolazione è la
misura più comunemente utilizzata per esprimere l’incidenza della povertà in una data
popolazione.
La povertà può essere di due tipi:
- assoluta, è quella di chi non riesce ad accedere ai beni e servizi essenziali per conseguire uno
standard di vita accettabile in assoluto, ad esempio non patire la fame, non dormire per la strada,
ecc..
- relativa, si riferisce a quanti non aggiungono il livello di risorse necessario per soddisfare gli
standard minimi della società in cui vivono, per esempio da noi non vivere in un sottoscala, vestirsi
decentemente, ecc.
In Italia il calcolo dei parametri per definire la soglia della povertà è fatto dall’Istat con un indagine
condotta ogni anno sui consumi di un campione stratificato di circa 28 mila famiglie estratte. Allo
scopo di effettuare confronti fra dati statistici nazionali, la banca Mondiale ha fissato una soglia
convenzionale definita ‘’linea di povertà’’. Gli standard di vita e la percezione della povertà variano
da paese a paese per cui gli stati sviluppano propri standard di riferimento, rendendo i confronti
tra i vari paesi estremamente difficili. Nei paesi del Sud del mondo permangono situazioni assai
gravi: una delle aree più colpite dalla povertà estrema è l’Africa Sub Sahariana.
L’indice di sviluppo umano (ISU) serve a misurare lo sviluppo a livello mondiale al fine di proporre
strategie di miglioramento, e si compone in 4 indicatori:
- il PIL pro capite;
- la speranza di vita;
- il tasso di scolarizzazione fra gli adulti;
- il tasso lordo di partecipazione scolastica.
Lo sviluppo umano riguarda tuttavia la creazione di un ambiente in cui le persone possano
sviluppare il proprio potenziale e condurre una vita produttiva e creativa, anche in accordo con i
propri bisogni ed interessi. Sviluppo significa quindi ampliare le possibilità di scelta delle persone
nel condurre lo stile di vita che desiderano.
Avere un PIL molto elevato non necessariamente corrisponde ad avere un ISU altrettanto elevato
o viceversa, basti pensare all’Arabia Saudita o al Kuwait dove ci sono dei livelli di PIL elevatissimi
ma il resto della popolazione non usufruisce di un elevato livello d’istruzione o di un elevato livello
di assistenza sanitaria pubblica e di conseguenza in questi paesi la speranza di vita alla nascita è
molto più bassa. L’ ISU può assumere valori compresi tra 0 (nessun risultato in termini di sviluppo
umano) e 1 (massimo risultato in termini di sviluppo umano). L’Islanda e la Danimarca hanno i
livelli più elevati di sviluppo umano e come sempre tutti i paesi dell’Africa subsahariana sono
completamente nella fascia tra 0.450 e sotto lo 0.350.
L’ISG (indice di sviluppo di genere) è l’indice che misura lo sviluppo delle disparità di opportunità
tra uomini e donne, il cosiddetto Gender Gap. Ad un ISU elevato non è detto che corrisponda un
indice di sviluppo di genere altrettanto elevato.
Il BES (indicatore di benessere equo e sostenibile), fu introdotto dall’ISTAT italiano con la Legge di
bilancio approvata il 28 Luglio 2016. Esso integra tutti gli altri indicatori socio-ambientali e
demografici, perché introduce il principio dell’equità sociale tenendo conto degli aspetti
ambientali. Se ad esempio un’area ha un BES più basso, questo ci fa capire che è un’area che ha un
degrado e quindi bisogna fare dei finanziamenti per supportare queste condizioni. L’ISTAT per
calcolare il BES lavora su 130 indicatori che sono suddivisi in queste 12 voci:
- Salute
- Istruzione e formazione
- Lavoro e conciliazione dei tempi di vita
- Benessere economico
- Relazioni sociali
- Politica e istituzioni
- Benessere soggettivo
- Paesaggio e patrimonio culturale
- Ambiente
- Ricerca e innovazione
- Qualità dei servizi
Partendo dalla constatazione che lo sviluppo non è neutrale rispetto al sesso, cioè che lo sviluppo
ha un impatto differente su uomini e donne, l’UNDP ha fatto appello a partire dal 1995 ad uno
sviluppo che tenesse conto delle differenze tra uomini e donne. Sono stati creati e utilizzati altri
due indici di sviluppo: per analizzare le disparità di genere nello sviluppo, le Nazioni Unite hanno
introdotto nel 2010 un Indice delle Disuguaglianze di Genere, noto come GII (Gender inequality
index), è composto da vari indicatori quali la salute riproduttiva, l’empowerment delle donne e la
partecipazione femminile al mercato del lavoro.
| SVILUPPO E DISEGUAGLIANZA DI REDDITO
La distribuzione del reddito è il modo in cui il reddito è suddiviso fra differenti gruppi o individui.
La disuguaglianza di reddito è il rapporto fra i redditi dei più ricchi e i redditi dei più poveri.
I geografi dello sviluppo esaminano la distribuzione del reddito e la disuguaglianza di reddito a vari
livelli e tra diversi raggruppamenti di paesi.
C’è una grande disuguaglianza tra ricchi e poveri. Esiste un numero ristretto di individui ricchissimi
e diversi miliardi di persone che vivono nella povertà, creando un effetto definito a “coppa di
champagne” sul modello di distribuzione del reddito. Per misurare la disuguaglianza di reddito,
spesso si ricorre al coefficiente di Gini.
Il coefficiente di Gini è stato introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini ed è una misura della
distribuzione della diseguaglianza. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la
diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. Questo viene indicato con
un numero compreso tra 0 e 100, dove 0 indica la perfetta uguaglianza mentre 100 indica la
massima concentrazione di disuguaglianza. Gli USA hanno un coefficiente di Gini di 41, mentre
l’Italia registra un valore 34,7.
LA TEORIA DELLA DIPENDENZA — Ai controversi stadi di sviluppo proposti da Rostow sono state
contrapposte diverse teorie di sviluppo alternative. Negli anni ’60 e ’70 in particolare, prese piede
una scuola di pensiero nota come Teoria della Dipendenza. I teorici di questa teoria sostenevano
che lo sviluppo potesse essere compreso meglio come processo relazionale piuttosto che come
serie di fasi e che fosse connesso al commercio internazionale. Lo studio del sistema di commercio
internazionale rivelava l’esistenza di due tipi di stati: dominanti e dipendenti. I primi sono i più
sviluppati, gli stati industrializzati dell’Europa, il Nord America, il Giappone, che controllano le
risorse economiche e hanno il potere di condizionare le politiche e le pratiche del commercio
internazionale. Agli Stati dipendenti, rappresentati dai paesi del Sud globale, mancano invece sia
queste risorse, sia questo potere. La dipendenza è pertanto, una condizione che deriva dai modelli
di commercio internazionale e si traduce in bassi livelli di sviluppo o in un vero di sottosviluppo dei
paesi che si collocano in una posizione di dipendenza. Secondo i teorici della dipendenza, ad
esempio, lo sviluppo dell’Europa si è tradotto nella dipendenza e nel sottosviluppo di Africa e
America Latina, dove, contrariamente a quanto sosteneva il modello di Rostow, lo sviluppo fu
ostacolato.
LA TEORIA DEL SISTEMA MONDO — Questa teoria trova origine in Immanuel Wallerstein,
sociologo che sosteneva che la causa della dipendenza e sottosviluppo fosse il sistema capitalista
mondiale. Il sistema mondiale di Wallerstein è formato da stati centro (militarmente forti, forza-
lavoro qualificata, economia basata su sistema di produzione), aree periferiche (forza-lavoro meno
qualificata, sistema di produzione basato su lavoro più intensivo, politicamente deboli) e aree semi
periferiche (produzione manifatturiera a capitale intensivo e da un’economia diversificata).
Secondo Wallerstein, il capitalismo crea un sistema di scambio diseguale in cui gli stati centro
dominano la semiperiferia e la periferia, quest’ultima sottomessa anche alle aree-semiperiferiche.
Gli stati centro traggono grandi profitti da questo rapporto, accumulando capitale e ricchezza.
Questa teoria riconosce che le relazioni fra il centro, la periferia e la semiperiferia sono sempre
dinamiche ma che il funzionamento efficiente del capitalismo richiede e dipende da una divisione
internazionale del lavoro basata sulla diseguaglianza.
Da un punto di vista neoliberista quindi, le cause del sottosviluppo non deriverebbero dei difetti
del capitalismo come affermavano i teorici del sistema mondo, Piuttosto, il sottosviluppo sarebbe
un segnale del fatto che scelte politiche ed economiche mal concepite possano essere di ostacolo
al funzionamento efficiente del capitalismo ed impediscano la crescita economica. Il sottosviluppo
potrebbe quindi essere risolto attraverso programmi di aggiustamento strutturale (PAS) > Politica
economica di un paese basata su principi neoliberisti finalizzati a promuovere la crescita
economica e lo sviluppo, rimuovendo gli ostacoli, anche legislativi, al libero movimento di merci e
di capitali. I programmi di aggiustamento strutturale sono diventati il caposaldo del modello di
sviluppo neoliberista che durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, influenzò le
politiche del Fondo Monetarlo Internazionale (FMI) e della Banca Mondale. Fin dai primi anni
Ottanta del secolo scorso, sia il neoliberismo, sia l'aggiustamento strutturale sono stati
pesantemente criticati, in particolare per quanto riguarda i seguenti cinque punti:
- poiché i PAS richiedono minori spese statali e tagli nei servizi pubblici, le strutture sanitarie che
ricevono finanziamenti statali sono costrette a diminuire le proprie ore di attività, licenziare
personale, ecc.. In alternativa, senza finanziamenti statali, queste strutture son obbligate ad
addebitare agli utenti il costo di certi servizi, rendendo più difficile la possibilità per i più poveri di
permettersi assistenza sanitaria.
- i programmi di aggiustamento strutturale favoriscono l'eliminazione delle sovvenzioni
all'agricoltura, in un’ottica di riduzione della spesa pubblica. Solitamente l'eliminazione dei sussidi
fa aumentare il prezzo delle derrate alimentari, con conseguenze gravissime per i più poveri.
- spesso gli aggiustamenti strutturali richiedono la svalutazione della valuta locale, che provoca
l'aumento dei prezzi di tutti i beni d'importazione, tra cui anche beni di consumo.
- questo tipo di programmi promuove lo sviluppo delle esportazioni, portando molti paesi del Sud
globale ad adottare un modello di esportazione di prodotti agricoli o minerari, invece di
diversificare la propria economia.
- i programmi di aggiustamento strutturale rappresentano delle ingerenze della Banca Mondiale e
del Fondo Monetario Interazionale negli affari interni degli Stati. Queste due istituzioni hanno
spesso utilizzato criteri discutibili come condizioni da soddisfare per ricevere aiuto o prestiti.
Le strategie di riduzione della povertà sono state spesso definite in accordo con gli Obiettivi di
Sviluppo del millennio, concepiti nel 2000 in un summit a New York. A questo incontro, essi hanno
riconosciuto che ogni paese condivide le responsabilità di contribuire a raggiungere lo sviluppo
sociale ed economico, e che le Nazioni Unite devono giocare un ruolo fondamentale in questo
processo. Nel 2015 sono stati poi sostituiti da una nuova serie di obbiettivi, chiamati Obiettivi di
Sviluppo sostenibile, noti con l’acronimo inglese SDG (Sustainable Development Goals) da
raggiungere entro il 2030, nello specifico sono 17 obbiettivi, concordati da 193 paesi, che
comprendono ad esempio:
- sconfiggere la povertà;
- sconfiggere la fame, garantire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere
un'agricoltura sostenibile;
- buona salute: garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età;
- istruzione di qualità;
- parità di genere…
LE ORIGINI DELL’AGRICOLTURA
La caccia agli animali selvatici, la pesca e la raccolta di vegetali spontanei sono i metodi più
antichi attraverso i quali l’uomo si è procacciato il cibo. La maggior parte dei gruppi di cacciatori e
raccoglitori conduceva una vita nomade, che seguiva gli spostamenti della selvaggina e le
variazioni
della disponibilità delle piante. I gruppi che si dedicavano alla pesca, invece, avevano maggiori
possibilità di insediarsi permanentemente in un unico luogo. In ogni caso, queste prime società
non
possono essere considerate agricole, poiché sfruttavano le piante e gli animali a disposizione in
natura, senza addomesticarne alcuna specie. Dal punto di vista storico, il passaggio da società
basate sulla caccia e la raccolta a società agricole, costituisce la prima delle tre radicali rivoluzioni
che hanno trasformato il mondo.
rivoluzione verde: grande aumento della produzione di cereali tra il 1965 e il 1985 in Asia ed
America Latina, grazie alla diffusione di varietà di grano, riso e granoturco ad alta produttività,
all’uso di fertilizzante e dell’irrigazione. Il termine “verde” non si riferisce all’adozione di tecniche
sostenibili ma alla diffusione di un’agricoltura più produttiva. Essa si sviluppò in seguito agli sforzi
mondiali per combattere la fame nei paesi poveri.
ingegneria genetica: applicazione di tecniche genetiche all’agricoltura, a partire dagli anni ’80, con
il coinvolgimento di grandi imprese private nel controllo della ricerca nello sviluppo di organismi
geneticamente modificati (ogm) o transgenici e sottoposti alla protezione di brevetti
internazionali.
Essa sfrutta le moderne tecniche nel campo della genetica per trasferire da un organismo all’altro
e da una varietà all’altra alcune caratteristiche scritte nel DNA, come la resistenza alla siccità o la
forma dei frutti o degli steli della pianta.
I SISTEMI AGRICOLI
L’agricoltura può essere vista come un sistema per produrre cibo che comprende i terreni, gli input
che vengono forniti, gli output del sistema (i prodotti agricoli), i consumatori e i diversi flussi che
mettono in relazione tutte queste componenti. La maggior parte degli esperti distingue tra
agricolture di sussistenza, quando i prodotti vengono consumati dai produttori e dalle loro
famiglie,
ed agricolture di mercato, quando i prodotti vengono venduti per un consumo che spesso avviene
lontano dai luoghi di coltivazione.
Abbiamo 4 tipologie di agricoltura di sussistenza.
L’agricoltura itinerante — è un sistema agricolo che usa il fuoco per ripulire i terreni dalla
vegetazione spontanea, rendendoli adatti ad essere coltivati per un certo periodo, al termine del
quale si passa a fare lo stesso con un altro terreno. In alcuni casi l’agricoltura itinerante prevede
che
vengano coltivati prodotti contemporaneamente nello stesso campo, praticando cioè la coltura
promiscua. L’agricoltura itinerante, se praticata secondo certi principi, può essere considerata
sostenibile dal punto di vista ambientale.
Spesso però, il ciclo che alterna i periodi in cui un campo viene coltivato con quelli nei
quali deve essere lasciato a riposo, non viene rispettato, a causa dell’aumento della popolazione e
della diminuzione dei terreni disponibili, in seguito all’espansione delle città e alla costruzione di
infrastrutture. Un’accelerazione di questo tipo può impedire ai terreni di recuperare la propria
fertilità naturale, con effetti molto gravi sulla loro produttività e sull’ambiente. Di fronte a questi
problemi, sono sempre più diffuse pratiche alternative come l’agroforestazione, un sistema di
coltura che prevede che sui campi coltivati o utilizzati per il pascolo vengano piantate determinate
specie di alberi, utili per controllare i livelli di fertilità del suolo o per fornire una risorsa
integrativa.
La coltivazione del riso — nelle regioni in cui il riso costituisce il primo prodotto agricolo ed una
delle principali fonti di amido, questo cereale viene coltivato con tecniche di coltivazione irrigua,
basata cioè su sistemi di acque superficiali o sotterranee, che rappresentano uno dei primi esempi
di
agricoltura intensiva, cioè caratterizzate da un’elevata quantità di forza lavoro, capitali e
attrezzature. Affinché questi sistemi agricoli forniscano guadagni o produzioni sufficienti, i terreni
devono essere coltivati in maniera intensiva durante tutto l’anno e spesso questo avviene
attraverso
la tecnica del doppio raccolto che prevede due cicli di semina e raccolto sullo stesso campo nel
giro
di un anno.
Le piccole aziende agricole e l’allevamento — nelle zone dell’Asia che non offrono condizioni
adatte alla coltivazione del riso prevale un sistema agricolo fondato sull’allevamento e su aziende
agricole di piccole dimensioni. In generale, la combinazione di prodotti agricoli è composta da un
cereale, un tubero o una radice, una varietà di leguminose e diverse specie di ortaggi, accanto ai
quali viene praticato l’allevamento di pochi animali. Contrariamente alla coltivazione irrigua del
riso, questi sistemi agricoli prevedono un limitato utilizzo dell’irrigazione e dei fertilizzanti e non
contemplano la possibilità di effettuare più di un raccolto durante l’anno. La policoltura praticata
da piccole aziende familiari ha caratterizzato l'agricoltura europea, soprattutto quella
mediterranea.
La pastorizia — diffusa nelle regioni aride e nelle zone montane, è l’allevamento di bestiame
domestico all’aperto. La mobilità è un aspetto fondamentale della pastorizia, dal momento che i
pascoli non sono in grado di nutrire gli animali per tutto l’anno, costringendo gli allevatori alla
transumanza, ovvero a spostamenti stagionali in cerca di nuovi pascoli e fonti d’acqua. I governi di
alcuni paesi del mondo ritengono che la vita pastorale nomade non sia compatibile con la
modernità, poiché interferisce con attività fondamentali dello Stato, come la raccolta delle
informazioni censuarie, l'offerta dell'istruzione e dei servizi sanitari e l'istituzione di aree protette e
riserve naturali.
L’AGRICOLTURA DI MERCATO
Nell’agricoltura commerciale o di mercato, i contadini e le loro famiglie non sono i principali
consumatori dei beni agricoli che producono, ma sono destinati in gran parte ad essere venduti
alle
aziende trasformatrici dell’industria agro-alimentare, per questo spesso chiamata agribusiness.
Una delle caratteristiche tipiche di questo settore è l'integrazione verticale virgola che prevede che
una singola azienda controlli due o più fasi della produzione e distribuzione di un bene, definite in
base a precisi accordi di tipo contrattuale.
Le imprese dell’industria agroalimentare considerano gli agricoltori come propri fornitori, con i
quali negoziare dei contratti per assicurarsi le diverse forniture E altri prodotti che verranno poi
utilizzati per produrre cibi confezionati. Secondo questo processo, si potrebbe dire anche che le
industrie di trasformazione di alimenti agiscono come intermediari tra veri produttori e i
consumatori.
L’agricoltura mediterranea — Le regioni che si affacciano sul Mar Mediterraneo sono il focolaio
di questo tipo di agricoltura, che può essere considerata una varietà di agroforestazione, fondata
sull’integrazione tra l’allevamento di bestiame, la coltivazione di un cereale e quella di alberi da
frutto, viti o ulivi. Come l’orticoltura commerciale, anche l’agricoltura mediterranea è spesso
specializzata e si è diffusa in altre parti del mondo con climi simili.
L’allevamento commerciale di animali da latte — è l’allevamento di bestiame per la produzione
di latte, burro e formaggi, destinati ad essere venduti sul mercato. È un’attività agricola ed
altamente meccanizzata, poiché gli attuali metodi per la produzione di latte si fondano sull’utilizzo
di attrezzature come le macchine mungitrici automatiche. Si tratta di un allevamento stabulare,
cioè
praticato di regola nella stalla. Nonostante l'alto livello di meccanizzazione, l'allevamento di
animali da latte prevede anche un lavoro costante da parte della manodopera umana.
Le aziende agricole miste, con produzione di foraggio e allevamento — Tra i sistemi agricoli più
diffusi nella storia, vi sono quelli che integrano la produzione di foraggio con l’allevamento di
bestiame al quale questo è destinato e dal quale proviene solitamente la maggior parte dei ricavi
dell’azienda agricola, attraverso la vendita e la trasformazione dei prodotti di origine animale.
AGRICOLTURA E GLOBALIZZAZIONE
Uno degli obiettivi principali della WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) è quello di
liberalizzare il più possibile gli scambi commerciali, attraverso l’abolizione dei dazi doganali e di
tutte quelle politiche che limitano la libera circolazione di merci e capitali.
Un fattore specifico di distorsione dei mercati agricoli, sul quale la WTO ha impiegato molto tempo
prima di esprimersi con chiarezza, è quello degli aiuti governativi agli agricoltori – praticato ad
esempio nell’Ue – che la maggior parte dei paesi più poveri non può permettersi. Di conseguenza,
gli agricoltori di queste regioni sono costretti ad affrontare costi di produzione maggiori, che si
traducono in prezzi più elevati dei loro prodotti sul mercato.
La globalizzazione dell’agricoltura ha avuto importanti effetti anche sulla dieta della maggior parte
dei cittadini del mondo, portando ad un cambiamento dei modelli di consumo alimentare dovuto
soprattutto alla maggiore varietà di cibo disponibile. Il regime alimentare degli asiatici, ad
esempio, si è sempre più occidentalizzato e ha subito una transazione alimentare caratterizzata da
una riduzione del consumo di riso e un aumento di quella di carne. Inoltre, molti paesi in via di
sviluppo hanno assistito ad una vera e propria
rivoluzione dei supermercati con una rapida diffusione della grande distribuzione.
L’agricoltura urbana può contribuire alla futura sicurezza alimentare dei nuclei familiari.
Il settore secondario →comprende tutte le attività manifatturiere che si svolgono nelle fabbriche o
all’aperto, come l’edilizia. In altre parole, è l’insieme delle attività che trattano, assemblano,
convertono le materie prime in semilavorati e in beni finiti. Si dividono in manifattura pesante,
cioè la produzione di prodotti come acciaio, combustibili, prodotti chimici grezzi o anche motori,
navi e armamenti, e manifattura leggera, attività che producono beni rivolti al consumo finale
(abiti, elettrodomestici, automobili, alimenti) o prodotti sofisticati come apparecchi per ospedali,
strumenti di precisione…
La geografia del settore secondario è stata influenzata dalle innovazioni tecnologiche ed in
particolare dalla Rivoluzione Industriale, con la quale, i sistemi di produzione su piccola scala
vennero sostituiti da quelli dell’impresa capitalistica, che introdusse innovazioni straordinarie
nell’organizzazione del lavoro: cominciò con la mano d’opera salariata, concentrata in grandi
stabilimenti, capaci di produrre grandi quantità di uno stesso bene con costi unitari molto minori
di
quelle delle imprese artigianali.
Il settore terziario → è l’insieme delle attività che forniscono per altre attività economiche e/o per
i bisogni degli individui e delle collettività, come i servizi per le famiglie: sono quelli destinati alla
vendita e rivolti al consumo finale, come il commercio al dettaglio, servizi detti para-commerciali
(bar, ristoranti, ecc), servizi di cura della persona (parrucchieri, lavanderie, ecc), quelli di
riparazione e manutenzione (idraulici, auto-officine, ecc). I servizi per la collettività (detti anche di
consumo collettivo): sono rivolti ad assicurare ai cittadini, alla società e all’economia certe
condizioni minime necessarie, sono servizi serviti dallo Stato o da privati sotto il controllo dello
Stato (difesa, giustizia, sicurezza, sanità, istruzione) e la comunicazione (tv, radio).
La distribuzione spaziale dei servizi per le imprese è regolata dal mercato, ma obbedisce solo in
parte al modello delle località centrali perché questi servizi non seguono solo la domanda ma la
loro
presenza in una città è fattore di attrazione per le imprese che hanno bisogno di quei servizi.
Mentre per i servizi alle famiglie è la domanda che determina l’offerta, per i servizi alle imprese è
l’offerta che attrae la domanda e favorisce così lo sviluppo del territorio.
Infine, nelle attività terziarie occupano una particolare posizione le attività quaternarie, così dette
per sottolineare il fatto che vanno oltre il normale terziario. Questo perché, oltre a presentarsi
come servizi, esse hanno soprattutto funzione di comando, direzione, programmazione, indirizzo
politico e culturale.
Rientrano nel settore quaternario le massime funzioni del governo politico, le direzioni delle
maggiori imprese, le borse e le grandi istituzioni finanziarie, i principali centri della cultura civile e
religiosa e gli apparati direttivi dei media nazionali e internazionali.
IL FORDISMO
Il termine fordismo si riferisce a un sistema di produzione industriale progettato per la produzione
di massa e influenzato dai principi di una gestione scientifica (taylorismo) dell’organizzazione del
lavoro, influenzata dalle idee di F.W. Taylor e Henry Ford, il quale introdusse la catena di
montaggio. Il fordismo ha portato a 4 conseguenze principali: ha contribuito alla de-qualificazione
del lavoro, ovvero prima la ditta assumeva artigiani qualificati, adesso che vi è la frammentazione
della produzione ha ridotto la necessità di impiegati specializzati; rafforzò la rigida gerarchia e la
netta separazione tra lavorati e dirigenti (sindacalizzazione); ha contribuito alla nascita delle
imprese multinazionali; la quarta riguardò le città industriali in quanto, la standardizzazione del
prodotto richiedeva di produrre grandi quantità in enormi stabilimenti, nei quali lavoravano decine
di migliaia di operai. Quindi, questa concentrazione produttiva richiese un altrettanto grande
concentrazione dei lavoratori, delle loro famiglie e dei relativi servizi, quindi una forte crescita
delle città industriali.
filiera— è una sequenza di operazioni collegate fra loro, che vanno dall’ideazione del prodotto,
alla
sua produzione e distribuzione. Di solito sono grandi imprese multinazionali ad integrazione
verticale a controllare queste filiere, influenzando le scelte produttive.
IL POST-FORDISMO
A partire dagli anni Cinquanta, i modelli di produzione fordisti divennero prevalenti nelle regioni
industriali dei paesi più avanzati, ma erano sviluppati soprattutto in Nord America e nell’Europa
Occidentale. Le imprese e i dipendenti beneficiavano di crescenti profitti e discreti salari portando
ad un boom economico che durò negli anni 50 e 60. La crisi del fordismo, nel successivo decennio,
segnò la fine di quel boom e fu legata soprattutto al calo di produttività e competitività delle
imprese.
I principali mutamenti che contribuirono alla crisi del fordismo furono:
• la crisi energetica degli anni Settanta, che fece aumentare i costi di produzione e trasporto;
• le diseconomie di agglomerazione;
• i gusti dei consumatori che non s’accontentavano più di una gamma ristretta di modelli
(automobili, vestiti) e soprattutto i miglioramenti nel campo dell’elettronica e dell’informatica,
che cambiavano il modo di organizzare la produzione industriale e la distribuzione dei prodotti.
Questi cambiamenti hanno dimostrato che il fordismo è un sistema di produzione poco flessibile.
Una prima risposta alla crisi del fordismo venne dal Giappone, all’interno dell’azienda
automobilistica Toyota, fu sperimentata la cosiddetta produzione flessibile, che utilizza le
tecnologie informatiche per rendere la produzione dei beni più varia.
Due strategie cruciali per il successo della produzione flessibile sono la pronta consegna e
l’esternalizzazione. La prima si riferisce al modo in cui un’impresa gestisce il suo inventario e
ottiene i materiali in base alla necessità del momento, consentendo all’impresa di far combaciare
le quantità di prodotto con la domanda effettiva dei consumatori. Attraverso la seconda, viene
subappaltata un’attività che prima veniva realizzata internamente ad un’altra azienda. La
delocalizzazione consiste nel trasferimento di
un’attività d’impresa, interna o esternalizzata, dal territorio dello stato in cui ha sede l’impresa, ad
un paese straniero.
La creazione di zone industriali di esportazione è legata alla delocalizzazione di alcuni segmenti
delle filiere produttive nei paesi in via di sviluppo. La delocalizzazione ha avuto 3 conseguenze:
• Ha dato alla produzione un carattere molto più globale, poiché le fasi hanno luogo in posti
diversi da quello in cui l’azienda principale ha sede
• Ha contribuito ad una nuova divisione internazionale del lavoro
• Ha avuto un importante effetto sulla geografia del profitto
Inoltre, la diffusione dei processi di delocalizzazione ha modificato notevolmente la struttura
mondiale delle attività manifatturiere. In primo luogo, ha influito sulla distribuzione della forza
lavoro, aumentando gli occupati nei paesi di ricollocazione e facendoli diminuire in quelle di
provenienza delle imprese delocalizzate. Inoltre, ha contribuito a dare forma all'attuale
globalizzazione dell'industria, fondamentale per la geografia della produzione.
DEINDUSTRIALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE
La crisi del fordismo ha segnato un periodo di cambiamento strutturale all'interno dei paesi
industrializzati, che ha portato ad un calo dei posti di lavoro nelle attività manifatturiere.
La perdita dei posti di lavoro nell'attività manifatturiera dei paesi più avanzati solleva alcune
domande sulle cause e le conseguenze della deindustrializzazione. Questo processo può essere
infatti ricondotto a tre cause generali:
1. un maggiore incremento della produttività del lavoro nell'attività manifatturiera rispetto a
quella dei servizi;
2. un cambiamento nella disponibilità di risorse;
3. la globalizzazione economica.
Le città crescono da sempre, anche se in certe regioni e in certi periodi si sono avute temporanee
regressioni o arresti. Oggi si nota che i paesi più sviluppati tendono ad avere gradi di
urbanizzazione superiori, ma tassi di crescita urbana più bassi. La causa di questo fenomeno va
ricondotta ai cambiamenti sociali e tecnologici portati dalla Rivoluzione Industriale, quando
l’affermazione dell’industrializzazione e della meccanizzazione ridusse la richiesta di manodopera
nelle campagne, generando invece un aumento dell’offerta di lavoro da parte delle fabbriche e
delle industrie, che attirarono la popolazione proveniente dalle aree rurali, innescando un
massiccio processo di urbanizzazione. Intorno al 1975 questo modello iniziò a cambiare, grazie alla
rapida diffusione globale dell’urbanizzazione e alla nascita delle mega-città, agglomerati urbani
con più di 10 milioni di abitanti.
Un processo determinante nel trasformare i paesaggi rurale, caratteristico dei paesi a economia
avanzata è quello della dispersione edilizia (urban sprawl). Esso si verifica quando il tasso di
consumo di suolo dovuto all’espansione dell’area urbanizzata – per scopi residenziali, commerciali
o industriali – supera quello della crescita della popolazione. Si forma allora un tipo di
urbanizzazione dispersa detto città diffusa, caratterizzato da una bassa densità di popolazione e
dalla presenza di capannoni, allineamenti commerciali, villette unifamiliari, intervallati da spazi
liberi destinati all’agricoltura o alla ricreazione. La città diffusa soddisfa certe esigenze individuali,
ma ne scarica i costi sulla collettività in vari modi. Per esempio, sottrare le risorse suolo
all’agricoltura, richiede ingenti investimenti nelle reti elettriche, telefoniche, idriche e fognarie che
seguono la dispersione urbana. Anche se il fenomeno dello urban sprawl ha raggiunto i propri
picchi di diffusione negli Stati Uniti, tutte le città rischiano di trasformarsi in città disperse, se non
gestiscono adeguatamente la propria crescita.
LE CITTÀ GLOBALI — sono i centri principali del potere economico mondiale, in grado di esercitare
un’influenza e un controllo sul resto del mondo. Si tratta di città di grandi dimensioni che sono
diventate centri o nodi di comando, in grado di influenzare in maniera determinante i flussi di
informazioni, beni e capitali che circolano in tutto il mondo. La nascita delle città globali si riferisce
a due fattori: la crescita delle imprese multinazionali e l’importanza crescente di servizi
professionali avanzati, come quelli legati alla finanza, alle assicurazioni, alla pubblicità o al settore
legale, anch’esse concentrate in un numero limitato di centri. Le città globali collegandosi tra loro
su scala mondiale, formano una rete urbana globale, che ospita le funzioni più pregiate come per
esempio le borse valori di NYC, Londra, Tokyo e Francoforte.
1. LE ATTIVITÀ LOCALI: sono quelle il cui raggio d’azione non va oltre l’immediato intorno
territoriale della città e consistono nella produzione di beni e servizi che vengono consumati
localmente e che assicurano la sussistenza della città.
2. LE ATTIVITÀ ESPORTATRICI: hanno un raggio d’azione da regionale a internazionale. Si
occupano di produrre i beni e i servizi dall’esterno e di scambiarli con prodotti di valore almeno
pari a quelli che importa. Sono dette anche attività di base, perché ad ogni posto di lavoro nelle
attività esportatrici corrisponde un aumento della popolazione residente, ma ogni tanti nuovi
residenti ci sarà l’aumento di un posto nelle attività locali che provvedono ai loro bisogni e ciò
produrrà un ulteriore piccolo incremento della popolazione.
All’interno delle città dei paesi economicamente avanzati gli abitanti e le diverse attività
economiche non si distribuiscono in modo causale, ma secondo una geografia legata a fattori
economici e socio-culturali. Gli affitti aumentano man mano che ci si avvicina al centro città e in
base al reddito medio e basso la popolazione si stabilisce nei quartieri. Le industrie manifatturiere,
sia per gli alti costi del terreno sia per motivi ambientali, tendono a localizzarsi in periferia delle
città.
2. Nel 1939 Homer Hoyt ha proposto un nuovo modello di descrizione della struttura spaziale
urbana, chiamato modello dei settori che attribuisce grande importanza al ruolo dei mezzi di
trasporto nella divisione dei cerchi concentrici in settori radiali.
3. Nel 1945 Chauncy Harris ed Edward Ullman proposero il modello dei nuclei multipli. Per primi
hanno sottolineato come molte città non abbiano un solo centro commerciale e degli affari ma
molteplici nuclei centrali, che possono includere i porti, i quartieri amministrativi, le zone
universitarie o quelle industriali.
4. Nel 1970 John Adams ha messo in relazione le fasi dello sviluppo dei mezzi e delle reti di
trasporto con i cambiamenti nella struttura residenziale di una città.
Tutti questi modelli influenzano in diverse proporzioni, i modelli di utilizzo dei terreni all’interno
dei confini della città.
LE CITTÀ EUROPEE — In molte città europee vi sono i centri storici che risalgono al Medioevo
e questo dà una certa struttura urbana:
• la conformazione delle città è particolarmente adatta alla circolazione dei pedoni e delle
biciclette e spesso il centro cittadino è chiuso al traffico;
• il trasporto privato è più costoso che in altri continenti, a causa del carburante, assicurazioni…;
• i mezzi di trasporto pubblico sono economici e molto diffusi;
• il mantenimento degli edifici storici ha favorito la loro conservazione e ha annullato progetti di
rinnovamento urbanistico;
• i quartieri centrali sono occupati da residenze, oltre che da uffici e servizi.
LE CITTÀ DELL’EST EUROPA E DEI PAESI SOCIALISTI — Le città dell’Est Europa e dell’Unione
Sovietica hanno subito cambiamenti economici a causa della Seconda guerra mondiale e del
comunismo. Una delle principali caratteristiche di questi centri urbani era la proprietà
completamente pubblica dei terreni, che impediva qualunque fenomeno di competizione per il
loro utilizzo. Le città erano organizzate con grandi piazze pubbliche e molti palazzi con
appartamenti vicino alle fabbriche. Dal 1989 con la caduta del comunismo e grazie alla
globalizzazione, hanno iniziato a cambiare le caratteristiche urbane; tuttavia, l’impianto di molti
quartieri ed edifici conserva le caratteristiche originarie.
LE CITTÀ DEL SUD DEL MONDO E I PAESI EMERGENTI — La differenza fondamentale tra le città del
nord del mondo e quelle del sud del mondo è data dal fatto che le prime hanno attirato e attirano
la popolazione perché offrono possibilità di lavoro, mentre le seconde non offrono tali possibilità
se non a un numero limitato di persone. Nei paesi del Sud del mondo, infatti, si migra in città per
fuggire alla miseria delle campagne o comunque nella speranza di migliorare le proprie condizioni
di vita.
La tipologia delle città del Sud del mondo e dei paesi emergenti hanno aspetti comuni tra loro:
• forte crescita della popolazione dovuta all’immigrazione e all’elevato tasso di natalità;
• struttura urbanistica disordinata;
• tendenza a formare grandi agglomerati;
• una forte diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza della popolazione.
Nel centro si trova il quartiere degli affari e degli uffici pubblici, che rispetto a quello delle città dei
paesi sviluppati ha un’estensione più limitata e una minore varietà di funzioni. In esso sono
presenti le banche e gli uffici delle imprese nazionali e straniere. I quartieri della periferia abitati
dai poveri (baraccopoli) sono detti favelas in Brasile, barrios in Venezuela, bidonvilles in Africa e
slums in India, con situazioni igenico-sanitario scarse. Invece i ricchi ossessionati dalla sicurezza,
hanno case con mura di cinta e telecamere, sono quartieri nati sul modello delle gated
community.
LE CITTÀ ISLAMICHE — Le città islamiche hanno parecchi elementi in comune con le città
medievali europee: un centro religioso, un mercato centrale (suq), quartieri residenziali, un
reticolo stradale irregolare e una cinta muraria con funzioni difensive. Prendendo in
considerazione la umma, ovvero la comunità globale dei fedeli musulmani, la città islamica è
quella che permette ai fedeli locali di rimanere in contatto con la comunità musulmana
internazionale, per questo alcune città marocchine sono orientate in base alla qibla, la sacra
direzione della Mecca.
LE BARACCOPOLI
La suburbanizzazione dei paesi del Sud globale si caratterizza per la presenza di grandi masse di
poveri che occupano per lo più settori svantaggiati. Si tratta di quartieri di baraccopoli (in inglese
slum, in francese bidonville), ammassi di abitazioni precarie, auto-costruite, in origine privi di
strade, fognature, acqua potabile, elettricità e servizi.
Gli interventi per demolirli sono stati fallimentari, poiché abbattere le baracche costringendo i loro
abitanti a spostarsi non risolve il problema, ma lo trasferisce semplicemente in un altro luogo.
L’urbanistica è la regolazione dello sviluppo spaziale e fisico delle città, nasce ispirandosi a due
orientamenti politici: quello riformista umanitario che vuole garantire condizioni abitative decenti
ai meno abbienti e quello igienico sanitario, che ha come obiettivo primario l’eliminazione delle
condizioni antigieniche capaci di generare epidemie che minacciano l’intera popolazione.
Se fino agli anni ’70 l’urbanistica si presentava come una tecnica della pianificazione razionale degli
spazi urbani, ora l’obiettivo principale diventa lo sviluppo economico in un’area, che le autorità
pubbliche devono favorire e sostenere. Lo strumento per l’applicazione di tali scopi è la
pianificazione strategica.
Altra direzione hanno invece i progetti di rigenerazione urbana che consistono in azioni e
interventi che hanno per oggetto parti della città caratterizzate da situazioni di degrado fisico e
sociale, allo scopo di migliorare le condizioni degli edifici e del contesto urbano, talvolta a
vantaggio dei vecchi abitanti o talvolta sostituendoli con nuovi residenti.
LE SMART CITY
L’espressione smart city si riferisce alle città che mirano a realizzare, grazie all’impegno di
tecnologie avanzate nel campo della comunicazione digitale, una serie di obiettivi di sostenibilità
ambientale, sociale ed economica tra loro connessi in modo da migliorare l’efficienza e la qualità
della vita.
Il primo passo per legare l’uso di internet al territorio urbano fu la creazione delle prime “reti
civiche” che offrivano online ogni tipo di informazione utile ai cittadini e molti servizi pubblici. Esse
si sono poi diffuse formando la base di quelle che furono chiamate città digitali.
L’idea di base della smart city è di integrare le città digitali nella concreta materialità dello spazio
urbano.
TERRITORIALITÀ E SOVRANITÀ
Nella geografia politica sono basilari i concetti di territorialità e di sovranità, l’autorità completa
ed esclusiva di uno Stato sul suo territorio, sui suoi cittadini e sui propri affari interni. Dei rapporti
di territorialità abbiamo definito il territorio come uno spazio di interazioni di due tipi: quelle
rivolte a escludere gli altri dall’occupazione e dall’uso del nostro territorio (territorialità negativa o
passiva) e quelle rivolte a competere e cooperare per il miglior uso di esso (territorialità positiva o
attiva). Queste due facce della territorialità fanno parte di un unico problema che i gruppi umani
hanno: quello di ottenere dal territorio i mezzi per vivere e per essere autonomi.
La sovranità viene esercitata da ogni Stato all’interno dei confini del proprio territorio, anche se ciò
vale solo sul piano formale, perché di fatto esistono stati più forti, in grado di imporre i loro
interessi e il loro controllo a stati più deboli. Per esempio gli USA esercitano un certo controllo su
alcuni stati dell’America centrale, la Cina sul Mianmar, la Russia sugli stati caucasici, ecc.. Inoltre,
negli ultimi decenni si è anche affermato il principio che organizzazioni sovranazionali possano
intervenire a limitare la sovranità di quegli stati che violano gravemente i diritti umani o che
minacciano gli interessi generali dell’organizzazione. Così, ad esempio, si sono avuti gli interventi
militari della NATO negli Stati della ex-Iugoslavia, in Iraq, Afghanistan e in Libia.
In altri casi si impongono misure meno coercitive, come l’embargo, cioè il divieto di avere rapporti
commerciali con lo stato che si vuole condizionare o punire.
La sovranità dello stato si esercita nei riguardi dei propri cittadini, attraverso i poteri di governo
(legislativo, esecutivo, giudiziario), o nei confronti di altri Stati. A tal fine lo stato usa mezzi sia
pacifici (negoziazione, persuasione, ecc..) sia violenti. Si usa dire infatti che lo stato ha il monopolio
dell’esercizio della violenza; nei rapporti nazionali si va da una violenza potenziale che si esprime
come semplice minaccia, fino alla guerra. Lo stato sovrano è un concetto espresso da Thomas
Hobbes nel 1651 nel Leviatano. Il riconoscimento tra Stati della rispettiva sovranità a quei tempi
non esisteva, ma nacque quando si costituì lo jus publicum europaeum (diritto pubblico europeo),
teoria del giurista e filosofo Carl Schmitt. Questa teoria matura al termine della Guerra dei
Trent'anni, con il trattato di Westfalia (1648) che per la prima volta presenta una dichiarazione del
potere allegato al territorio e crea relazioni diplomatiche esterne che dovrebbero governare la
guerra e la pace. Leviatano è un mostro Biblico con un potere enorme, che Hobbes prende come
organismo modello innanzitutto perché deve avere un potere simbolico forte.
LO STATO
Nel lessico comune il termine paese è spesso sinonimo di Stato, anche se quest’ultimo esprime il
concetto in modo più formale. Lo stato è un’unità politica riconosciuta internazionalmente,
caratterizzata da una popolazione stabile, confini definiti e un governo con la completa sovranità
sul territorio, sugli affari interni e le relazioni internazionali. Lo stato è un’istituzione politica che
stato esiste nel momento in cui:
• possiede e controlla un territorio delimitato da confini definiti e riconosciuti dagli altri Stati;
• sul territorio risiede stabilmente una popolazione che si riconosce nelle leggi e nel governo
dello Stato;
• la sua esistenza viene riconosciuta da altri stati.
• ha un governo che si occupa degli affari interni e delle relazioni internazionali.
La sovranità costituisce un elemento fondamentale dell’esistenza di uno stato, e spesso è oggetto
di dispute territoriali. È interessante il caso di Taiwan, oggetto di una contesa territoriale
cominciata negli anni ’40 del secolo scorso, in seguito ad una guerra civile scoppiata in Cina tra
comunisti e nazionalisti, che portò alla nascita della Repubblica Popolare Cinesi. Taiwan non si è
mai dichiarata indipendente dal governo cinese, ma ha sviluppato un sistema politico ed
economico liberista. Il governo comunista cinese rivendica la propria sovranità su Taiwan e
considera l’isola la 23esima provincia della Cina, anche se di fatto non la controlla politicamente.
Questo dimostra quanto sia difficile rispondere alla domanda: ‘’quanti stati esistono al mondo?’’.
STATO E NAZIONE
Le persone che vivono all’interno dei loro confini condividono il senso di appartenenza ad una
nazione, spesso frutto di un insieme di circostanze storiche, culturali, economiche e politiche.
L’identità della nazione palestinese, ad esempio, è stata senza dubbio rafforzata dalla lunga lotta
per l’indipendenza e il riconoscimento. Anche se i termini di stato e nazione vengono
comunemente accostati, i geografi politici sono molto attenti a definire le differenze tra i due
concetti, riassumibili nel fatto che ‘’nazione’’ si riferisce ad un popolo, mentre ‘’stato’’ si riferisce
ad un’entità politica giuridicamente riconosciuta.
nazione → è la popolazione accumunata da origini, tradizione storica, lingua, religione, costumi e
dall’attaccamento allo stesso territorio;
stato → si riferisce a un’entità politica giuridicamente riconosciuta.
Di conseguenza Il nazionalismo è l’espressione dell’orgoglio di appartenenza e della lealtà nei
confronti di una nazione, mentre il patriottismo rappresenta l’amore e la devozione verso il
proprio stato.
In seguito alla nascita dello Stato territoriale Moderno nasce la Nazione, grazie all’invenzione di
simboli come la bandiera, l’inno nazionale, ricorrenze, riti significativi (es. il giorno della Festa della
Repubblica). La nascita della Nazione è stata possibile anche grazie all’obbligatorietà della
formazione scolastica, perché è attraverso questa che una Nazione, un popolo, riesce a formarsi.
Si insegna la storia, la geografia, la lingua (le minoranze della popolazione devono adeguarsi a
questo insegnamento almeno che non sia presente un bilinguismo o un dominio coloniale che non
impone una lingua ufficiale).
Oggi con la globalizzazione è come se ci fosse una sorta di perdita dell’identità; infatti, non a caso
con il crollo del Muro di Berlino e del cosiddetto bipolarismo c’è stata una spinta egemonica degli
Stati Uniti. Dall’altro lato però, la caduta del Muro di Berlino è stata una spinta, una rivendicazione
delle piccole e grandi Nazioni (es. ex Jugoslavia si è divisa in tanti stati, che in passato erano stati
messi tutti insieme in modo forzato durante la fase post-guerra mondiale).
La maggior parte degli stati del mondo sono stati multinazionali, cioè con una popolazione
appartenente a due o più nazioni (es— Svizzera, Belgio, Regno Unito, Spagna, Brasile, Canada).
Si parla invece di Stato-nazione quando i confini dell’entità statale coincidono con quelli di una
nazione, il cui popolo condivide un senso di unità politica. È il caso dell’Islanda, dove gli islandesi
sono il 94% della popolazione, o in Giappone, la cui quasi totalità degli abitanti (99%) si riconosce
nella nazione giapponese. Nel mondo però sono pochissimi gli Stati che possono essere ricondotti
ad una definizione di stato-nazione così precisa, anche se la maggior parte fdi essi presenta
comunque una certa identità nazionale unitaria, grazie all’integrazione sociale, economica e
politica dei suoi cittadini, anche se appartenenti a nazioni diverse. E’ il caso dell’Italia, dove gruppi
che parlano lingue minoritarie convivono con la maggioranza, che parla italiano.
Alcuni stati multinazionali, per vari motivi politici, economici e sociali, non sono stati in grado di
creare le condizioni per una vera integrazione delle nazioni e si sono disgregati, come è accaduto
negli anni 90 all’Unione sovietica, alla Jugoslavia e alla Cecoslovacchia. Il crollo di questi tre stati ha
generato la nascita, dal 1991 a oggi, di ben 24 nuove entità statali, 15 delle quali solo nell’ex
Unione Sovietica, il cui territorio oggi è occupato per la maggior parte dal nuovo stato russo.
Al contrario, esistono nazioni senza Stato, come quella Curda, il cui territorio, detto Kurdistan, è
diviso tra Iraq, Iran, Turchia, Siria, con qualche piccola enclave in Armenia.
L’IMPERIALISMO E IL COLONIALISMO — sono processi legati l’uno all’altro (ma non sono la stessa
cosa), che hanno contribuito alla nascita di molti Stati multinazionali, soprattutto a causa
dell’incontro forzato tra gruppi nazionali diversi. Molti stati hanno usato l’imperialismo e il
colonialismo come strategie per espandere il proprio potere su terre e popoli lontani.
imperialismo → è il controllo diretto o indiretto esercitato da uno stato nei confronti di un altro
stato o di un’altra entità politica territoriale;
colonialismo → è una forma di imperialismo in cui lo stato dominante prende possesso di un
territorio straniero, occupandolo e governandolo direttamente.
Questo fenomeno iniziò a diffondersi a partire dal XV secolo, quando i portoghesi diedero inizio
alle prime spedizioni lungo le coste africane e poi, insieme agli spagnoli, occuparono il territorio
americano. Queste prime conquiste stimolarono l’Olanda, la Francia e il Belgio a imitarli. Questo
processo portò alla fondazione di colonie europee in Africa, nell’Asia e nelle Americhe. La
conferenza di Berlino (1884-1885) diede inizio al processo che portò alla definizione formale dei
moderni confini politici degli stati del continente africano, imponendo dei confini netti che però
non tenevano conto della distribuzione dei diversi gruppi etnici che vivevano in quelle terre.
Dopo la Seconda guerra mondiale, i popoli della maggior parte delle colonie si sollevarono e
lottarono per ottenere indipendenza e autodeterminazione, ovvero la possibilità di scegliere
autonomamente il proprio status politico. In gran parte del mondo il colonialismo venne
considerato superato e molte colonie si liberarono dal dominio europeo, in particolare in Africa,
dove tra il 1960 e il 1970 nacquero ben 32 nuovi Stati indipendenti.
Le colonie che rimangono oggi nel mondo sono inevitabilmente posti strategici anche dal punto di
vista geopolitico, soprattutto quella di Guantanamo in cui vengono deportati i detenuti considerati
avversi alla cultura occidentale, come ad esempio i terroristi artefici dell’attentato alle torri
gemelle, vengono portati in questo carcere di massima sicurezza in cui vengono esercitate delle
condizioni disumane di tortura molto acute. Hanno anche delle funzioni geopolitiche di altra
natura: possono essere dei punti di appoggio per gli armamenti. Inoltre, alcune di queste
diventano dei paradisi fiscali, cioè dei posti dove si pratica una serie di strategie economiche.
ART 5
“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che
dipendono dallo stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi
della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.”
A differenza degli stati centrali regionali, gli stati che compongono lo stato federale sono detti stati
federati; i loro capi sono detti governatori che hanno un vero potere interno al loro stato come se
fossero dei presidenti. Il presidente degli Stati Uniti è uno solo, i rapporti internazionali sono gestiti
dallo Stato federale, mentre i rapporti militari sono gestiti dagli stati federati, ma dipende se
riguarda una questione interna o esterna tant’è che negli Stati Uniti ci sono due polizie: quella
nazionale e quella federale. Quando un crimine coinvolge più stati interviene l’FBI, quindi la polizia
interna deve cedere il posto alla polizia federale perché ha un potere maggiore e poi ha il controllo
interno politico (CIA).
LA GEOGRAFIA ELETTORALE
La geografia elettorale studia gli aspetti spaziali dei sistemi elettorali, le caratteristiche della
divisione del territorio in distretti elettorali e le variazioni spaziali del voto. Nei sistemi
maggioritari, quelli nei quali in ogni circoscrizione viene eletto un solo candidato, i distretti
elettorali, per assicurare una giusta rappresentanza, devono avere più o meno la stessa
popolazione e questo rende necessario a volte ridefinire i confini, seguendo i cambiamenti
demografici, ma il ritaglio delle circoscrizioni elettorali è comunque importante anche nei sistemi
proporzionali e misti per garantire un identico trattamento di tutti i partiti politici e delle
minoranze etniche e religiose.
Fa parte della geografia elettorale anche lo studio della distribuzione spaziale del voto tra i diversi
partiti politici. Di regola tale distribuzione non è casuale, In quanto le preferenze per i vari partiti
tendono ad aggregarsi per grandi aree regionali o macro-regionali. Ciò significa che c'è una
correlazione tra il voto politico e le caratteristiche dei contesti regionali, Queste possono
riguardare le attività prevalenti (industria, agricoltura, commercio, turismo ecc.), i cui interessi
possono essere più o meno sostenuti dai diversi partiti politici. Possono pesare anche tradizioni
storiche dovute a fattori religiosi, etnico-culturali e ideologici che storicamente orientano
l'elettorato verso certe scelte politiche piuttosto che altre, Possono esserci infine forti differenze di
sviluppo economico tra regioni ricche e povere, che por- tano alla formazione di partiti regionali.
L’Italia non è un vero e proprio stato federale e nemmeno centralizzato, ma per lo più una forma
intermedia chiamata Stato regionale perché si riconosce che lo Stato è unitario e uniforme e
l’interesse principale è quello di far prevalere l’interesse collettivo nazionale su quello locale e
individuale e per questo i poteri sono uguali in ogni regione, ma si riconosce
anche una maggiore autonomia, in particolare alle regioni a statuto speciale quali: Trentino-Alto
Adige, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia. In queste regioni, infatti, dopo la
Seconda Guerra Mondiale c’era una spinta autonomistica molto forte e dei movimenti locali molto
rilevanti.
RE-SCALING significa “rimodulazione delle scale” e fu introdotto da Neil Brenner nel 1999. Esso
consiste nella riorganizzazione, riarticolazione e ridefinizione delle scale territoriali. Tutti gli stati
del mondo hanno una suddivisione interna per poter governare i rapporti tra centro e periferie o
realtà locali, perché è del tutto evidente che sono i governi locali quelli ad essere più vicini alla
cittadinanza, e anche perché ogni contesto territoriale ha le proprie esigenze. In alcuni casi ci sono
troppi livelli politico-amministrativi che possono portare anche a dei conflitti di competenze, dei
costi elevati e un problema nell’erogazione dei fondi. Per questo il re-scaling è fortemente
sollecitato dall’Unione Europea.
La NATO è l’organizzazione delle forze armate, ed è quella sicuramente più rivelante nel mondo.
Le caratteristiche della NATO sono di condividere alcune forniture militari e di consentire agli Stati
Uniti di poter creare delle basi all’interno dei vari paesi che appartengono all’organizzazione, delle
loro basi militari.
Il Consiglio d’Europa, che dal 1949 opera per lo sviluppo della democrazia e per la tutela dei diritti
umani, che vengono poi difesi dalla corte europea di giustizia e della salvaguardia dei diritti
dell’uomo. Per cui, quando ci sono delle violazioni di questo genere, c’è da appellarsi e denunciare
al Consiglio d’Europa.
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico), che ha come obiettivo
principale quello di favorire una crescita equilibrata dal punto di vista economico nei paesi
membri. Nell’OCSE rientrano una serie di paesi che non sono solo quelli nord americani, europei,
ma stanno acquisendo sempre più membri perché è una cooperazione basata sulla collaborazione
di tipo economico;
La Corte Penale Internazionale, che è quella che dirime i contenziosi penali su scala
sovranazionale.
Infine, c’è l’Unione Europea. Mentre le Nazioni Unite sono un'organizzazione sovra-nazionale, che
agisce a scala globale sui temi della sicurezza e del benessere internazionali, l'operato dell'Unione
Europea (UE) si sviluppa a scala regionale, con l'obiettivo di favorire la cooperazione economica e
la coesione territoriale e sociale tra i paesi dell’Europa. La storia di questa istituzione si è
sviluppata attraverso 5 tappe fondamentali:
1. Nel 1944 nasce l’istituzione del Benelux, l’unione doganale tra 3 piccoli Stati
europei: Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, convinti di poter ottenere vantaggi
economici e costi di produzione più bassi grazie alla cooperazione reciproca, alla
rimozione dei dazi doganali e alla semplificazione del movimento delle merci
all’interno dei confini dell’unione;
2. L’attuazione del Piano Marshall, dopo la Seconda guerra mondiale, stimola la
ricostruzione dell’Europa e incoraggia la cooperazione regionale;
3. L’istituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) nel 1952
unisce il Benelux a Francia, Germania Ovest e Italia con l’obiettivo di rimuovere le
barriere doganali per il commercio di acciaio e carbone;
4. La stipulazione del Trattato di Roma, che nel 1957 istituisce la Comunità
Economica Europea (CEE). Gli stati sottoscrittori di questo trattato si impegnavano
a rafforzare l’unione economica tra di essi, creando un mercato comune nel quale
beni, persone, servizi e capitali fossero liberi di circolare da uno stato all’altro. Gli
stati fondatori della CEE sono gli stessi che 5 anni prima istituirono la CECA;
5. L’entrata in vigore del Trattato di Fusione, firmato a Bruxelles nel 1967 sostituendo
il Trattato di Roma. Attraverso questo accordo si gettano le basi per la
cooperazione politica degli Stati europei, attraverso la creazione di un Parlamento
Europeo. Questa nuova prospettiva porta a un cambio di nome: la CEE diventò
Comunità Europea. (CE)
Nel 1992, i 12 stati membri siglarono il Trattato di Maastricht o Trattato dell’Unione Europea, la
principale istituzione sovranazionale europea. Da allora, altri 16 paesi si sono aggiunti all’Unione,
che conta oggi 28 Stati membri. Anche la Turchia si è candidata a far parte dell'Unione Europea. I
negoziati, iniziati nel 2005, sono proseguiti con fasi alterne fino a oggi, senza risultati. Su questo
insuccesso ha influito il recente rallentamento della crescita economica turca, il grande peso
demografico del paese, il
mancato rispetto dei diritti umani specie nei confronti della minoranza curda, la posizione della
Turchia nei conflitti in atto nel Vicino e Medio Oriente, non sempre corrispondente agli interessi di
alcuni paesi europei.
Il funzionamento dell’UE è affidato ad un certo numero di Istituzioni europee, che sono:
• La Commissione europea, con sede a Bruxelles, detiene il potere esecutivo. in cui
c’è un rappresentante per ogni paese, ed è quella che decide tutto. Il suo lavoro
consiste nel valorizzare quello che è l’Unione Europea nel suo insieme, nel
proporre nuovi atti legislativi e nell’assicurare il rispetto dei trattati tra i paesi
dell’Unione;
• il Parlamento europeo; Noi votiamo i rappresentanti politici delle aree politiche
che più ci convincono, dopodiché la Commissione europea è quella che decide
tutto. È composto dai rappres3entanti dei cittadini degli Stati membri eletti a
suffragio universale diretto, ha sedi a Strasburgo, Bruxelles E Lussemburgo. Esercita
il potere legislativo con il Consiglio dell’Unione Europea.
• Il Consiglio dell’Unione europea ha sede a Bruxelles ed è formato dai ministri dei
vari governi statali;
• il Consiglio dei ministri;
• la Corte di giustizia che garantisce il rispetto degli atti legislativi;
• il Consiglio europeo, con sede a Bruxelles, è formato dai capi di stato o di governo
di ogni paese membro ed ha funzione di indirizzo generale per le politiche europee;
• la BCE (Banca Centrale Europea), di cui l’attuale presidente del Consiglio Draghi è
stato il governatore e che per molti anni ha favorito anche una politica più mite nei
confronti degli stati, dal punto di vista del debito pubblico. Promuove le politiche
economiche;
• la Corte dei conti europea che verifica i bilanci dell’unione e che tutto sia corretto,
verifica tutti gli organismi dello stato, ministeri, delle strutture…
L'Unione europea è l'economia più grande al mondo, con un Prodotto Interno Lordo (FIL)
complessivo dell'ordine di 15.000 miliardi di euro. Inoltre, si calcola che i soggetti privati e pubblici
che ne fanno parte detengano circa il 30% della ricchezza mondiale. Redditi e ricchezza sono
tuttavia distribuiti in modo ineguale tra gli Stati membri e lo loro regioni. Il PIL pro capite varia da
valori superiori a 40.000 dollari in paesi come l'Austria, i Paesi Bassi, la Germania e la Svezia, a
valori inferiori ai 15.000 dollari in paesi come Croazia, Romania e Bulgaria. Differenze analoghe si
hanno all'interno di molti paesi, tra cui I’Italia, dove il PIL pro capite delle regioni più ricche del
Nord è circa il doppio di quello delle regioni più povere del Mezzogiorno.
Tra le principali politiche Europee vanno ricordate quelle per la ricerca e l'istruzione. A
quest’ultima è dedicato il programma Erasmus, per la mobilità studentesca, creato nel 1987, che
offre agli studenti universitari la possibilità di effettuare in una università straniera un periodo di
studio legalmente riconosciuto dalla propria università.
Dal 2009 la crisi dell'eurozona ha messo in dubbio la solidità dell'unione monetaria. La crisi ha
toccato alcuni Stati periferici come Grecia, Portogallo e Cipro, ma anche Italia e Spagna,
rispettivamente la terza e la quarta
economia dell'UE. Due sono i fattori che hanno determinato la crisi: l'alto livello del debito e la
vulnerabilità del sistema bancario, privo delle coperture necessarie a sopperire ai debiti insoluti. La
crisi dell'eurozona ha scatenato una grave recessione, alti tassi di disoccupazione e pesanti misure
di austerity, ovvero azioni volte a ridurre la spesa pubblica e ad aumentare l'imposizione fiscale,
Per prevenire simili crisi in futuro, infatti, I’UE ha approvato il cd. fiscal compact, che impone agli
Stati membri la stabilità di bilancio. Si è proposto, inoltre, di dare alla Banca Centrale Europea il
potere di monitorare lo stato di salute delle banche dell'eurozona, come già accade negli USA con
il sistema della Federal Reserve.
L’UE continua a sembrare un vero e proprio Stato, con una banca centrale, un parlamento, una
bandiera e un inno nazionale. Questi sviluppi hanno portato gli studiosi a chiedersi se l'UE
rappresenti un nuovo tipo di Stato sovranazionale, la risposta è negativa per ora, non avendo una
costituzione, né altre prerogative proprie dello Stato (come un esercito e una politica estera
comune). Tra le molte ragioni dell'importanza dell'Unione Europea, è utile in particolare metterne
in evidenza due. In primo luogo, si tratta di un esempio di successo di cooperazione economica
sovranazionale, che è stato preso a modello da altre organizzazioni simili nate in seguito. Inoltre, la
nascita della UE ha portato la cooperazione sovranazionale a livelli mai raggiunti prima, al punto
da mettere in discussione lo stesso concetto tradizionale di Stato, soprattutto per quanto riguarda
caratteristiche un tempo considerate prerogativa esclusive, come la presenza di un parlamento, di
una banca contrale e di un inno ufficiale. Nel 2004 è stata redatta anche una costituzione
dell'Unione Europea, la cui adozione è stata però respinta da alcuni Stati membri (in particolare
Francia e Paesi Bassi) attraverso un referendum. Inoltre, sono numerosi i segni di indebolimento
del progetto europeo negli ultimi anni. Il caso più clamoroso è quello della prevista fuoriuscita del
Regno Unito dall'Unione europea, nota come Brexit, conseguente al referendum svoltosi nel paese
il 23 giugno 2016.
Uno degli effetti della pressione competitiva esercitata dalla globalizzazione è la modifica delle
aggregazioni politiche alle diverse scale territoriali, fenomeno che prende il nome di rescaling.
Rescaling significa “rimodulazione delle scale” e fu introdotto da Neil Brenner nel 1999. Esso
consiste dunque nella riorganizzazione, riarticolazione e ridefinizione delle scale territoriali. Tutti
gli stati del mondo hanno una suddivisione interna per poter governare i rapporti tra centro e
periferie o realtà locali, perché è del tutto evidente che sono i governi locali quelli ad essere più
vicini alla cittadinanza, e anche perché ogni contesto territoriale ha le proprie esigenze. In paesi
come l'Italia (7.954 comuni) e la Francia (36.781 comuni) la dimensione comunale è di regola
troppo piccola per svolgere politiche efficaci di sviluppo locale, gestione di servizi pubblici e
pianificazione urbanistica. Si sono perciò creati sistemi locali derivanti da aggregazioni politico-
amministrative sovracomunali, per rimediare a conflitti di competenze, costi elevati ed eventuali
problemi nell’erogazione dei fondi. In Italia abbiamo vari tipi di istituzioni che rispondono a questa
esigenza: le unioni di comuni, le unioni montane, le città metropolitane, ecc… Nello stesso tempo,
autonomie e decentramento politico-amministrativo hanno favorito in molti Stati, tra cui l'Italia, il
rafforzamento della scala regionale, grazie al trasferimento verso il basso di competenze che prima
erano del governo centrale. Quest'ultimo ha poi subito anche un ulteriore indebolimento, dovuto
alla migrazione verso l'alto di prerogative e funzioni che sono state assunte in parte da organismi
sovrastatali, come l'Unione europea. Il rescaling mostra come il ruolo svolto dalle aggregazioni
territoriali alle diverse scale, pur avendo queste una notevole stabilità, possa mutare nel tempo.
A questo periodo risalgono anche gli studi di Cesare Lombroso sulla criminalità e sulla
fisiognomica (una scienza che studia le forme del viso e classifica le tipologie caratteriali).
Lombroso è colui che individuerà i delinquenti in funzione dei loro volti e li classificherà. E ci sono
proprio dei caratteri morfologici ed esterni che vengono attribuiti a queste classificazioni. Questa
cultura positivista e colonialista porterà molti studiosi a credere che le società sono in guerra tra
loro e a questa guerra sopravviveranno solo quelle migliori (si afferma la superiorità di certe specie
rispetto ad altre.)
Alla scuola geografica tedesca di Ratzel, si oppone quella francese di Vidal de la Blache: questa
dava molto più valore alle peculiarità, alle specificità e alle differenze (es. se allevo pecore preparo
i vestiti usando le pelli delle pecore, mangeremo carne bovina e ovina, formaggi. Mentre se sono
in un contesto dove si privilegia la pesca la cultura, le pratiche, i modelli di vita sarebbero diversi.
Ancora, in un contesto di alta montagna avrò delle tradizioni e pratiche diverse perché ho a che
fare con la neve…). Per Vidal è fondamentale analizzare il territorio e delimitare una regione che
ha una caratteristica (la regione alpina, marina, diversa da una sponda all’altra) per non mescolare
i paesaggi, e specifici generi di vita. Da qui nasce la tradizione geografica delle monografie
regionali, cioè i singoli geografi andavano a studiare le regioni sotto ogni punto di vista. Uno degli
studiosi che si è formato alla scuola di de la Blache è Lucien Febvre. Tra i suoi scritti ritroviamo “La
terra e l’evoluzione umana", in cui conia il termine possibilismo, secondo cui sono gli uomini a
stabilire un rapporto con l’ambiente per sfruttare le sue risorse, e in questo caso è lui a modificare
l’ambiente e non viceversa. Il termine poi viene attribuito a Vidal, mettendo in dubbio il
determinismo ambientale, affermando che se questo fosse vero, allora alle stesse latitudini si
dovrebbero avere gli stessi usi, costumi, generi di vita e culturali, cosa che invece non accade.
Nei primi del Novecento muore Ratzel e intanto si afferma la teoria dell’Heartland di Halford
Mackinder, che metteva in relazione la stabilità geopolitica con il mantenimento di un equilibrio di
potere tra i diversi Stati, la cui rottura avrebbe potuto portare al predominio, su scala mondiale, di
uno o più Stati. Secondo Mackinder, la rottura di questo equilibrio sarebbe potuta avvenire non
tanto attraverso il controllo dei mari, quanto piuttosto controllando l'enorme massa continentale
eurasiatica, al sicuro da eventuali attacchi provenienti dal mare, che inizialmente chiamò «perno»
geografico e in seguito Heartland, perché secondo il geografo il mondo ha un cuore, una parte
centrale, che individua nell’area euro-asiatica, perché la storia millenaria viene da là. Intorno a
questa ci sono altre due fasce: una mezzaluna interna e una mezzaluna esterna, le aree che
subiscono l’influenza e l’egemonia della pivot area. Chi possiede e controlla l’Heartland, controlla il
mondo. Secondo Mackinder, infatti, la regione compresa tra l’Europa orientale e l’Asia centrale
presentava la migliore combinazione di fattori geografici strategici per un predominio su scala
globale. Il controllo di quest’area avrebbe significato l’accesso a una base enorme di risorse e il
possesso di un territorio interno, al sicuro da qualunque attacco proveniente dall’esterno. Nelle
idee del geografo, chiunque avesse controllato questa regione avrebbe potuto sconfiggere
qualunque potenza marittima. Secondo la teoria dell'Heartland la base territoriale degli Stati è un
elemento fondamentale nel definire il loro ruolo geopolitico. Ispirandosi a questa tesi Haushofer
sostenne in un primo tempo l'alleanza della Germania nazista con l'Unione Sovietica, che durò solo
dal 1939 al 1941, per trasformarsi poi nel tentativo fallito da parte della Germania di conquistare il
territorio sovietico e unirsi al Giappone nel controllo dell'Asia. Allo stesso modo, dopo la Seconda
guerra mondiale, fallì, a causa degli attriti con la Cina, un analogo tentativo dell'URSS che pure
occupava già una gran parte dello Heartland, ciò che tuttavia non le evitò il disfacimento
successivo. A partire dalla Seconda guerra mondiale si è però andata dimostrando sempre più
realistica, fino a essere ormai da tutti accettata, la teoria geostrategica del generale italiano Giulio
Douhet che, già nel 1921 aveva sostenuto che «chi comanda l'aria comanda anche la terra». In
altre parole, è l'entità delle forze aeree e missilistiche, unite al potenziale di satelliti artificiali, che
assicura oggi il controllo militare dei continenti e degli oceani.
Alla teoria di Mackinder poi, segue quella di Spykman. Anche lui riteneva che l’area euro-asiatica
fosse l’Heartland, perché aveva una serie di vantaggi strategici, oltre al fatto che affacciava su vari
mari. Da questa area poteva spingersi al controllo di quella che Spykman chiama il Rimland,
ovvero la fascia costiera, con la quale si dimostra la grande potenzialità di controllo del mondo.
Non a caso sosterrà la politica degli Stati Uniti nell’occupazione delle Hawaii per controllare l’area
caraibica.
Intorno ai primi decenni del ‘900 viene fondata la geopolitica da parte di Rudolf Kjéllen e che,
secondo lui, serve per gli aspetti dinamici e applicativi della guerra perché dietro ai conflitti,
soprattutto tra Stati, ci sono delle strategie militari. La sua tesi è legata all’idea dell’espansionismo
dello stato, quindi a delle forme applicative tra gli stati più forti rispetto a quelli più deboli;
La geopolitica è l’impatto dei fattori geografici, ovvero posizione, forma, aspetto fisico, di uno stato
relativamente alla sua politica estera. Queste tesi verranno poi studiate da Karl Hausofher, che
influenzerà molto gli studi di Adolf Hitler, che scriverà Mein Kampf (la mia battaglia), nel quale
riprenderà la teoria dello spazio vitale per giustificare la sua politica.
Dopo la Seconda guerra mondiale anche alcuni geografi accademici italiani avevano fondato una
rivista intitolata Geopolitica, la cui prefazione a cura di Mussolini e poi del ministro Bottai, i
massimi rappresentanti del fascismo. Tuttavia, dopo la fine della guerra essere geopolitici era
considerato come un marchio discriminante, per cui per alcuni decenni non se ne parlò quasi più.
Con i movimenti del ’68 di contestazione e trasformazione, cambia il contesto storico-economico:
c’è un boom economico, nascono una serie di organismi internazionali, il dollaro diventa il mezzo
di transizione fondamentale, viene fondato l’ONU e nel 1948, scoppia il conflitto araboisraeliano
perché l’area della Palestina viene assegnata agli ebrei come stato di Israele e i Palestinesi che
vivevano lì da centinaia di anni erano stati cacciati dal proprio territorio. I palestinesi verranno
sostenuti da quel mondo arabo che aspira anche ad una sorta di unità, per contrapporsi
all’egemonia occidentale.
Più recente è la teoria geopolitica di Samuel Huntington*, che è stata ripresa dopo l’attacco alle
torri gemelle e del terrorismo islamico. Secondo lo studioso il mondo è diviso in 9 civiltà: civiltà
islamica, africana, occidentale, ortodossa, giapponese, hindu, Sinica, buddista, latino-americana.
Dagli anni 70-80 ad oggi, la geografia politica si è sviluppata secondo tutta una serie di approcci
diversi che vedono l’intreccio delle dinamiche politiche come processo costituito da pratiche
istituzionali, sociali e territoriali.
Per lungo tempo si è fatto riferimento alla geografia come una scienza spaziale ciò è sbagliato
perché la geografia è un sapere, non è una scienza, ed è composta da tutta una serie di saperi che
sono territoriali, cartografici… Al tempo stesso la geografia non può essere ridotta solo allo studio
dello spazio, ma bisogna tener conto anche dei tempi e dare importanza alla storia, così come
sottolineava Lucio Gambi.
A oggi, infatti, la geografia politica comprende sia delle pratiche discorsive, ovvero delle
rappresentazioni, che sono le idee, i linguaggi, simboli iconografici (bandiere) e pratiche materiali,
ovvero l’insieme delle funzioni, delle attività finalizzate alla produzione, alla distribuzione e al
consumo dei beni e le condizioni di queste attività nelle loro connessioni e nel loro divenire.
Questo vuol dire che la geografia politica, si occupa di spazialità ma nel concetto di spazialità ci
sono anche la condizione sociale, la dinamica spaziale, territoriale e il rapporto con i gruppi sociali
con i vari gruppi umani, e politica. Di fatto, ogni decisione politica incide anche sugli eventi
economici, proprio perché produce leggi, norme, organizza e decide le politiche finanziarie in uno
Stato.
Prima, la geografia politica classica si occupava del potere dello Stato e di tutto quello che era
legato all’organizzazione statale (controllo del territorio, dei confini, ruolo della posizione
strategica), mentre dagli anni ‘70 in poi, c’è una maggiore attenzione verso quelli che si chiamano
attori non istituzionali, quindi ai movimenti dal basso (Rivolta degli ombrelli ad Hong Kong,
protesta dei gilet gialli in Francia, i NO-VAX), ma anche alle associazioni (ONG, Emergency, Medici
senza frontiere).
GLOBALIZZAZIONE E TERRORISMO
Il terrorismo è un fenomeno antico ed è stato usato come tattica politica, nel corso della storia,
non solo da singoli individui e piccoli gruppi di attivisti, ma anche da alcuni Stati, il cui sostegno ad
azioni terroristiche continua a essere un problema di scala globale. Il supporto da parte di uno
Stato può avvenire in molti modi: offrendo rifugio ai terroristi, addestrandoli, rifornendoli di armi,
equipaggiamenti o denaro, oppure condividendo con loro informazioni sensibili.
Gli esperti distinguono quattro grandi categorie di terrorismo, i cui confini spesso si
sovrappongono; il terrorismo rivoluzionario, il terrorismo separatista, il terrorismo religioso e
quello legato a un tema specifico. Il terrorismo rivoluzionarlo è solitamente collegato al tentativo
di rovesciare un regime, come nel caso del Front de Libération Nationale (FLN) algerino, che tra il
1954 ed Il 1962 combatté contro Il domino coloniale francese. Il terrorismo separatista è invece
quello messo in atto da gruppi che ambiscono all'autonomia o all'indipendenza di un territorio. In
altri casi il terrorismo, individuale o di gruppo, viene scelto come strumento per rivendicazioni
legate a tematiche specifiche, come i diritti degli animali o la tutela dell'ambiente.
Un caso particolare di terrorismo rivoluzionario è quello di matrice islamica fondamentalista. La
sua globalizzazione è avvenuta I'11 settembre 2001 con la distruzione delle Torri Gemelle di New
York a opera di Al Qaeda, un gruppo terrorista fondato nel 1988 in Afganistan da Osama Bin Laden
con lo scopo originarlo di contrastare l'Invasione del paese da parte dell'Unione Sovietica.
L'uccisione di Bin Laden nel 2011 ha assestato un duro colpo alle operazioni di Al Qaeda in
Afghanistan e Pakistan. In Iraq nel 2004, durante l'occupazione americana dell’Iraq, da Al Qaeda
ha preso origine l’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria). Nel 2012 M'ISI5 è intervenuto nella guerra
civile siriana, dove ha preso il controllo di una parte del territorio, estendendo poi Il suo domino su
un'area confinante del vicino territorio iracheno. Ciò ha permesso a questo gruppo terroristico di
proclamarsi Stato Islamico, come ora vene comunemente chiamato (IS, Islamic State). L’IS si
propone di ripristinare un unità politica, estendendola a tutte le regioni africane, asiatiche ed
europee che hanno avuto un passato mussulmano, e prendendo il controllo dei territori, tramite
azioni terroristiche; queste comprendono violazioni dei diritti umani, massacri di intere
popolazioni che rifiutano la conversione all’islam, distruzione di memorie storiche, come musei
ecc… L’affermarsi dell’IS sfrutta il malcontento e la frustrazione di tanti mussulmani poveri ed
emarginati, anche europei, che corrono ad arruolarsi in questo esercito.
| I PAESAGGI DELLA POLITICA
In che modo le questioni politiche possono modificare il paesaggio? Con quali mozzi i paesaggi
culturali possono venire utilizzati per trasmettere messaggi politici? Perché alcuni paesaggi,
culturali o naturali, possono trovarsi al centra di accese dispute politiche? Questo sono solo alcune
delle domande che possono aiutare a capire di cosa si occupano gli studiosi dei paesaggi politici.
Lo Stato esercita il proprio controllo politico attraverso il governo che a sua volta, per mezzo delle
sue politiche, delle sue agenzie e delle sue leggi, può influenzare l'aspetto delle città e delle
campagne. Finanziando la progettazione e la costruzione di infrastrutture, come ferrovie,
fognature, sistemi di irrigazione
o reti per la distribuzione dell'energia, lo Stato crea paesaggi che rispecchiano le scelte del proprio
potere centrale: lo stesso avviene per gli enti politico-amministrativi locali. La presenza del potere
centrale nel paesaggio è particolarmente importante per il processo di costruzione dello Stato in
quanto, ad esempio, collegando le diverse parti di un paese attraverso le infrastrutture ne aiuta la
coesione e rafforza l'importanza e l'autorità del governo statale. Ta Italia, ed esempio, l’unità
effettiva del paese fu realizzata una prima volta con le ferrovie e una seconda volta con le
autostrade. Appena proclamata l'Unità c'erano appena 1.900 km di ferrovie, in gran parte al Nord.
Poco più di trent'anni dopo, nel 1895 cc n'erano 14.100. Lo sviluppo delle autostrade fu altrettanto
rapido, soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando si costruì la maggior
parte della rete attuale, a cominciare dall'Autostrada del Sole che attraversa tutta la penisola.
I confini stabiliscono i limiti della giurisdizione di uno stato e di conseguenza della sua autorità
politica sul territorio. In alcuni casi la demarcazione fisica di un confine può dare vita a un
paesaggio della sicurezza, creato per proteggere il territorio, la popolazione, le strutture e le
infrastrutture da interventi esterni. Spesso questi paesaggi di confine sono contraddistinti da
telecamere di sicurezza, metal detector e ingressi controllati, con lo scopo di impedire
l'immigrazione irregolare o anche di prevenire il rischio di attacchi provenienti dall'altro lato del
confine.
L'impronta dell'autorità centrale può venire rivelata anche dalle sue politiche e dalle sue leggi, che
possono favorire o scoraggiare determinati comportamenti, portando alla creazione di alcuni
specifici paesaggi politici o all'esclusione di altri. Uno degli esempi più evidenti è quello dalle
politiche di sviluppo rurale, che incentivano la coltivazione di alcuni prodotti a discapito di altri (ad
es. la produzione della barbabietola in Europa, dove il clima è troppo rigido per coltivare la canna
da zucchero).
Sono molte le leggi che possono determinare la produzione di specifici paesaggi politici. Ad
esempio, la regolamentazione dell'eredità dei terreni, che possono essere frammentati tra tutti gli
eredi o trasmessi intatti al primogenito; o ancora, le leggi che incentivano l'insediamento di
impianti industriali in una determinata area. Anche l'istituzione di parchi nazionali e aree protette
produce effetti del potere politico sul paesaggio, attraverso le leggi che regolano la fruizione
dell'ambiente naturale.
Un altro importante aspetto dell'impatto della politica sul paesaggio è quello legato alla presenza
di simboli carichi di significati politici, definiti elementi di iconografia politica, come ad esempio
bandiere, statue o immagini di leader politici o militari, inni nazionali, memorial di guerra e simboli
di partiti politici. Spesso questi simboli sono dedicati a ideali come la libertà o la democrazia e
contribuiscono alla formazione di un senso di identità condiviso; l’iconografia politica veicola un
messaggio politico o che afferma la presenza del potere. Appartengono anche all'iconografia
politica i grandi complessi monumentali, sovente associati a piazze e grandi arterie urbane, dove si
svolgono raduni o parate militari. Essi caratterizzarono in particolare i grandi imperi del passato, le
monarchie di età moderna e le dittature più recenti. Ma non sono esenti da queste scenografie
molti paesi democratici come dimostrano ad esempio gli Champes Elisées e l'Arc de Triomphe a
Parigi, Il Campidoglio a Washington, il Reichstag a Berlino, il Parlamento a Londra, la piazza e la
basilica di San Pietro a Roma, la grande moschea a Casablanca e tanti altri nelle varie capitali.
Sviluppo alternativo > un altro tipo di sviluppo è quello che si definisce alternativo, con il quale a volte
si propongono progetti che possano eliminare le piaghe del malsviluppo > alla modernizzazione
agricola avvenuta in Francia tra il 1945 e il 1980, attuata dalle ONG cristiane. Le campagne si
meccanicizzano e i contadini si indebitano, infatti pur essendosi moltiplicata la produzione, la
popolazione agricola si è ridotta di molto. Un ruolo predominante è stato svolto dai pesticidi e concimi
chimici, provocando l’inquinamento del 98% delle terre della Bretagna, anche se non ha destato
preoccupazione più di tanto poiché molti contadini hanno trovato lavoro nell’industria. Ciò
nonostante, senza la lotta della Confédération paysanne, l’agricoltura sarebbe scomparsa. La lotta per
l’agricoltura contadina non dovrebbe sottostare allo sviluppo, dovrebbe rappresentare un’alternativa
ad esso. E con alternativo si intende, ad esempio, una tecnologia capace di cambiare tutto lo sviluppo,
la concezione di tempo e di spazio.
L’IMPOSTURA SVILUPPISTA Negli USA “sviluppare un’area” significa distruggere ogni forma di
vegetazione, coprire il terreno di cemento, sistemare i corsi d’acqua a terrazze, si avvelena tutto con
potentissimi pestici e infine si vende il terreno al miglior offerente. Lo sviluppo è al tempo stesso
un’impostura concettuale, a causa della sua pretesa universalistica, e un’impostura pratica, a causa
delle sue profonde contraddizioni.
L’etnocentrismo del concetto: in molte civiltà, prima di entrare in contatto con l’occidente, lo sviluppo
non esisteva, tant’è vero che molti non sapevano come tradurlo: in Guinea Equatoriale si usava una
parola che significava sia crescita che morte, in Ruanda lo sviluppo aveva origine nella parola
camminare. Questa lacuna indicava che alcune società non consideravano la loro riproduzione come
accumulazione dei saperi e dei beni e anche che lo sviluppo non si basa su concezioni universali. In
Africa nera, la popolazione dava importanza al tempo a partire dall’orientamento verso il passato,
perché quello che non possono vedere è il futuro, ma quello che sta davanti è il passato che già
conoscono.
Le contraddizioni reali: l’impostura pratica > la pretesa che lo sviluppo e la crescita economica
costituiscano l’obiettivo fondamentale delle società umane si basa essenzialmente sul famoso trickle
down effect o «effetto ricaduta». Il ragionamento sviluppista è diffuso di una tale quantità di paradossi
che l’effetto miracolo si rivela in realtà un effetto miraggio. Basterà mettere in luce tre di questi
paradossi: quello della creazione dei bisogni, quello dell’accumulazione e quello ecologico.
1) Paradosso della creazione dei bisogni = attraverso la creazione di tensioni psicologiche, lo sviluppo
e la crescita pretendono di soddisfare i bisogni primari dell’uomo. Lo sviluppo consiste soprattutto
nell’immaginare una strategia che permetta di sconfiggere i limiti che gli uomini pongono ai loro
obiettivi di reddito, e dunque ai loro sforzi. La pressione li spinge a lavorare e i sistemi contro la
povertà sono considerati come ostacoli. Nel 1994 venne svalutato il franco e questo, per alcuni
africani, rappresentava una possibilità per una maggiore esportazione di carne, per questo la Banca
Mondiale finanziò progetti per sviluppare gli allevamenti, ma gli esperti si sono opposti con fermezza
affermando che fare soldi era una cosa inutile. La popolazione cadde dunque in una doppia miseria, sia
psicologica che fisica. Inoltre, la povertà sembra essersi ridotta nel Nord grazie al trickle down effect e
alla diffusione dei frutti della crescita, ma si è tradotta in esportazione di povertà nei paesi del Sud.
2) Paradosso dell’accumulazione = la crescita viene presentata, in nome del trickle down effect, come
il rimedio miracoloso delle disuguaglianze. Essa permetterebbe di evitare le difficili riforme strutturali,
come la riforma agraria, e di attenuare i conflitti sociali. Piuttosto di affannarsi per accaparrarsi un
piccolo pezzo di torta, sarebbe più logico ingrandire tutti insieme la torta. Ma gli economisti pensano
che non si possa parlare di accumulazione senza diseguaglianze di reddito. Arthur Lewis (premio Nobel
per l’economia), riteneva che la diseguaglianza fosse positiva per la crescita in quanto, dal momento
che i ricchi risparmiano più dei poveri, si determina un investimento maggiore che a sua volta crea
ricchezza per tutti. I più poveri finiscono per beneficiare delle famose «ricadute». Un altro premio
Nobel, Simon Kuznets, ha affermato che nelle prime fasi dello sviluppo la disuguaglianza aumenta, ma
che in seguito la tendenza si inverte. Tuttavia, è chiaro che esisteva un’alternativa alla diseguaglianza,
infatti Corea del Sud, Cina e Giappone e Taiwan sono riusciti a ridurla con un importante attività di
risparmio.
3) Il paradosso ecologico della crescita = l’ossessione del PIL fa in modo che tutte le spese e le
produzioni vengano viste come positive poiché valore aggiunto di benessere. Però, le valutazioni del
costo del disinquinamento sono davvero problematiche, infatti è stimato che l’effetto serra costa tra i
600 e i 1000 miliardi di dollaro all’anno. L’indicatore di progresso autentico è un indicatore che
corregge il PIL per quanto riguarda le perdite dovute all’inquinamento. Ma risulta che mentre il primo
si riduce, il secondo aumenta sempre di più. Inoltre, il prezzo da pagare a livello politico e sociale è
enorme, fino agli anni ’60 era considerata normale la dittatura o la tortura. C’è addirittura chi sostiene
che è meglio un regime autoritario capace di realizzare le riforme necessarie piuttosto che una
democrazia incapace. Quanto tempo ancora servirà per capire che lo sviluppo non è altro quello che
già stiamo vivendo? Dunque, la guerra, il saccheggio e l’occidentalizzazione del mondo. Non è possibile
cercarne uno migliore, anche perché se fino a 70 anni fa l’Africa era povera solo rispetto ai criteri
dell’occidente, dopo cinquant’anni morire di fame è diventato normale.
QUINDI > con questi “sviluppi” interessanti ma poco realistici, si sente la necessità di uno sviluppo
alternativo, o meglio, di un’alternativa allo sviluppo. Si vuole costruire un doposviluppo e una
decrescita sostenibile. Ma per realizzare ciò si dovrebbe avere un’altra economia, un’altra razionalità,
un’altra concezione del tempo e dello spazio. Secondo Latouche lo sviluppo è al tempo stesso
un’impostura concettuale, a causa della sua pretesa universalistica, e un’impostura pratica, a causa
delle sue profonde contraddizioni. Quello che noi chiamiamo sviluppo è veramente quello che vogliono
gli abitanti dei villaggi? Il fatto stesso che molte civiltà non conoscevano il concetto dello sviluppo
prima del contatto con l’Occidente e che in quasi tutti i paesi del Sud del mondo la traduzione di
sviluppo nelle loro lingue sia stata impresa difficile ci deve insegnare molto2. Latouche si chiede
quanto ancora bisogna aspettare prima di capire che lo sviluppo è lo sviluppo realmente esistente.
Perché non esiste nessun altro sviluppo. E lo sviluppo realmente esistente è la guerra economica, è il
saccheggio senza limiti della natura, è l’occidentalizzazione del mondo e l’omologazione planetaria, è il
genocidio per tutte le culture differenti. L’alternativa allo sviluppo non può essere un impossibile
ritorno al passato e non può sicuramente prendere la forma di un modello unico, dato che la buona
qualità di vita si declina in molteplici forme a seconda dei contesti. Latouche identifica per il Nord del
mondo due forme di questa alternativa: la decrescita conviviale e il localismo. La nostra supercrescita
economica supera già largamente la capacità di carico della Terra: se tutti i cittadini del mondo
consumassero quanto gli americani e gli europei medi, i limiti fisici del pianeta sarebbero largamente
superati. Se si prende come indice del “peso” ambientale del nostro modo di vita l’impronta ecologica
di questo modo di vita in termini di superficie necessaria, si ottengono risultati insostenibili tanto dal
punto di vista dell’equità di accesso alle risorse naturali quanto dal punto di vista della capacità di
rigenerazione della biosfera3. “Decrescita” non significa una riduzione del benessere, ma significa
rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che «di più» è uguale a «meglio». Ma il bene
e la felicità si possono realizzare a minor prezzo. Per concepire la società della decrescita bisogna
uscire dall’economia e dall’ottica della necessità dei bisogni socialmente costruiti. Dobbiamo mettere
in discussione il dominio dell’economia sulla vita, ma soprattutto sulle nostre teste. La costruzione di
una società meno ingiusta si tradurrebbe nel recupero della convivialità e di un consumo più limitato
quantitativamente e più esigente qualitativamente. Si tratta di mettere in discussione il volume
esagerato degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta, con il relativo impatto negativo
sull’ambiente, la pubblicità ossessiva e a volte nefasta, e infine l’obsolescenza accelerata dei prodotti,
concepiti col sistema usa e getta soltanto per far girare sempre più velocemente la megamacchina
infernale: tutto questo costituisce delle riserve importanti di decrescita nel consumo materiale. Gli
effetti sul nostro tenore di vita della maggior parte delle riduzioni dei nostri prelievi sulla biosfera
corrisponderebbero necessariamente ad un maggior benessere qualitativo. Tutto questo senza parlare
delle possibili riduzioni delle spese militari, né naturalmente dei cambiamenti profondi dei nostri valori
e dei nostri modi di vita, che porterebbero a dare più importanza ai beni relazionali e a rivoluzionare i
nostri sistemi di produzione e di potere. La decrescita ha come obiettivo soprattutto quello di segnare
il fondamentale abbandono del perseguimento insensato della crescita per la crescita, il cui motore è
soltanto la ricerca sfrenata del profitto da parte dei detentori del capitale. Chiaramente, la decrescita
non punta a un’inversione caricaturale che consisterebbe nella decrescita per la decrescita.
Soprattutto, decrescita non significa crescita negativa. Sappiamo che il semplice rallentamento della
crescita oggi precipita le nostre società nello smarrimento, a causa della disoccupazione e
dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della
vita.
Osvaldo Pieroni ispirandosi alla carta Consumi e stili di vita4 propone un programma di sei R:
• Rivalutare i valori nei quali crediamo e sui quali organizziamo la nostra vita;
• Ristrutturare l’apparato di produzione e i rapporti sociali in base al cambiamento dei valori;
• Ridistribuire le ricchezze e l’accesso al patrimonio culturale;
• Ridurre l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare;
• Riutilizzare i beni d’uso;
• Riciclare. Tutto questo non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico: si tratta di un’altra
crescita per il bene comune.
Per quanto riguarda i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle conseguenze negative della crescita del Nord,
si tratta non tanto di decrescere, quanto di riannodare il filo della loro storia spezzato dalla
colonizzazione, dall’imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale, per
riappropriarsi delle loro identità. È la condizione perché questi paesi siano in grado di dare adeguate
soluzioni ai propri problemi. Proporre la decrescita conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e
già oggi identificabili e realizzare delle alternative concrete localmente sono elementi complementari.
È necessario rivitalizzare l’humus locale. Ed è necessario che sia al Nord che al Sud, perché anche in un
mondo virtuale si vive comunque localmente. Ma è soprattutto necessario per uscire dallo sviluppo e
dall’economia e per lottare contro la mondializzazione. La scommessa consiste nell’evitare che il
“glocale” serva da alibi al proseguimento della desertificazione del tessuto sociale e sia un cerotto su
una ferita aperta. L’economia mondiale, con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha escluso
territori popolati da milioni e milioni di persone, ha distrutto i loro modi di vita, ha soppresso i loro
mezzi di sussistenza per gettarle e mescolarle nelle bidonville e nelle periferie del Terzo mondo. Sono i
“naufraghi dello sviluppo”. Queste persone, condannate dalla logica dominante a scomparire, per
sopravvivere non hanno altra scelta che organizzarsi secondo un’altra logica, sono costrette ad
inventare un altro sistema, un’altra vita. A questa alternativa è stato dato il nome di economia
informale, in cui l’economico viene incorporato nel sociale, quasi si dissolve. Così i naufraghi dello
sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del circuito ufficiale, attraverso strategie
relazionali. Al Nord la riduzione dell’elemento nazionale5 riattiva il «regionale» e il «locale»: il tempo
libero, la salute, l’educazione, l’ambiente, la casa, i servizi alla persona si gestiscono a livello
microterritoriale. Questa gestione del quotidiano dà luogo a iniziative di cittadinanza ricche e
meritorie: dall’ Europa agli Stati Uniti, all’Australia, si vede fiorire una miriade di associazioni senza
scopo di lucro (imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, banche del tempo, banche
etiche, movimenti per il commercio equo e solidale, ecc…). Latouche evidenzia come le eventuali
ricadute economiche di tutto questo siano problematiche: si tratta di posti di lavoro nel settore dei
servizi (amministrativi o alle imprese), di lavori di subappalto o di servizi di prossimità per i residenti. È
chiaro che non si tratta di risultati di una dinamica integrata. Essendo connessi allo sviluppo economico
e al mercato mondiale (con i sussidi dello Stato e dell’Unione Europea), questi risultati prima o poi
sono condannati a scomparire o a confluire nel sistema dominante. Allora perdono completamente la
loro anima e finiscono per essere strumentalizzati dai poteri pubblici, dalle imprese, e anche dagli
stipendiati delle organizzazioni. Realizzare la società locale significa non trincerarsi in un terzo settore,
ma colonizzare progressivamente gli altri due, cioè il mercato capitalistico e lo Stato. Si tratta anche di
appoggiarsi su una democrazia locale rivitalizzata. Proporre, contro lo sviluppo, uno sviluppo durevole,
locale, sociale o alternativo, significa in fin dei conti cercare di prolungare il più possibile l’agonia del
paziente nutrendo il virus che lo sta uccidendo. È necessaria, secondo Latouche, una vera e propria
cura di disintossicazione collettiva. La crescita è infatti al tempo stesso un virus perverso e una droga.
Forse non rinunceremmo volentieri né allo sviluppo, né al nostro modo di vita, né alle tecniche che gli
sono associate. Allora non c’è né speranza né prospettiva per l’umanità? L’aberrazione di una
razionalità mossa dalla ricerca senza limiti del profitto produce catastrofi che, sebbene dolorose,
creano occasioni per la messa in discussione dello stato di cose esistente. Chernobyl ieri, la mucca
pazza oggi, l’effetto serra domani, per non parlare degli innumerevoli rischi tecnologici quotidiani, sono
potenti spinte alla riflessione. La pedagogia delle catastrofi stimola il necessario cambiamento
dell’immaginario, una delle condizioni necessarie perché le alternative possano farsi luce e trionfare.