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Geografia Umana – Un approccio visuale, riassunto

CAPITOLO 1 | Alexander von Humboldt fonda la geografia umana moderna.


Il termine geografia deriva da due parole greche geo e graphia che, messe insieme, significano
scrittura della Terra. Tuttavia, al giorno d’oggi la geografia è molto di più della semplice descrizione
della Terra perché, all’interno della grande branca della geografia, ritroviamo più geografie, più
discipline che non possono essere ignorate poiché si influenzano tra loro.
Le geografie più importanti sono la geografia fisica, che studia gli ambienti e le componenti
naturali e che utilizza i metodi delle scienze naturali, e la geografia umana che si occupa degli
esseri umani sulla Terra si rifà alle scienze umane e sociali.
La geografia umana è un sapere che studia l’organizzazione sociale, politica, economica, culturale
degli spazi terrestri, le loro diversificazioni e sedimentazioni nel corso della storia e il rapporto tra
gruppi umani e territorio e come questo sia stato trasformato nel tempo da essi. Come abbiamo
visto, una geografia dipende dall’altra e infatti, la geografia umana non può ignorare quella fisica
perché tutte le azioni che l’uomo compie in relazione con l’ambiente, non possono essere
comprese, interpretate e valutate se prima non teniamo conto dell’ambiente stesso e degli effetti
che quella stessa azione può avere su di esso. La geografia è considerata un sapere connettivo
perché collega e studia le connessioni del rapporto tra i gruppi umani e la natura, che con il
passare del tempo sono diventate delle vere e proprie branche della geografia: geografia sociale,
geografia politica, geografia economica, geografia urbana… si avrà così uno sguardo connettivo o
olistico (olos > tutto insieme, il tutto).

BREVE SINTESI: DALLA GEOGRAFIA ANTICA A QUELLA CONTEMPORANEA


L’origine della geografia come descrizione della Terra viene collocata intorno al 550 a.c. e identificata con il primo tentativo
di rappresentare tutto il pianeta (pensato allora come un disco piatto circondato dall’Oceano) ad opera di Anassimandro di
Mileto. Circa un secolo dopo un altro greco, Erodoto di Alicarnasso, dà origine a quella che oggi chiamiamo geografia
umana. Erastotene di Cirene calcola con straordinaria precisione il valore del meridiano terrestre ed è il primo a scrivere
un’opera intitolata Geografia. Più simile a quella di Eratostene sarà invece la Geografa di Tolomeo che resterà fin dall’epoca
delle grandi scoperte geografiche la descrizione più dettagliata della Terra e anche la più autorevole.
A dispetto delle nuove conoscenze acquisite dai Normanni), da viaggiatori e mercanti arabi, pisani, genovesi, veneziani,
provenzali e catalani), il Medioevo non produsse nessuna sintesi geografica originale. Mentre circolavano descrizioni della
Terra piuttosto favolose, ancora nel Cinquecento si ristampava la Geografia di Tolomeo. Tra la fine del XV e l’inizio del
XVI, con la circumnavigazione dell’Africa, la scoperta delle Americhe, dell’Australia, la cultura europea sarà la prima al
mondo ad avere un’idea quasi completa della configurazione dei mari a delle terre emerse e anche una prima idea dell'enorme
varietà del pianeta in fatto di climi, piante, animali, popoli, usi e costumi. Tutto ciò favorì l'affermarsi della geografia
scientifica moderna, che iniziò in Olanda. Il paese allora più ricco di commerci internazionali e perciò di informazioni
geografiche. Per Bernardo Varenio, come per i grandi scienziati della sua epoca, la matematica serve anzitutto a interpretare
correttamente I fenomeni naturali, ma questa verità scientifica si traduce anche in efficacia pratica grazie alle tecniche che
permettono la costruzione delle carte, il calcolo delle rotte e quant'altro.. Nei secoli XVII e XVI questa nuova razionalità
geografica si scontra con le logiche del potere assoluto, che assegna il monopolio della cartografia al "geografo del Re" e che,
disegnando I confini amministrativi e politici a suo arbitrio, traccia sulla terra una
geografia sovente in contrasto con quella già scritta dalla natura. Questo e l'argomento con cui Il geografo francese Phillippe
Bauche rivendica il primato di quelle che egli chiama "regioni naturali", cioè i bacini fluviali delimitati dalle linee
spartiacque, contro le articolazioni regionali dell’Ancien Régime. L'Ottocento è il secolo che vede l'affermarsi della geografia
come sapere accademico nelle principali università europee.
I due fondatori della geografia contemporanea sono Alessandro di Humboldt e Karl Ritter. Il primo proporrà lo studio del
paesaggio come sintesi visiva da cui partire per ricostruire le interdipendenze dei fatti nella loro varietà planetaria. Il secondo
teorizzerà la geografia come scienza delle relazioni spaziali, la cui conoscenza permette all'umanità di affrancarsi
progressivamente dalle costrizioni ambientali. La geografia accademica si affermò in Italia a partire dalla seconda metà del
XIX secolo.
Per capire la geografia dobbiamo prima analizzare i suoi concetti base, natura e cultura esprimono
due concetti complessi:
quando parliamo di natura si intende tutto ciò che è estraneo alla storia e alla creatività umana. Il
concetto di cultura, invece, si rifà alle pratiche e alle credenze condivise. Essa viene plasmata dalle
persone e dalle collettività (anche per l’influenza economica, storica, politica, sociale e ambientale)
che ne vengono a loro volta plasmate (es. la musica, la poesia, i vestiti, il cibo…) Il concetto di
cultura spazia dalle espressioni più alte della spiritualità, come l’arte, la musica, fino a ciò che sulle
differenze tra i popoli ci possono dire oggetti di uso comune come vestiti, cibo, abitazioni, ecc.
Negli ultimi decenni, si associano alla nozione di cultura tre argomenti:
1. La cultura è una costruzione sociale che riflette diversi fattori economici, storici, politici, sociali e
ambientali;
2. La cultura non è qualcosa di fisso, ma si modifica nel tempo e può generare scambi pacifici, ma
anche conflitti;
3. La cultura è un sistema dinamico complesso, le persone interagendo tra loro creano ed
esprimono una cultura, che definisce e influenza altre persone.
Le culture si presentano differenziate su base geografica e quindi si può parlare di culture locali,
regionali, nazionali o sovranazionali. In tutti questi casi c’è un forte legame della cultura con i
luoghi dove essa è formata, si trasmette verticalmente da una generazione all’altra. Tuttavia, oggi
una cultura non si limita a rimanere fissa nel luogo in cui è nata ma, a causa della globalizzazione, è
nata l’ibridazione della cultura che tende ad imporre certi caratteri culturali comuni a tutte le
società e territori.
Nonostante nell’età moderna si pensasse che natura e cultura fossero separate e contrapposte, e
che l’uomo si ponesse al di sopra della natura, la dominasse e la trasformasse a suo interesse, oggi
si va affermando una corrente di pensiero contraria al dualismo tra natura e cultura: è l’idea
sviluppatasi in età moderna che la cultura fosse ciò che permette all’uomo di porsi al di sopra della
natura, dominarla e trasformarla secondo i propri fini; questa linea di pensiero è stata poi estesa a
giustificare le gerarchie sociali e il colonialismo. Oggi si rifiuta questo dualismo e si pensa che
l’uomo, nonostante la sua cultura, sia comunque influenzato da certe leggi fondamentali della
natura stessa.

Alcune persone (come gli antichi Greci) ritengono che le diversità sia fisiche, sia culturali degli
esseri umani dipendano dai fattori naturali terrestri. Questa teoria viene chiamata determinismo
ambientale ed ebbe una grande diffusione tra i geografi per poi essere rapidamente abbandonate,
perché:
• non era dimostrabile scientificamente la relazione di causa- effetto;
• fattori ambientali identici non necessariamente danno luogo a pratiche culturali o
comportamenti umani simili;
• era una semplice ideologia per giustificare il colonialismo di quel periodo.

In direzione opposta al determinismo ambientale, si sviluppò nel XX secolo il possibilismo,


secondo il quale ogni ambiente naturale offre una gamma di alternative più o meno vasta e che, in
uno stesso ambiente naturale, società e culture possano modellarsi in modi diversi a seconda delle
loro scelte, basate sulle conoscenze e sulle capacità tecniche di cui dispongono. I possibilisti non
rifiutano completamente l’idea di un condizionamento da parte dell’ambiente naturale, ma allo
stesso tempo non pensano che esso sia l’unica o la principale forza che plasma le società e le
culture.
Tale concezione ha contribuito a diffondere la consapevolezza del ruolo dell’azione umana nei
cambiamenti dell’ambiente, a partire dall’osservazione di come nel tempo tale azione ha
modificato i paesaggi naturali trasformandoli in paesaggi culturali (cioè plasmati dall’azione
umana). Tuttavia, la Terra è di per sé soggetta a cambiamenti che derivano anche da eventi
naturali, non solo artificiali. A proposito di questi ultimi è importante ricordare che l’uomo non
può modificare l’ambiente in modo durevole senza obbedire alle leggi naturali.
I paesaggi sono dunque una determinata parte di territorio il cui carattere deriva dalle azioni di
fattori naturali e/o umani e dalle loro interazioni (Convenzione Europea del Paesaggio), come una
pergamena che conserva le espressioni delle varie epoche. Proprio per questo è importante
conservarli e tutelarli.

In relazione ai paesaggi, dobbiamo parlare dell’analisi regionale, che non si limita solo ad
osservare la superficie, ma si occupa di indagare i fattori che determinano la diversità dei territori.
Tuttavia, le regioni non sono altro che delle costruzioni mentali, un modo di raggruppare i luoghi in
base a caratteristiche comuni. es—“la regione delle foreste” distinguo un insieme di foreste (per
caratteristica ambientale); La Ciociaria, la regione della provincia di Frosinone, che ha delle
caratteristiche particolari anche di cultura, di dialetti (regione di tipo culturale)
Possiamo individuare diversi tipi regioni. La prima distinzione che si può fare è tra regioni formali,
un’area definita in base a una o più caratteristiche fisiche o culturali distribuite uniformemente →
le Alpi sono una regione formale caratterizzata dai rilievi [In questa categoria rientrano le regioni
storiche, che sono aree che presentano omogeneità socioculturale dovuta al fatto che sono state
unite a lungo politicamente, come la Provenza in Francia]. E tra regioni funzionali, un’area in cui i
luoghi sono connessi tra loro da relazioni più intense → funzionali urbane (formate da una grande
città e da centri più piccoli che dipendono dalla prima— es. Napoli e i centri che le ruotano
attorno, da cui ogni giorno si trasferiscono tantissime persone per lavoro e/o studio). Abbiamo poi
le regioni economiche, ossia i vari tipi di distretti economici (industriali, tecnologici, turistici)
caratterizzati dalle forti relazioni che legano le imprese presenti al loro interno. Infine ci sono
anche le regioni istituzionali → gli Stati, le unioni di Stati e le unità politico-amministratrive. In
Italia abbiamo le regioni, le province, i comuni.
Le regioni italiane sono venti e sappiamo che di queste alcune sono a statuto speciale e altre a
statuto ordinario; Le cinque regioni a statuto speciale sono: Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Friuli-
Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige.

| Per ragionare come un geografo bisogna avere una certa curiosità per i luoghi del mondo e
connettere i fatti che si osservano sulla superficie terrestre per sviluppare un’analisi che includa i
concetti di: luogo, spazio, diffusione spaziale, interazione spaziale, territorio, scala.
LUOGO → Per luogo si intende una località con specifiche caratteristiche fisiche, culturali e sociali.
Ciascun luogo può essere identificato tramite:
- la sua ubicazione assoluta, o posizione geometrica, che viene misurata per mezzo della sua
latitudine, longitudine1 (sono semi-circonferenze che circoscrivono la terra) e altitudine;
- la sua posizione con riferimento agli elementi dell’ambiente circostante: si fa riferimento in
questo caso al sito, ovvero alle caratteristiche fisiche di un luogo, e di come forma del suolo,
vegetazione, acque…;
- la sua situazione (posizione geografica), in relazione al contesto più ampio con riferimento alla
rete delle comunicazioni e alle possibili relazioni del luogo con tale contesto, cioè cosa gli sta
intorno.
I luoghi sono importanti perché sono parte delle nostre identità. Infatti, possiamo parlare di senso
del luogo per indicare quel sentimento di appartenenza che le persone sviluppano nei confronti di
determinate località, che può svilupparsi verso uno o più luoghi. Il sentimento di appartenenza di
una persona ad un gruppo sociale (un quartiere, una città) è strettamente legato al suo senso del
luogo. Al giorno d’oggi, ognuno di noi può sviluppare un senso di appartenenza a più luoghi
diversi.

SPAZIO → Per spazio i geografi intendono un’estensione della superficie terrestre di dimensioni
non definite. Esistono diversi tipi di spazio ai quali si fa riferimento:
 lo spazio assoluto, un’entità geometrica le cui dimensioni, distanze, direzioni e contenuti
possono essere definiti e misurati con precisione con la metrica corrente (metri,
chilometri). E’ lo spazio delle normali carte geografiche, dove ogni oggetto ubicato, ogni
luogo, ogni regione trovano una loro esatta collocazione.
 lo spazio-tempo (che rientra nel concetto di spazio relativo) è uno spazio le cui proprietà
variano a seconda dei contenuti, cioè dei fenomeni che vi si svolgono. Un esempio è lo
spazio relazionale che è definito dalle interazioni umane e infatti può cambiare a seconda
delle persone e degli oggetti che vengono coinvolti. (es. gli scambi commerciali: quando
due paesi avviano degli scambi commerciali, creano uno spazio relazionale di tipo
commerciale, che esiste fino a quando vengono soddisfatte queste condizioni). Un altro
esempio è offerto dai social network, come facebook: quando si effettua il log-in per
entrare in uno di questi siti e si chatta con gli amici, si crea e si partecipa ad uno spazio
relazionale.
Lo spazio geografico, quindi, è sempre uno spazio relativo e relazionale, in quanto le sue proprietà
dipendono dalle relazioni e dalle interazioni che sussistono tra i soggetti e oggetti scelti per
l’indagine. Ogni geografia è la costruzione mentale di uno spazio relazionale, che risponde
all’esigenza sociale di conoscere la posizione di certi oggetti e soggetti e le relazioni che li legano
tra loro.
Adottare una prospettiva spaziale significa prestare particolare attenzione alle differenze tra un
luogo e l’altro, tra uno spazio e l’altro, nelle dinamiche della società e nei rapporti tra ambiente e
società. La variazione spaziale (cambiamenti nella distribuzione di un fenomeno da un luogo

1
* latitudine e longitudine sono le coordinate principali che si servono delle linee immaginarie meridiani e paralleli che
i geografi utilizzano per "tagliare" la superficie terrestre, ed entrambe si misurano in gradi perché sono grandezze
angolari dato che la terra non è piatta.
latitudine— distanza angolare di un punto dall'equatore (latitudine zero)
longitudine—distanza angolare di un punto dal meridiano zero (meridiano di Greenwich)
all’altro) e la correlazione spaziale (il grado in cui due o più fenomeni condividono una stessa
distribuzione e variazione spaziale) sono altri concetti chiave utilizzati dai geografi, entrambi usati
sullo studio della distribuzione spaziale dei fenomeni.

Un altro concetto fondamentale è quello di diffusione spaziale, cioè un movimento di persone,


idee, mode, malattie, da un luogo all’altro con tempi e modalità differenti a seconda del fenomeno
considerato. È un fenomeno nel quale il movimento – e quindi la variabile tempo – rappresenta
una dimensione essenziale. Esso permette di rispondere a domande del tipo: come fanno la moda,
i gossip, il virus e la tecnologia a diffondersi tra la gente in un luogo all’altro? Ci sono 4 tipi di
diffusione:
1. rilocalizzazione → le migrazioni sono la tipologia più diffusa;
2. per contagio → si verifica quando un fenomeno si diffonde tra persone che vengono a
contatto tra loro, ad esempio il raffreddore o un’abilità manuale.
3. gerarchica → avviene dall’alto verso il basso (top-down) es. mode che si diffondono da
personaggi in vista alle persone comuni.
4. stimolo → diffusione di un’idea, una pratica o fenomeno contribuisce a generare una
nuova idea. La diffusione per stimolo influenza in modo significativo la produzione e la
commercializzazione dei beni, come si vede nell’industria, ad esempio, dell’automobile o
del fast-food. Può anche capitare che diversi tipi di diffusione agiscono
contemporaneamente, ma il ritmo e la direzione della diffusione spaziale sono influenzati
anche dalle barriere assorbenti, che fermano la diffusione, o dalle barriere permeabili che
la rallentano soltanto.

Il mondo nel quale viviamo sta diventando sempre più globale. La globalizzazione, ovvero la
crescente interconnesione e interdipendenza tra persone e luoghi in tutto il mondo, è il risultato
del dilatarsi progressivo in tutto il pianeta dell’interazione spaziale, ovvero di una relazione tra
due o più soggetti nel corso della quale essi si scambiano idee, merci, servizi e modificano le loro
azioni in relazione alle idee e ai comportamenti dell’altro. La globalizzazione è stata avuta quando
le reti di infrastrutture, o anche le comunicazioni virtuali, hanno cominciato a coprire l’intero globo
terrestre, permettendo a tutti i luoghi della Terra di interagire tra loro. Infatti, la forza trainante di
tale unificazione mondiale è stata l’economia capitalistica di mercato. Le interazioni spaziali a scala
globale hanno potuto svilupparsi con la penetrazione europea alla scoperta dei nuovi continenti.
Molto parziale è tuttora la globalizzazione del mercato del lavoro, che riguarda solo poche
categorie molto qualificate, mentre i lavoratori non qualificati dei paesi poveri che cercano di
raggiungere i paesi ricchi per trovare lavoro, o vengono respinti o diventano “clandestini”.
Ancora assente è poi la globalizzazione legislativa, specie per quanto riguarda i diritti umani e la
possibilità di regolamentare i mercati finanziari allo scopo di evitare le crisi economiche globali,
che riflettono negativamente sulla vita di miliardi di esseri umani.

L’interazione spaziale è influenzata da 3 fattori:


1. complementarietà → si verifica quando un luogo o una regione trovano altrove una
risposta alla propria esigenza di beni e servizi creando un’interazione su distanze più o
meno lunghe (questo può essere influenzato anche dai prezzi di produzione). Ad esempio i
grandi paesi produttori di caffè come il Brasile, la Colombia, ecc. contribuiscono a
soddisfare la domanda dei principali consumatori come il Nord Africa e l’Europa. Si può
parlare di complementarietà anche tra città e regioni quando ad esempio le persone si
recano in un’altra città più o meno lontana per acquistare beni e servizi che non trovano
nella città in cui risiedono. Un tipo di complementarità è la cooperazione, che si ha quando
ad esempio ci sono degli scambi di opere d’arte tra musei di diverse città.
2. trasferibilità → è inversamente proporzionale all’energia necessaria (e quindi al costo) per
lo spostamento di un bene. Oggi grazie a internet l’informazione è un bene ad alta
trasferibilità, che comprende anche le transazioni finanziarie. Così come i gioielli che,
contrariamente a beni di poco valore e voluminosi, sono più facili da trasportare. La
trasferibilità ovviamente è influenzata dall’attrito della distanza, ovvero il modo in cui la
distanza può ostacolare gli spostamenti da un luogo all’altro o l’interazione tra luoghi
diversi.
3. opportunità alternative → l’esistenza di un luogo che, a parità di costi di trasferimento,
possa offrire un bene richiesto a condizioni più vantaggiose es—se cambio benzinaio è
perché da un altro risparmio, traggo vantaggio da un’opportunità alternativa. Le
opportunità alternative rendono evidente l’importanza dell’accessibilità, cioè la facilità di
accesso ad un luogo. Anche se esistono diversi modi di misurare l’accessibilità, essa viene
espressa solitamente in termini di tempi o costi di viaggio. L’accessibilità aumenta non solo
se i luoghi sono vicini, ma anche se questi sono maggiormente connessi. La connettività dei
luoghi dunque è importante, ovvero il numero e il tipo di connessioni che li caratterizzano.

Per spiegare meglio l’interazione spaziale, i geografi utilizzano la legge di Newton: le probabilità
che un cliente potenziale si rifornisca abitualmente in un centro commerciale è direttamente
proporzionale ai beni offerti e inversamente proporzionale alla distanza da percorrere per
raggiungerlo. L’effetto decrescente della distanza, dunque, è un fattore che influisce fortemente
sulla localizzazione di un’impresa o di un servizio pubblico.
Le innovazioni tecnologiche nei trasporti e nelle comunicazioni hanno reso possibile ridurre
l’attrito della distanza, facendo sembrare i luoghi più vicini l’uno all’altro. Questo processo,
studiato da David Harvey è stato chiamato compressione spazio-temporale, riferita alla radicale
trasformazione del nostro senso dello spazio e del tempo. Questo processo fa sembrare i luoghi
più vicini anche se rimangono lontani. La globalizzazione, infatti, non modifica la distanza assoluta
tra i luoghi, ma può cambiare la loro accessibilità e renderli più interagenti tra loro.

Il TERRITORIO, diversamente dallo spazio, è caratterizzato da dimensioni definite ed è lo spazio


delle interazioni tra esseri viventi. In geografia umana le relazioni possono dividersi in relazioni tra
soggetti e relazioni dei soggetti con l’ambiente esterno.
I soggetti possono essere intesi sia come soggetti singoli (anche chiamati individui) e come
collettività (comunità, città, Stati), e ogni soggetto, che sia individuale o collettivo, necessita di
localizzarsi.
In quanto alle relazioni con il territorio, si hanno perché il territorio è quello che fornisce le risorse
che assicurano sopravvivenza e indipendenza a un gruppo umano più o meno grande. Questo
porta alla cooperazione, scambio e reciprocità tra i vari territori che permettono l’utilizzo delle
risorse territoriali, ma anche a guerre per preservare o conquistare le risorse essenziali alla vita
che la Terra offre.
Come lo stato moderno territoriale borghese, poi, nascerà il concetto di confine: una delimitazione
dello spazio terrestre che ci permette di capire dove si esercita il potere politico dei gruppi sociali
che vi hanno affermato la loro egemonia. La maggior parte dei confini, quelli non conflittuali, sono
solo disegnati nelle carte e descritti negli accordi diplomatici.

[LA TERRA è un ellissoide di rotazione perché tende ad essere allargata, ha una sorta di
rigonfiamento ad est e ad ovest dato dai due movimenti permanenti della Terra, uno di rotazione
attorno al proprio asse che va in senso orario e uno di rivoluzione attorno al sole in senso
antiorario. Il tempo che gira attorno al proprio asse è misurato in quelle che per convenzione
chiamiamo le 24h, l’alternanza giorno e notte che abbiamo suddiviso in maniera equa nel corso dei
millenni. E così anche il tempo che la terra impiega per tornare nella stessa posizione di partenza
rispetto al sole è l’anno solare 365 giorni e 6 ore che vengono sommate ogni 4 anni.
La circonferenza equatoriale misura 40.076 km, misurazione che riuscì ad essere calcolata in
maniera abbastanza prossima 39.000 km circa, da Eratostene, il primo a scrivere un libro intitolato
“Geografia” nel III secolo a.C. Il raggio equatoriale, invece, misura 6378 km, il raggio polare 6357
km. Questa differenza di 20 km circa mi dà la misura di questa forma di ellissoide.
Infine, la distanza tra il Sole e la Terra, se è massima è chiamata Afelio, se minima è Perielio.

La nostra superficie terrestre ha delle gobbe, delle profondità, delle bassure e delle alture, delle
montagne, delle altitudini, degli altopiani, non è perfettamente liscia come un ellissoide di
rotazione o una sfera precisa. Questo motivo la possiamo definire un geoide: la misurazione reale
che avviene tramite satellite e che tiene conto di queste irregolarità gravitazionali prodotte dalla
presenza di regioni montuose e di regioni meno dense come le depressioni oceaniche. Difatti il
geoide è quello che riesce a rappresentare le irregolarità diversamente dall’ellissoide.]

La CARTOGRAFIA è l’arte, la scienza e la tecnologia di realizzare carte che rappresentano la Terra o


qualunque corpo celeste a qualunque scala.
Il concetto di scala è fondamentale per la geografia, e sono molti gli studi che si occupano di
questo argomento. Nella sua concezione, l’’idea di scala è applicata allo spazio ed è ciò che ci
permette di rappresentare la Terra, o una sua parte, in dimensione ridotta, come accade ad
esempio nei mappamondi. Si hanno due tipi di scale:
- la scala cartografica, che esprime il rapporto tra le distanze sulla carta e le distanze reali sulla
superficie terreste, i geografi distinguono in questo senso, tra carte a grande scala e carte a piccola
scala.
- la scala geografica o scala d’osservazione, indica invece il livello di analisi utilizzato per un
determinato studio o progetto, ad esempio il corpo, la casa, una città, una regione e così via.
La visione globale dev’essere sempre presente, a qualunque scala d’osservazione ci poniamo.

| C’è una varietà di strumenti diversi che si possono utilizzare nella ricerca sul campo. Tra questi ci
sono apparecchi tecnologici divertenti e relativamente nuovi, come il GPS, le immagini satellitari, i
sistemi informativi geografici (GIS), le mappe interattive, e anche strumenti più tradizionali, come
le carte, le fonti d’archivio, ecc. È necessario distinguere tra tecniche e strumenti. Le prime sono il
prodotto delle nostre conoscenze e capacità operative, mentre i secondi sono attrezzi che
utilizziamo per migliorare alcune nostre procedure e metodologie, come ad esempio la raccolta di
dati e la loro visualizzazione.
Dunque, le CARTE GEOGRAFICHE sono gli strumenti più associati alla geografia che ci permettono
di rappresentare e visualizzare la superficie terrestre (o di una sua porzione) ridotta, approssimata
e simbolica.
1. simbolica perché negli angoli della carta troviamo dei simboli, una leggenda che ci
permette di capirla e di leggerla. Nelle carte fisiche i colori si chiamano tinte
altimetriche e indicano l’altitudine.
2. approssimate, non soltanto perché è impossibile rappresentare esattamente in piano
la superficie curva della Terra, ma anche perché tra tutti gli oggetti presenti su di essa
ne vengono riprodotti solo alcuni, che a seconda degli scopi della carta vengono
ritenuti più importanti.
3. ridotta perché non si possono riprodurre le superfici reali nella rappresentazione su un
piano bidimensionale. Questa riduzione non è altro che una divisione e conduce al
concetto di scala, che rappresenta il rapporto di riduzione tra le distanze lineari
misurate sulla carta e quelle corrispondenti.

Differenza scala cartografica / geografica:


Cartografica – indica di quanto è stato ridotta la superficie da rappresentare; tanto più è grande il
denominatore, tanto più è stata ridotta.
Geografica – serve per determinare l’ampiezza del fenomeno di cui ci stiamo occupando; se si
parla di un fenomeno “a grande scala”, ha una grande estensione; se è un fenomeno “a piccola
scala”, ha un’estensione limitata (epidemia di morbillo in una scuola primaria).
Le migrazioni, globalizzazione, ruolo della donna nel ’68, povertà, gentrificazione e rap sono
fenomeni a grande scala.
Piccola delinquenza, traffico a Napoli – fenomeni piccola scala.
Riduzione > la rappresentazione della terra o parte di essa è RIDOTTA. Per conoscere di quanto è
stata ridotta la superficie che vogliamo rappresentare si guarda alla Scala cartografica. la scala
cartografica numerica è una frazione: il numeratore è l'unità, il denominatore è un numero che
indica di quante volte è stata ridotta la porzione di territorio rappresentata; tanto più grande è il
rapporto di riduzione tanto più piccola sarà la scala.
La scala cartografica grafica è rappresentata da un segmento suddiviso in parti uguali che
corrispondono ad un'unità di misura lineare, segnata sui segmenti stessi.
Le carte geografiche si possono classificare in base alla Scala:
piante (città) o mappe: scala compresa tra 1:10 e 1:10,000.
topografiche per zona urbana o rurali: tra 1:10.000 e 1:100.000.
corografiche per territori ampi: tra 1:100.000 e 1:1.000.000.
generali: superiore a 1:1.000.000.
planisferi, rappresentano tutto il globo.

Le carte geografiche hanno una legenda, cioè una spiegazione dei simboli usati. La maggiore
difficoltà nella costruzione delle carte sta nel rappresentare in piano una superficie curva
deformandola il meno possibile. A tal scopo si ricorre a trasformazioni geometriche, dette
proiezioni cartografiche. Vi sono proiezioni che mantengono le proporzioni tra le distanze, in
questo caso si dicono equidistanti: sono di questo tipo le carte stradali. Possono invece mantenere
proporzionali le aree, in questo caso sono dette equivalenti: sono di questo tipo le carte polche ed
economiche. Oppure possono mantenere esatti gli angoli tra meridiani e paralleli, allora sono
detto isogone: di questo tipo sono le carte nautiche. Nessuna proiezione può conservare
proporzionali le distanze, lo arco e gli angoli tra meridiani e paralleli contemporaneamente. Le
deformazioni saranno maggior quanto più è vasta la superficie rappresentata, mentre per quelle
che rappresentano territori piccoli la deformazione non è avvertibile.
A seconda della porzione di superficie terrestre che si vuole rappresentare, le carte prendono
nomi diversi. I mappamondi o planisferi rappresentano il mondo intero. Le carte geografiche che
rappresentano un continente o un paese, con una scala che va da 1:50 milioni a 1:100.000, sono
tipo le carte turistiche e quelle stradali. Per rappresentare in maniera più dettagliata il territorio si
usano le carte topografiche, con una scala compresa tra il 100.000 e Il 10.000. Infine, il tipo di
carta più dettagliato, con scala inferiore al 10.000, si chiama mappa, che viene usata per esempio
per rappresentare i limiti delle singole proprietà, e in questo caso vengono dette mappe catastali.
Se rappresentano una città vengono dette piante. Le carte generali si distinguono in fisiche che
rappresentano i tratti naturali fondamentali (mari, monti, fiumi, laghi ecc.) e politiche, che, oltre a
pochi tratti fisici, riportano i confini degli Stati, le vie di comunicazione, le città e quanto è opera
dell'uomo.
Per lo studio di singoli fenomeni e delle loro variazioni correlazioni spaziali sono molto importanti
le carte tematiche. Esse possono anche rappresentare cose che non si vedono nel paesaggio, come
le caratteristiche sociali o economiche della popolazione, le diverse produzioni, la distribuzione
della ricchezza ecc. Le carte possono servire di base per rappresentazioni particolari dette
cartogrammi, in cui dei dati numerici sono riportati sulla carta rappresentati da colori e figure
diverse per identificare quel fenomeno. Un cartogramma molto usato in geografia è il
cartogramma a mosaico.
L’approssimazione > la sfera terrestre, definito geoide, ha forma sferica > se vogliamo
rappresentarla in un piano dobbiamo chiaramente modificarla, poiché non è possibile trasferire
una superfice sferica (tridimensionale) su un piano (bidimensionale). Es: pensate a quando
sbucciate un mandarino, se volete appiattire la buccia di quel mandarino chiaramente dovete
incorrere in delle rotture di quella carta o di quel pezzo di buccia perché effettivamente non può
essere trasposta la sfera su un piano bidimensionale e, quindi, attraverso delle strumentazioni
geometriche o matematiche cerchiamo di rendere quanto più simile la trasposizione sul piano di
quella sfera. Per contenere le deformazioni si ricorre alle tecniche di proiezione, uno scopo di
procedure matematiche e geometriche che servono a delimitare le deformazioni. Le tre grandi
famiglie di proiezioni sono: prospettiche, di sviluppo e convenzionale. Le proiezioni ci aiutano
proprio a trasporre la tridimensionalità della sfera sulla bidimensionalità del piano. In base a cosa
scegliamo le proiezioni? In base, ad esempio, a cosa si vuole rappresentare o lo scopo della
rappresentazione perché diverso è se ho bisogno di una carta che mi serva per le tratte marittime
o aerea, oppure per analizzare i rapporti geo-politici dei territori. Aldilà delle motivazioni per le
quali scelgo una proiezione piuttosto che un’altra (la proiezione che scelgo deve sempre essere
annunciata all’interno della mia carta perché se non lo facessi potrei incorrere in delle
deformazioni) esistono diversi tipi di proiezioni:
Le proiezioni Prospettiche -> nelle quali immaginiamo di avere un fascio di luce che illumina la
nostra terra e quindi la proiezione che deriva la andiamo a rappresentare come proiezioni
CENTOGRAFICA - la fonte luminosa al centro - STEREOGRAFICA - la fonte luminosa al polo -
ORTOGRAFICA - la fonte luminosa dall’altro;
Le proiezioni di Sviluppo -> secondo cui analizziamo quanto il calco della terra può essere
impresso su un cilindro o cono che avvolgiamo intorno alla nostra sfera.
Proiezioni convenzionali -> quando non vi sono dei calcoli geometrici che applichiamo
specificamente bensì cerchiamo di unire diversi tipi di traduzione per avere una rappresentazione
quanto più veritiera possibile. Perché ci interessano tanto queste proiezioni? Diversi tipi di
proiezioni generano diversi tipi di carte. Quando nell’ambito delle proiezioni scelgo di mantenere
inalterate le aree, parlo di proiezioni Equivalenti. Quando scelgo di mantenere inalterate le
distanze, parlo di proiezioni Equidistanti. Quando scelgo di mantenere inalterati gli angoli del mio
reticolato geografico, cioè delle porzioni matematiche, parlo di carte Isogone. Le tre proprietà
ovviamente non possono coesistere.
Non è rilevante quale tipo di carta geografica o di proiezione io sto usando ma sapere che quella
realtà che consideriamo oggettiva in realtà è una realtà costruita
matematicamente/geometricamente e che dobbiamo sempre decifrare per comprendere quali
sono gli errori che possiamo evitare nell’analisi stessa.

Qualsiasi cartografia si dice che è etnocentrica cioè centrata sul Paese che si pone al centro e
guarda verso il resto del mondo (es. quelle statunitensi sono centrate con l’America al centro).

Gli altri strumenti della geografia sono:


- Il TELERILEVAMENTO (remote sensing): è uno strumento capace di rilevare alcuni fenomeni
relativi alla superficie terrestre e raccogliere informazioni su di essi, attraverso sensori attaccati sui
satelliti. Esso serve soprattutto per rilevare le condizioni metereologiche. Anche chi studia i disastri
naturali fa uso del telerilevamento.
- Un SISTEMA GPS (global positioning system): utilizza una costellazione di satelliti artificiali e i
segnali radio da essi trasmessi per determinare la posizione assoluta di persone, luoghi o elementi
della superficie terrestre, misurando il tempo che il ricevitore GPS impiega per ricevere il segnale
dal satellite e calcolando, di conseguenza la distanza del satellite dal ricevitore. Il primo satellite
GPS lanciato nel 1970, la copertura totale della superficie terrestre raggiunta nel 1995. il GPS ha
semplificato molto il processo di acquisizione di dati relativi alla Terra. Le informazioni relative alla
localizzazione, ad esempio, possono essere velocemente raccolte ed inviato a dei computer, per
creare o modificare delle manne. Il GPS viene usato anche comunemente per stabilire i confini
legali delle proprietà, tracciare e censire le diverse specie di piante e animali o per monitorare le
condizioni delle coltivazioni.
- Il GIS (geographic information system): migliora la funzionalità delle carte e delle analisi spaziali
di dati geo-referenziati, cioè dei dati a cui è attribuita una precisa localizzazione sulla superficie
terrestre. La georeferenziazione dei dati può avvenire in modo diretto o indiretto: il primo si
riferisce alla latitudine e longitudine; il secondo deriva le coordinate geografiche da altre
informazioni di tipo spaziale, come un indirizzo o codice postale. Il GIS è costituito da una
combinazione di hardware e software che permette di inserire, gestire, analizzare e visualizzare i
dati geo-referenziati. La quantità di possibili applicazioni del GIS è sbalorditiva, In Giamaica, per
esempio, è stato utilizzato per scegliere i siti più adatti alla costruzione di nuove scuole,
combinando i dati relativi alle caratteristiche del terreno e alla rete stradale con dati demografici
relativi alla quantità dei bambini in età scolare. Tuttavia, il GIS ha due limiti: il primo è che per
utilizzarlo è necessario possedere sia il software del programma, quasi sempre a pagamento, sia le
apparecchiature hardware; il secondo aspetto critico è che utilizzando il GIS non si potrà mai
realmente conoscere un luogo.

CAPITOLO 2 – GLI ECOSISTEMI


Ambiente > dal verbo latino ambire - andare intorno, si riferisce a ciò che circonda un soggetto, a
tutti quei fattori biotici e abiotici con i quali le persone, animali e altri organismi coesistono e
interagiscono. è dunque un sistema di sistemi che rimanda all'interrelazione sue componenti, in
continua evoluzione. Ambiente biotico: biosfera, dove si riscontra la presenza di vita;
antroposfera, dove si riscontra la presenza di vita umana e i manufatti costruiti dall'uomo.
Ambiente abiotico: solido (litosfera), liquido (idrosfera), gassoso (atmosfera).

La scienza che studia gli ecosistemi è l’ecologia. La sua etimologia significa “discorso/studio sulla
casa dell’uomo". Il primo teorico fu Haeckel che la definì come l'insieme di conoscenze che
riguardano l'economia della natura.
Con il termine ambiente si fa riferimento a tutti quei fattori viventi (biotici: persone, animali,
piante
—antroposfera/biosfera) e non viventi (abiotici: litosfera-rocce, idrosfera-acqua, atmosfera-aria),
con i quali persone, animali e altri organismi coesistono e interagiscono. L'insieme di questi
organismi, le interazioni tra loro e con l'ambiente, viene definito come ecosistema, ne è un
esempio è la Terra stessa, così come gli oceani, i deserti, le foreste pluviali, gli estuari, le praterie. Il
termine ecosistema viene usato per studiare le interazioni tra le diverse componenti
dell’ambiente, con riferimento a diverse scale. La terra è formata da diversi tipi di ecosistemi:
• L'ecosistema terrestre, formato da varie tipologie di suoli, ognuno dei quali dà vita a
degli ecosistemi diversi: tundra, savane, foreste, deserti e praterie;
• Gli ecosistemi acquatici, che si dividono in ecosistemi di acqua dolce (laghi, fiumi,
stagni) e salata (mari e oceani);
• Gli ecosistemi artificiali, definiti da Marx "natura costruita", come città e paesi ma
anche campi coltivati, perché senza il lavoro dell'uomo non ci sarebbe quel tipo di
territorio o quell'uso del suolo.

Ecosistema: da quasi ottant'anni gli studiosi usano il concetto di ecosistema penalizzare le


interazioni tra le diverse componenti dell'ambiente con riferimento a diverse scale geografiche.
L’ambiente può essere considerato uno spazio piuttosto che un territorio, diversamente
dall’ecosistema che invece è un territorio perché gli esseri viventi e non interagiscono tra loro e
stabiliscono delle relazioni fondamentali per la riproduzione vitale e non vitale. La complessità di
un ecosistema deriva dalla sua biodiversità, cioè dalle specie che lo popolano e che sono
contenute in esso. Tutti gli ecosistemi sono interconnessi tra loro e la totalità di queste relazioni
costituisce la biosfera, ovvero quella zona della Terra che permette la vita di piante ed animali e si
estende dalla crosta terrestre fino alle parti più basse dell’atmosfera, comprendendo tutti gli
ecosistemi del pianeta.
| Per mettere in evidenza i rapporti tra l'ambiente naturale e le società umane è stato introdotto il
concetto di capitale naturale, ovvero quel capitale che comprende i beni e i servizi offerti dalla
natura ed è composto da quattro elementi fondamentali:
- le risorse rinnovabili
- le risorse non rinnovabili
- la biodiversità terrestre
- i “servizi” resi dagli ecosistemi.
Le prime tre costituiscono i beni o le riserve di risorse naturali, mentre la quarta si riferisce
all’opera attiva dei processi naturali nell’offrire i servizi, ad es. il ciclo nutritivo degli ecosistemi, la
fotosintesi clorofilliana, l’impollinazione degli alberi da frutta. Senza il capitale naturale non ci
sarebbe vita sulla Terra, né sarebbe possibile il funzionamento dell’economia, che è possibile
partendo solo dalle risorse naturali. Le risorse naturali si dividono in rinnovabili e non rinnovabili,
anche se a differenza di come si potrebbe pensare, tutte le risorse si possono esaurire.
- le risorse non rinnovabili vengono considerate esaurite quando vengono meno le condizioni per
la loro rigenerazione, oppure questa necessita tempi troppo lunghi.
- le risorse rinnovabili invece si rigenerano in tempi ragionevoli, sia naturalmente che grazie
all’intervento umano, ad esempio attraverso la riforestazione.
Le quantità di risorse non rinnovabili sono fisse e quindi soggette a esaurimento se consumate.
Solitamente però l’esaurimento totale viene preceduto dal loro esaurimento economico, che si
verifica quando il costo di estrazione della risorsa supera il valore economico della stessa, in base
alla previsione dei ricavi futuri. Il concetto di esaurimento economico può essere applicato anche
alle risorse rinnovabili, dove si parla di rendimento sostenibile, ovvero la massima quantità di una
risorsa che può essere sfruttata e utilizzata senza mettere in pericolo la sua capacità di rinnovarsi e
rigenerare sé stessa. Tuttavia, un punto debole di questo concetto è che esso viene applicato solo
ad una singola specie naturale, senza considerare gli effetti che il suo sfruttamento potrebbe avere
sull’intero ecosistema. La produzione di una particolare risorsa, ritenuta sostenibile, ad esempio,
potrebbe nuocere al funzionamento dell’interno ecosistema, per questo motivo, diversi studiosi
utilizzano il termine rendimento ecologicamente sostenibile, cioè tale da preservare le risorse per
le generazioni future.

| Degradare qualcosa significa danneggiare una o più parti delle sue proprietà fisiche. Negli ultimi
decenni la biodiversità si sta fortemente impoverendo a causa dell’estinzione di molte specie. In
questo caso possiamo parlare di degrado ambientale antropogenico, cioè causato da attività
umane, e può essere diretto o indiretto: l’estrazione del petrolio sulla terraferma o in mare, per
esempio costituisce un rischio diretto per le persone e la natura, dovuto alle sostanze tossiche che
potrebbero essere rilasciate; la costruzione di strade in zone montuose o collinare può causare
l’instabilità dei versanti e le politiche governative che promuovono queste infrastrutture senza
considerarne gli impatti ambientali sono cause indirette di degrado ambientale.
Generalmente vi è degrado ambientale quando:
• una risorsa viene sfruttata a ritmi più rapidi di quelli della sua rigenerazione;
• le attività umane danneggiano la produttività a lungo termine o la biodiversità di un
luogo;
• le concentrazioni di sostanze inquinanti superano il massimo livello consentito da
leggi che tutelano la salute.
Un limite di questa definizione di degrado ambientale è che non riconosce come alcune attività
umane siano benefiche per l’ambiente (ad es. il ripristino di zone fluviali, ecc.).

| Le risorse di proprietà comune, dette anche beni comuni naturali, sono tutte quelle risorse
naturali, attrezzature o strutture condivise da una comunità di utilizzatori chiaramente
identificabili e che possono includere, ad esempio, foreste, pascoli, acque e zona di pesca. Nel
mondo molte persone che non possiedono una terra dipendono dai beni naturali comuni per
ottenere le risorse necessarie, come la legna da ardere, i beni alimentari e i pascoli per il bestiame.
Le risorse di proprietà comune differiscono dalle risorse a libero accesso, che sono beni sui quali
nessun singolo individuo ha pretese di esclusività e che sono disponibili a chiunque, come l’aria
che respiriamo, i mari, l’energia solare, i parchi nazionali. In alcuni casi, il controllo e l’utilizzo di
queste risorse sono sottoposti a regole ben precise, mentre in altri l’accesso ad esse è del tutto
libero.
Un argomento che ha molto interessato gli studiosi riguarda la relazione trai beni comuni, il libero
mercato e il degrado ambientale. Garret Hardin nel suo saggio The Tragedy of the Commons, si
chiede se il perseguimento dell’interesse individuale contribuisce al bene comune, fa l’esempio di
un pascolo comune aperto a tutti, i cui costi di mantenimento sono suddivisi tra i vari pastori
mentre i profitti sono a vantaggio del singolo. Ne deriva che l’interesse del pastore sia di
massimizzare il pascolo, ma se esso venisse perseguito da tutti coloro che lo utilizzano, il pascolo
verrebbe distrutto dal sovraffollamento. Hardin afferma che la proprietà privata provvede solo in
parte alla soluzione del problema della tragedia dei beni comuni, in quanto questa può prevenire il
degrado ambientale dei terreni, ma non serve ad esempio a risolvere l’inquinamento dell’aria in
quanto non può essere privatizzata. Per Hardin questo significava che le politiche governative,
incluse le tasse e le regolamentazioni sono indispensabili per prevenire la tragedia dei beni
comuni. Elinor Ostrom però ritiene che il limite nel lavoro di Hardin consista nell’errata
supposizione che le proprietà comuni siano prive di regole che ne governino l’utilizzo e che siano
quindi equiparabili alle risorse a libero accesso. Esse sono invece utilizzate e gestite secondo leggi
e pratiche tradizionali insite nelle comunità di utilizzatori. In Italia un esempio è fornito dalla
Magnifica Comunità della val di Fiemme. Ad esempio, i pescatori dello stretto di Torres nel nord
dell’Australia interrompono la pesca quando notano che il volume del pescato diminuisce.

La geografia della popolazione si occupa dell'analisi della spiegazione delle interrelazioni tra i
fenomeni della popolazione e il carattere geografico dei luoghi, guardando al variare di entrambi
nel tempo e nello spazio. Si avvale di alcuni strumenti propri della demografia > la scienza che si
dedica allo studio quantitativo dei fenomeni concernenti la popolazione considerata sia nei
caratteri in essa presenti in un determinato momento, sia nelle variazioni che intervengono in
conseguenza delle nascite e delle morti.

I cambiamenti irreversibili sul nostro ecosistema Terra possono compromettere a tal punto il
capitale naturale che non ci sono più possibilità di ricostruire gli elementi originali che lo
compongono. Un esempio di civiltà che ha esaurito tutte le sue risorse naturali ed è arrivata
all’estinzione è quella che popolava l’isola di Pasqua.

| Le risorse energetiche non rinnovabili comprendono i combustibili fossili e l’uranio. I combustibili


fossili derivano dai residui sepolti di piante e animali vissuti migliaia di anni fa, che sono stati
gradualmente trasformati in carbone, petrolio e gas naturale dal calore e dalla pressione.
Tra le energie rinnovabili, invece, ci sono invece l’energia solare, eolica, idroelettrica, geotermica e
le biomasse. Il mondo dipende massicciamente dalle fonti energetiche non rinnovabili.

| PETROLIO
Sebbene non rinnovabile, il petrolio è una fonte di energia versatile per quei paesi industrializzati
che hanno le infrastrutture necessarie per poterlo estrarre, raffinare e trasportare. Il petrolio può
essere bruciato come carburante per il riscaldamento di edifici e per generare elettricità, oppure
raffinato e trasformato in benzina, cherosene o gasolio. Nell’ambito delle risorse non rinnovabili,
le riserve certe sono costituite dalla quantità stimata che potrebbe essere estratta in futuro, in
base alle attuali condizioni finanziarie, tecnologiche e geologiche. È importante ricordare che le
riserve certe, nonostante il nome, sono comunque misure stimate: non c’è modo di sapere con
certezza quanto petrolio contenga la Terra e anche se riuscissimo a calcolarlo, non ci sarebbe
alcuna certezza del fatto che saremmo in grado di estrarlo. L’ammontare delle riserve varia in base
all’ammontare dei consumi, alla scoperta di nuovi giacimenti o all’evoluzione di tecnologie
estrattive. Una stima di quanto dureranno ancora le riserve di petrolio viene espressa attraverso il
rapporto riserve/produzione ottenuto dalla divisione delle riserve totali rimanenti nel globo per la
percentuale annuale della produzione di petrolio. Dieci anni fa il rapporto R/P per il mondo era
41,6, l’intero petrolio del mondo avrebbe dovuto durare poco più di quattro decenni. Ma
recentemente si richiedono nuove stime. Secondo vari studiosi un tema di cui preoccuparsi è
quello di stabilire quando verrà raggiunto e superato il picco di produzione di petrolio nel mondo,
concetto sviluppato per primo da Hubbert, il quale segnalò anche che la produzione di petrolio
sarebbe scemata e che ciò avrebbe costretto la popolazione a cercare altre fonti di energia, con
serie conseguenze sull’economia globale. Il lavoro di Hubbert è importante perché focalizza
l’attenzione su una prevedibile transizione energetica.

Il maggiore produttore di petrolio a scala globale è l’Arabia Saudita. In generale, giocano un ruolo
importante i paesi del Golfo Persico, appartenenti all’OPEC — Organizzazione Paesi Esportatori Di
Petrolio, creata nel 1960. L’OPEC provvede a coordinare la produzione petrolifera tra i suoi vari
membri, funzionando come un cartello: cioè come un’intesa controlla la fornitura di un bene e
quindi il suo prezzo. L’efficacia del cartello dipende dalla capacità dei suoi membri di coordinare le
proprie produzioni. L’OPEC è formata per lo più da paesi africani (Libia, Algeria, Arabia Saudita,
Iraq, Iran, Nigeria, Qatar ed Emirati Arabi) e nasce in un periodo storico pieno di conflitti
internazionali che determinarono il primo shock petrolifero (1973). Le compagnie che si
formeranno verranno poi denominate corporation e si trasformeranno successivamente in
oligopolio (oligos—pochi; polio— controllo). Nel periodo in cui nascono le multinazionali di
petrolio, i paesi ora appartenenti all’OPEC erano molto poveri, condizione che li portò ad accettare
accordi con queste in cambi io di lavoro e dunque maggiori ricchezza nei propri paesi. Tuttavia, i
fondi ricavati non venivano dati a questi paesi ma a quelli in cui la multinazionale aveva sede, per
lo più dei paradisi fiscali che permettevano a queste multinazionali di evadere migliaia di euro. Gli
stati membri dell’OPEC controllano il 78-80% delle riserve accettate di petrolio e il 50% di quelle di
gas. Attualmente uno dei produttori più grandi di gas è la Russia, che però non rientra nei paesi
dell’OPEC. I più grandi consumatori di petrolio risultano essere la Cina (seconda consumatrice di
petrolio) e gli Stati Uniti d’America, che sono dl 2015 al primo posto sia come produttori sia come i
maggiori consumatori nel mondo. L’Italia e il Giappone, risultavano essere e lo sono tuttora le
due potenze che importano maggiormente petrolio, in quanto scarseggiano le risorse energetiche.
In Italia è presente una sola zona produttrice di petrolio, in Basilicata.

Il petrolio è un combustibile di origine fossile i cui prodotti vengono ottenuti tramite raffinazione
del greggio. Le raffinerie possono produrre derivanti del petrolio in quantità differenti anche se la
maggior parte della raffinazione è orientata alla produzione di carburanti, olio combustibile e
benzina. Tra i prodotti raffinati di notevole importanza vi è la produzione di sostanze chimiche per
la realizzazione di materie plastiche. L'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio negozia con
le campagne petrolifere aspetti relativi alla produzione, prezzi e concessioni e controllano circa il
78% delle riserve accertate di petrolio e quasi il 50% di quelle di gas.

| IL CARBONE
Il carbone deriva da depositi legnosi di alberi e piante parzialmente decomposte accumulatisi in
ambienti paludosi e poi ricoperto da altri sedimenti e compattato dalla forte pressione.
Il carbone è il combustibile fossile più abbondante e più diffuso al mondo e il combustibile più
usato per la produzione di energia elettrica. Più di settanta paesi dispongono di riserve lavorabili di
carbone e le principali concentrazioni si trovano negli Stati Uniti, in Russia e in Cina. Il rapporto R/P
del carbone indica che a livello globale le riserve potranno durare ancora 133 anni, in base ai ritmi
di produzione attuali. Le popolazioni usano il carbone come combustibile da migliaia di anni,
sfruttato per la produzione di energia elettrica e per la produzione di acciaio. La Cina dipende
pesantemente dal carbone e ne è contemporaneamente il maggior produttore e consumatore,
situazione analoga in Cina.
L’estrazione e utilizzo di questa risorsa presentano una serie di gravi problemi ambientali e sociali.
Il metodo di estrazione più controverso e diffuso è quello delle miniere a cielo aperto. I minatori
liberano la superficie da tutta la vegetazione poi, con potenti esplosivi, rimuovono la roccia che sta
sopra il giacimento e la traportano in aree libere nei dintorni. Infatti, in alcuni paesi c’è l’obbligo di
riempire le valli, ma ciò porta a un accumulo di materiale instabile che può causare frane. Negli
Stati Uniti una pratica analoga viene chiamata mountaintop removal, ovvero decapitazione delle
montagne. Oltre all’estrazione anche il suo utilizzo presenta seri problemi ambientali. Il carbone
brucia in maniera meno pulita di altri combustibili fossili, contribuendo all’inquinamento
atmosferico. L’utilizzo di combustibili fossili costituisce una delle maggiori fonti di inquinamento
per l’aria e contribuisce al fenomeno delle piogge acide. Oltre a rilasciare mercurio, la
combustione del carbone produce anidride solforosa e ossido d’azoto. Anche le ciminiere
rilasciano sostanze nocive nella fascia più alta dell’atmosfera, che poi vengono trasportate dal
vento.

| L’URANIO ED ENERGIA NUCLEARE


L’uranio è un elemento naturalmente radioattivo, non un combustibile fossile, ma si tratta
comunque di una fonte non rinnovabile che costituisce il principale elemento per la produzione di
energia nucleare ed armi atomiche. Si stima che le riserve d’uranio possano durare ancora un
secolo circa. Le riserve più grandi al mondo si trovano in Australia, Kazakistan, Russia, Canada, Sud
Africa, Brasile, Ucraina, India e Cina. Le centrali nucleari, invece, si trovano per lo più in Europa e
Asia ma anche Nord America. Gli Stati Uniti, infatti, possiedono 3/4 dei reattori nucleari.
L’energia nucleare costituisce una piccola frazione dell’energia consumata in tutto mondo e la
distribuzione geografica delle centrali nucleari è concentrata per lo più nei paesi industrializzati,
per tre motivi:
• la capacità di gestire e controllare la produzione nucleare, ma anche di smaltire le
scorie, richiede conoscenze e competenze specializzate;
• la costruzione di un reattore nucleare presenta costi enormi;
• le centrali nucleari richiedono anche complesse infrastrutture di supporto, quali
generatori di corrente, siti appropriati di stoccaggio delle scorie e la loro gestione e
altre strutture.
L’impiego del nucleare per produrre energia presenta un certo numero di vantaggi, tra i quali:
• il materiale nucleare può essere immagazzinato per molto tempo;
• essendo necessario meno materiale, i danni causati al territorio dalla sua estrazione
son minori di quelli causati dall’estrazione di carbone;
• basso livello d’inquinamento atmosferico.
D’altra parte, però, questa forma di energia è soggetta a rischi catastrofici nel caso di un incidente
o sabotaggio contro una centrale. → Cernobyl 1986 – Fukushima 1911. In Italia un referendum ne
ha vietato la produzione.

| LE RISORSE ENERGETICHE RINNOVABILI


È utile distinguere tra energia commerciale e non commerciale. L’energia commerciale è stata
storicamente prodotta da combustibili fossili, nucleari o da impianti idroelettrici di vaste
dimensioni. I consumatori hanno accesso e acquistano tale energia commerciale attraverso reti di
infrastrutture come la rete elettrica. L’energia commerciale è spesso consumata lontano dal luogo
di produzione, mentre l’energia non commerciale viene consumata localmente o su scala
regionale. L’energia non commerciale soddisfa il fabbisogno energetico quotidiano di centinaia di
milioni di persone nelle aree rurali di gran parte dei paesi in via di sviluppo e comincia ad essere
significativa anche per i paesi ricchi.
Le energie rinnovabili, chiamate anche energie alternative, hanno costituito fino a poco tempo fa
la maggior parte della cosiddetta energia non commerciale. L’unica risorsa rinnovabile utilizzata in
maniera massiccia per produrre energia commerciale è l’acqua che genera l’energia idroelettrica.
La maggior parte dell’energia prodotta dall’idroelettrico proviene da impianti di grandi dimensioni,
come dighe, bacini di raccolta. Altre fonti energetiche rinnovabili sono le biomasse, l’energia
marina, il solare, l’eolico, il geotermico e l’idroelettrico di piccola scala.
In Italia si potrebbe investire molto di più nelle risorse rinnovabili, come prevede il PNRR (Piano
nazionale di ripresa e resilienza). Questo piano prevede dei fondi finanziari che devono essere
investiti da cinque anni a questa parte per il futuro del paese. A seconda di questi investimenti si
determinerà o meno all'uscita dell'Italia dalla crisi economica. A questo proposito è anche
importante capire come vengono spesi i soldi e ogni anno si fa una manovra chiamata legge
finanziaria che mostra il bilancio preventivo (ciò che è stato speso precedentemente) e il bilancio
consultivo (ciò che è stato speso durante l’anno). Negli ultimi anni l'Italia ha investito poco
nell'università, nella cultura e nella ricerca, i fattori che portano un paese alla povertà.

| L’ENERGIA DA BIOMASSA
La biomassa, ovvero il materiale organico di un ecosistema, è un importante risorsa energetica in
tutto il mondo. Le più comuni fonti per le biomasse – animali o vegetali – includono legno,
carbone, residui di colture e letame bovino. A differenza dei combustibili fossili, l’energia da
biomasse può invece essere considerata rinnovabile, fino a quando la risorsa che la genera viene
gestita in maniera sostenibile. Esistono due maniere per ottenere energia dalle biomasse: una
diretta e una indiretta. Quella diretta consiste nel bruciare materiale non trattato e usare l’energia
per il riscaldamento. Il metodo indiretto invece comporta la conversione della biomassa in gas o
combustibile liquido con l’ausilio di microbi esistenti in natura. Il gas metano così prodotto può
essere usato per cucinare, riscaldare o illuminare. Gran parte della domanda globale di questa
risorsa deriva dal suo utilizzo come combustibile per cucinare. Un grosso problema associato alla
dipendenza dalla legna è che essa può intensificare lo sfruttamento esercitato sulle foreste locali e
alimenta l’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera.

| L’ENERGIA IDROELETTRICA
L’idroelettrico si afferma come la terza risorsa per la produzione di elettricità. Su base pro-capite il
Nepal ha uno dei maggiori potenziali idroelettrici del mondo. A livello mondiale, il maggior periodo
di costruzione di grandi dighe è stato tra gli anni 30 e gli anni 70 del 1900, quando molti esperti
ritenevano che queste enormi strutture avrebbero aiutato a risolvere il problema delle
diseguaglianze nello sviluppo economico, diminuendo la dipendenza dalle esportazioni e creando
occupazione. Le grandi dighe però apportarono numerosi problemi ambientali, infatti
interrompono il corso dei fiumi e alterano così l’ecosistema dei fondali. Oltre all’impatto fisico
sull’ambiente, la costruzione delle dighe ha pesanti conseguenze per le popolazioni, causando
trasferimenti forzati o la perdita dei mezzi di sussistenza. Oggi le piccole strutture idroelettriche
(PSI) vengono preferite ai grandi impianti, ai quali rappresentano un’alternativa più sostenibile. A
seconda delle caratteristiche del fiume e del sito nel quale vengono installate, queste piccole
centrali riforniscono di energia le comunità locali o singole unità domestiche. Tra i maggiori
produttori di energia idroelettrica c’è la Cina con la sua diga delle Tre Gole.

L’acqua muovere la turbina che si trasforma in un albero di trasmissione, che trasforma l'energia e
la porta alle linee di alta tensione.

| L’ENERGIA SOLARE ED EOLICA


L’energia solare dipende dall’inclinazione dell’asse terrestre, dal movimento di rotazione della
Terra su sé stessa e dal movimento di rivoluzione intorno al sole. Le radiazioni solari in entrata
nell’atmosfera sono composte al 100% però quando arrivano sulla Terra ci sono una serie di
dispersioni e la Terra assorbe il 50% di queste radiazioni solari. Il 5% si disperde nell’aria, il 21%
riscalda le nubi (l’acqua che evapora e si condensa, fondamentale per il ciclo dell’acqua), il 6% è
rifratta dal suolo, il 15 % è assorbito dalla polvere e le molecole dell’atmosfera. La somma di tutto
ciò ci dà il 68% di energia che viene assorbita.
Può essere sfruttata in due modi: passivamente e attivamente.
- L’accumulo passivo di energia solare sfrutta il design di un edificio, la forma e i
materiali con i quali viene costruito per catturare la luce del sole.
- L’accumulo attivo fa uso invece di diversi strumenti, tra i quali i pannelli solari, gli
specchi e le celle fotovoltaiche che catturano, immagazzinano e utilizzano l’energia del
sole.
Le celle fotovoltaiche permettono la conversione della luce solare direttamente in elettricità,
mentre altri sistemi utilizzano il calore del sole per riscaldare l’acqua. Nonostante i sistemi ad
energia solare tendano ad essere molto costosi da installare, la crescita del settore dell’energia
solare è stata molto rapida, anche grazie ai sussidi governativi che aiutano ad affrontare i costi.
Il sole può essere considerato anche la vera fonte dell’energia eolica: i venti infatti sono generati
dal riscaldamento irregolare della superficie terrestre proprio da parte del sole. Le turbine eoliche
sfruttano l’energia prodotta dallo spostamento delle masse d’aria, convertendole in elettricità. Il
precursore delle pale eoliche era il mulino a vento. L’eolico prevede la costruzione dei cosiddetti
parchi eolici, che concentrano numerose pale in un’area particolarmente adatta. E ciò può
generare problemi per quanto riguarda la tutela dei paesaggi. Attualmente l’energia eolica
contribuisce solo in minima parte alla produzione globale d’energia. La Danimarca rappresenta
un’importante eccezione avendo affidato all’eolico il 20% della propria energia negli ultimi anni.

| L’ENERGIA GEOTERMICA
L’energia geotermica deriva dall’interno della terra. Alte pressioni combinate al lento decadimento
radioattivo di elementi del nucleo del pianeta, producono enormi quantità di calore che vengono
assorbite dai materiali rocciosi circostanti. L’energia geotermica viene sfruttata scavando pozzi in
profondità per raggiungere le riserve sotterranee di acqua riscaldata. Quest’acqua può essere
utilizzata come fonte diretta di calore per le case o altri edifici, o può essere convertita in vapore
per azionare turbine e generare energia elettrica: in Islanda il geotermico costituisce il 25% della
produzione energetica. Un tipo di energia geotermica è anche quello utilizzato dalle pompe di
calore, congegni più o meno sofisticati in grado di sfruttare piccole differenze di temperature tra il
sottosuolo o le acque sotterranee e l’esterno, per accumulare energia termica, destinata di solito
al riscaldamento domestico o al condizionamento dell’aria.

| LE INTERAZIONI TRA SOCIETA’ E AMBIENTE


L’EFFETTO SERRA E IL SURRISCALDAMENTO GLOBALE
Gli studiosi utilizzano regolarmente il termine effetto serra per indicare il processo naturale in cui
alcuni gas dell’atmosfera lasciano passare le radiazioni a onda corta dal Sole alla Terra e assorbono
le radiazioni a onda lunga riemesse dalla superficie terrestre, provocandone il riscaldamento.
L’effetto serra è un processo che avviene naturalmente e che permette l’esistenza della vita sul
nostro pianeta, perché in sua assenza le temperature sulla Terra sarebbero molto inferiori. Le
preoccupazioni riguardano l’innalzamento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera a causa
delle attività umane. Come per l’anidride carbonica, anche le concentrazioni di metano e
protossido d’azoto nell’aria sono aumentate a partire dalla Rivoluzione Industriale. In tutto il
mondo, l’attività umana che più contribuisce al rilascio di metano nell’aria è l’allevamento di
bestiame. Un altro importante fattore nell’emissione di metano nell’atmosfera è la coltivazione
del riso. Tra le principali fonti antropogeniche di protossido d’azoto c’è l’agricoltura, soprattutto a
causa di fertilizzanti a base d’azoto. A differenza degli altri gas serra, gli idrofluorocarburi non si
formano tramite processi naturali ma vengono prodotti tramite processi di sintesi. Gli scienziati
riconoscono che un altro fattore d’impatto sul clima globale è rappresentato dai cambiamenti
nell’uso e nella copertura del suolo. La deforestazione, ad esempio, determina temperature più
calde e condizioni climatiche più secche perché meno acqua evapora dalla vegetazione
nell’atmosfera, condizioni che hanno importanti conseguenze sulla formazione delle nubi e di
conseguenza sui cicli delle piogge. Le nostre attività hanno amplificato l’effetto serra causando il
surriscaldamento globale. Il surriscaldamento globale può interessare soprattutto gli strati
continentali di ghiaccio in Groenlandia e nell’Antartide occidentale, il cui spessore è tale che se si
dovessero sciogliere causerebbero un sensibile innalzamento del livello dei mari. Anche un solo
metro d’innalzamento del livello del mare significherebbe che le basse costiere del mondo
verrebbero inondate o sarebbero esposte a grandi rischi. Il crescente aumento delle temperature
ha gravi conseguenze anche per gli ecosistemi. Diverse specie animali e vegetali potrebbero essere
messe a rischio da temperature più calde. I modelli climatici inoltre indicano anche le frequenze
delle precipitazioni sarebbero interessate dal surriscaldamento globale, facendo sorgere
preoccupazioni riguardo ai possibili impatti sull’agricoltura. Inoltre, il surriscaldamento globale
pone numerose questioni sia ambientali che etiche: le isole del Pacifico, per esempio,
contribuiscono a meno dell’1% all’emissione di anidride carbonica, ma sarebbero le prime ad
essere colpite dai cambiamenti climatici e dovrebbero affrontare inondazioni ed erosioni, causate
dall’innalzamento del livello del mare.

| LA CARBON FOOTPRINT
L'anidride carbonica è uno dei principali fattori presi in considerazione dagli studi sul
surriscaldamento globale. Essa persiste nell'atmosfera per lunghi periodi di tempo. I più ricchi e
industrializzati paesi della Terra contribuiscono a quasi metà delle emissioni di anidride carbonica,
mentre i paesi dell'Africa subsahariana generano meno del 3% delle emissioni totali di questo gas.
I due maggiori produttori del principale gas serra sono Cina e Stati Uniti. Negli ultimi anni si è
diffuso il concetto di carbon footprint (impronta di carbonio) ovvero la quantità di anidride
carbonica emessa dalle attività umane, che rende evidente ad esempio come le emissioni totali di
passi come la Cina e l'India sovrastino quelle dei paesi più poveri. Per promuovere la responsabilità
ambientale e la diffusione dell'energia pulita, Carbonfund.org ha ideato la compensazione delle
emissioni di anidride carbonica, un modo attraverso cui le imprese o i privati cittadini possono
offrire un contributo economico al fine di supportare le energie rinnovabili.
Gli scienziati riconoscono che un altro fattore d'impatto sul clima globale è rappresentato dai
cambiamenti nell'uso e nella copertura del suolo. Ad esempio, la conversione di zone boschive in
campi coltivati, la bonifica di zone umide, l'espansione delle città e delle aree asfaltate. Non tutti
questi cambiamenti, comunque, sono direttamente indotti dalle attività umane. La siccità o altri
stress naturali, per esempio, possono influenzare la capacità della vegetazione di rigenerarsi e
alterare le biodiversità locali o regionali. Nelle foreste pluviali dell'Amazzonia brasiliana, per
esempio, la deforestazione è stata uno degli aspetti principali dei cambiamenti nell'uso del suolo,
in particolar modo a partire dagli anni ‘80. La deforestazione spesso determina temperature più
caldo e condizioni climatiche più secche perché meno acqua evapora dalla vegetazione
all'atmosfera, condizioni che hanno importanti conseguenze sulla formazione delle nubi e di
conseguenza sui cicli delle piogge.

| L’OBBIETTIVO DELLA RIDUZIONE DEI GAS SERRA


Per più di 150 anni i paesi del Nord globale hanno contribuito in modo sproporzionato alla
concentrazione atmosferica di anidride carbonica e diversi altri gas serra di natura antropogenica.
Per questi motivi, fu firmato il Protocollo di Kyoto, un accordo che chiese alla maggior parte dei
paesi sviluppati di ridurre entro il 2012 le proprie emissioni di gas serra del 5% rispetto al livello del
1990. Il trattato è stato adottato nel 1997 ed è divenuto effettivo nel 2005, in seguito alla ratifica di
più di 30 paesi. Per questo è stata sviluppata anche una crescita green che guarda sia alle
emissioni di gas, all’adattamento e alle mitigazioni del clima, a un basso consumo di carbone, a
valorizzazione delle biodiversità.
La prima conferenza sui problemi dell'ambiente venne fatta nel 1972 a Stoccolma, a ridosso dello
shock petrolifero e del dramma di Chernobyl, che fecero scatenare maggiore sensibilità
ambientale e portarono alla nascita dello sviluppo sostenibile. Sebbene siano due ossimori, perché
l'idea di sviluppo presuppone una crescita all'infinito, mentre la sostenibilità e l'idea di preservare
la crescita del pianeta, gli Stati del mondo hanno provato ad elaborare degli accordi durante
diversi incontri: conferenza di Rio (1992), protocollo di Kyoto (1997-2005) e le con le Conference
of parties, come la COP21 di Parigi in cui si chiese agli Stati di abbassare il livello della temperatura
di 1,5 e mettendo gas meno nocivi o interrompendo in parte l'emissione di questi. Questo
accordo, però, non è stato accettato da Russia, Cina e Australia. Oltre a ciò, negli ultimi anni
abbiamo visto anche uno sviluppo della green economy, un'economia sostenibile che sostiene i
trasporti puliti (auto e moto elettriche), attenzione nell'uso di acqua energia, costruzioni green
(intensificazione del verde, orti condominiali…). Esiste anche il green washing, un moltiplicarsi di
produzione e prodotti ecologici come ad esempio i detersivi. Nell'aderire a questo movimento
molti marchi hanno anche cambiato i propri loghi adottando il colore verde per trasmettere
tranquillità. Tra i paesi che mettono la maggiore quantità di anidride carbonica ritroviamo la Cina,
USA e anche l’India. Secondo Jorgen Randers << I‘umanità potrebbe non sopravvivere sul pianeta
se continuerà sulla sua via di eccessivi consumi e calcoli a corto termine […] abbiamo superato la
disponibilità di risorse della Terra, e in alcuni casi vedremo collassi su scala locale già prima del
2052 >>.
[PIOGGE ACIDE— sono piogge sovraccariche di idrocarburi, diossido di azoto e ossido di potassio,
di acido nitrico e solforico. Questi acidi corrosivi caricano le nubi e la pioggia che verrà scaricata
può bruciare gli alberi, la vegetazione e provocare in generale molti danni. Tutti questi danni
ambientali sono dovuti anche al disboscamento, una pratica che non solo rilascia grandi quantità
di anidride carbonica, ma va anche a distruggere il naturale "lavandino", cioè quella parte che
ripulisce l'atmosfera dalla stessa anidride carbonica.
IMPRONTA DI CARBONIO— sono tutte le emissioni di carbonio, di gas radioattivi, anidride
carbonica che vengono prodotti da ogni paese, collettività o persona. L'impronta ecologica misura
quindi quanti ettari servono per produrre le risorse e quanti ne servono per smaltirle. Ad oggi è
superiore a quella che può sostenere.]
CAPITOLO 3 – POPOLAZIONE E MIGRAZIONE
| Gli oramai 8 miliardi di persone che abitano il mondo sono distribuiti in maniera molto
disomogenea sulla sua superficie. Quando i geografi vogliono studiare la quantità di popolazione in
un territorio, calcolano la sua densità che può essere aritmetica, che è il rapporto tra la superficie
di un’area e il numero di suoi abitanti, di solito si misura in ab/km2, o fisiologica, quando lo stesso
rapporto viene calcolato considerando solo i territori produttivi, escludendo cioè tutte le aree non
adatte all’agricoltura. I risultati di questi calcoli ci dimostrano come la popolazione nel mondo non
è mai distribuita in maniera omogenea, ma ci sono delle aree meno o più popolate a seconda di
diversi fattori, soprattutto geografico-fisici. Di fatti le zone più popolate sono quelle vicino alle
coste, perché luoghi di comunicazione, o in generale lungo le vie d’acqua perché fondamentale per
la vita.
La distribuzione più equa si trova nel continente europeo, mentre la massima intensità si trova in
Cina, Giappone e India. La prima crescita della popolazione ci fu dopo la scoperta dell’America,
negli anni in cui inizia il colonialismo. Un’altra fase storica importante per la crescita della
popolazione è la Rivoluzione Scientifica in seguito alle teorie di Copernico e Galileo, che
porteranno a un miglioramento della qualità della vita. È importante ricordare infine che la
popolazione della Terra sta diventando sempre più urbana e oggi un po’ più della metà degli
abitanti del mondo vive in città.

Gli indicatori demografici sono dei dati che permettono di riconoscere alcuni fenomeni relativi alla
popolazione di una certa zona geografica. Questi sono:
• densità (abitanti per kilometro quadrato);
• tassi di natalità e mortalità;
• saldo naturale (differenza tra natalità e mortalità);
• saldo migratorio (differenza tra immigrati ed emigrati);
• popolazione urbana;
• fecondità;
• speranza di vita;
• speranza di vita alla nascita;
• vita media;
• vita probabile.

LA FERTILITÀ
La fertilità, che in generale indica la possibilità di avere dei figli, fa riferimento al numero di nascite
all’interno di una determinata popolazione (natalità). Questa, così come la mortalità, influenza
fortemente i cambiamenti demografici ed è condizionata da fattori biologici, economici, sociali,
politici e culturali. Per misurare la fertilità i geografi utilizzano due indicatori: tasso di natalità
(numero annuo di nati vivi ogni mille abitanti) e tasso di fecondità di una popolazione (numero
medio annuo dei nati vivi per donna in età feconda tra i 15 e i 50 anni). Questi fattori consentono
di valutare le dimensioni dei nuclei familiari e di effettuare delle previsioni sulla popolazione.
Quando questo tasso ha un valore di 2,1 figli per donna, si dice che la popolazione ha raggiunto il
livello di sostituzione delle generazioni, quello necessario ad una popolazione per consentire di
riprodursi senza diminuire di numero.

La fertilità varia di paese in paese e da regione a regione. Essa può venire condizionata da fattori
biologici ma anche da modelli culturali che ne regolano la riproduzione. I tassi di fecondità più
elevati li troviamo nelle popolazioni in cui le donne diventano sessualmente attive molto presto e
che si sposano in giovane età. In alcuni paesi in via di sviluppo, le discriminazioni di genere
pongono le donne in una condizione subordinata, impedendo loro di esprimersi riguardo alla
pianificazione familiare, e i figli vengono considerati solo per il contributo economico che possono
portare alla famiglia in termini di lavoro e guadagni.

Anche se spesso alla povertà vengono associati alti tassi di fecondità, la relazione tra questi due
fattori è più complessa di come sembra ed è legata, ad esempio, al fatto che le persone con un
reddito inferiore hanno spesso un grado di istruzione più basso. La fecondità varia, infatti, in base
ai paesi, alle regioni e ai gruppi sociali.
I governi possono controllare la fertilità, introducendo politiche nataliste o anti nataliste, per
incentivare o limitare la crescita della popolazione, influenzando i comportamenti riproduttivi delle
persone e di conseguenza i tassi di fecondità. Il tasso di fecondità totale della Francia (2,0 figli x
donna) è in linea con la media mondiale, ma è più elevato di quello degli altri paesi europei grazie
anche a politiche nataliste a sostegno delle famiglie, che promuovono l’uguaglianza di genere e
permettono il lavoro delle giovani coppie di genitori (interventi come sostegni agli asili, protezione
dell’occupazione, ecc..). La Cina, ad esempio, ha applicato rigide leggi anti-natalità per regolare il
tasso demografico, imponendo alle famiglie di avere un unico figlio in quanto si riteneva che la
crescita della popolazione avrebbe limitato lo sviluppo del paese. È stata avviata infatti la
cosiddetta ‘’politica del figlio unico’’ applicata in alcune parti del territorio cinese. Alle famiglie che
appartengono ad alcune minoranze etniche, per esempio, è consentito avere fino a 3 figli e alle
coppie che vivono nelle aree rurali è concesso un secondo figlio, a patto che il primo sia una
femmina e che tra le due nascite trascorrano almeno 5 anni. Queste politiche hanno portato il
tasso di fecondità a scendere al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni, con la
conseguenza che nei prossimi decenni ci sarà un numero crescente di anziani a carico della
popolazione più giovane e questo ha indotto le autorità cinesi ad allentare la stretta antinatalista.

LA MORTALITÀ
Accanto alla fertilità, un altro principale fattore che influenza le dinamiche demografiche è il tasso
di mortalità, che è il rapporto tra il numero delle morti in una certa popolazione in un dato
periodo di tempo (solitamente un anno) e l’ammontare medio della popolazione nello stesso
periodo. Paesi con basso tasso di mortalità sono per esempio il Qatar e il Kuwait (2 morti ogni
1000 abitanti), con alto tasso ritroviamo la Sierra Leone (con 23 morti ogni 1000). Così come la
fecondità, anche la mortalità può essere influenzata da fattori politici (guerre), economici, sociali o
naturali (epidemie). I disastri naturali possono portare ad un improvviso incremento di decessi,
come si è verificato a New Orleans, dopo prima dell’uragano Katrina, il tasso di mortalità era 11,3
mentre dopo 14,3. Tra i fattori politico-sociali oggi ci sono le guerre e le guerriglie locali. Nei paesi
più poveri spesso non sono disponibili medici, ospedali, vaccinazioni, medicine. È importante
ricordare che i tassi di mortalità non sono indicatori della qualità della vita o della salute della
popolazione di un paese.

LA SPERANZA DI VITA E LA MORTALITA’ INFANTILE


La speranza di vita indica la lunghezza media della vita delle persone, in base ai tassi di mortalità
nel paese in cui vivono. Nel mondo la speranza di vita media, sommando quella degli uomini e
quella delle donne, è cresciuta molto nell’ultimo secolo, passando dai 29 ai 67 anni. Anch’essa può
essere influenzata da fattori economici o politici. Esistono delle zone nel mondo chiamate blue
zone (Sardegna, Kaira-Grecia, Nicoya-Costa Rica), dove le persone vivono più a lungo della media e
si stanno studiando anche i motivi di questa longevità. I geografi che si occupano di demografia
hanno messo in luce le vafiazioni spaziali dell’impatto dell’aids sulla vita media: se nei paesi più
ricchi c’è un migliore accesso alle cure mediche ha contribuito ad elevare la speranza di vita delle
persone sieropositve, in altre parti del mondo l’epidemia ha ridotto la vita media di oltre 20 anni,
come accade in alcuni stati dell’Africa meridionale.
Un secondo importante indicatore della qualità della vita di una popolazione è il tasso di mortalità
infantile, cioè è il numero dei nati, ogni mille, che muoiono prima di compiere un anno di età.

| LA COMPOSIZIONE DELLA POPOLAZIONE E I SUOI CAMBIAMENTI


Ogni popolazione è caratterizzata da una specifica composizione, data dalle caratteristiche dei
gruppi che la compongono. L’analisi della composizione di una popolazione fornisce anche
strumenti utili per prevedere in che modo questa popolazione potrà variare in futuro.
Uno degli strumenti per rappresentare la composizione di una popolazione è la piramide delle età,
un istogramma che rappresenta la composizione di una popolazione divisa per classi di età,
partendo dalle classi più giovani (bambini), e per genere, collocando solitamente i maschi a sinistra
e le femmine a destra.
I demografi osservano con particolare attenzione la popolazione di età inferiore a 15 anni o
superiore ai 65, composta da persone definite dipendenti poiché, non essendo in età lavorativa,
non sono in grado di procurarsi i mezzi di sussistenza. Il rapporto tra la popolazione in età
lavorativa e la popolazione con meno di 15 e più di 65 anni ci permette di calcolare l’indice di
dipendenza. L’indice di dipendenza permette di fare previsioni sui cambiamenti quali la società di
un paese andrà incontro nel futuro. Gli stati con una popolazione giovane, ad esempio, si
preoccupano di avere abbastanza strutture scolastiche e abbastanza posti di lavoro disponibili per
i prossimi anni.
Se questi grafici hanno realmente la forma di una piramide, con un’ampia base che indica alti tassi
di natalità, allora questa è una popolazione a forte crescita, destinata ad aumentare.
Se, invece, i grafici hanno una base stretta, ciò indica che c’è una riduzione di tassi di natalità e
quindi una crescita lenta. Se a questa base ristretta si aggiunge anche un vertice molto ampio,
caratterizzato dalla popolazione con più di 65 anni, allora la popolazione è in declino. Un esempio
può essere il grafico dell’Italia.

IL TASSO DI CRESCITA NATURALE


Una popolazione ha un tasso di crescita naturale quando il numero delle nascite è superiore al
numero delle morti. Il tasso di crescita naturale è dunque la percentuale annua di crescita di una
popolazione, senza considerare i flussi migratori. I demografi calcolano il tasso di crescita naturale
sottraendo il tasso di mortalità al tasso di natalità e convertendo il risultato in percentuale. Spesso
i demografi si servono dei tassi di crescita naturali per calcolare il tempo di raddoppio della
popolazione, ovvero il numero di anni necessario affinché questa duplichi le proprie dimensioni.

IL MODELLO DELLA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA mette in relazione i cambiamenti nel tasso di


crescita naturale della popolazione con i cambiamenti sociali derivati dai progressi della medicina,
dall’urbanizzazione e dall’industrializzazione, fattori che permettono a un paese con tassi di
natalità e mortalità elevati, a valori molto inferiori (transizione demografica).
Il modello di transizione demografica però, non prende in considerazione le migrazioni, offrendo
perciò una rappresentazione solo parziale dei cambiamenti demografici. Da decenni, i demografi e
i geografi medici hanno osservato che, quando un paese entra nella transizione demografica, si
verifica un cambiamento nella tipologia di malattie che determinano la mortalità della
popolazione, in seguito ai cambiamenti nello stile di vita dovuti all’urbanizzazione e
all’industrializzazione. Questa transizione epidemiologica è caratterizzata dal passaggio dalla
massiccia diffusione di malattie infettive a quella di malattie croniche. Le malattie infettive si
diffondono da una persona all’altra attraverso la trasmissione di agenti patogeni, come accade nel
caso dell’influenza o un virus. Le malattie croniche sono invece quelle che portano ad un
deterioramento del corpo nel lungo periodo, come l’artrosi o altre patologie come il diabete.

| LE DIFFERENZE DI SESSO E DI GENERE


Il concetto di ruolo di genere indica le aspettative sociali, le responsabilità o i diritti che spesso
vengono associati all’essere femmina o maschio. L’identità sessuale di una persona, però, può
anche non essere legata al suo assetto cromosomico, come dimostra chi si definisce transgender,
aspetto che gli studiosi abbiano ignorato per molti anni.
La nostra identità, infatti, non viene plasmata solo dal nostro sesso ma anche dal nostro genere,
così come dall’etnia alla quale apparteniamo, dalla nostra famiglia e da altri dettagli biografici.
Tuttavia, fino alla fine degli anni ’60, i geografi hanno ignorato il ruolo della sessualità nel definire
l’identità delle persone. Spesso la non-eterosessualità rappresenta una devianza sociale, e ciò ha
delle ripercussioni geografiche, in termine di utilizzo di certi spazi, in particolare spazi pubblici.
I ruoli di genere variano molto da una parte all'altra della Terra e spesso influenzano anche la
divisione del lavoro. Nelle aree rurali dalla Tanzania, per esempio, è consuetudine che siano
soprattutto gli uomini a lavorare, mentre alle donne spetta il compito di prendersi cura della casa e
della famiglia; al contrario, in Ghana, le donne si occupano di molte attività diverso, tra le quali il
commercio nei mercati cittadini. È importante notare come i ruoli di genere mutino spesso e si
volvano nel corso del tempo, come avvenne in Europa e negli Stati Uniti a partire dagli anni della
Seconda guerra mondiale, quando un numero sempre maggiore di donne cominciò a dedicarsi a
professioni fino ad allora considerate «da uomini».
Genere → caratteristiche culturali o sociali che nel pensare comune di una società vengono
attribuite all’appartenenza al sesso maschile o femminile.
Sessualità → elemento fondamentale dell’identità sociale ed individuale, che deriva da
orientamenti, attitudini, desideri e pratiche di tipo sessuale.

L’INDICE DI MASCOLINITÀ
L’indice di mascolinità è uno strumento per analizzare la composizione di una popolazione per
sesso, ovvero il rapporto in percentuale tra il numero dei maschi e quello delle femmine di una
popolazione. I fattori che possono creare una disparità tra il numero di uomini e donne è il tasso di
mortalità degli uomini che hanno durata media inferiore rispetto alle donne. Anche le guerre e le
dinamiche migratorie possono incidere sull’indice di mascolinità. Alcuni paesi asiatici, tra i quali
l'India e la Cina, hanno indici di mascolinità particolarmente elevati. In entrambi i paesi una delle
cause di questo squilibrio va ricercata nella forte preferenza culturale che viene attribuita alla
nascita di un figlio maschio, anche se in Cina è determinante anche il ruolo della politica del figlio
unico. I mass media e varie istituzioni religiose, educative, politiche o aziendali contribuiscono a
rafforzare le divisioni dei ruoli di genere, come dimostra il fatto che anche in molti paesi
democratici le donne per molto tempo non furono ammesse al voto. La persistenza di ruoli di
genere può contribuire allo sviluppo di disuguaglianze di genere, cioè disparità tra uomini e donne
per quanto riguarda opportunità, diritti, benefici, comportamenti e status sociale. Il diritto di voto
fu concesso alle donne, per esempio, a partire dal 1918 negli Stati Uniti o nel Regno Unito, in
Francia e in Italia, soltanto nel 1946, rivelando una visione radicata e difficile da modificare
riguardo ai ruoli di genere.
In molte parti del mondo, i ruoli di genere sono influenzati da tradizioni antiche, che ancora oggi
condizionano la vita delle famiglie e delle comunità, Alcune donne islamiche e induiste, per
esempio, praticano la purdah, ovvero indossano abiti che coprono interamente il corpo, lasciando
scoperte solo piccole porzioni del volto. Questa tradizione è solo uno degli elementi della
segregazione sociale delle donne, pensato non solo per impedire che esso vengano viste da uomini
con i quali non hanno vincoli di parentela, ma anche per definire i comportamenti considerati
accettabili e i ruoli di genere. In Arabia Saudita, ad esempio, dove la segregazione della
popolazione femminile è sancita dalla legge, alle donne non è stato fino a oggi consentito guidare
ed è necessario un permesso scritto da parte di un uomo della famiglia perché ad esse venga
permesso di imbarcarsi su un aereo. In tutto il paese, inoltre, esistono banche con sportelli
separati per uomini e donne, oltre ad università e Iuoghi di lavoro esclusivamente maschili o
femminili, secondo un rigido sistema di segregazione istituzionale, che solo negli ultimi vent'anni
ha consentito alle saudite di aspirare ad alcune carriere lavorative, come quella di giornalista o di
architetto. L’indice di disuguaglianza di genere (gender gap index) è un indice creato nel 2006 per
valutare quanto siano efficaci le misure adottate in molti paesi del mondo per ridurre le
disuguaglianze di genere, in termini economici, politici e di salute.

| LA CAPACITÀ DI CARICO DI UN TERRITORIO


LA TEORIA MALTHUSIANA DELLA POPOLAZIONE
All’epoca in cui Malthus scrisse “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo
futuro della società”, l’Inghilterra si trovava nella seconda fase della transizione demografica e
assisteva ad un veloce incremento della popolazione. La teoria dell’economista Malthus sosteneva
che, mentre le risorse alimentari possono aumentare in modo aritmetico, la popolazione cresce in
maniera esponenziale, con il risultato che il numero di persone che vivono in un paese supera
presto il numero dalle risorse alimentari di quel paese. Questo favorirebbe l’apparizione di ostacoli
repressivi, come le carestie o le epidemie, che aumentano la mortalità e riducono la popolazione,
rendendo di fatto le dimensioni della popolazione di uno stato direttamente collegate alla sua
capacità produttiva alimentare. Per evitare questi terribili eventi, secondo Malthus, le persone
avrebbero dovuto volontariamente mettere in atto degli ostacoli preventivi, come i matrimoni
tardivi e l’astinenza sessuale. Col tempo si è affermata l’idea che ogni territorio e il mondo intero
abbiano una certa capacità di carico, dovuta alla limitazione delle sue risorse e quindi del numero
di persone che possono viverci in condizioni di vita accettabili.

LA POVERTÀ E L’INSICUREZZA ALIMENTARE


Uno dei principali problemi legati all’aumento della popolazione è quello dell’insicurezza
alimentare, ovvero l’impossibilità fisica o economica di alcune persone di accedere al cibo, a causa
di fattori come povertà, sovrappopolazione, guerre e conflitti o disastri naturali. La più grave
conseguenza della povertà è la fame (che bisogno fisiologico di mangiare), la denutrizione
(consiste in un’alimentazione insufficiente) e la malnutrizione (un’alimentazione carente di alcuni
alimenti indispensabili come le proteine, le vitamine e il ferro). Benché a partire dal 1970 la
disponibilità mondiale di alimenti sia nel complesso aumentata, in alcuni paesi, in particolare
africani, la situazione di sottoalimentazione è peggiorata, Nonostante a partire dagli anni 70 la
disponibilità mondiale di cibo sia nel complesso aumentata, fame e malnutrizione sono presenti
per 3 motivi:
- in ambiente rurale molti contadini vivono ancora di agricoltura di sussistenza, ma non producono
abbastanza per i loro bisogni o per cause naturali o per l’uso di tecniche arretrate;
- in ambiente cittadino vi sono persone troppo povere per acquistare alimenti, anche se questi
sono disponibili;
- circa 30 milioni di persone soffrono di fame e carestie a causa delle guerre; queste persone per
sopravvivere dipendono dagli aiuti umanitari.
Il problema della fame è attentamente studiato dalle Nazioni Unite, che attraverso il programma
«Sustainable Development Goals» si prefigge alcuni obiettivi da raggiungere entro il 2030. Uno di
questi obbiettivi è quello di annullare il problema della fame.

| LE MIGRAZIONI
Oltre a tener di conto il tasso di natalità e mortalità di un paese, dobbiamo considerare anche le
migrazioni, gli spostamenti permanenti di una persona o di un gruppo dal proprio luogo d’origine
a un altro, e perciò va distinto dalla circolazione delle persone che comprende migrazioni
temporanee e movimenti pendolari (in quel caso parliamo di circolazioni → lo spostamento
temporaneo, spesso ciclico, dal proprio luogo d’origine ad un altro luogo). Ogni migrazione
prevede un’emigrazione, la partenza da un luogo e un’immigrazione, l’arrivo in un altro luogo. Il
calcolo del saldo migratorio netto considera i cambiamenti nella popolazione di un determinato
luogo in seguito alle immigrazioni e alle emigrazioni: saldo migratorio netto = immigrati – emigrati.
Il cambiamento demografico, quindi, può essere calcolato attraverso l’equazione demografica, che
considera la crescita naturale di una popolazione e il suo saldo migratorio in un determinato
periodo di tempo.

LE MIGRAZIONI VOLONTARIE E LE MIGRAZIONI FORZATE


Le migrazioni forzate si verificano quando una persona, un gruppo sociale, un governo o altro
costringono un altro individuo o un gruppo di persone a cambiare luogo di residenza, senza che
questi ultimi abbiano alcuna voce in capitolo relativamente alla destinazione, ai tempi di
migrazioni o altro. Nel XX secolo, ad esempio, lo Cinque Tribù Civilizzate di nativi nord-americani
furono costrette a spostarsi dalle proprie terre d'origine verso i Territori Indiani del Sudest degli
Stati Uniti, in corrispondenza dell'attuale Oklahoma. L' esempio più noto di migrazione forzata è
probabilmente quello della tratta degli schiavi africani attraverso l'Atlantico, in seguito alla quale
oltre 12 milioni di africani furono portati a forza nel continente americano, tra il 1450 e il 1900.
Le migrazioni volontarie sono invece trasferimenti di lunga durata, o permanenti, effettuati in
seguito ad una scelta, che però è molto limitata. La maggior parte delle migrazioni appartiene a
quest’ultima categoria. In generale tra le migrazioni volontarie occorre distinguere quelle in cui la
scelta è necessitata da condizioni di estrema povertà e insicurezza e quelle in cui la scelta dipende
dal desiderio e dalle opportunità di migliorare condizioni di vita normali. La decisione di emigrare
dipende dal concorso di molti fattori, come le opportunità offerto dal luogo di destinazione, ecc…
Un ruolo di
grande importanza nella costruzione di questa scelta è svolta dalle reti sociali, sia in termini di
legami personali, che di trasmissione delle informazioni. Tutti i migranti volontari si confrontano
con un insieme di fattori di spinta (push factors) e fattori di attrazione (pull factors), che
contribuiscono alla scelta di emigrare, determinata dalla percezione che ciascun individuo ha di
queste variabili complesse e dai mezzi di cui egli dispone per realizzarlo.
La migrazione interna consiste nel movimento di persone tra regioni di uno stesso paese. Il
fenomeno interessa circa 740 milioni di persone - dato molto più consistente rispetto a quello dei
migranti internazionali – che si spostano da zone rurali o da zone urbane. Tre sono i fattori che
incidono maggiormente sulla scelta migratoria interna; I ‘età, la ricerca di un'occupazione o di
migliori caratteristiche naturali e ambientali. Il tasso di migrazione è molto elevato tra le famiglie
con figli preadolescenti, mentre diminuisce tra le famiglie con figli adolescenti. La ricerca di
un’opportunità di lavoro, magari meglio retribuita, costituisce il più rilevante fattore di spinta che
diventa determinante all’aumentare della distanza dello spostamento. Solitamente le persone
tendono a muoversi verso luoghi caratterizzati da un clima mite per gran parte dell’anno, per cui
anche gli aspetti climatici ed ambientali possono incidere. Nelle economie emergenti tipo in Cina,
lo sposamento verso zone rurali resta la più diffusa forma di migrazione. Spesso le persone si
muovono per cercare lavori stagionali legati alla pesca o all’agricoltura. Altre volte la migrazione è
determinata dall’eccessiva densità della popolazione, dalla scarsità di terre o dal loro
impoverimento. In India, la migrazione da un’area rurale all’altra è molto diffusa; la magg. Parte
delle donne che migrano hanno l’obbiettivo di raggiungere il proprio marito (migrazione per
matrimonio). In Cina, tuttavia, rigide politiche governative hanno limitato movimenti interni, ma
non è stato l’unico stato. L’aumento della popolazione urbana, infatti, rischia di aumentare i
problemi delle metropoli.
Si parla di migrazione internazionale quando un individuo si traferisce in maniera permanente o
per un lungo periodo di tempo in uno stato diverso da quello di origine. Nello scorso secolo molti
migranti internazionali hanno emigrato verso altri paesi per motivi di lavoro. Una delle ragioni per
cui le migrazioni internazionali sono molto più difficili da organizzare rispetto a quelle nazionali, sta
sia nei costi, sia nelle formalità legate ai passaporti e ai visti di ingresso e permanenza nel nuovo
paese. Le migrazioni internazionali assumono carattere globale quando si svolgono tra diversi
continenti. L’Europa ha vissuto la più grande emigrazione di massa della propria popolazione tra il
XIX e il XX secolo, in seguito a guerre, carestie e altri fattori sociali, politici ed economici: si calcola
che, tra il 1880 e il 1914, circa 30 milioni di europei abbiano attraversato l’Oceano Atlantico in
cerca di vita migliore. Circa il 35% dei migranti internazionali si sposta verso paesi del Nord globale.
Tuttavia, vi è un altro flusso migratorio altrettanto consistente e rilevante e riguarda la migrazione
tra paesi del Sud del mondo e coinvolge circa il 34% dei migranti interazionali, Ciò significa che il
69% dei 214 milioni di migranti internazionali nel mondo migra da un paese povero, mentre solo il
317o si sposta da paesi economicamente sviluppati.
Da una prospettiva regionale, in Asia, Africa, America Latina e nella maggior parte delle isole del
Pacifico sono più numerose le persone che partono rispetto a quelle che arrivano. Si parla in tal
caso di emigrazione netta. Al contrario, Nord America, Europa, Australia e Nuova Zelanda sono
regioni ad immigrazione netta, dove fanno ingresso più persone di quante ne partano ogni anno.
Per avere una visione globale dei flussi migratori si fa riferimento ai corridoi migratori, ovvero i
percorsi dei migranti dal punto di partenza a quello di arrivo. Quando si sviluppa un corridoio tra
due paesi confinanti è probabile che i migranti si muoveranno via terra (tramite strade, treni, navi)
piuttosto che via aerea. Ad esempio, il corridoio tra l'Afghanistan e l'Iran, già attivo nel 1800, ha
registrato numerosi passaggi a seguito dell'invasione sovietica dell'Afghanistan ne! 1979. Nei dieci
anni successivi circa 3 milioni di afgani sono fuggiti in Iran, tendendo l'Iran uno dei paesi che ospita
più rifugiati al mondo e gli
afgani la più grande popolazione di rifugiati, Il governo iraniano inizialmente ha concesso l'asilo,
ma dai primi anni del 2000 ha incentivato le espulsioni verso l'Afghanistan, rendendo anche più
difficoltoso l'accesso al proprio territorio.

I profughi ambientali sono coloro che emigrano per cause legate ai cambiamenti climatici del
pianeta, quali siccità e desertificazione, innalzamento del livello marino, inondazioni. Le migrazioni
ambientali si presentano problematiche perché si risolvono sempre più spesso nello sradicamento
definitivo di milioni di persone dalle loro terre. Tali profughi comprendono intere famiglie con
bambini che necessitano istruzioni e anziani non più autosufficienti, senza più averi e questo
aggrava sui paesi confinanti che li ospitano. L’Italia, per la sua posizione a cavallo tra un continente
particolarmente vulnerabile quale l’Africa e l’Europa mediterranea anch’essa a rischio siccità, sarà
particolarmente coinvolta nel problema, anche a causa del grande sviluppo delle sue coste che
rappresentano un facile approdo. In questa situazione non è sufficiente l'intervento umanitario dei
singoli paesi coinvolti, ma è l'intera comunità mondiale che deve farsi carico del problema.

LE MIGRAZIONI NELL’AMERICA SETTENTRIONALE


Gli Stati Uniti e il Canada erano, nel secolo scorso, le principali destinazioni migratorie del mondo,
accogliendo quasi la metà del totale mondiale dei migranti. Oggi essi provengono in gran parte
dall’Asia e dall’America Latina. Il numero massimo di immigrati si ebbe negli Stati Uniti tra il 1995 e
il 2000, motivo per cui ad oggi, sia gli USA che il Canada fissano ogni anno delle quote massime al
numero di immigrati che possono essere accolti. Negli Stati Uniti gli immigrati regolari sono
considerati residenti legali permanenti, in possesso di un documento chiamato “green card”, e
sono inseriti in un censimento che viene aggiornato costantemente, in base ai nuovi arrivi ed ai
cambiamenti di status degli immigrati già presenti nel paese. Gli immigrati irregolari sono invece
quelle persone che sono arrivate nel paese con un visto temporaneo, ma non hanno abbandonato
il paese alla sua scadenza, oppure hanno attraversato il confine di nascosto, senza passare per i
controlli doganali. Sia gli Stati Uniti che il Canada, come del resto la maggior parte degli altri paesi
del mondo, fissano delle quote massime al numero di immigrati che possono essere accolti ogni
anno. Fino al 1965, quando questo sistema venne abolito da alcuni emendamenti all'Immigration
and Nationality Act, queste quote erano tarate in base al paese di provenienza, con una netta
preferenza nei confronti dei migranti di origine europea, mentre oggi le quote sono basate sulle
categorie di migranti, rappresentate ad esempio dai migranti lavoratori o da chi si trasferisce per
un ricongiungimento familiare.
AMERICA LATINA
Fino agli anni ‘50 del 1900 l’America latina era una delle principali destinazioni dell’immigrazione,
proveniente principalmente da Spagna, Portogallo e Italia, ma anche Germania, Giappone e altri
paesi. Dopo di allora la tendenza si invertì soprattutto a causa dell’instabilità economica e politica
e l’America latina è ora una delle regioni di provenienza di migranti diretti verso regioni più ricche.
Il principale paese d'origine degli immigrati negli Stati Uniti, fino ai primi anni del XXI secolo, era il
Messico, che, pur alimentando ancora tale migrazione, sta ora diventando una meta di
immigrazione per i latino-americani. Infatti, a causa della crisi economica degli USA e il
conseguente aumento della disoccupazione molti latino-americani sono tornati al loro paese o non
partono più, mentre gli abitanti dei paesi dell'America meridionale trovano nel Messico migliori
condizioni di vita. È il caso per esempio della Colombia, dove uno dei principali fattori di spinta per
l’emigrazione è rappresentato dalla violenza e dai conflitti armati.
EUROPA
L’Europa storicamente è stata terra d’emigrazione ma a partire dagli anni ’50 del 1900, quando
paesi come la Francia e la Germania si trovarono ad affrontare una carenza di manodopera,
richiamando lavoratori da altri paesi, soprattutto dall’Europa meridionale, dove la disoccupazione
era particolarmente elevata. Inizialmente la maggior parte degli immigrati in questi paesi, come
detto, proveniva da alta Stati europei (soprattutto Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), ma in
seguito anche il Marocco, la Turchia, l’Algeria e l'Egitto fornirono molti lavoratori al nord Europa.
Anche se gran parte di questi immigrati arrivò con lo status di lavoratore ospite, molti di essi non
ritornarono mai nel loro paese d’origine, avviando anzi una catena migratoria che portò altri
membri della loro famiglia e della loro comunità a raggiungerli. Negli anni ’80 e '90 queste
tendenze migratorie hanno visto grandi cambiamenti, a causa di due importanti eventi: la caduta
del blocco sovietico, che ha messo fine al rigido controllo degli spostamenti degli abitanti dell’est
Europa, e le guerre nei Balcani, che hanno costretto soprattutto i bosniaci a fuggire dall’ex
Jugoslavia e chiedere asilo politico e lo status di rifugiati in altri paesi. Negli anni Novanta la
Germania ha ricevuto più richiese d'asilo di tuti gli altri paesi europei. Ma dal 1993, la Germania
applica la politica del ‘’paese sicuro’’, che prevede che le richieste d'asilo vengano rifiutate a chi sia
passato attraverso un altro paese sicuro, prima di arrivare in Germania.
Un rifugiato → è chi fugge in un paese diverso dal proprio per garantire la propria sicurezza
personale o per scampare ad una persecuzione.
L’asilo politico → è la protezione dalla persecuzione garantita da uno stato ai rifugiati provenienti
da un paese straniero.
Anche se la maggior parte delle richieste d’asilo viene rifiutata, per tutta la durata dell’esame della
richiesta lo stato che se ne occupa ha il dovere di ospitare il potenziale rifugiato e garantirgli la
possibilità di soddisfare le proprie necessità quotidiane. Questo tipo di immigrazione crea diversi
problemi:
- la disuguaglianza spaziale dei flussi degli immigrati, che si concentrano nei paesi
dell’Europa meridionale più facilmente accessibili, come Grecia, Italia e Spagna.
- in molti paesi europei, storicamente non abituati a una massiccia immigrazione,
l’arrivo di un gran numero di stranieri ha rinvigorito le forze politiche più ostili nei
confronti dei nuovi arrivati.

ITALIA
Fino alla metà del XX secolo, l’Italia, insieme a Spagna, Grecia e Portogallo fu tradizionalmente
esportatrice di manodopera. Fino al XIX secolo la maggior parte dei migranti si recava in America;
in molte città, come New York, si creano interi quartieri popolati da italiani, mentre in Brasile e In
Argentina la maggior parte si stabiliva in campagna, a lavorare la terra. Un'altra grande ondata
migratoria si ebbe dopo la Seconda guerra mondiale, soprattutto verso l'Europa centro-
occidentale, il Canada e l’Australia. In seguito, a partire dagli anni ’70, con lo sviluppo dell’industria
e il conseguente aumento dei posti di lavoro, l’emigrazione verso l’estero diminuì notevolmente e
l’Italia da paese di emigranti divenne invece un paese di immigrazione. I principali fattori che
hanno favorito il flusso migratorio in Italia sono due:
- la vicinanza alle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo e il grande sviluppo
delle coste che ne fanno la principale porta d'ingresso dell'Europa, sia per i cittadini
africani che per quelli dei paesi balcanici;
- la differenza socioeconomica tra l’Italia e i paesi di provenienza degli emigranti, che
funziona da richiamo per molte persone che sperano di migliorare le loro condizioni di
vita.
I principali paesi di provenienza sono nell'ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina.
Questi dati pongono l'Italia al quarto posto per numero di immigrati in Europa, dopo la Germania,
il Regno Unito, la Francia e la Spagna, La distribuzione degli stranieri residenti sul territorio italiano
non è uniforme: I'84 % degli stranieri risiede nel Nord e nel Centro del Paese, il restante 16% nel
Mezzogiorno. Le concentrazioni maggiori di immigrati si hanno a Roma e a Milano, ma essi sono
presenti in tutte le grandi città sia del Nord che del Sud; alcuni gruppi sono insediati in centri
minori (cinesi a Prato dove lavorano nell'industria tessile) o in aree rurali per svolgere lavori
stagionali come la raccolta della frutta (Emilia-Romagna, Piemonte, Calabria), oppure per dedicarsi
alla pastorizia. A partire dagli anni Settanta, tan alla fine del secolo scorso il grappo più numeroso
era appresentato da cittadini detti comunemente extracomunitari (cioè non appartenenti
all'Unione europea), provenienti soprattutto dall'Albania, da paesi africani, sud -americani e
asiatici. Nell'ultimo decennio un fenomeno nuovo, ancora in corso, ha riguardato il nostro paese:
l'arrivo di migliaia di immigrati, in gran parte profughi, provenienti dalle coste africane, sbarcati
lungo le coste meridionali delia penisola. Nel 2011 un primo flusso, formato in gran parte da
tunisini, fu determinato da quella che fu chiamata «primavera araba», movimento di protesta –
sfociato in manifestazioni e scontri con le forze dell'ordine fino a giungere, in alcuni paesi, alla
guerra civile – scatenatosi nella maggioranza dei paesi arabi della sponda mediterranea dell'Africa,
dalla Tunisia, al Marocco, all’Egitto fino alla Libia, i cui cittadini chiedevano una svolta democratica
di loro governi.
AFRICA
Gli africani costituiscono il 9% di tutti i migranti internazionali e sono molte le migrazioni tra gli
stati del continente. Per molti anni le miniere e le piantagioni aperte dagli Europei nelle colonie
hanno sfruttato la forza lavoro africana, gettando le basi per flussi migratori che durano tuttora. In
paesi come il Sudafrica, ricchi di miniere, o come la Libia, ricca di petrolio, attirano numerosi
lavoratori dai paesi circostanti. Inoltre, sono presenti anche numerosi profughi interni, persone
costrette ad abbandonare le proprie località d’origine per migrare verso un’altra regione dello
stesso paese. Soprattutto si tratta di flussi provenienti dall’Africa sub sahariana verso Marocco,
Libia e Tunisia. I disordini interni dei paesi del Maghreb e soprattutto la guerra in Libia, hanno
portato migliaia di africani a fuggire verso l'Europa, sbarcando con mezzi di fortuna sulle coste dei
paesi del Mediterraneo. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo deve affrontare la questione
della cosiddetta fuga di cervelli, l’emigrazione verso l’estero delle persone più istruite e preparate,
che vanno in cerca di luoghi dove possano ottenere guadagni superiori e una migliore qualità della
vita. L’Africa è la regione del mondo dove il problema della fuga di cervelli raggiunge le proporzioni
più preoccupanti: ogni anno oltre il 10% dei professionisti del settore sanitario dei paesi africani
emigra, mettendo a rischio la capacità di questi stati di gestire le emergenze sanitarie. Nel
continente africano anche le guerre continuano ad incidere in modo decisivo sui flussi migratori.
ASIA
Gli asiatici costituiscono il 25% dei migranti in tutto il mondo. Un aspetto importante delle
migrazioni asiatiche è rappresentato dal movimento dei rifugiati, presenti in Asia in proporzioni
superiori a quelle delle altre regioni del mondo, in particolare provenienti da paesi di guerra come
l’Afghanistan e l’Iraq. Nell’Asia orientale e meridionale, la maggior parte delle migrazioni avviene
all’interno dei confini dello stesso paese, in particolare nelle aree rurali verso le città, come accade
in Cina. I paesi asiatici con il maggior numero di cittadini che vivono all'estero sono la Cina (40
milioni, India (20 milioni), le Filippine (8 milioni) e il Pakistan (4 milioni), mentre quelli con il
maggior numero di emigrate di sesso femminile circa il 60%, sono le Filippine, lo Sri Lanka,
l'Indonesia. In alcune parti dell'Asia molte donne e molti bambini sono costretti a migrare, a causa
del traffico di esseri umani, spesso usato per rifornire il mercato della prostituzione o per ottenere
forza lavoro da sfruttare. Anche se mancano statistiche precise sul volume globale del traffico di
esseri umani, si stima che questo crimine coinvolga tra i 2 e i 4 milioni di persone ogni anno,
soprattutto nel sudest asiatico, da dove le vittime partono per destinazioni come il Giappone, la
Thailandia, la Malaysia e la Cambogia.

IL TRANSNAZIONALISMO
A partire dagli anni ’90, molti esperti hanno iniziato ad interrogarsi sull’impatto della
globalizzazione sulle migrazioni internazionali, in particolare quelle del contesto latino-americano.
Da questi studi è emerso che spesso tra gli aspetti dell’identità del migrante c’è il transazionalismo
(economico quando riguarda i rapporti finanziari comunitari tra i migranti e il proprio paese
d'origine; socioculturale quando si istituiscono dei legami politici, sociali o familiari nei valori e
nelle pratiche dei paesi delle comunità d’origine, es—diffusione di specialità gastronomiche nei
paesi di arrivo dei migranti, celebrazione di feste tradizionali o costruzioni di luoghi di culto). Il
transnazionalismo è il processo mediante il quale i migranti costituiscono reti di interazioni che
legano tra loro il paese d’origine e quello di insediamento. Il suo sviluppo è favorito dalla
globalizzazione e dalla crescente interconnessione tra i luoghi. Questo fenomeno è
particolarmente importante per i geografi e i demografi poiché dimostra che la migrazione implica
un sistema di circolazione nel quale i flussi migratori non sono semplicemente uni-direzionali, ma
mettono in moto sempre dei contro-flussi in senso opposto. La testimonianza più evidente di
questi contro flussi ci viene data dalle rimesse dei migranti, ovvero denaro, beni e servizi che
questi inviano nei propri paesi d’origine. Esso si manifesta ad esempio nella diffusione di specialità
gastronomiche nei paesi di arrivo dei migranti. Il caso più diffuso In America e in Europa è quello
della cucina cinese.

CAPITOLO 4 – LINGUE, GRUPPI UMANI, ETNIE E RELIGIONI

L’interconnessione e l’interazione tra chi vive in una stessa regione o in diverse regioni del mondo
dipende in buona parte dalla capacità di comunicare. Tutti noi usiamo il linguaggio nel corso della
nostra vita dandolo per scontato e dimenticando quanto sia importante per il funzionamento della
società e per definire la nostra identità. C’è uno stretto rapporto tra la cultura a cui apparteniamo
e il linguaggio in cui ci esprimiamo, di conseguenza la geografia delle lingue corrisponde ad una
geografia delle culture. Lo prova il fatto che volendo suddividere il mondo in aree o regioni
culturali diverse tra loro, l’indicatore più efficace è quello delle lingue. Infatti, le lingue si
distribuiscono sul pianeta per regioni omogenee, caratterizzate dal fatto che in ciascuna di esse la
maggioranza degli uomini e delle donne comunicano tra loro in una determinata lingua. Quando
due persone parlano la stessa lingua si innesca un processo di interazione comunicativa fondato
sul fatto che i parlanti sanno quali significati attribuire ai simboli rappresentati dalle parole e come
utilizzarli per costruire concetti complessi. Ogni lingua presenta poi al suo interno varianti
geografiche e sociali dette dialetti. Non è semplice definire i dialetti, ma in genere le lingue sono
dei dialetti impostati sugli altri in un’area più vasta di quella originaria, per motivi letterari, sociali e
politici. Alcuni dialetti sono considerati vere e proprie lingue, sono parlati in aree ristrette. Oltre ai
dialetti abbiamo anche le lingue minoritarie.
Il linguaggio → è un sistema di comunicazione basato su simboli ai quali vengono attribuiti
significati condivisi.
Il dialetto → è una varietà linguistica usata tra di loro da abitanti originari di una particolare area
geografica, in aggiunta alla lingua ufficiale.
La lingua → è un idioma che si è imposto sugli altri in un’area più o meno vasta per motivi
letterari, sociali o politici.
La lingua minoritaria → è una lingua usata nel territorio di una lingua ufficiale da un gruppo di
persone meno numeroso del resto della popolazione.

Anche i fattori socioculturali possono influenzare lo sviluppo di una lingua. L’assenza di una parola
in una lingua non implica comunque che questa non sia in grado di esprimere uno stesso concetto
utilizzando altri termini o perifrasi. Anche se siamo abituati a considerare la lingua come un
sistema di comunicazione parlato o scritto, esistono tipologie di linguaggio che non possono essere
sviluppate oralmente e tantomeno sotto forma scritta. Il linguaggio dei segni, ad esempio, è
utilizzato per comunicare con persone che non sono in grado di sentire o parlare, sostituendo i
suoni con i movimenti del corpo e delle mani. Esso è diverso da paese a paese. Un altro tipo di
linguaggio è la lingua tattile, la cui più nota espressione è il sistema Braille, che si serve di una
serie di punti in rilievo per rappresentare lettere, numeri o simboli.
Un’ulteriore distinzione è quella tra lingue naturali, nate ed evolutesi nel corso della storia delle
comunità umane, e lingue artificiali, inventate intenzionalmente dall’uomo per facilitare la
comunicazione internazionale o anche nazionale, o come lingue di mondi di finzione, come nel
caso della lingua degli elfi del Signore Degli Anelli. Alcune lingue artificiali sono state ideate con il
proposito di creare una lingua universale che potesse essere parlata e compresa in tutto il mondo,
come nel caso dell’esperanto, inventato da un medico polacco nel XIX secolo, con una grammatica
molto semplice e regolare. Queste lingue artificiali, però, non sono mai riuscite ad imporsi perché
non c’è una cultura universale.

LA DIFFUSIONE DELLE LINGUE E LE FAMIGLIE LINGUISTICHE


Oggi esistono circa 6.900 lingue diverse nel mondo, ma non tutte hanno la stessa diffusione. I
geografi e i linguisti considerano le lingue anche da un punto di vista delle relazioni storiche che
ciascuna ha con tutte le altre. Anche se sappiamo che una sorta di lingua esisteva già almeno 30
mila anni fa, è impossibile stabilirne con precisione una data di nascita. Molto di quello che
sappiamo sull’evoluzione del linguaggio e delle lingue deriva da manufatti storici o da testi scritti
sopravvissuti, e per questo esistono molti punti oscuri nella ricostruzione storica del loro percorso,
anche perché molte lingue primitive non furono mai messe per iscritto. La conoscenza di una
lingua e la sua evoluzione ci consente di sapere di più sulle società del passato.
Espressioni come famiglia linguistica, o gruppo linguistico, esprimono il fatto che molte lingue
condividono una lontana origine storica comune, al punto che si possono individuare 90 diverse
famiglie linguistiche, delle quali le 6 maggiori comprendono la maggior parte dei parlanti del
mondo.
Quasi la metà degli abitanti del mondo parlano lingue indoeuropee, il resto sono arabo, cinese e
giapponese. Le lingue indoeuropee, suddivise in diversi gruppi, rappresentano la famiglia
linguistica con il maggior numero di parlanti, circa la metà degli abitanti della terra, e la più vasta
diffusione geografica. Uno dei più importanti gruppi di questa famiglia è quello delle lingue
romanze, che derivano tutte dal latino. Il latino si divideva in latino classico, con una forma
standardizzata, e un latino volgare, non standardizzato e parlato dalla gente comune. La mancanza
di regole precise fece sì che quest’ultimo venisse parlato in modo molto diverso tra una regione e
l’altra dell’Impero romano, portando alla nascita di numerosi dialetti.

LE MINORANZE LINGUISTICHE
Le minoranze linguistiche sono comunità storicamente insediate in un territorio, che oltre alla
lingua ufficiale del Paese, parlano una lingua minoritaria diversa dalla lingua più diffusa in un dato
paese. Le lingue minoritarie sono molto numerose. In Europa, per esempio, oltre le 11 lingue
ufficiali, sopravvivono altre 60 lingue minoritarie. Si calcola che 40 milioni di persone usi una lingua
diversa da quella della maggioranza della popolazione nazionale. Di queste, alcune come il
Catalano, CHE è parlato da circa 7 milioni di persone in Spagna, Francia e nella zona di Alghero, in
Italia, sono molte diffuse nel territorio, mentre altre come il Sarni, che è una famiglia di lingue
parlate da popolazioni della Finlandia, Svezia e Norvegia, sono a rischio di estinzione. La varietà di
linguaggi rappresenta una ricchezza che è importante conservare come un patrimonio, per questo
il Consiglio d’Europa ha stabilito di proteggere e favorire iniziative di promozione delle lingue
minoritarie, riconoscendo alcuni fondamentali diritti, come l’insegnamento nelle scuole, l’uso nelle
pubbliche amministrazioni, ecc..

LA DIFFUSIONE DELLE LINGUE E LA GLOBALIZZAZIONE


La diffusione delle lingue viene condizionata anche da forze politiche, economiche e religiose. Un
esempio è la grande espansione inglese tramite il colonialismo. Le forze economiche possono
influenzare in diversi modi la diffusione delle lingue, ad esempio attraverso il turismo o gli affari
con l’estero. È intuitivo che parlare correttamente una lingua straniera può aumentare le
possibilità di una persona di trovare un lavoro o incrementare i propri guadagni ed è questa una
delle spinte che porta molti immigrati a sforzarsi di imparare la lingua del nuovo paese in cui
vivono. Anche la religione rappresenta un importante fattore di diffusione delle lingue. Lo
dimostrano i numerosi mussulmani che parlano arabo per essere in grado di leggere il Corano in
lingua originale. La geografia linguistica studia non solo la diffusione delle lingue ma anche il modo
in cui esse vengono utilizzate nei vari contesti, contribuendo così a ricostruire i processi con i quali
una lingua diventa dominante.
La dominanza linguistica è la situazione in cui una lingua si trova ad essere più influente e
importante rispetto ad un’altra. Il cinese, per esempio, è la lingua più parlata nel mondo, con oltre
un miliardo di parlanti, ma la sua estensione è molto meno vasta rispetto all’inglese.
Un altro tema di grande importanza è rappresentato dal legame tra uno stato indipendente e la
sua lingua. Nel mondo esistono 6900 lingue ma solo 200 stati, determinando quello che viene
chiamato gap linguistico, ovvero l’esistenza di un grandissimo numero di lingue senza stato, perciò
considerate minoritarie. Esse non vengono utilizzate negli atti ufficiale dello stato ma vengono
parlate quotidianamente dai popoli ai quali appartengono e rappresentano una componente
fondamentale della loro identità. Quasi sempre uno dei primi atti formali di un nuovo stato
indipendente è rappresentato dalla scelta della lingua ufficiale, solitamente indicata dalla
costituzione dello stato, che viene utilizzata per le questioni politiche, legali, e amministrative. Le
Nazioni Unite riconoscono sei lingue ufficiali: inglese, francese, spagnolo, russo, arabo e cinese.
Mentre per non favorire uno stato rispetto ad un altro, l’UE riconosce formalmente le lingue
ufficiali di tutti i 27 stati membri.
Le lingue si evolvono, sia nel tempo sia tra un luogo e l’altro. Con l’affermarsi di nuove tecnologie e
innovazioni si incentiva la nascita di nuovi termini inventati apposta per esprimere nuove idee o
indicare cose che non esistevano prima (ad es. le parole blog o spam).
Oggi il mondo sta sperimentando il più alto tasso di estinzione delle lingue nella storia. Secondo gli
esperti, circa la metà delle lingue sulla Terra sarebbe in pericolo e, se non si facesse niente per
invertire questa tendenza, rischieremmo di assistere a una vera e propria estinzione linguistica di
massa. Le regioni nelle quali il numero di lingue in pericolo è maggiore sono soprattutto le
Americhe, la Siberia e l’Australia, dove ad essere in pericolo sono le lingue delle popolazioni
native. Il metodo. Che i geografi e i linguisti usano per stabilire la diversità linguistica di una
regione si basa appunto sull’indice di diversità linguistica: che esprime la provabilità che due
individui residenti nello stesso stato, scelti a caso, condividano la stessa madrelingua. Una lingua
in pericolo è una lingua che non viene più insegnata ai bambini dai loro genitori, né utilizzata nelle
conversazioni quotidiane in famiglia. Una lingua estinta è una lingua senza più parlanti in vita.
Vengono anche chiamate “lingue morte”.
I contatti tra popoli che parlano lingue diverse hanno prodotto numerosi prestiti linguistici. Un
prestito linguistico è una parola che entra a far parte del vocabolario di una lingua pur
provenendo da una lingua diversa.

DIALETTI E TOPONIMI
I dialetti sono idiomi subordinati ad altri, generalmente affini, che in un certo momento della
storia si sono imposti come lingue sovraregionali, di regola nazionali. In Italia, ad esempio, fu
scelto per la prima volta come linguaggio letterario nel medioevo da autori come Dante, Petrarca e
Boccaccio. I dialetti sono diversi l’uno dall’altro, in base alla loro grammatica, al loro vocabolario e
alla pronuncia delle parole. Quando sentiamo parlare italiano con accento diverso, significa che
quell’individuo nella sua regione parla un dialetto e di questo se ne occupa la geografia dialettale,
che studia la distribuzione spaziale dell’uso dei diversi dialetti.
Com’è noto, l’italiano deriva dal toscano letterario, che dopo essere stato utilizzato dai grandi
scrittori, che lo ritennero tra i linguaggi parlati al loro tempo in Italia, quello che meglio si
ricollegava al latino, nel corso dei secoli si è poi trasformato nella lingua italiana. Nel 1861, quando
per la prima volta il nostro paese fu unificato nel Regno d’Italia, la maggioranza degli italiani si
esprimeva ancora nel dialetto locale e la lingua italiana era parlata solo da una minoranza di
persone colte. In seguito, grazie all’istruzione obbligatoria, alla leva militare, alle trasmissioni radio
e poi alla televisione, la conoscenza dell’italiano si è diffusa in tutta la penisola. Oggi l’italiano è
lingua ufficiale in Italia, Svizzera, a San Marino e nella Città del Vaticano. È inoltre una delle 27
lingue ufficiali dell’Unione Europea. In Italia il 44% parla italiano corretto, il 51% lo alterna con un
dialetto, il 5% parla solo dialetto. La maggior parte delle lingue e dei dialetti in Italia, a cominciare
dalla lingua italiana, derivano dal latino. Esso si modificò nel tempo e si ibridò con le lingue
originarie parlate da etruschi, celti, greci, ecc., di cui restano tracce nei linguaggi odierni. I dialetti
italiani sono molto numerosi e si dividono in 6 grandi gruppi: 1. gallo italico e veneto (Italia padana
e settentrionale), Toscano-Corso, Marchigiano-Umbro-Romanesco, Abruzzese-Molisano-Pugliese-
Campano- Lucano, Siculo-Calabrese meridionale-Salentino (Italia peninsulare). E poi altri idiomi
caratteristici, ad esempio il Ladino, e altre lingue parlate al di fiori dell’Italia, come il Tedesco e lo
Sloveno.

IDIOMI E LINGUE STANDARD


Quando nello stesso paese si parla più di un idioma, uno di questi può venire considerato, o in
alcuni casi riconosciuto ufficialmente, come quello in base al quale si definiscono norme di utilizzo
della lingua standard del paese. Questo è particolarmente vero nel caso di lingue diffuse in tutto il
mondo, come l’inglese, e per questo si sente parlare spesso dell’inglese britannico standard. La
scelta dell’idioma standard rispecchia la dominanza linguistica di un certo modo di parlare, oppure
il fatto che ad utilizzare la lingua in quel modo siano le classi più elevate dal punto di vista socio-
economico, culturale o politico, facendo di una specifica variante della lingua un dialetto di
prestigio. Il fatto che un dialetto diventi lo standard di un paese e che quindi venga utilizzato negli
affari, nelle scuole, dal governo e dai mass media, aumenta anche la complessità sia della sua
forma scritta che di quella parlata. Il fatto di attribuire la qualità ‘’standard’’ svela l’errore di chi
ritiene che il suo utilizzo rappresenti l’unico modo corretto di esprimersi in una lingua,
contribuendo in questo modo a diffondere stereotipi negativi nei confronti delle varietà non-
standard.
Un toponimo è il nome di un luogo. I geografi studiano i toponimi sia per le informazioni che
possono fornire sulla presa di possesso del territorio e sul potere politico, sia perché testimoni
della storia dell’insediamento umano in certi luoghi. Infatti, l’attribuzione di un nome a una parte
della superficie terreste esprime il senso di appartenenza di un gruppo nei suoi confronti.
Attraverso i toponimi, le società legano al suolo il proprio linguaggio, rappresentano la propria
identità e descrivono le caratteristiche dell’ambiente che le circonda. Di conseguenza i toponimi ci
possono fornire importanti informazioni pratiche passate sull’uso del suolo o sui cambiamenti
ambientali avvenuti in un luogo nel corso del tempo. Nell’Italia meridionale i numerosi toponimi
derivanti dal greco, testimoniano l’esistenza delle antiche colonie greche nella nostra penisola. In
Africa ad esempio, in seguito alla decolonizzazione e all’ottenuta indipendenza alcuni stati
mutarono i loro nomi: la Rhodesia, per esempio, che in epoca coloniale era così chiamata dal
nome di Cecil Rhodes, ottenuta l’indipendenza mutò il suo nome dando origine alla Zambia e allo
Zimbabwe (nome di un sito archeologico).

L’INESISTENZA DELLE RAZZE UMANE Il concetto di << razza >> deriva dall’idea, scientificamente
infondata, ma storicamente diffusa e influente, che si possano utilizzare uno o più tratti somatici
per suddividere gli esseri umani in categorie distintive e esclusive. Il naturalista Carlo Linneo, padre
del sistema di classificazione delle specie animali e vegetali utilizzato ancora oggi, fu il primo, nel
XVIII secolo, a identificare 4 grandi gruppi di popoli, da lui chiamati “varietà”: africani, nativi
americani, asiatici e europei. Si trattava di un vero e proprio metodo di classificazione, basato su
un solo tratto esteriore. A questo primo tentativo di suddividere gli esseri umani in gruppi intesi
come razze, ne sono seguiti molti altri, con un numero di razze che variava da 3 a 30 in base alla
scelta dei caratteri somatici.
Questa varietà di opinioni in merito al numero delle razze esistente sulla Terra mette in luce il fatto
che il confine tra queste presunte razze è sempre arbitrario, come dimostrano la geografia e la
biologia. La geografia ci dice che i tratti fisici degli esseri umani tendono a variare gradualmente
nello spazio, determinando zone di transizione piuttosto che confini netti, tra le aree abitate da
popoli caratterizzati da diversi tratti somatici. In biologia, la genetica distingue tra fenotipo, cioè
l’aspetto esteriore degli individui e il genotipo, che è l’insieme dei suoi caratteri ereditari, detto
anche genoma o più precisamente DNA. I fenotipi hanno una variabilità enorme all’interno di una
stessa specie, mentre la variabilità genetica, cioè quella su cui dovrebbe fondarsi il concetto
biologico di << razza >> è minima.
Oggi nel dibattito scientifico la razza viene considerata una costruzione sociale, un’idea o un
fenomeno che non esiste in natura, ma che viene creato dalle persone, che attribuiscono un
significato alle apparenze somatiche degli individui. In estrema sintesi, gli studi post-coloniali sono
tesi a indagare l’eredità culturale dei fenomeni del colonialismo e dell’imperialismo, nonché le
varie modalità attraverso le quali i poteri coloniali hanno mantenuto e continuano a mantenere
strutture e relazioni di potere.
Razza: l’idea che un gruppo umano possa essere individuato in base ad apparenze somatiche che
di regola non sono correlate con differenze genetiche rilevanti.
Razzismo: intolleranza nei confronti di persone considerate geneticamente inferiori.
Ideologia: sistema di idee e di valori che giustifica le opinioni, le pratiche e gli orientamenti di un
gruppo.

COME SI È SVILUPPATO IL RAZZISMO?


Il razzismo è l’intolleranza nei confronti di persone considerate geneticamente inferiori, la
convinzione che le differenze somatiche e genetiche producano una gerarchia che consente di
dividere gli esseri umani in “superiori” e “inferiori”, con chiare conseguenze in termini di
pregiudizi, discriminazioni e odio verso gli altri che conducono all’esclusione di alcune categorie di
persone che spesso sfociano in genocidi.
Il razzismo ha spesso assunto le caratteristiche di un'ideologia, promossa nel corso della storia da
numerosi movimenti, come dimostra l'esempio del nazismo - e in parte anche del fascismo. La
maggior parto degli studiosi è concorde nel sostenere che gli avvenimenti storici del periodo della
colonizzazione e dell'insediamento europei nelle Americhe, tra il XVI e il XVI secolo, abbiano
contribuito in modo significativo allo sviluppo del razzismo. Negli Stati Unit gli storici hanno
ricondotto le origini della separazione dei neri dai bianchi al periodo della ribellione di Bacon,
scoppiata nella Virginia coloniale nel 1676, quando le masse povere, costituito sia da bianchi che
da neri, si allearono contro le élites bianche, in un'alleanza che metteva a rischio il controllo da
parte delle classi dominanti. Il razzismo e la schiavitù, in questo caso, hanno fornito un pretesto
per mantenere il controllo sociale e il potere. In Europa tra il XVII e il XVII secolo si affermarono
ideologie che associavano le differenze razziali all'inferiorità di una razza rispetto ad un'altra. la
razza bianca è diventata uno standard, in base al quale «misurare» tutti gli altri popoli. Questa
ideologia ha anche contribuito a dare origine al fenomeno dell’apartheid, una politica che assegna
ad ogni gruppo razziale il proprio spazio geografico; alla base appunto c’era proprio il mito della
purezza razziale. La schiavitù continua ad esistere sotto forma di traffico di esseri umani. Il
commercio di schiavi attraverso l’Oceano Atlantico era permesso dalle leggi allora vigenti. Il
traffico di esseri umani invece è un fenomeno di scala globale, presente in tutti i continenti, ma
nello stesso tempo illegale e quindi molto meno visibile; è definito infatti ‘’il lato oscuro della
globalizzazione’’.
DEFINIZIONE E CARATTERISTICHE DELL’ETNICITÀ
La parola etnicità deriva dal greco ethnos, che significa popolo e riguarda la formazione e il
mantenimento delle identità culturali e collettive. L’etnicità riguarda la costruzione di un senso di
appartenenza sociale da parte delle persone. Inoltre, questo processo implica il riconoscimento
dell’alterità, che si attua tracciando un confine di separazione tra il singolo individuo e gli altri.
La nazionalità è, invece, l’affiliazione di una persona ad uno stato che solitamente avviene
attraverso la cittadinanza. I termini di etnicità e nazionalità sono legati dal XIX secolo, quando in
molti paesi si affermò il principio dello stato su base nazionale fondato a sua volta sull’omogeneità
etnica. Spinta ai suoi estremi, questa ideologia portò alle politiche di “pulizia etnica” che
consistono nell’allontanamento o addirittura allo sterminio degli appartenenti a etnie diverse da
quella dominante (etnocidio o genocidio). L’esempio più tristemente noto è lo sterminio degli
ebrei nella Germania nazista, preceduto di qualche anno dalla ‘’pulizia’’ degli Armeni ad opera del
governo turco.
Quando ci si occupa di etnicità occorre mettere in evidenza le sue molteplici sfaccettature,
costruite dagli elementi interni e personali, come anche da fattori esterni e comportamentali.
L’identità etnica di una persona dipende anche dal modo in cui si è formata nel tempo la sua
identità individuale complessiva che può portarlo ad abbracciare o rifiutare il sentimento di
appartenenza a etnie diverse. In particolare, l’identità, anche etnica, di una persona è fortemente
influenzata da processi di attribuzione o auto-attribuzione attraverso i quali le persone
attribuiscono a sé stessi o agli altri una certa qualità o identità. L’etnicità si manifesta anche
attraverso determinati comportamenti, rappresentati dalle nostre pratiche identitarie, come il
parlare una lingua o seguire una religione, o usanze tradizionali. L’identità etnica si acquisisce e si
trasmette attraverso la tradizione, cioè da una generazione all’altra. Per reazione alle tendenze
omologatrici si riscoprono e si riattivano vecchie tradizioni. Non solo ma si ricorre talvolta ad una
vera e propria invenzione della tradizione.
Un ambito particolare per lo studio dell’etnicità è quello dell’identità delle popolazioni indigene:
non esiste una definizione unica ma purché un popolo venga definito come tale deve avere 3
caratteristiche: 1. Il possesso di un legame ancestrale con le società precoloniali (per questo molte
volte sono definiti anche originari, nativi, aborigeni); 2. Il riconoscersi come popoli indigeno e
l’essere riconosciuto come tale dalle altre popolazioni; 3. Il non ricoprire una posizione di dominio
nella società.

Il concetto di etnia viene sovente usato come sinonimo di cultura quando pratiche e credenze
condivise sono pensate come caratteristiche peculiari di un gruppo etnico. La civiltà, invece, è
un’etnia o cultura diffusa su un’ampia area geografica, che presenta forme di organizzazione
tecnica e sociale considerate evolute in base ai criteri di giudizio prevalenti nel mondo occidentale.
In origine il termine veniva applicato alle società europee e mediterranee in contrapposizione alle
altre società ritenute ‘’barbare’’.

L’ETNICITÀ NEL PAESAGGIO


La geografia etnica è un filone della geografia umana che studia le migrazioni e la distribuzione
spaziale dei gruppi etnici, l’interazione e le reti etniche e i segni dell’etnicità nel paesaggio, che
contribuiscono a formare i cosiddetti paesaggi etnici. Lo studio si concentra particolarmente
sull’analisi dei segni della cultura materiale, come gli edifici religiosi, i centri di ritrovo comunitari o
gli slogan sui muri, internet, le stazioni radio e televisive che si rivolgono a specifici gruppi etnici.
Le ricerche fanno riferimento all’assimilazione che descrive il risultato dell’interazione tra i
membri di un gruppo etnico e soggetti esterni come una graduale perdita dei tratti culturali, delle
credenze e delle pratiche che caratterizzavano la comunità di partenza. Negli USA questo modello
è stato pensato nella forma del melting pot, un pentolone nel quale le culture si mescolano e
fondono l’una con l’altra. In altri paesi come la Francia si parla piuttosto di integrazione, cioè di
una progressiva accettazione da parte delle culture storiche locali e di quelle degli immigrati di un
unico modello culturale nazionale. Invece il modello del multiculturalismo detto anche pluralismo
parte dall’idea che i componenti di un gruppo etnico di immigrati tendano a resistere
all’assimilazione e possano mantenere i propri tratti culturali e le proprie credenze. Infine,
abbiamo il concetto di eterolocalismo che si riferisce al mantenimento da parte dei componenti di
un gruppo etnico disperso della propria identità comune, anche se essi risiedono in luoghi diversi e
talvolta molto lontani tra loro.

GLI INSEDIAMENTI ETNICI


I geografi hanno individuato numerosi tipi differenti di insediamenti etnici, tra i quali i più diffusi
sono le isole etniche, i quartieri etnici e i ghetti. Le isole etniche caratterizzano soprattutto le aree
rurali e hanno dimensioni che variano da quelle di un comune - come è di alcune comunità,
albanesi (arbereshe) nel Mezzogiorno italiano - a quelle di un'area che si può estendere anche su
più Stati. I quartieri etnici, invece, sono tipici delle aree urbane e hanno dimensioni variabili, da
pochi isolati ad interi distretti cittadini, come nel caso delle varie China Town e Little Italy sparso
per le città di molti paesi del mondo. Un caso particolare di quartiere etnico è quello del ghetto,
termine coniato nel Medioevo per indicare le zone della città nelle quali erano relegati gli ebrei e
passato oggi ad indicato i quartieri nei quali si concentrano immigrati di una stesa etnia,
solitamente poveri e discriminati socialmente. Anche il ghetto si forma come aggregazione di
interessi comuni che la prossimità aiuta a soddisfare, ma col tempo diventa una forma di
segregazione obbligata. Infatti, quando i componenti di una certa etnia fortemente discriminata
diventano numerosi in un quartiere, il resto della popolazione si sposta altrove, gli edifici si
deprezzano, ambiente e servizi subiscono un degrado.
Al polo opposto dei ghetti si situa una forma di segregazione sociale volontaria costituita da
quartieri residenziali per ricchi, dotati al loro interno di servizi esclusivi, situati di solito in zone
suburbane, recintati da muri e con ingressi controllati, e vigilanza armata. Sono presenti
soprattutto in paesi con forti disparità sociali e prendono vari nomi gated community negli Stati
Uniti, condominios fechados in Brasile, barrios privados in Argentina ecc. In Italia ne esiste qualche
esempio, specie nei dintorni di Milano. Per confrontare che peso ha un grappo etico in un'area con
quella della stessa cima sull'intero territorio nazionale si usa il quoziente di localizzazione.

CONFLITTI ETNICI E LA GIUSTIZIA AMBIENTALE


Sotto l'etichetta di conflitti etnici vengono fatti passare eventi molto diversi tra loro come la crisi
del Darfur, regione che viene rappresentata come instabile proprio a causa di rivalità etniche e
tribali; la disgregazione dell'ex Jugoslavia, descritta come il prodotto dell'odio etnico tra croati,
serbi e bosniaci; o i disordini che avvengono nello Sri Lanka, attribuiti ai conflitti etnici tra singalesi
e tamil. Mettere sotto la stessa etichetta fatti così diversi tra loro è fuorviante, perché suggerisce
che i conflitti abbiano una sola causa, individuata nelle differenze razziali o nell'odio tra etnie. In
realtà la maggior parte di queste guerre è dovuta a molteplici fattori, tra i quali l'esclusione dal
sistema politico di una parte della popolazione, dispute legate al controllo del territorio o l'accesso
alle risorse, ecc... Un altro elemento che può contribuire alle tensioni tra gruppi etnici è la
mancanza di equità nella distribuzione di siti e di infrastrutture potenzialmente pericolosi.
Il movimento per la giustizia ambientale è nato negli anni Ottanta. Esso è particolarmente vivo per
quanto riguarda le discariche dei rifiuti urbani, specie nelle regioni più densamente popolate come
la Campania, il Lazio, la Lombardia e il Piemonte, Su scala globale, uno dei principali problemi
riguarda lo smaltimento dei rifiuti tossici, compresi quelli generati dalle componenti dei dispositivi
elettronici, una buona parte dei quali viene esportata nei paesi del Sud del mondo, dove viene
smaltita, talvolta illegalmente, o riciclata, con processi che se non vengono effettuati
correttamente possono esporre i lavoratori al contatto con sostanze nocive o contaminanti.

LE RELIGIONI NEL MONDO


Le religioni sono sistemi di idee, di regole e di pratiche, normalmente organizzate in strutture di
servizio e di potere, che rispondono all’esigenza delle persone di dare un senso al mondo e al
proprio ruolo al suo interno, solitamente attraverso la devozione nei confronti di una o più entità
divine. Nel tratteggiare la geografia delle religioni, gli studiosi analizzano fenomeni come la
distribuzione delle fedi nel mondo, le differenti modalità attraverso le quali le persone
comprendono e danno significato allo spazio alla luce delle loro credenze, i conflitti e le
trasformazioni sociali che esse determinano, gli edifici, i paesaggi e i patrimoni materiali e
immateriali modellati dalle religioni.
Le religioni si dividono in:
- monoteista, religione che venera un solo dio o una sola divinità;
- politeista, religione che venera più di una divinità;
- ateismo, convinzione dell’assenza di qualunque forma di divinità;
- animismo, fede religiosa che crede nella presenza di divinità ed entità spirituali e nelle
manifestazioni della natura (come quelle degli aborigeni australiani e di molte altre popolazioni
primitive che uniscono la venerazione per entità spirituali o divine a quella per gli elementi
naturali);
- sincretismo, mescolanza di credi e pratiche religiose dovuta al prolungato contatto tra fedi
diverse in una certa area (come nel caso della fusione tra la tradizione africana e il cattolicesimo,
che ha generato le religioni sincretiche della Santeria a Cuba e del Candomblè in Brasile, in seguito
alla tratta degli schiavi).
Spesso le religioni offrono una spiegazione all’origine del mondo e importanti implicazioni per
quanto riguarda i codici di comportamento, la morale e l’etica, in quanto offrono ai propri fedeli
verità assolute e valori non negoziabili. Anche le religioni sono sfaccettature della cultura e
plasmano l’identità delle persone e di intere comunità. I comportamenti religiosi comprendono
solitamente i rituali, come le preghiere, certi modi di vestire o la celebrazione di determinate
festività. Seguire con attenzione tutte le regole di un credo religioso determina il grado di
devozione, o pietà di un fedele.
Un’ulteriore divisione è tra religioni universali ed etniche: le religioni universali ovvero il
Cristianesimo, Islam, Buddhismo e il Sikhismo che sono caratterizzate dalla presenza di un
fondatore, che rappresenta un riferimento spirituale per i fedeli. Le religioni etniche ovvero
Induismo, Scintoismo e molte religioni indigene, caratterizzate da un’appartenenza determinata
per nascita, tanto che esse usano dei missionari per diffondere il proprio credo e aumentare i
fedeli. Anche se le religioni più antiche sono di tipo etnico, oggi molte di esse vengono sempre più
minacciate dalla crescita e dalla diffusione delle religioni universali. L’ebraismo, il cristianesimo e
l’islam vengono talvolta definite anche religioni abramitiche, per l’importanza che attribuiscono
ad Abramo. Induismo e Buddismo sono invece religioni vediche, in riferimento ai Veda, i più
antichi testi sacri indiani, che a partire dal 2000 a.C. hanno influenzato la nascita dell’induismo dal
quale poi è derivato il buddismo. Il sikhismo non appartiene a nessuno dei due gruppi, anche ha
tratto ispirazione sia dall’islam che dall’induismo.
EBRAISMO — Nel mondo si contano oltre 13 milioni di ebrei, la maggior parte dei quali distribuiti
tra gli Usa e Israele. La religione monoteista riconosce come proprio il profeta Abramo. La Torah
(sacre scritture ebraiche) descrive due degli episodi più importanti della tradizione ebraica:
l’esodo, la fuga di tutta la popolazione dalla schiavitù d’Egitto, guidata da Mosè, e l’accordo tra Dio
e Abramo, secondo il quale gli ebrei sarebbero stati il popolo scelto per custodire e mettere in atto
la legge di Dio;
CRISTIANESIMO — religione più diffusa al mondo, si basa sulla tradizione contenuta nei libri
dell’Antico testamento, Vangeli e atti degli apostoli. Dall’epoca della sua fondazione il
cristianesimo ha visto molte divisioni al suo interno, cominciata con la separazione tra
cattolicesimo romano, ovvero del Papa, e cattolicesimo ortodosso greco e russo. La spaccatura
più importante avvenne nel XVI secolo in seguito alla riforma protestante, che rifiutò alcuni dogmi
e pratiche del cattolicesimo.
ISLAM— è la seconda religione più diffusa la mondo, nonché quella che cresce con maggiore
velocità. Da un punto di vista geografico, l’Islam è la religione dominante in un’area che si estende
dal Nord Africa, attraverso il Medio Oriente, fino all’Asia meridionale. Maometto è il fondatore di
questa religione che avrebbe ricevuto diverse volte, attraverso l’angelo Gabriele, rivelazioni
provenienti direttamente da Dio, che gli avrebbe affidato il compito di diffondere la parola,
missione che Maometto si impegnò a compiere, nonostante le molte resistenze provenienti dalla
persistenza di religioni politeistiche arabe. Il Corano è il libro sacro. La fede è molto importante per
i musulmani, anche se per loro è fondamentale che questa venga espressa attraverso le azioni, in
particolare i rituali fondamentali chiamati i cinque pilastri dell’islam. Gli islamici si dividono in
sunniti e sciiti, i primi che rappresentano l’orientamento più numeroso e diffuso, mentre il
secondo è meno diffuso. La divisione tra sciiti e sunniti risale alle discordie nate in seguito alla
morte di Maometto riguardo a chi dovesse essere il suo successore, con i primi che sostenevano
che questo dovesse venire scelto all’interno della famiglia del profeta.
INDUISMO— gli induisti chiamano la propria religione sanatama dharma che significa “verità
eterna”, mentre il termine induismo, come la parola India, è usato da chi non è induista. In tutto il
mondo sono circa 900 milioni le persone che si dichiarano induiste, facendone la più grande
religione etnica del mondo, diffusa soprattutto in India e nel Sud dell’Asia. L’induismo non ha
fondatore, non forma una chiesa e non ha un’autorità centrale. Storicamente si rifà ai testi sacri
chiamati Veda. Non è una religione come la intendiamo in quanto integra credenze di molte
religioni e culti e dà importanza solo a una condotta che metta il seguace in armonia con la sua
natura profonda e con l’ordine naturale, ovvero col suo dharma. Esistono comunque alcuni tratti
che permettono di considerarla una religione unitaria come la visione ciclica dell’esistenza e della
fede soggette un ciclo di reincarnazioni causa di grandi sofferenze spirituali controllato dal karma.
L’obiettivo degli induisti è quello di raggiungere il moksha, ovvero la liberazione dal ciclo di nascite
e morti.
BUDDISMO— la religione buddista è prevalente in Cina, Giappone, Hong Kong, Taiwan e
Singapore, dove si mescola con altre tradizioni locali quali il confucianesimo. Il fondatore del
buddismo è Siddharta Gautama (VI secolo a.C.), un principe induista che poteva aspettarsi di
vivere al sicuro dalle malattie e dalla povertà, ma che, turbato e mosso a compassione dalla
sofferenza che vedeva intorno a sé, decise di dedicare la propria vita alla ricerca di una strada per
mettere fine alle afflizioni dell’esistenza. Durante la meditazione, Siddharta venne raggiunto
dall’illuminazione, in seguito alla quale divenne il Buddha, ed iniziò a diffondere ai discepoli che si
univano a lui, i propri insegnamenti, raccolti in diversi documenti, i più antico è il Tripitaka. Per i
buddisti la sofferenza è dovuta al ciclo delle reincarnazioni al quale tutti noi siamo obbligati e da
cui è necessario sottrarsi, raggiungendo il nirvana, attraverso gli insegnamenti del Buddha. Il
buddismo può distinguersi in tre correnti:
- theravada, caratterizzato da un approccio monastico, fondato sullo studio dei testi sacri e sulla
rigida disciplina del comportamento, che comprende diverse forme di meditazione.
- mahayana, quella che ha contribuito in maggior misura alla diffusione di questa religione e si
fonda sulla convinzione che Buddha sia una divinità compassionevole e che grazie ai suoi
insegnamenti sia possibile liberarsi dal ciclo delle nascite.
- tantrayana, la forma meno diffusa che presenta caratteri sincretici, dovuti alla fusione con alcuni
spetti di culture indigene del Tibet e della Mongolia.
SIKHISMO— la più piccola delle religioni universali del mondo. Il termine sikh significa discepolo
ovvero seguace del maestro, il guru, in onore del fondatore della religione Guru Nanak, il quale
dopo una rivelazione divina iniziò a diffondere i suoi insegnamenti. I Sikh predicano l’esistenza di
un unico dio creatore, ma allo stesso tempo l’importanza del karma. Il libro sacro è il Guru Granth
Sahib. Nata nel nord dell’India, questa religione mostra influenze sia dell’Islam, che nell’induismo.

I luoghi sacri sono i luoghi ai quali viene attribuito un particolare significato religioso e che agli
occhi dei fedeli è luogo di devozione e rispetto. Ad esempio, gli islamici, proibiscono l’accesso a La
Mecca e a Medina, le due città sante, a tutti i non musulmani, ritenendo che questo sia un mezzo
per mantenerne la sacralità. Gerusalemme è considerato il luogo sacro più conteso del mondo. Un
luogo sacro non deve essere necessariamente definito, tanto che anche la pratica di rituali religiosi
individuali può generare luoghi sacri molto personali.
I Sacri Monti sono dei complessi devozionali, mete di pellegrinaggio, posti su un colle o sul
versante di una montagna, in una posizione appartata rispetto al centro urbano. Consistono in una
serie di cappelle o edicole in cui sono rappresentate, con dipinti e sculture, scene della vita di
Cristo, di Maria o dei Santi. I Sacri Monti sono numerosi non solo in Italia ma anche in altri paesi
d’Europa.

Un pellegrinaggio, invece, è un viaggio compiuto da un fedele, verso un luogo sacro, per motivi
religiosi. Alcuni di essi, come l’haji musulmana, sono precetti obbligatori, mentre altri possono
essere svolti per motivi diversi, come la purificazione dell’anima, la penitenza o un ringraziamento.
I geografi studiano i pellegrinaggi come una categoria unica, esplorandone le destinazioni
principali e secondarie e i processi di circolazione delle persone ad essi legati.
La religione offre una base fondamentale per l’identità di un individuo o una comunità. Nell’Islam,
per esempio, l’idea di una comunità dei musulmani viene espressa frequentemente, con diverse
scale di riferimento, da quella globale a quella individuale. La parola araba ‘’umma’ indica la
‘’comunità dei fedeli’’. Mentre dar-al-islam (casa dell’islam) invece si riferisce ai paesi a
maggioranza musulmana, ma rientrano in alcuni casi in questa definizione anche le popolazioni
islamiche che vivono in paesi di altre religioni. Un’altra scala di riferimento per i musulmani è la
moschea, luogo della preghiera settimanale. Il digiuno durante il ramadan o il velo che copre il
capo delle donne, infine, rappresenta un modo di esprimere la propria fede e la propria identità su
scala più piccola, ovvero quella del corpo.
La relazione tra comunità religiose e il territorio si possono manifestare anche attraverso comunità
religiose diasporiche, costrette ad abbandonare un luogo a causa della loro fede e che considerano
le loro terre sante come patrie nelle quali la comunità di fedeli auspica di insediarsi.

Il ritorno ad Israele è l’aspirazione di ogni buon ebreo. Il popolo ebraico ha un rapporto particolare
con la tema di Israele, che ritengono sia stata promessa ad Abramo direttamente da Dio e che per
questo viene chiamata proprio Terra Promessa. Il ritorno a Israele divenne l'obiettivo principale
del movimento sionista, sviluppatosi nel XIX secolo con l'ambizione di create una patria religiosa e
politica per tatti gli ebrei, realizzatasi in parte nel 1948, con la nascita dello stato di Israele, che
tuttavia portò ad una serie di complesse e drammatiche problematiche. L'istituzione dello Stato di
Israele, nel 1948, ha portato a un primo compimento il sogno sionista di una patria per il popolo
ebraico, che ricordava il Regno di Israele di biblica memoria. Contemporaneamente, questa
decisione politica privò di uno Stato la popolazione palestinese, a maggioranza musulmana, che
viveva in quella stessa regione. Il sogno sionista si realizza completamente quando Israele occupò
la Cisgiordana. La situazione politica di Gerusalemme e della Cisgiordania rimane duramente
contestata, dal momento che sia i palestinesi sia gli israeliani rivendicano il diritto a controllare
questi luoghi. Alcune comunità ebraiche di coloni hanno costruito degli insediamenti in
Cisgiordania. La religione è senza dubbio un elemento fondamentale del conflitto tra Israele e
Palestina; tuttavia, è Importante ricordare che esso coinvolge anche questioni come la
cittadinanza, la povertà e il controllo dell'acqua.
Il termine modernismo indica quella corrente intellettuale che incoraggia il pensiero scientifico, la
diffusione della conoscenza e la fiducia del progresso. All’inizio del XX secolo, Papa Pio X condannò
ufficialmente il modernismo, perché metteva in discussione alcuni dogmi fondamentali del
cattolicesimo, come l’autorità insindacabile della Bibbia. La tensione tra tradizione e cambiamento
è evidente ancora oggi nelle posizioni del Vaticano in merito al clero femminile o alla
contraccezione. Nel caso dell’induismo la principale tensione tra modernità e tradizione riguarda il
sistema delle caste, una forma di stratificazione sociale in quattro classi sociali chiamate varna, la
cui prima descrizione si trova nei Veda, caratterizzate da diversi gradi di purezza. Il sistema delle
caste è ereditario e nel passato esisteva una rigida relazione tra la casta alla quale apparteneva
una persona e la professione alla quale poteva ambire. Anche se la legge indiana ha abolito le
caste, nelle aree rurali questo sistema continua ad esistere.
Le resistenze nei confronti dei cambiamenti vengono talvolta espresse attraverso il
fondamentalismo religioso, che in diverse forme, richiede che la fede e i principi religiosi di una
persona permeino ogni aspetto della sua vita privata e pubblica. Un esempio è l’islamismo, un
movimento che auspica la conservazione dell’Islam tradizionale pre-moderno e oppone resistenza
all’occidentalizzazione e alla globalizzazione. I gruppi che hanno iniziato a fare riferimento a questa
ideologia hanno iniziato a praticare atti di violenza e di terrorismo che spesso vengono associati al
concetto di jihad. Anche se l’islam ufficiale e la maggior parte dei fedeli rifiuta quest’ultima visione,
i movimenti più tradizionalisti la interpretano in senso letterale, al punto da giustificare l’uso del
terrorismo come strumento al quale i musulmani possono fare ricorso per difendere la propria
fede.

CAPITOLO 5 – LA GEOGRAFIA CULTURALE E LA GLOBALIZZAZIONE


Per globalizzazione si intende una situazione in cui mercati, produzioni, consumi e anche modi di
vivere e di pensare sono connessi a scala globale in un continuo flusso di scambi di beni materiali
(denaro) e immateriali (informazioni, di persone), che rende tutti loro interdipendenti e tende a
unificare queste varie realtà secondo dei modelli comuni. Sebbene la globalizzazione di cui si parla
sia il frutto della diffusione del capitalismo e del commercio e della finanza internazionale, la
tendenza all’interconnessione spaziale su lunghe distanze è in atto da molto tempo. Per esempio,
il commercio di spezie tra l’Asia, l’Africa e i mercati europei ci ricorda come esistessero
connessioni intercontinentali già nel XV secolo.
Di fatto la globalizzazione contemporanea ha iniziato a manifestarsi negli anni Sessanta del secolo
scorso, diffondendosi con particolare rapidità soprattutto a partire dagli anni Ottanta e Novanta,
quando diventarono poi anche di uso comune le parole “globale” e “globalizzazione”. Ciò che
distingue la globalizzazione contemporanea dagli esempi storici citati sopra è soprattutto l’alto
livello di interdipendenza finanziaria, politica e culturale che esiste oggi tra le diverse parti del
mondo: se già il commercio delle spezie stabilì connessioni internazionali tra luoghi molto lontani
tra loro, la globalizzazione contemporanea è qualcosa di più.
Nel modello di sviluppo in cui viviamo siamo sempre più dipendenti da quel che accade nelle
dinamiche geopolitiche e geo-economiche. Ad esempio, se viene presa una decisione in Cina, ci
riguarderà a breve quasi direttamente. Allo stesso modo, ci interessa direttamente ciò che accade
nell’UE.

“Gli stati nazionali sono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro
chance di potere, orientamenti, identità, reti”. (Beck)
Ovviamente le dinamiche economiche non possono essere disgiunte da quelle politiche perché le
penetrazioni di mercato sono consentite dagli attori istituzionali (lo Stato e i suoi apparati). Le
multinazionali o le transnazionali addirittura possono condizionare nei paesi più poveri le scelte
politiche, possono finanziare delle dittature.
Esistono degli altri attori, illegali, ma che incidono fortemente nei mercati dei circuiti
internazionali, e figurano tra i primi attori che si sono globalizzati: le mafie, le associazioni criminali
internazionali. Queste ultime, avendo da sempre legami internazionali, hanno dei mercati
potentissimi che alimentano produzione di capitale illegale che però attiva un circuito economico
importante a sua volta. Possono competere con la potenza di grandi stati perché hanno una
quantità di capitali enorme che però deve essere “riciclato”. Esistono quindi una serie di
investimenti di copertura fatti per poter avere questo circuito di ri-legalizzazione di capitali.

Ci sono delle differenze tra globalizzazione e


- Internazionalizzazione, che fa riferimento ai rapporti economici, politici, giuridici e culturali tra
una comunità e uno Stato, o tra uno Stato e altri Paesi.
- mondializzazione che rappresenta i problemi con effetti a livello mondiale e soluzioni possibili tra
gli organismi internazionali in materia di: ambiente, acqua, clima, migrazioni, malattie, mafie.
Ci sono state varie fasi e varie globalizzazioni. Secondo Immanuel Wallerstein possono suddividersi
in:

1. Fase germinale: comincia in Europa tra il 15° secolo e la metà del 18° secolo, stimolata
dai famosi viaggi di colonizzazione, periodo dei grandi viaggi e delle grandi scoperte
geografiche. Si cominciano a trasferire tutta una serie di prodotti da una parte all’altra
del mondo, al punto che incide nel locale sui regimi alimentari, sulle tecniche di
produzione (arrivano prodotti fino ad allora sconosciuti come il pomodoro, la patata o
il cacao);

2. Fase incipiente e precondizioni per il decollo dell’attuale globalizzazione: è una fase


che intensifica molto di più i traffici e i mercati, va tra la metà del ‘700 e il 1870. Si ha il
passaggio all’idea di Stato unitario: con la Rivoluzione francese, nel 1789, la presa del
potere della borghesia crea per la prima volta uno Stato territoriale borghese. Questo
modello di Stato, unitario e federale, viene esportato nei paesi che sono soggetti al
regime coloniale di queste potenze europee; Questa fase coincide anche con una fase
molto cospicua dello sviluppo del sistema di produzione capitalistico.
3. Fase del decollo: va dal 1870 agli anni 20 del ‘900. È la fase delle forme globali di
comunicazione: già verso la metà dell’800 abbiamo l’affermazione della macchina a
vapore e dello sviluppo delle ferrovie, l’invenzione della fotografia, del cinema, lo
sviluppo di un sistema postale concordato a livello internazionale, l’invenzione del
telegrafo ad opera di Marconi, della radio, del telefono. Tutte queste innovazioni
tecnologiche straordinarie cambiano letteralmente l’organizzazione dei rapporti tra i
vari paesi del mondo e intensificano quel processo che David Harvey ha definito “la
compressione spazio-temporale”: a mano a mano gli spazi e i tempi si comprimono.
Questo intensificarsi delle comunicazioni e renderle sempre più agevoli cambia il
concetto di vicino e lontano, tanto che i luoghi sono connessi sono considerati “vicini”,
e la vicinanza fisica spaziale dei luoghi perde d’importanza. In questo periodo si
comincia a dar valore alla letteratura internazionale che ha come conseguenza la
nascita di grandi migrazioni di massa.
4. Fase di maturità: dalla metà degli anni ’20 agli anni ’60 del 20° secolo. Nasce la Società
delle Nazioni, il primo organismo internazionale dopo la Prima guerra mondiale, ma
sarà un fallimento. Con la Seconda guerra mondiale si decide la chiusura della Società
delle Nazioni e si fonderà l’ONU (l’Organizzazione delle Nazioni Unite). Ci sono anche
delle concezioni molto conflittuali legate alla modernizzazione, per esempio
l’affermarsi di totalitarismi (il fascismo, il nazismo e lo stalinismo). Questa è una fase in
cui la globalizzazione e le due guerre mondiali fanno capire quanta interdipendenza ci
sia nel mondo.

5. Consumo di massa: dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli anni ’90 c’è un intensificarsi
del consumo di massa che però è già cominciato nei primi del ‘900 con il sistema
fordista e taylorista (la famosa catena di montaggio e l’invenzione del consumo di
massa). Si accentua una sorta di coscienza globale, la coscienza dei rischi ecologici
globali che però non sembra sufficiente. Finisce la guerra fredda e cade il muro di
Berlino nel 1989. Con quest’ultimo avvenimento si pone fine al bipolarismo tra il
mondo capitalista ed il mondo a ispirazione socialista, mettendo a capo all’inizio degli
anni ’90 un’unica potenza egemone: l’unilateralismo degli Stati Uniti. Tra gli anni ’50 e
gli anni ’70 nasce internet e viene diffuso come consumo di massa grazie alle
invenzioni del linguaggio di Steve Jobs e Bill Gates. Nel 1968 si diffonde la teoria di
Marshall McLuhan del «villaggio globale» per cui la popolazione umana è considerata
come un grande villaggio perché siamo interconnessi. Tutto questo processo era già
stato descritto da Carl Marx nel XIX secolo che aveva analizzato il fatto che
l’intensificazione del sistema di produzione capitalistico avrebbe portato, secondo una
metafora che Marx utilizza che poi viene ripresa dal geografo David Harvey,
all’annichilimento (distruzione) dello spazio attraverso il tempo (compressione spazio-
temporale).

Come già stato anticipato ci può essere una globalizzazione economica, una di tipo culturale e una
di tipo tecnologica – scientifica.
• la globalizzazione economica spinge verso:

- la progressiva abolizione delle barriere commerciali. L’Unione Europea ne è la


dimostrazione, essa ha il fine di abolire le barriere commerciali, permettere la libera
circolazione delle persone e delle cose.

- l’affermazione delle Imprese multinazionali, agli inizi del Novecento, trasformatesi in


transnazionali. Tra i due tipi d’impresa ci sono delle differenze già nella denominazione
cioè multinazionali vuol dire che nascono con una società o capitale originario
proveniente da un paese e che poi investono in molte nazioni. A mano a mano queste
società crescono, si moltiplica questo modello di grandi e medie imprese che investono
in altri paesi anche grazie all’abbattimento dei costi di trasporto e dei commerci
nazionali e internazionali. Diventano transnazionali perché da un certo momento in
poi, i capitali vengono valutati in borsa con le aziende e quindi nelle aziende investono
anche personalità che provengono da altri paesi.
- la standardizzazione dei prodotti, favorita dalla pubblicità. C’è una standardizzazione
dei prodotti per cui i prodotti attraverso questi mercati globali si ritrovano in tanti parti
del mondo, come per esempio Ikea che ha un tipo di arredamento che riguarda il Nord
Europa ma è presente in tutto il mondo, anche lì si gioca un po’ sul local perché per
esempio se si va in un Ikea situato a Parigi potremmo trovare dei prodotti alimentari
tipici e così nelle altre parti del mondo, c’è quindi un adattamento agli usi e consumi
del luogo.
- delocalizzazione delle fasi del processo produttivo, infatti le aziende che hanno la
spinta di internazionalizzarsi, delocalizzano la produzione o addirittura tutta l’azienda,
in posti dove il costo del lavoro è minore e spesso non regolamentato.

• Dal punto di vista culturale c’è uno scambio, per quanto riguarda le religioni e le
civiltà diverse tra loro. C’è uno scambio e un confronto che ci arricchisce molto ma
al tempo stesso il multilateralismo apre la porta a molte più guerre.

• Per quanto riguarda la globalizzazione tecnologica e scientifica, c’è una circolazione


di idee, di notizie sempre più accelerata, eppure, l’ipertrofia della comunicazione
non ci permette di orientarci facilmente, abbassando notevolmente la nostra soglia
dell’attenzione.

La globalizzazione contemporanea, però, implica un’espansione orizzontale (da luogo a luogo),


attraverso veloci flussi di beni, persone e idee che connettono tutti, o quasi, i luoghi della Terra, e
un’espansione verticale (dai soggetti locali alle grandi organizzazioni mondiali) che rafforza e
rende stabili questi legami, radicandoli nei vari luoghi. Essa è stata favorita da 5 fattori:
• La ricerca di mercati su scala globale, conseguente all’affermazione del capitalismo.
Questo include anche l’individualizzazione di luoghi dove le materie prime costano
meno e i beni possono essere prodotti e distribuiti con maggiori profitti;

• Le innovazioni tecnologiche più efficaci, specialmente nei trasporti,


telecomunicazioni e comunicazione digitale;

• Riduzione dei costi e tempi dei trasporti e delle comunicazioni;

• Un aumento dei flussi di capitale finanziario, come risultato del commercio, degli
investimenti internazionali;

• La diffusione di politiche e leggi che hanno favorito i 4 precedenti fattori.

Il sistema di produzione capitalistico funziona grazie alle varie operazioni finanziarie, le quali
gestiscono la quantità enorme di capitale che circola attraverso il globo. Per aprire un’attività,
infatti, qualunque essa sia, c’è bisogno di capitale, di fondi. I capitali inizialmente vengono dati in
prestito, con delle inevitabili garanzie.
CAPITALISMO→ sistema economico e sociale in cui il capitale produttivo è detenuto di regola da
privati (individui o società), che lo utilizzano per ottenere profitti dalla vendita dei beni e servizi
prodotti da lavoratori dipendenti, per poi reinvestirli in attività produttive o finanziarie al fine di
accrescere il capitale stesso.

CAPITALE→ insieme dei mezzi di produzione che, combinandosi con il lavoro salariato,
permettono la produzione dei beni e servizi. Esso comprende il denaro (capitale finanziario), gli
immobili, i macchinari, gli impianti produttivi, ecc.
Le sedi della finanziarizzazione non sono altro che le borse. Il movimento di borsa è
particolarmente grande a New York e dipende soprattutto dal tipo di azioni e dalle connessioni con
altre borse, tra cui: Parigi, Lisbona, Amsterdam, Bruxelles. Importanti sono anche quelle di Londra
e di Milano. Ciascun paese investe una parte nel suo interno e una parte diretta all’estero.
L’Europa, gli Stati uniti e il Canada già dagli anni ’70 investono soprattutto all’estero, mentre in
Asia ciò non avvenne prima degli anni ’90.

Uno dei cambiamenti politici legati all’affermazione della globalizzazione è la creazione, nel 1995,
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO - World Trade Organization). L’obiettivo
principale della WTO è quello di istituire ed attuare una regolamentazione in senso liberista del
commercio internazionale. Tra gli aspetti principali della globalizzazione ci sono l’aumento
dell’importanza del ruolo e delle imprese multinazionali nell’economia mondiale e l’incremento
degli investimenti diretti all’estero e dei flussi di capitale che si spostano in tutto il mondo. Ciò che
caratterizza le imprese multinazionali o transnazionali è il possesso di uffici e stabilimenti in vari
stati. Per finanziare la propria attività, le multinazionali trasferiscono denaro proprio, o preso in
prestito da banche multinazionali, ai paesi stranieri nei quali tengono le sedi o degli interessi,
mettendo in atto quelli che vengono definiti investimenti diretti all’estero (IDE). Ne è un esempio
l’acquisto o la costruzione di impianti per la produzione di beni in un paese diverso da quello della
casa madre dell’azienda. Il giudizio sugli effetti degli IDE è controverso: da un lato gli IDE
aumentano i flussi di capitale rivolti verso un paese e possono contribuire a promuovere le attività
economiche e aumentare l’occupazione, ma dall'altro lato limitano la concorrenza delle imprese
locali che non hanno le stesse risorse finanziarie delle multinazionali.
GLI IMPATTI CULTURALI DELLA GLOBALIZZAZIONE
LA CULTURA DI MASSA → è il fenomeno che si riferisce a prodotti di grande diffusione, come la
musica, videogiochi, programmi televisivi, abbigliamento, gli svaghi. Essa è influenzata dai mass
media, dalla tv, da internet. Si tratta delle pratiche, delle attitudini e le preferenze condivise da un
gran numero di persone e considerate parte del modello dominante. I diversi modi in cui vengono
considerate le conseguenze culturali della globalizzazione si possono ricondurre alla diffusione
spaziale, osservando come essa avvenga per diverse modalità, come la diffusione gerarchica e la
diffusione per contagio. Talvolta un ruolo importante viene svolto dalla diffusione gerarchica
inversa che agisce dal basso verso l’alto secondo uno schema bottom up.
Riguardo agli effetti della globalizzazione, gli scienziati sociali hanno proposto uno schema
semplice, che si basa su tre tesi, o concetti chiave: l’omogeneizzazione, la polarizzazione e la
glocalizzazione. L’omogeneizzazione— mira a far sì che la globalizzazione tenda a far convergere i
gusti, mode, abitudini di vita, le convinzioni e le pratiche culturali, rendendole simili in tutto il
mondo. La diffusione globale di catene come i fast food, di ristoranti, alberghi ecc. viene spesso
citata come una prova a sostegno della tesi dell’omogeneizzazione. Una delle sue conseguenze è la
TRASFORMAZIONE DEI LUOGHI IN NON LUOGHI, cioè, l’antropologo Marc Augé li ha definiti come
spazi locali simili in tutto il mondo senza storia né identità specifica, sovente frequentati da grandi
folle, ma dove i soggetti che le compongono non hanno relazioni tra loro. Si tratta per lo più di
luoghi urbani: centri commerciali, grandi stazioni, aeroporti… Poiché nel mondo contemporaneo,
la maggior parte delle trasformazioni culturali, sociali ed economiche è una conseguenza del
capitalismo, ne consegue che i paesi più avanzati esercitano un’influenza economica
preponderante sul resto del mondo, che porta all’affermazione di valori e modelli come il
consumismo, la libertà e l’individualismo, i quali entrano in conflitto con quelli delle culture locali,
minacciando di cancellarle.
Polarizzazione— secondo questa teoria, la globalizzazione, proprio perché tende a creare un’unica
cultura di massa globale, contribuisce ad aumentare il senso di identità delle diverse società e
culture, generando divisioni e conflitti tra persone e paesi di cultura diversa. I sostenitori di questa
tesi ritengono che la globalizzazione abbia fomentato le forze più separatiste e integraliste,
aumentando i rischi per la sicurezza. Un esempio sono le guerre e conflitti identitari che si sono
sviluppati nei Balcani o in Africa negli stessi anni in cui si affermava la globalizzazione.
La glocalizzazione → è il processo per cui gli attori globali e quelli locali interagiscono,
influenzandosi a vicenda. Oltre a produrre forze omologatrici, la globalizzazione può anche
stimolare la consapevolezza delle diversità locali, fenomeno indicato come neolocalismo che
indica il rinnovato interesse per il sostegno e la promozione delle specificità di ciascun luogo.
Uno degli effetti della globalizzazione economica è quello di mettere in competizione tra loro i vari
territori. Tale competizione riguarda soggetti privati, pubblici e misti che, vivendo in uno stesso
territorio, si conoscono, hanno una identità territoriale comune e possono mettersi in rete tra loro
per elaborare e condividere progetti di sviluppo, combinando risorse locali con risorse che
circolano nelle reti globali.
Tale insieme di potenzialità rientra nel concetto generale di milieu territoriale locale. Esso fa leva
su tutte le caratteristiche che nel corso del tempo si sono sedimentate e legate stabilmente a un
territorio e che possono in qualche modo costituire le prese per lo sviluppo. Si tratta di condizioni
naturali originarie che nel corso della lunga durata storica si sono combinate con i prodotti della
cultura materiale (infrastrutture, monumenti, edifici) e immateriale (tradizioni) con il cosiddetto
capitale sociale (Rapporti di cooperazione, volontariato, associazionismo) e con il capitale
istituzionale locale (istituzioni civiche, scientifiche, scolastiche, musei, biblioteche…). L’insieme
formato da una rete di soggetti e da un milieu territoriale costituisce il sistema locale territoriale,
un sistema formato da una rete locale di soggetti che cooperano per valorizzare le risorse
specifiche del loro contesto territoriale, interagendo con grandi imprese che operano su scala
globale. Secondo la tesi della glocalizzazione il rapporto delle reti globali con i sistemi locali non è
sempre un rapporto di dominanza, perché questo accade se i soggetti locali non sanno reagire e
auto-organizzarsi. Per evitare ciò essi devono collegarsi in rete tra loro e far valere le risorse del
loro milieu territoriale. La glocalizzazione è quindi il risultato di una relazione tra forze globali e
locali, tale per cui le forze locali si globalizzano e quelle globali si localizzano.
LA MERCIFICAZIONE DELLA CULTURA
Essa trasforma in materia di mercato la cultura, una creazione sociale che consiste nell’insieme di
pratiche e credenze condivise da un gruppo di persone, e che prima non aveva una natura
commerciale.
Le manifestazioni o espressioni della cultura, possono prendere forme materiali o immateriali: la
cultura materiale include gli artefatti, strumenti e strutture tangibili e visibili create dalle persone,
come i mobili, le abitazioni, gli strumenti musicali o gli attrezzi da lavoro; la cultura immateriale,
invece, non è tangibile ed è legata alle tradizioni orali e alle pratiche di comportamento (canzoni,
feste, lingue, dialetti…).

Le città sono quelle che vengono usate più di altri aspetti culturali come prodotto di consumo
culturale e vengono inserite in una vera e propria competizione globale. Questo tipo di marketing
territoriale lo abbiamo visto anche a Napoli, quando c’è stato il governo di Antonio Bassolino:
l’immagine che diffusero, anche come stereotipo discriminante, era che in questa città c’erano
solo immondizia e topi, tanto che uscivano sui giornali immagini di una Napoli orribile devastata da
questo aspetto. Si decise così di agire nel senso opposto e sponsorizzare la città fotografando le
sue parti più belle, anche modificandole. Alcuni decenni dopo, con un’altra operazione di
marketing urbano, operata dal sindaco De Magistris, è stato creato il famoso Lungomare liberato
che, nonostante una prima contrarietà da parte di commercianti e abitanti della zona, attira
migliaia di persone al giorno. Questo tipo di politica può essere legato anche alle serie televisive.
Per esempio, nella provincia di Ragusa, città della serie “Montalbano” ci sono i vari cartelli dei
luoghi della serie e questo ha creato un incremento economico decisivo per gli abitanti del luogo.
Queste politiche possono essere fatte anche per riqualificare una città o una parte di essa e in
questo caso parliamo di gentrificazione. Il primo intervento di gentrificazione è stato fatto a
Lochness, Londra, una zona portuale che era assolutamente degradata: gli investitori in immobili
compravano a poco prezzo le strutture preesistenti e i ceti più poveri venivano espulsi da
quell’area poiché nell’investire e riqualificare tali immobili non potevano più permetterseli. Queste
zone riqualificate vengono riconvertite anche in attività come per esempio quelle commerciali o
culturali.
Nella stessa città di Napoli questo processo si è verificato in due momenti: quando ci fu il
terremoto dell’80 e quando vennero create le vele di Scampia in seguito alla legge 167 dove ci fu
un’espulsione massiccia degli abitanti che vivevano negli stabilimenti del centro storico e nella
zona dei quartieri spagnoli. Napoli, però, è una città particolare dove c’è ancora una sorta di mixité
sociale di alto e basso.
La geografia culturale è una branca della geografia umana che attribuisce particolare importanza
alle idee e alle attività delle persone e come esse si relazionano con l’ambiente e il paesaggio. I
geografi culturali prestano molta attenzione alla mercificazione della cultura, la trasformazione in
merce delle espressioni culturali materiali e immateriali, ma anche a come la cultura influenza i
nostri consumi.

PUBBLICITÀ, MERCIFICAZIONE E PRATICHE CULTURALI.


La pubblicità è una delle principali forze che influenzano i modelli di consumo sia localmente sia
globalmente ed è studiata per influenzare il comportamento dei consumatori, con la creazione di
bisogni attraverso l’uso di immagini, testi, simboli e slogan.
Il mercato non solo ha influenzato le culture materiali ma coinvolge con forza sempre maggiore
anche le culture immateriali delle comunità indigene. Un noto esempio è rappresentato dall’haka,
danza rituale collettiva tipica della cultura immateriale degli indigeni Maori, che è entrata a far
parte delle logiche del mercato, a causa del suo utilizzo da parte degli All Blacks, i giocatori della
nazionale neozelandese di rugby. La mercificazione dell’haka viene contestata perché in realtà non
sarebbe una danza di guerra e i movimenti effettuati dai giocatori della nazionale di rugby
nemmeno rispetterebbero la danza originale, inoltre si creano controversie riguardo al copyright
che spetterebbe al popolo Maori e non agli All Blacks, anche se non è possibile stabilire un
inventore della danza.
Le discussioni sulla mercificazione e sull’autenticità dell’eredità culturale riguardano anche
l’industria del patrimonio, le imprese che gestiscono o traggono profitti dalle eredità del passato,
come tradizioni musicali, musei, monumenti o siti storici e archeologici. Questa, è cresciuta in
maniera considerevole a partire dagli anni Ottanta, grazie anche ad un cambiamento nel
significato che viene comunemente attribuito al concetto stesso di patrimonio. Il geografo inglese
David Lowenthal ha tracciato un’evoluzione del significato di questo termine che nella sua
traduzione inglese, heritage, fino a non molto tempo fa, indicava quasi esclusivamente un’eredità,
cioè beni e proprietà lasciati ad un erede attraverso un testamento o una donazione o secondo
pratiche culturali consolidate.
Oggi il termine heritage, che in italiano viene comunemente tradotto con patrimonio, indica invece
l’insieme dei beni culturali del passato.

IL PATRIMONIO DELL’UMANITÀ
Con patrimonio mondiale si indicano quei siti ai quali viene attribuito un valore eccezionale e
universale per tutta l’umanità. La pratica di individuare dei siti di straordinaria bellezza o
importanza risale almeno all'antica Grecia, quando vennero identificate le cosiddette “7 meraviglie
del mondo”. Le campagne per la protezione del patrimonio mondiale, però, si sono intensificate
soprattutto nella seconda metà del secolo scorso sotto la guida del Unesco.
L’UNESCO è l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza, la Cultura, fu fondata
nel 1945 per incoraggiare la collaborazione tra le nazioni. Attualmente conta 192 membri. Nel
1972 l’UNESCO ha adottato la Convenzione sulla Protezione del patrimonio mondiale, culturale e
naturale dell’umanità, gettando le basi per un comitato per il Patrimonio mondiale dell’umanità
tra i cui compiti c’è quello di creare un elenco di siti, culturali e naturali, caratterizzati da un valore
universale eccezionale. Alla lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità è stato riconosciuto un
importante ruolo nell’aumento della consapevolezza riguardo alle risorse culturali globali e
nell’aver stimolato lo sviluppo di nuove destinazioni turistiche, anche se non sono mancate le
critiche:
• eccessiva percentuale di siti europei, compresi edifici e luoghi legati alla cristianità,
che riflette un certo pregiudizio eurocentrico;

• quando un patrimonio viene riconosciuto


genera un flusso di turisti che in alcuni casi
può interferire con l’utilizzo locale del bene
e sovente ne minaccia la conservazione;

• la gestione e la conservazione di questi siti


può diventare molto costosa;

GEOGRAFIA CULTURALE DEI SAPERI LOCALI


Il folklore si distingue dalla cultura di massa e si riferisce in particolare a quei gruppi di persone i
cui membri condividono gli stessi tratti culturali e vivono prevalentemente in aree rurali, con meno
occasioni di contatto con l’economia di mercato globalizzata. Oggi, con l’avanzare della
globalizzazione è sempre più difficile distinguere tra cultura di massa, folklore e cultura popolare,
per cui si preferisce parlare di cultura locale, ovvero le pratiche, i comportamenti e le preferenze
condivise dai membri di una comunità che interagisce con le caratteristiche naturali e storiche di
un certo ambiente sociale.

IL SAPERE LOCALE
Indica la conoscenza collettiva di una comunità, che deriva dalle attività e dalle esperienze
quotidiane di ciascuno dei suoi membri con milieu sociale e territoriale in cui è inserito.
Il concetto di sapere locale viene descritto da tre sue caratteristiche:
• viene tramandato oralmente e sono rare le fonti che lo attestano. In molti casi
questa trasmissione orale viene accompagnata da attività o racconti;
• è dinamico e muta continuamente a nuove scoperte o informazioni;
• non è un’entità unica, all’interno di una comunità vi sono diversi saperi locali.
Le conoscenze locali offrono gli strumenti per la risoluzione dei problemi, contribuendo
all’affermazione di un modello di sviluppo sostenibile, cioè che soddisfa i bisogni economici del
presente senza compromettere le generazioni future.

GEOGRAFIA DELLE MEDICINE TRADIZIONALI Le medicine tradizionali rappresentano una riserva


fondamentale di saperi locali e costituiscono la base del sistema sanitario di una nazione,
composta da pratiche mediche derivate da conoscenze e credenze antiche sul funzionamento del
corpo umano, utilizzate per mantenere la salute o guarire delle situazioni di malessere. La maggior
parte degli approcci alla medicina tradizionale condivide due principi: l'essere olistica e
personalizzata. Un approccio olistico alla medicina considera la salute come la somma di tutte le
dimensioni della vita di una persona, non solo quella fisica ma anche quella mentale, sociale e
spirituale.
L’approccio personalizzato contempla invece la possibilità che a due persone che presentano
esattamente gli stessi sintomi vengano prescritti trattamenti diversi. Una medicina contrapposta
alla medicina tradizionale è la medicina allopatica (moderna), ovvero costituita da pratiche
mediche che cercano di curare o prevenire le malattie attraverso farmaci.
L’agopuntura → è ad esempio un elemento importante della medicina cinese ed è un’antica forma
di medicina tradizionale cinese, che induce la guarigione attraverso l’inserimento di lunghi aghi in
alcuni punti specifici del corpo.

L’ARCHITETTURA TRADIZIONALE strutture architettoniche di uso comune (abitazioni, edifici


rurali ecc.) presenti un determinato luogo, periodo storico o comunità.
Lo studio dell'architettura tradizionale, in Italia detta anche rurale o vernacolare nei paesi di lingua
anglosassone, per più di un secolo ha avuto rapporti molto stretti con la geografia umana per
quello che riesce ad offrire sull’utilizzo dello spazio da parte dell’uomo, sia Per quanto riguarda la
forma delle case e degli edifici e il loro rapporto con il sito, sia relativamente alla pianta dei villaggi
o di altri tipi di insediamenti.
Gli insediamenti spontanei e gli edifici tradizionali vengono costruiti utilizzando i materiali e le
risorse disponibili localmente e rispondono alle condizioni ambientali, alle pratiche culturali e ai
bisogni del territorio nel quale sorgono: per esempio, il feng shui, cioè l'arte cinese di costruire una
casa o disegnare un paesaggio che tiene conto dell'armonia tra le forze cosmiche della natura e
l'ambiente costruito. La valutazione della corrispondenza delle caratteristiche di un edificio ai
principi del feng shui è molto complessa e comprende lo studio della morfologia del terreno e la
localizzazione delle fonti d'acqua. Lo stesso termine feng shui, tradotto letteralmente significa
vento ed acqua.

CAPITOLO 6 – GEOGRAFIA DELLO SVILUPPO / CHE COS’E’ LO SVILUPPO


Lo sviluppo è un insieme di processi che determinano cambiamenti positivi nel benessere
economico, nella sua distribuzione tra le classi sociali e nella qualità della vita degli abitanti e dei
lavoratori. Ci sono due modi per intendere lo sviluppo: da un lato possiamo intenderlo come ciò
che in natura è lo sviluppo degli organismi viventi e dall’altro possiamo pensare come un lungo
cammino obbligato per il genere umano.
Il primo significato ha due caratteristiche: 1. Lo sviluppo ha un limite, la popolazione e il singolo
organismo non crescono all’infinito; 2. Lo sviluppo organico sulla Terra è molto diversificato: ogni
specie biologica, ogni organismo vivente ha le sue forme e modalità di sviluppo.
Anche l’umanità ha subito un’evoluzione nel corso del tempo e questa può essere di due tipi: 1.
Ogni cultura e popolazione può seguire un suo sviluppo diverso dagli altri, e in questo caso
avremo una geografia delle diversità; 2. Idea di sviluppo dominante fortemente occidentale a cui
tutti si devono attenere, perdendo le proprie particolarità.
Confrontando gli stati o le regioni del mondo sulla base dei loro livelli di sviluppo, vengono
utilizzati termini e classificazioni molto diversi, come paesi con reddito alto, medio e basso oppure
paesi più o meno sviluppati. Oggi la maggior parte degli esperti preferisce distinguere tra paesi del
Nord e del Sud del mondo. Si definisce nord del mondo l’insieme dei paesi più ricchi, perché
economicamente sviluppati. Il sud del mondo comprende invece i paesi meno ricchi o anche
decisamente poveri, a causa di un minor sviluppo economico, situati per la maggior parte
nell’emisfero sud. Questa divisione in Nord e Sud nasce negli anni 70, con l’introduzione della linea
Brandt, che proponeva anche una divisione in paesi sottosviluppati (Afghanistan, Nepal e altri
della fascia equatoriale dell’Africa), paesi in via di sviluppo, paesi in via di transizione (Europa
orientale, ex Unione Sovietica) chiamati così perché erano stati in grado di superare il gap di
povertà nato tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, paesi sviluppati.
Prima di questa divisione, in seguito alla Seconda guerra mondiale, il mondo era diviso in grandi
blocchi geopolitici:
- Il blocco dei Paesi democratici-industriali all'interno della sfera d’influenza americana, il Primo
Mondo (Nord America, Europa occidentale, Giappone e Australia);
- Il blocco orientale comunista-socialista, il Secondo Mondo (Russia, Europa dell'Est e alcuni Stati
come il Kazakistan, la Cina);
- I restanti tre quarti della popolazione mondiale, considerati come Terzo Mondo (paesi in via di
sviluppo quali l’Africa, l’Asia e l’America Latina, ma anche Venezuela, la Corea del Nord, Arabia
Saudita);
Mentre con il termine Quarto Mondo ci si riferisce alle nazioni ampiamente sconosciute dei popoli
indigeni o con una tale povertà da essere anche privi di risorse per modificare la loro condizione.
Dal 1980 si entra nel neoliberismo portato avanti in Inghilterra da Margaret Thatcher e Ronald
Reagan negli Stati Uniti, ma soprattutto si entra in quella cultura neoliberista e monetarista che
stravolgerà completamente le logiche precedenti e imporrà attraverso il fondo monetario
internazionale degli interventi che devono rispondere a dei principi economici per finanziare i
paesi poveri. Willy Brandt scriverà il Rapporto sullo sviluppo globale con il titolo emblematico
“Nord/Sud” che smettono di avere una connotazione prettamente geografica e si caricano di un
significato geopolitico e geoeconomico. Questa distinzione però è molto netta (dicotomica) e
sottolinea il dominio delle economie forti;
Alcuni paesi riescono a superare quello che è definito come “decollo iniziale” a costo di una serie
di fatiche, ma molti altri non ce la faranno mai, restando intrappolati nella trappola del debito
internazionale. Le 12 dimensioni che stabiliscono la condizione del benessere sono:
- ambiente;
- salute;
- benessere economico;
- istruzione e formazione;
- lavoro e conciliazione dei tempi di vita;
- relazioni sociali;
- benessere soggettivo;
- paesaggio e patrimonio culturale;
- ricerca e innovazione;
- qualità dei servizi;
- politica e istituzioni.
Il concetto di sviluppo associato ad un futuro desiderabile implica il miglioramento delle condizioni
economiche, sociali e ambientali di una società. Che lo sviluppo odierno possa essere definito un
miglioramento rimane una questione fortemente contrastata. Il sistema economico globale non
dipende solo dalle risorse umane e finanziarie ma anche da quelle naturali. Ciò chiama in causa
differenti scuole di pensiero sulla relazione tra economia, sviluppo, società e ambiente, che a
grandi linee, seguono due prospettive:
- sviluppo convenzionale, privilegia la crescita economica e anche il benessere sociale, dedicando
scarsa attenzione all’uso delle risorse, ai consumi o allo stato dell’ambiente;
- sviluppo sostenibile, privilegia una crescita economica e sociale ottenuta senza compromettere
le diversità culturali, le risorse naturali o le condizioni dell’ambiente per le generazioni future.
Scarsa attenzione si dedica invece ancora alla sostenibilità culturale.
Per misurare e valutare lo sviluppo si usano gli indici, cioè la combinazione di due o più indicatori.
Mentre gli indici sono usati per dati di livello nazionale o internazionale, gli indicatori possono
essere utilizzati anche per descrivere aree molto piccole.
Ci sono vari indicatori per misurare lo sviluppo e sono realizzati dall’ONU. Si possono dividere in
tre gruppi:
- indicatori economici: PIL, PIL pro capite, tasso di povertà (povertà assoluta e povertà relativa),
coefficiente di Gini e curva di Lorenz;
- indicatori socio-demografici: ISU (indice di sviluppo umano), ISG (indice di sviluppo di genere),
BES (benessere equo sostenibile)
- indicatori ambientali: indice di vulnerabilità (terremoti, tsunami)
L’OCSE è l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ovvero una cooperazione
economica che spinge alla liberazione degli scambi sia industriali che dei movimenti di capitali
finanziari. Al 2020 ne fanno parte 37 Stati.
INDICATORI ECONOMICI
L’indicatore più comune è il PIL Prodotto Interno lordo, che consiste nel valore monetario
complessivo annuale dei beni e dei servizi prodotti all’interno dei confini geografici di un paese.
Dividendo il PIL per il numero di abitanti si ottiene il PIL pro capite, che riflette la produzione
media per persona. La parità di potere d’acquisto (PPA) è un tasso di cambio utilizzato per
comparare produzione, reddito o prezzi fra paesi che utilizzano valute diverse. Esso si basa
sull’idea che il prezzo di un bene o di un servizio in un paese dovrebbe eguagliare il prezzo dello
stesso bene o servizio in un altro paese quando viene convertito in una valuta comune. La PPA
quindi è semplicemente un unità che indica che per il consumatore una bottiglia d’acqua a Il Cairo
è equivalente ad una bottiglia d’acqua a Parigi, sebbene i prezzi locali dell’acqua in bottiglia
possano essere sostanzialmente differenti.
Gli economisti utilizzano spesso il prodotto interno lordo come misura dello sviluppo economico.
Tuttavia, questo indicatore ha tre limiti importanti:
- Riflette soltanto il valore monetario delle entrate ufficiali generate dall’economia formale, non
riuscendo ad intercettare il valore dei beni e servizi prodotti attraverso l’economia informale.
- Non fornisce informazioni sulla uniformità o sulla diseguaglianza di distribuzione all’interno di un
paese.
- Non tengono in considerazione i costi sociali ed ambientali associati al consumo di risorse
utilizzate nella produzione dei vari beni e servizi.

Gli indicatori economici sono legati anche al concetto di povertà, un fenomeno estremamente
complesso che raramente ha una sola causa e che può essere considerato una condizione sia
economica sia sociale, in quanto non riguarda solo il reddito, ma anche altri aspetti del benessere,
come l’istruzione e la salute. La povertà è la condizione di mancato accesso ai beni essenziali e
primari d’importanza vitale. Il termine povertà può assumere diversi significati a seconda dei
contesti storici e sociali, per questo sono concetti assolutamente relativi, come teorizzava già Karl
Marx.
La povertà costituisce anche la principale causa di esclusione sociale, dato che se si è poveri non si
riesce ad accedere a tutta una serie di aspetti che fanno parte del benessere, tra cui salute e
istruzione. Il tasso di povertà, cioè il numero di persone povere sul totale della popolazione è la
misura più comunemente utilizzata per esprimere l’incidenza della povertà in una data
popolazione.
La povertà può essere di due tipi:
- assoluta, è quella di chi non riesce ad accedere ai beni e servizi essenziali per conseguire uno
standard di vita accettabile in assoluto, ad esempio non patire la fame, non dormire per la strada,
ecc..
- relativa, si riferisce a quanti non aggiungono il livello di risorse necessario per soddisfare gli
standard minimi della società in cui vivono, per esempio da noi non vivere in un sottoscala, vestirsi
decentemente, ecc.
In Italia il calcolo dei parametri per definire la soglia della povertà è fatto dall’Istat con un indagine
condotta ogni anno sui consumi di un campione stratificato di circa 28 mila famiglie estratte. Allo
scopo di effettuare confronti fra dati statistici nazionali, la banca Mondiale ha fissato una soglia
convenzionale definita ‘’linea di povertà’’. Gli standard di vita e la percezione della povertà variano
da paese a paese per cui gli stati sviluppano propri standard di riferimento, rendendo i confronti
tra i vari paesi estremamente difficili. Nei paesi del Sud del mondo permangono situazioni assai
gravi: una delle aree più colpite dalla povertà estrema è l’Africa Sub Sahariana.

La povertà assoluta in Italia


Nel nostro paese si utilizzano metodi statistici più raffinati rispetto a quelli della banca mondiale.
L’ISTAT considera poveri in senso assoluto i soggetti che non possono affrontare la spesa mensile
sufficiente ad acquistare beni e servizi considerati essenziali per uno standard di vita accettabile,
condizione che varia a seconda delle caratteristiche del gruppo familiare e del luogo in cui vive. Per
esempio, un adulto che vive da solo in una città del nord Italia la soglia di povertà è fissata intorno
agli 800 euro mensili. C’è un forte divario fra nord e sud del paese.

GLI INDICATORI SOCIO-DEMOGRAFICI


Le persone sono la risorsa più importante che un paese possiede, in quanto sono queste a
determinare l’uso delle altre risorse del paese. Di conseguenza, avere una popolazione sana e
istruita è un passo essenziale verso uno sviluppo di successo. Gli indicatori socio-demografici
forniscono informazioni sullo stato sociale di una popolazione. Il tasso di alfabetizzazione è la
percentuale di popolazione di un paese sopra i 15 anni in grado di leggere e scrivere. Il tasso di
alfabetizzazione supera il 90% nelle aree sviluppate, ma cala al 60% di media nei paesi in via di
sviluppo. La malnutrizione colpisce quasi un quarto dei bambini sotto i cinque anni nei paesi in via
di sviluppo. Altri indicatori socio-demografici includono l’aspettativa di vita e il tasso di mortalità
infantile.

GLI INDICATORI AMBIENTALI, LA VULNERABILITÀ E LO SVILUPPO


Gli indicatori ambientali sono entrati in uso nel 1992 con la Conferenza ONU su ambiente e
sviluppo, conosciuta anche come EARTH SUMMIT, svolta a Rio de Janeiro per cercare di rendere
uno sviluppo ecologicamente sostenibile una priorità per tutti i paesi, ricchi e poveri. L’Agenda 21,
il piano d’azione derivato dal summit, ha incoraggiato governi e altri enti a sviluppare indicatori
che potessero essere utilizzati per
valutare lo sviluppo sostenibile. Gli indicatori ambientali si occupano di monitorare i problemi
ambientali, come l’inquinamento e la riduzione della biodiversità e sono utilizzati per indicare la
frequenza di rischi ambientali come allagamenti, siccità, terremoti e l’accesso all’acqua potabile.
Le differenze nello sviluppo sono il risultato di condizioni interconnesse. In alcuni paesi, come
l’Africa Sub Sahariana ci sono condizioni difficili o avverse che contribuiscono a complicare il
processo di sviluppo, come ad esempio l’assenza di sbocchi sul mare, terreni poco fertili, malattie
infettive, ecc.. A volte la debolezza o instabilità politica di uno stato, può influire nello sviluppo del
paese e può portare ad una maggiore vulnerabilità nei confronti dei disastri naturali: la rapida
urbanizzazione, per esempio, può favorire la costruzione di abitazioni sui versanti instabili o
pianure inondabili. Un altro aspetto importante è la vulnerabilità, cioè quanto un paese sia incline
a subire shock economici o ambientali (circa 50 indicatori),
e la resilienza, cioè la capacità di reagire e resistere a questi shock.

L’indice di sviluppo umano (ISU) serve a misurare lo sviluppo a livello mondiale al fine di proporre
strategie di miglioramento, e si compone in 4 indicatori:
- il PIL pro capite;
- la speranza di vita;
- il tasso di scolarizzazione fra gli adulti;
- il tasso lordo di partecipazione scolastica.
Lo sviluppo umano riguarda tuttavia la creazione di un ambiente in cui le persone possano
sviluppare il proprio potenziale e condurre una vita produttiva e creativa, anche in accordo con i
propri bisogni ed interessi. Sviluppo significa quindi ampliare le possibilità di scelta delle persone
nel condurre lo stile di vita che desiderano.
Avere un PIL molto elevato non necessariamente corrisponde ad avere un ISU altrettanto elevato
o viceversa, basti pensare all’Arabia Saudita o al Kuwait dove ci sono dei livelli di PIL elevatissimi
ma il resto della popolazione non usufruisce di un elevato livello d’istruzione o di un elevato livello
di assistenza sanitaria pubblica e di conseguenza in questi paesi la speranza di vita alla nascita è
molto più bassa. L’ ISU può assumere valori compresi tra 0 (nessun risultato in termini di sviluppo
umano) e 1 (massimo risultato in termini di sviluppo umano). L’Islanda e la Danimarca hanno i
livelli più elevati di sviluppo umano e come sempre tutti i paesi dell’Africa subsahariana sono
completamente nella fascia tra 0.450 e sotto lo 0.350.
L’ISG (indice di sviluppo di genere) è l’indice che misura lo sviluppo delle disparità di opportunità
tra uomini e donne, il cosiddetto Gender Gap. Ad un ISU elevato non è detto che corrisponda un
indice di sviluppo di genere altrettanto elevato.
Il BES (indicatore di benessere equo e sostenibile), fu introdotto dall’ISTAT italiano con la Legge di
bilancio approvata il 28 Luglio 2016. Esso integra tutti gli altri indicatori socio-ambientali e
demografici, perché introduce il principio dell’equità sociale tenendo conto degli aspetti
ambientali. Se ad esempio un’area ha un BES più basso, questo ci fa capire che è un’area che ha un
degrado e quindi bisogna fare dei finanziamenti per supportare queste condizioni. L’ISTAT per
calcolare il BES lavora su 130 indicatori che sono suddivisi in queste 12 voci:
- Salute
- Istruzione e formazione
- Lavoro e conciliazione dei tempi di vita
- Benessere economico
- Relazioni sociali
- Politica e istituzioni
- Benessere soggettivo
- Paesaggio e patrimonio culturale
- Ambiente
- Ricerca e innovazione
- Qualità dei servizi

Partendo dalla constatazione che lo sviluppo non è neutrale rispetto al sesso, cioè che lo sviluppo
ha un impatto differente su uomini e donne, l’UNDP ha fatto appello a partire dal 1995 ad uno
sviluppo che tenesse conto delle differenze tra uomini e donne. Sono stati creati e utilizzati altri
due indici di sviluppo: per analizzare le disparità di genere nello sviluppo, le Nazioni Unite hanno
introdotto nel 2010 un Indice delle Disuguaglianze di Genere, noto come GII (Gender inequality
index), è composto da vari indicatori quali la salute riproduttiva, l’empowerment delle donne e la
partecipazione femminile al mercato del lavoro.
| SVILUPPO E DISEGUAGLIANZA DI REDDITO
La distribuzione del reddito è il modo in cui il reddito è suddiviso fra differenti gruppi o individui.
La disuguaglianza di reddito è il rapporto fra i redditi dei più ricchi e i redditi dei più poveri.
I geografi dello sviluppo esaminano la distribuzione del reddito e la disuguaglianza di reddito a vari
livelli e tra diversi raggruppamenti di paesi.

C’è una grande disuguaglianza tra ricchi e poveri. Esiste un numero ristretto di individui ricchissimi
e diversi miliardi di persone che vivono nella povertà, creando un effetto definito a “coppa di
champagne” sul modello di distribuzione del reddito. Per misurare la disuguaglianza di reddito,
spesso si ricorre al coefficiente di Gini.
Il coefficiente di Gini è stato introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini ed è una misura della
distribuzione della diseguaglianza. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la
diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. Questo viene indicato con
un numero compreso tra 0 e 100, dove 0 indica la perfetta uguaglianza mentre 100 indica la
massima concentrazione di disuguaglianza. Gli USA hanno un coefficiente di Gini di 41, mentre
l’Italia registra un valore 34,7.

LA GLOBALIZZAZIONE E LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO


Anche la globalizzazione ha degli impatti sulla distribuzione della ricchezza e riguardo ciò ci sono
due scuole di pensiero:
- la teoria neoliberista: i sostenitori di questa tesi ritengono che il commercio è essenziale, poiché
conduce alla specializzazione, all’aumento della concorrenza alla crescita della prosperità e
affinché questi effetti di distribuzione capillare abbiano luogo, occorre rimuovere gli ostacoli alle
relazioni commerciali.
- la teoria dell’ampliamento del divario tra ricchi e poveri: afferma che la globalizzazione agisce
contro le condizioni di parità. Uno dei motivi è che essa genera domanda di lavoratori qualificati,
attribuendo un riconoscimento a coloro che hanno un’istruzione universitaria e una laurea: Più la
manodopera è qualificata, più alto è il potenziale di guadagno di quella manodopera e coloro che
restano privi di competenze e istruzione hanno maggiori probabilità di rimanere indietro, incapaci
di avere accesso ai posti di lavoro e competere per essi.
In molti casi la globalizzazione può determinare quindi disoccupazione, la quale a sua volta
influenza la distribuzione del reddito. I dati degli ultimi anni danno ragione alla seconda tesi anche
perché le disuguaglianze di reddito sono ampliate dalla crescita dell’economia finanziaria
speculativa a scapito dell’economia reale.
In ogni caso, il livello di diseguaglianza di reddito in un paese può avere una serie di conseguenze
gravi sullo sviluppo:
- la disuguaglianza di reddito è associata ad una maggiore incidenza della povertà, che a sua volta
può scoraggiare gli investimenti e lo sviluppo.
- la disuguaglianza di reddito può esacerbare le tensioni fra ricchi e poveri, sconvolgendo la
stabilità sociale e politica di un paese mettendo a rischio la crescita economica e lo sviluppo.
- quando un’elevata disuguaglianza di reddito coincide con la disoccupazione, vanno sprecate
preziose risorse umane che potrebbero essere utilizzate per il miglioramento della società e
dell’economia.

| LE TEORIE DELLO SVILUPPO


Chiunque studi la geografia dello sviluppo si rende conto che le opportunità che un individuo ha
disposizione nella vita sono strettamente legata al livello di sviluppo e alla distribuzione del reddito
della regione o del paese in cui egli nasce e cresce.
MODELLO DI SVILUPPO CLASSICO — Nel 1960, Walt Rostow propose un modello di sviluppo in 5
fasi, dette stadi dello sviluppo:
1. Tradizionale: l’economia è basata su agricoltura di sussistenza e baratto;
2. Precondizioni per il decollo: emerge una classe imprenditoriale e c’è fiducia nel progresso
economico. L’agricoltura diventa più commerciale, nascono nuove industrie e la
produttività aumenta;
3. Decollo: alti tassi di investimento e adozione di nuove tecnologie;
4. Maturità: l’economia si espande e si diversifica;
5. Consumo di massa: livelli alti di produzione e di consumo. Elevato reddito pro-capite e
maggior reddito disponibile.
Rostow pensava che i paesi meno sviluppati fossero quelli fondati su economie agricole e che, con
l’avvento dello sviluppo, la struttura dell’economia dovesse cambiare per lasciare spazio alle
attività manifatturiere e ai servizi. Lo stimolo alla crescita era l’investimento in queste attività. Il
modello di Rostow fu criticato per 3 motivi:
- in primo luogo, la teoria presuppone che ogni paese cominci il processo di sviluppo dallo stesso
punto di partenza.
- il modello funziona a partire da una comprensione molto ristretta dello sviluppo, fondata su uno
schema di crescita economica lineare. Il modello non tiene conto del fatto che il ricevere aiuto
economico da un altro paese potrebbe stimolare la crescita economica a breve termine ma anche
determinare alti livelli di debito che soffocano la crescita a lungo termine.
- il modello è fortemente eurocentrico e suppone che ciò che ha funzionato in passato per
l’occidente debba necessariamente funzionare anche oggi per i paesi non occidentali.

LA TEORIA DELLA DIPENDENZA — Ai controversi stadi di sviluppo proposti da Rostow sono state
contrapposte diverse teorie di sviluppo alternative. Negli anni ’60 e ’70 in particolare, prese piede
una scuola di pensiero nota come Teoria della Dipendenza. I teorici di questa teoria sostenevano
che lo sviluppo potesse essere compreso meglio come processo relazionale piuttosto che come
serie di fasi e che fosse connesso al commercio internazionale. Lo studio del sistema di commercio
internazionale rivelava l’esistenza di due tipi di stati: dominanti e dipendenti. I primi sono i più
sviluppati, gli stati industrializzati dell’Europa, il Nord America, il Giappone, che controllano le
risorse economiche e hanno il potere di condizionare le politiche e le pratiche del commercio
internazionale. Agli Stati dipendenti, rappresentati dai paesi del Sud globale, mancano invece sia
queste risorse, sia questo potere. La dipendenza è pertanto, una condizione che deriva dai modelli
di commercio internazionale e si traduce in bassi livelli di sviluppo o in un vero di sottosviluppo dei
paesi che si collocano in una posizione di dipendenza. Secondo i teorici della dipendenza, ad
esempio, lo sviluppo dell’Europa si è tradotto nella dipendenza e nel sottosviluppo di Africa e
America Latina, dove, contrariamente a quanto sosteneva il modello di Rostow, lo sviluppo fu
ostacolato.

LA TEORIA DEL SISTEMA MONDO — Questa teoria trova origine in Immanuel Wallerstein,
sociologo che sosteneva che la causa della dipendenza e sottosviluppo fosse il sistema capitalista
mondiale. Il sistema mondiale di Wallerstein è formato da stati centro (militarmente forti, forza-
lavoro qualificata, economia basata su sistema di produzione), aree periferiche (forza-lavoro meno
qualificata, sistema di produzione basato su lavoro più intensivo, politicamente deboli) e aree semi
periferiche (produzione manifatturiera a capitale intensivo e da un’economia diversificata).
Secondo Wallerstein, il capitalismo crea un sistema di scambio diseguale in cui gli stati centro
dominano la semiperiferia e la periferia, quest’ultima sottomessa anche alle aree-semiperiferiche.
Gli stati centro traggono grandi profitti da questo rapporto, accumulando capitale e ricchezza.
Questa teoria riconosce che le relazioni fra il centro, la periferia e la semiperiferia sono sempre
dinamiche ma che il funzionamento efficiente del capitalismo richiede e dipende da una divisione
internazionale del lavoro basata sulla diseguaglianza.

IL MODELLO DI SVILUPPO NEOLIBERISTA — Questo modello crede che il capitalismo possa


realmente portare sviluppo, piuttosto che sottosviluppo, purché vengano messe in pratica riforme
appropriate, per consentire la competizione economica e il fiorire del libero mercato. Secondo
questa teoria il sottosviluppo potrebbe essere risolto con le riforme del mercato e la
deregolamentazione. Il liberismo fa riferimento ad una teoria politica ed economica basata sui
diritti di proprietà e sulla libertà individuale. Dal punto di vista economico, sostiene un mercato
libero e la rimozione di tutti gli ostacoli al movimento di beni, servizi e capitali.

Da un punto di vista neoliberista quindi, le cause del sottosviluppo non deriverebbero dei difetti
del capitalismo come affermavano i teorici del sistema mondo, Piuttosto, il sottosviluppo sarebbe
un segnale del fatto che scelte politiche ed economiche mal concepite possano essere di ostacolo
al funzionamento efficiente del capitalismo ed impediscano la crescita economica. Il sottosviluppo
potrebbe quindi essere risolto attraverso programmi di aggiustamento strutturale (PAS) > Politica
economica di un paese basata su principi neoliberisti finalizzati a promuovere la crescita
economica e lo sviluppo, rimuovendo gli ostacoli, anche legislativi, al libero movimento di merci e
di capitali. I programmi di aggiustamento strutturale sono diventati il caposaldo del modello di
sviluppo neoliberista che durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, influenzò le
politiche del Fondo Monetarlo Internazionale (FMI) e della Banca Mondale. Fin dai primi anni
Ottanta del secolo scorso, sia il neoliberismo, sia l'aggiustamento strutturale sono stati
pesantemente criticati, in particolare per quanto riguarda i seguenti cinque punti:
- poiché i PAS richiedono minori spese statali e tagli nei servizi pubblici, le strutture sanitarie che
ricevono finanziamenti statali sono costrette a diminuire le proprie ore di attività, licenziare
personale, ecc.. In alternativa, senza finanziamenti statali, queste strutture son obbligate ad
addebitare agli utenti il costo di certi servizi, rendendo più difficile la possibilità per i più poveri di
permettersi assistenza sanitaria.
- i programmi di aggiustamento strutturale favoriscono l'eliminazione delle sovvenzioni
all'agricoltura, in un’ottica di riduzione della spesa pubblica. Solitamente l'eliminazione dei sussidi
fa aumentare il prezzo delle derrate alimentari, con conseguenze gravissime per i più poveri.
- spesso gli aggiustamenti strutturali richiedono la svalutazione della valuta locale, che provoca
l'aumento dei prezzi di tutti i beni d'importazione, tra cui anche beni di consumo.
- questo tipo di programmi promuove lo sviluppo delle esportazioni, portando molti paesi del Sud
globale ad adottare un modello di esportazione di prodotti agricoli o minerari, invece di
diversificare la propria economia.
- i programmi di aggiustamento strutturale rappresentano delle ingerenze della Banca Mondiale e
del Fondo Monetario Interazionale negli affari interni degli Stati. Queste due istituzioni hanno
spesso utilizzato criteri discutibili come condizioni da soddisfare per ricevere aiuto o prestiti.

Le strategie di riduzione della povertà sono state spesso definite in accordo con gli Obiettivi di
Sviluppo del millennio, concepiti nel 2000 in un summit a New York. A questo incontro, essi hanno
riconosciuto che ogni paese condivide le responsabilità di contribuire a raggiungere lo sviluppo
sociale ed economico, e che le Nazioni Unite devono giocare un ruolo fondamentale in questo
processo. Nel 2015 sono stati poi sostituiti da una nuova serie di obbiettivi, chiamati Obiettivi di
Sviluppo sostenibile, noti con l’acronimo inglese SDG (Sustainable Development Goals) da
raggiungere entro il 2030, nello specifico sono 17 obbiettivi, concordati da 193 paesi, che
comprendono ad esempio:
- sconfiggere la povertà;
- sconfiggere la fame, garantire la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere
un'agricoltura sostenibile;
- buona salute: garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età;
- istruzione di qualità;
- parità di genere…

CAPITOLO 7 – GEOGRAFIA DELL’AGRICOLTURA


Anche se si pensa raramente, il nostro stile di vita è strettamente legato all’agricoltura e perfino
dipendente da essa. L’agricoltura implica un continuo processo di selezione delle specie vegetali e
animali in base a specifiche caratteristiche e il controllo della loro riproduzione.
Fino a non molti anni fa, la maggioranza della popolazione mondiale era impiegata in agricoltura,
mentre, oggi è il settore dei servizi ad occupare la maggior parte della forza lavoro globale. Questa
riduzione di lavoratori occupati nell’agricoltura è espressione della crescente urbanizzazione e
della sempre più rilevante meccanizzazione e industrializzazione del lavoro agricolo. Tra gli effetti
di questi processi si riscontra una crescente femminilizzazione dell’agricoltura, anche se è
importante sottolineare come le donne abbiano svolto un ruolo rilevante in questo settore fin
dalla sua nascita.

LE ORIGINI DELL’AGRICOLTURA
La caccia agli animali selvatici, la pesca e la raccolta di vegetali spontanei sono i metodi più
antichi attraverso i quali l’uomo si è procacciato il cibo. La maggior parte dei gruppi di cacciatori e
raccoglitori conduceva una vita nomade, che seguiva gli spostamenti della selvaggina e le
variazioni
della disponibilità delle piante. I gruppi che si dedicavano alla pesca, invece, avevano maggiori
possibilità di insediarsi permanentemente in un unico luogo. In ogni caso, queste prime società
non
possono essere considerate agricole, poiché sfruttavano le piante e gli animali a disposizione in
natura, senza addomesticarne alcuna specie. Dal punto di vista storico, il passaggio da società
basate sulla caccia e la raccolta a società agricole, costituisce la prima delle tre radicali rivoluzioni
che hanno trasformato il mondo.

LA PRIMA E LA SECONDA RIVOLUZIONE AGRICOLA


La prima rivoluzione agricola corrisponde alla nascita dell’agricoltura, che ebbe inizio con i primi
episodi di selezione di piante e addomesticamento di animali, circa 11.000 anni fa.
La seconda rivoluzione agricola risale invece alle nuove pratiche agricole, probabilmente di origine
cinese, che si diffusero in Europa durante il Medioevo, aumentando la produttività del lavoro
agricolo. La prima tecnica consiste nell’utilizzo di aratri dotati di vomeri metallici, che
consentivano ai contadini di rivoltare le zolle anche nei terreni più pesanti. La seconda tecnica è
invece costituita dalla sostituzione dei buoi con i cavalli, animali molto più efficienti.
Nel XVI-XVII secolo vi fu un’ulteriore innovazione, si tratta della rotazione delle colture: invece di
coltivare sempre lo stesso prodotto, impoverendo il suolo, si cominciò ad alternare le colture,
inizialmente lasciando i campi incolti (maggese), pratica sostituita in una fase successiva da una
rotazione cioè un’alternanza di diverse coltivazioni che consentì di utilizzare i campi senza
interruzioni.
Questo sistema, introdotto in Inghilterra dall’Olanda nel XVIII secolo, si basa sull’alternanza
quadriennale delle colture piantate in un terreno, secondo un ciclo che consente di avvicendare
coltivazioni per l'alimentazione umana con altre destinate all'alimentazione animale, comprese
alcune specie di legumi particolarmente utili per arricchire il terreno di sostanze nutritive. La
possibilità di non lasciare mai i terreni a riposo, inoltre, permette di aumentare la produttività.
Oggi vengono applicate molte varianti diverse di questa tecnica.
Coltivazione 1: cereali a spiga piccola come il frumento, l’orzo, la segale o l’avena;
Coltivazione 2: ortaggi a radice, utilizzati per il mangime;
Coltivazione 3: cereali a spiga piccola;
Coltivazione 4: leguminose foraggere, che aumentano la fertilità.

LA TERZA RIVOLUZIONE AGRICOLA


La terza rivoluzione agricola, tuttora in corso, è il frutto delle innovazioni tecnologiche e delle
nuove pratiche colturali che si diffusero nel XX secolo, come la meccanizzazione estensiva, il
massiccio utilizzo dell’irrigazione artificiale, la diffusione di fertilizzanti chimici per aumentare la
quantità del raccolto, combattere i parassiti e le piante infestanti. Anche se questi prodotti hanno
incrementato la produttività, il loro massiccio utilizzo ha importanti costi ecologici, come
l’inquinamento e l’aumento della dipendenza dal petrolio.
Importante notare come la meccanizzazione dell’agricoltura sia stata resa possibile dalla maggior
potenza e maneggevolezza delle macchine agricole e dei trattori, che contribuirono alla
trasformazione dell’agricoltura moderna sotto quattro aspetti principali: ridussero drasticamente il
numero di lavoratori necessari per svolgere la maggior parte della attività, migliorando nello stesso
tempo l’efficienza e la produttività del lavoro; inoltre, l’uso delle macchine a motore permise di
lavorare estensioni maggiori di terreno in una giornata di lavoro; i trattori facilitarono poi il
passaggio dalla policoltura alla monocultura (=coltivazione di un’unica specie vegetale su vaste
estensioni di terreno. È il contrario della policoltura, che consiste nel suddividere il terreno tra
coltivazioni differenti), determinando grandi trasformazioni dell’ambiente; infine eliminarono
quasi del tutto gli animali da lavoro.
Ulteriore aspetto di questa rivoluzione è rappresentato dalle biotecnologie agrarie, che mira a
migliorare la qualità e la produzione delle coltivazioni e del bestiame attraverso l’utilizzo di
tecniche come l’incrocio di razze, l’ibridazione e l’ingegneria genetica. A questo proposito occorre
fare una distinzione tra:

rivoluzione verde: grande aumento della produzione di cereali tra il 1965 e il 1985 in Asia ed
America Latina, grazie alla diffusione di varietà di grano, riso e granoturco ad alta produttività,
all’uso di fertilizzante e dell’irrigazione. Il termine “verde” non si riferisce all’adozione di tecniche
sostenibili ma alla diffusione di un’agricoltura più produttiva. Essa si sviluppò in seguito agli sforzi
mondiali per combattere la fame nei paesi poveri.

ingegneria genetica: applicazione di tecniche genetiche all’agricoltura, a partire dagli anni ’80, con
il coinvolgimento di grandi imprese private nel controllo della ricerca nello sviluppo di organismi
geneticamente modificati (ogm) o transgenici e sottoposti alla protezione di brevetti
internazionali.
Essa sfrutta le moderne tecniche nel campo della genetica per trasferire da un organismo all’altro
e da una varietà all’altra alcune caratteristiche scritte nel DNA, come la resistenza alla siccità o la
forma dei frutti o degli steli della pianta.

I SISTEMI AGRICOLI
L’agricoltura può essere vista come un sistema per produrre cibo che comprende i terreni, gli input
che vengono forniti, gli output del sistema (i prodotti agricoli), i consumatori e i diversi flussi che
mettono in relazione tutte queste componenti. La maggior parte degli esperti distingue tra
agricolture di sussistenza, quando i prodotti vengono consumati dai produttori e dalle loro
famiglie,
ed agricolture di mercato, quando i prodotti vengono venduti per un consumo che spesso avviene
lontano dai luoghi di coltivazione.
Abbiamo 4 tipologie di agricoltura di sussistenza.

L’agricoltura itinerante — è un sistema agricolo che usa il fuoco per ripulire i terreni dalla
vegetazione spontanea, rendendoli adatti ad essere coltivati per un certo periodo, al termine del
quale si passa a fare lo stesso con un altro terreno. In alcuni casi l’agricoltura itinerante prevede
che
vengano coltivati prodotti contemporaneamente nello stesso campo, praticando cioè la coltura
promiscua. L’agricoltura itinerante, se praticata secondo certi principi, può essere considerata
sostenibile dal punto di vista ambientale.
Spesso però, il ciclo che alterna i periodi in cui un campo viene coltivato con quelli nei
quali deve essere lasciato a riposo, non viene rispettato, a causa dell’aumento della popolazione e
della diminuzione dei terreni disponibili, in seguito all’espansione delle città e alla costruzione di
infrastrutture. Un’accelerazione di questo tipo può impedire ai terreni di recuperare la propria
fertilità naturale, con effetti molto gravi sulla loro produttività e sull’ambiente. Di fronte a questi
problemi, sono sempre più diffuse pratiche alternative come l’agroforestazione, un sistema di
coltura che prevede che sui campi coltivati o utilizzati per il pascolo vengano piantate determinate
specie di alberi, utili per controllare i livelli di fertilità del suolo o per fornire una risorsa
integrativa.

La coltivazione del riso — nelle regioni in cui il riso costituisce il primo prodotto agricolo ed una
delle principali fonti di amido, questo cereale viene coltivato con tecniche di coltivazione irrigua,
basata cioè su sistemi di acque superficiali o sotterranee, che rappresentano uno dei primi esempi
di
agricoltura intensiva, cioè caratterizzate da un’elevata quantità di forza lavoro, capitali e
attrezzature. Affinché questi sistemi agricoli forniscano guadagni o produzioni sufficienti, i terreni
devono essere coltivati in maniera intensiva durante tutto l’anno e spesso questo avviene
attraverso
la tecnica del doppio raccolto che prevede due cicli di semina e raccolto sullo stesso campo nel
giro
di un anno.

Le piccole aziende agricole e l’allevamento — nelle zone dell’Asia che non offrono condizioni
adatte alla coltivazione del riso prevale un sistema agricolo fondato sull’allevamento e su aziende
agricole di piccole dimensioni. In generale, la combinazione di prodotti agricoli è composta da un
cereale, un tubero o una radice, una varietà di leguminose e diverse specie di ortaggi, accanto ai
quali viene praticato l’allevamento di pochi animali. Contrariamente alla coltivazione irrigua del
riso, questi sistemi agricoli prevedono un limitato utilizzo dell’irrigazione e dei fertilizzanti e non
contemplano la possibilità di effettuare più di un raccolto durante l’anno. La policoltura praticata
da piccole aziende familiari ha caratterizzato l'agricoltura europea, soprattutto quella
mediterranea.

La pastorizia — diffusa nelle regioni aride e nelle zone montane, è l’allevamento di bestiame
domestico all’aperto. La mobilità è un aspetto fondamentale della pastorizia, dal momento che i
pascoli non sono in grado di nutrire gli animali per tutto l’anno, costringendo gli allevatori alla
transumanza, ovvero a spostamenti stagionali in cerca di nuovi pascoli e fonti d’acqua. I governi di
alcuni paesi del mondo ritengono che la vita pastorale nomade non sia compatibile con la
modernità, poiché interferisce con attività fondamentali dello Stato, come la raccolta delle
informazioni censuarie, l'offerta dell'istruzione e dei servizi sanitari e l'istituzione di aree protette e
riserve naturali.

L’AGRICOLTURA DI MERCATO
Nell’agricoltura commerciale o di mercato, i contadini e le loro famiglie non sono i principali
consumatori dei beni agricoli che producono, ma sono destinati in gran parte ad essere venduti
alle
aziende trasformatrici dell’industria agro-alimentare, per questo spesso chiamata agribusiness.
Una delle caratteristiche tipiche di questo settore è l'integrazione verticale virgola che prevede che
una singola azienda controlli due o più fasi della produzione e distribuzione di un bene, definite in
base a precisi accordi di tipo contrattuale.
Le imprese dell’industria agroalimentare considerano gli agricoltori come propri fornitori, con i
quali negoziare dei contratti per assicurarsi le diverse forniture E altri prodotti che verranno poi
utilizzati per produrre cibi confezionati. Secondo questo processo, si potrebbe dire anche che le
industrie di trasformazione di alimenti agiscono come intermediari tra veri produttori e i
consumatori.

La piantagione — è una grande coltivazione, tipica nell’area tropicale o subtropicale, specializzata


in produzioni destinate all’esportazione sui mercati internazionali, come il caffè, il tè e la canna da
zucchero. Molti paesi in via di sviluppo sono diventati fortemente dipendenti dall’esportazione di
materie prime di base, spesso prodotto dalle colture commerciali.

L’orticoltura commerciale — è la produzione intensiva di frutta non tropicale, ortaggi e fiori


destinati alla vendita sul mercato. Le aree dedicate all’orticoltura commerciale si sviluppano
solitamente appena al di fuori dei limiti delle aree urbanizzate, rifornendo di prodotti freschi gli
abitanti della città. Storicamente gli agricoltori che si dedicavano a questo tipo di attività si
insediavano il più vicino possibile ai mercati urbani, per ridurre al minimo i problemi legati al
deterioramento dei prodotti. Oggi questi sistemi sono cambiati, grazie allo sviluppo delle reti
infrastrutturali ed al potenziamento del settore degli autotrasporti. A partire dalla seconda guerra
mondiale, negli Stati Uniti si è sviluppata una forma di agricoltura di mercato conosciuta come
truck farming, caratterizzata da grandi aziende agricole, solitamente specializzate in un solo
prodotto e spesso distanti dai propri mercati di riferimento, che fanno grande affidamento su
manodopera stagionale, proveniente anche da molto lontano, soprattutto durante la stagione del
raccolto.

L’agricoltura mediterranea — Le regioni che si affacciano sul Mar Mediterraneo sono il focolaio
di questo tipo di agricoltura, che può essere considerata una varietà di agroforestazione, fondata
sull’integrazione tra l’allevamento di bestiame, la coltivazione di un cereale e quella di alberi da
frutto, viti o ulivi. Come l’orticoltura commerciale, anche l’agricoltura mediterranea è spesso
specializzata e si è diffusa in altre parti del mondo con climi simili.
L’allevamento commerciale di animali da latte — è l’allevamento di bestiame per la produzione
di latte, burro e formaggi, destinati ad essere venduti sul mercato. È un’attività agricola ed
altamente meccanizzata, poiché gli attuali metodi per la produzione di latte si fondano sull’utilizzo
di attrezzature come le macchine mungitrici automatiche. Si tratta di un allevamento stabulare,
cioè
praticato di regola nella stalla. Nonostante l'alto livello di meccanizzazione, l'allevamento di
animali da latte prevede anche un lavoro costante da parte della manodopera umana.

Le aziende agricole miste, con produzione di foraggio e allevamento — Tra i sistemi agricoli più
diffusi nella storia, vi sono quelli che integrano la produzione di foraggio con l’allevamento di
bestiame al quale questo è destinato e dal quale proviene solitamente la maggior parte dei ricavi
dell’azienda agricola, attraverso la vendita e la trasformazione dei prodotti di origine animale.

La cerealicoltura commerciale — è un sistema agricolo che prevede una monocoltura di cereali


altamente meccanizzata e su vasta scala. Essa è strettamente associata ad ambienti dai climi
temperati, da grandi estensioni di terreni pianeggianti suddivisi tra aziende. I terreni poco adatti ad
usi agricoli di valore elevato, invece, vengono spesso destinati all’allevamento estensivo di
bestiame, destinato al macello. Entrambi i sistemi possono essere considerati esempi di
agricoltura
estensiva cioè caratterizzato da uno scarso uso di forza lavoro, capitali e macchinari.

LE VARIAZIONI SPAZIALI DELL’AGRICOLTURA


Un altro aspetto che interessa molto gli studiosi è quello delle decisioni relative agli usi del suolo.
Uno dei primi a dedicarsi a questo argomento fu Johann Heinrich von Thunen, che si rese conto
che il tipo di coltivazione variava in base alla distanza dai centri di mercato. Da queste osservazioni
lo studioso dedusse un modello: assumendo che la qualità dei terreni fosse la stessa ovunque, von
Thunen ipotizzò che l’agricoltura si fa meno intensiva man mano che ci si allontana dal centro,
perché i costi di trasporto verso il mercato sono minori per i contadini più vicini e quindi questi
possono dedicarsi ad attività più intensive rispetto a chi si trova più distante dal mercato.

AGRICOLTURA, AMBIENTE E GLOBALIZZAZIONE


L’agricoltura e l’ambiente sono realtà interconnesse. Le caratteristiche del suolo o le condizioni
climatiche di un’area possono influenzare l’utilizzo dei terreni. Anche l’agricoltura ha un forte
impatto sull’ambiente, come dimostrano il taglio delle foreste e il prosciugamento delle zone
umide.

LA DESERTIFICAZIONE —Tanto l’azione umana, quanto i cambiamenti climatici possono


contribuire alla desertificazione (=grave isterilimento dei terreni in zone non naturalmente
desertiche).
L’eccesso di sfruttamento dei terreni agricoli danneggia la vegetazione e una cattiva gestione dei
cicli colturali può produrre l’impoverimento dei suoli, creando in entrambi i casi ambienti non più
adatti a sostenere le attività agricole e pastorali. Perfino l’irrigazione, solitamente ritenuta una
strategia per aumentare l’estensione dei suoli coltivabili, può avere effetti deleteri per l’ambiente
e per la fertilità dei terreni. Nelle regioni aride e semiaride, dove i tassi di evaporazione sono
particolarmente elevati, un ulteriore problema è la salinizzazione, l’accumulo di sali sulla
superficie del terreno o nel suolo. Un altro pesante impatto dell’agricoltura sull’ambiente è infine
quello rappresentato dall’utilizzo di fertilizzanti chimici e pesticidi.

L’AGRICOLTURA SOSTENIBILE — è l’insieme delle tecniche agricole che permettono


un’accurata gestione delle risorse e riducono al minimo gli impatti negativi dell’agricoltura
sull’ambiente. L’agricoltura sostenibile ricorre a metodi e tecniche che consentono di conservare
le
risorse idriche ed il suolo. L’agricoltura tecnologicamente avanzata fa anche uso di tecnologie
come
il GPS e le immagini aeree per misurare e mappare le variazioni spaziali delle condizioni ambientali
all’interno di un campo o di un’area coltivata. Un segnale della sempre più diffusa preoccupazione
per gli impatti ambientali dell’agricoltura è rappresentato dalla crescente richiesta di prodotti
biologici.

AGRICOLTURA E GLOBALIZZAZIONE
Uno degli obiettivi principali della WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) è quello di
liberalizzare il più possibile gli scambi commerciali, attraverso l’abolizione dei dazi doganali e di
tutte quelle politiche che limitano la libera circolazione di merci e capitali.
Un fattore specifico di distorsione dei mercati agricoli, sul quale la WTO ha impiegato molto tempo
prima di esprimersi con chiarezza, è quello degli aiuti governativi agli agricoltori – praticato ad
esempio nell’Ue – che la maggior parte dei paesi più poveri non può permettersi. Di conseguenza,
gli agricoltori di queste regioni sono costretti ad affrontare costi di produzione maggiori, che si
traducono in prezzi più elevati dei loro prodotti sul mercato.
La globalizzazione dell’agricoltura ha avuto importanti effetti anche sulla dieta della maggior parte
dei cittadini del mondo, portando ad un cambiamento dei modelli di consumo alimentare dovuto
soprattutto alla maggiore varietà di cibo disponibile. Il regime alimentare degli asiatici, ad
esempio, si è sempre più occidentalizzato e ha subito una transazione alimentare caratterizzata da
una riduzione del consumo di riso e un aumento di quella di carne. Inoltre, molti paesi in via di
sviluppo hanno assistito ad una vera e propria
rivoluzione dei supermercati con una rapida diffusione della grande distribuzione.
L’agricoltura urbana può contribuire alla futura sicurezza alimentare dei nuclei familiari.

LA GLOBALIZZAZIONE DELL’AGRICOLTURA SOSTENIBILE: SLOW FOOD E TERRA MADRE


La globalizzazione non è solo trainata dal mercato, dalle multinazionali e dalla grande distribuzione
commerciale. l'agricoltura sostenibile sotto l'aspetto ambientale, sociale culturale si è organizzata
a scala globale in vari modi (uno è quello del commercio equo e solidale).
Due organizzazioni importanti che operano su tutta la filiera alimentare a scala mondiale sono
Slow Food e Terra Madre.
La prima è un'associazione no profit nata in Italia nel 1986 con lo scopo di promuovere un nuovo
modello alimentare, rispettoso dell'ambiente, delle tradizioni e delle identità culturali, al fine di
salvaguardare la biodiversità e le produzioni alimentari tradizionali ad essa collegate, le culture del
cibo che rispettano gli ecosistemi, il piacere del cibo e la qualità della vita per gli uomini.
In particolare, questa si poneva in contrasto con i modelli legati alla fast live e al fast food, che
vede nel cibo soltanto la soddisfazione di un bisogno, senza curare gli ingredienti e la loro
provenienza.
Il motto di Slow Food è “buono, pulito e giusto”, tre aggettivi riferiti al cibo che riferiscono in modo
elementare le caratteristiche che esso deve avere.
Da un’idea di Slow Food è nata Terra Madre, un’associazione che organizza periodicamente degli
incontri internazionali a cui partecipano agricoltori di 130 paesi, oltre a cuochi, studiosi del cibo e
dell’agricoltura sostenibile, dove i temi trattati spaziano dal ruolo dei giovani e delle piccole
produzioni tradizionali nel futuro dell'agricoltura alla difesa del paesaggio e la tutela dei pastori e
dei piccoli pescatori, così come il rafforzamento del rapporto tra produttore e consumatore.

LA CRISI ALIMENTARE GLOBALE E LE CITTÀ


Nel corso degli ultimi decenni, i prezzi le risorse alimentari hanno reso determinati prodotti
inaccessibili alle popolazioni e alle fasce sociali più deboli, determinando problemi di sicurezza
alimentare e vere e proprie crisi alimentari.
Infatti, la crisi finanziaria ha sollevato molti dubbi non solo relativi alla sostenibilità di alcune
pratiche agricole, ma anche soprattutto circa la necessità di sviluppare strategie efficaci per
garantire la sicurezza alimentare. Uno strumento che può contribuire a migliorare la sicurezza
alimentare delle singole famiglie a quella dell'agricoltura urbana, che si pratica negli orti urbani,
utilizzando le aree dismesse, di giardini e i tetti delle case, terrazzi e balconi per produrre cibo.
Questo metodo però non può di certo soddisfare la domanda di cibo di un'intera città, dove il
sistema di vita urbano è legato prevalentemente agli acquisti nei negozi o nei supermercati.
Questo stile di vita che richiede un continuo approvvigionamento a scala mondiale di grandi
quantità di prodotti agroalimentari, porta lo sviluppo di un'agricoltura di tipo commerciale o
agribusiness non sempre rispettosa dell'ambiente e concorrenziale rispetto all'agricoltura orticola
tradizionale, il cui reddito viene ridotto con un costo che non è soltanto economico ma anche
sociale.

L’AGRICOLTURA IN EUROPA E LA POLITICA AGRARIA COMUNITARIA


La metà della superficie dell’Unione europea è adibita all'agricoltura, per cui è di fondamentale
importanza la politica europea in campo agricolo. Per molti anni questa politica fu rivolta in
particolare a incentivare l'agricoltura di tipo moderno, fornendo anche i sussidi ai contadini.
Tuttavia, a partire dall'ultimo decennio del secolo scorso, apparve chiara la necessità di affrontare
anche i problemi ambientali con degli interventi mirati, come la nuova Politica agraria comune
(PAC), volta a conciliare un'adeguata produzione alimentare con la salvaguardia economica delle
comunità rurali e la risposta alle sfide ambientali come cambiamenti climatici, la gestione delle
risorse idriche, le bioenergie e la biodiversità.
La riforma è volta a rendere il settore agricolo europeo più dinamico, competitivo ed efficace al
fine di stimolare una crescita sostenibile, intelligente e inclusiva. Si possono evidenziare tre opzioni
per l'attuazione della riforma:
1. produzione alimentare economicamente redditizia;
2. gestione sostenibile delle risorse naturali e azione a favore del clima;
3. mantenimento dell'equilibrio territoriale e della diversità delle zone rurali.

CAPITOLO 8 – CAMBIAMENTI GEOGRAFICI PER L’INDUSTRIA E I SERVIZI


I SETTORI DELL’ECONOMIA
Il settore primario → raggruppa tutte le attività che producono i beni tratti direttamente da
risorse naturali e destinati poi al consumo alimentare e alla trasformazione industriale: comprende
le risorse primarie, ovvero l’agricoltura, la silvicoltura, l’allevamento, la pesca e le attività
estrattive. Nel momento in cui le persone attribuiscono un valore economico a queste risorse e le
scambiano, esse diventano beni. Siccome le risorse primarie non sono equamente distribuite, lo
scambio è diventato una componente estremamente importante dell’economia globale. Inoltre, la
possibilità di fare affidamento sulla disponibilità di determinate risorse ha importanti conseguenze
sull’insediamento di specifici tipi di struttura in quel territorio. La geografia del settore primario
presente in un’area concorre in varia misura a configurarne l’economia attraverso la rete delle
altre attività economiche ad esso connesse che si insediano in un territorio.
Si possono individuare 3 tipi di connessioni:
• a valle: trattano le materie prime, come il trasporto del legname o dei minerali e le segherie o gli
impianti di prima lavorazione;
• a monte: attività economiche che favoriscono l’accesso e l’estrazione delle materie prime;
• per consumi locali: richiesta e acquisto di beni di consumo da parte degli abitanti dell’area e dagli
eventuali turisti.

Il settore secondario →comprende tutte le attività manifatturiere che si svolgono nelle fabbriche o
all’aperto, come l’edilizia. In altre parole, è l’insieme delle attività che trattano, assemblano,
convertono le materie prime in semilavorati e in beni finiti. Si dividono in manifattura pesante,
cioè la produzione di prodotti come acciaio, combustibili, prodotti chimici grezzi o anche motori,
navi e armamenti, e manifattura leggera, attività che producono beni rivolti al consumo finale
(abiti, elettrodomestici, automobili, alimenti) o prodotti sofisticati come apparecchi per ospedali,
strumenti di precisione…
La geografia del settore secondario è stata influenzata dalle innovazioni tecnologiche ed in
particolare dalla Rivoluzione Industriale, con la quale, i sistemi di produzione su piccola scala
vennero sostituiti da quelli dell’impresa capitalistica, che introdusse innovazioni straordinarie
nell’organizzazione del lavoro: cominciò con la mano d’opera salariata, concentrata in grandi
stabilimenti, capaci di produrre grandi quantità di uno stesso bene con costi unitari molto minori
di
quelle delle imprese artigianali.

La rivoluzione industriale ebbe luogo in Inghilterra per 3 motivi:


• grande disponibilità di capitale, gran parte del quale era generato dalla posizione dominante
dell’Inghilterra nel sistema di commercio globale e dal controllo che esercitava sulle risorse delle
sue colonie;
• larga disponibilità di mano d’opera sotto–occupata nelle campagne;
• serie di innovazioni tecnologiche che consentivano di aumentare la produttività come la spinning
jenny, la macchina a vapore…

La geografia dell’industrializzazione in Inghilterra è stata influenzata dalla distribuzione di risorse


come il carbone e il ferro: infatti, le fabbriche inizialmente vennero collocate il più vicino possibile
alle fonti di energia, in particolar modo alle miniere di carbone. I lavoratori, inoltre, si trasferivano
a vivere vicino alle fabbriche, in aree urbane, o le reti di trasporto che portavano i materiali grezzi
verso gli stabilimenti e i prodotti finiti verso i mercati crescevano sempre più fitte.
L’industrializzazione è stata quindi fortemente associata anche allo sviluppo dell’urbanizzazione.
La diffusione globale dei sistemi di produzione riconducibili alla Rivoluzione Industriale si verificò
attraverso 3 fasi:
1760 – 1880 : la rivoluzione industriale si diffuse in Belgio, Olanda, Francia , Germania e USA.
1880 – 1950 : la rivoluzione industriale si diffuse in Russia, Giappone , Canada e altri paesi europei
1950 – oggi : l’industria si espande e modifica in maniera globale.

Il settore terziario → è l’insieme delle attività che forniscono per altre attività economiche e/o per
i bisogni degli individui e delle collettività, come i servizi per le famiglie: sono quelli destinati alla
vendita e rivolti al consumo finale, come il commercio al dettaglio, servizi detti para-commerciali
(bar, ristoranti, ecc), servizi di cura della persona (parrucchieri, lavanderie, ecc), quelli di
riparazione e manutenzione (idraulici, auto-officine, ecc). I servizi per la collettività (detti anche di
consumo collettivo): sono rivolti ad assicurare ai cittadini, alla società e all’economia certe
condizioni minime necessarie, sono servizi serviti dallo Stato o da privati sotto il controllo dello
Stato (difesa, giustizia, sicurezza, sanità, istruzione) e la comunicazione (tv, radio).
La distribuzione spaziale dei servizi per le imprese è regolata dal mercato, ma obbedisce solo in
parte al modello delle località centrali perché questi servizi non seguono solo la domanda ma la
loro
presenza in una città è fattore di attrazione per le imprese che hanno bisogno di quei servizi.
Mentre per i servizi alle famiglie è la domanda che determina l’offerta, per i servizi alle imprese è
l’offerta che attrae la domanda e favorisce così lo sviluppo del territorio.
Infine, nelle attività terziarie occupano una particolare posizione le attività quaternarie, così dette
per sottolineare il fatto che vanno oltre il normale terziario. Questo perché, oltre a presentarsi
come servizi, esse hanno soprattutto funzione di comando, direzione, programmazione, indirizzo
politico e culturale.
Rientrano nel settore quaternario le massime funzioni del governo politico, le direzioni delle
maggiori imprese, le borse e le grandi istituzioni finanziarie, i principali centri della cultura civile e
religiosa e gli apparati direttivi dei media nazionali e internazionali.

LA LOCALIZZAZIONE DELLE ATTIVITÀ MANIFATTURIERE


Nel corso della prima e della seconda fase della rivoluzione industriale, la scelta del luogo in cui
collocare le fabbriche era fortemente influenzata dai costi di trasporto delle materie prime. Oggi,
nella scelta del luogo, intervengono altri fattori, come la possibilità di reperire mano d’opera a
basso
costo oppure molto specializzata e qualificata, o le economie di agglomerazione, cioè i vantaggi
che le imprese ricavano collocandosi vicine a numerose altre, con cui hanno scambi di
informazioni, materiali e servizi. A volte, tuttavia, la crescita urbana può determinare un aumento
delle tasse, del costo del lavoro o dei costi di trasporto, creando al contrario diseconomie di
agglomerazione.

IL FORDISMO
Il termine fordismo si riferisce a un sistema di produzione industriale progettato per la produzione
di massa e influenzato dai principi di una gestione scientifica (taylorismo) dell’organizzazione del
lavoro, influenzata dalle idee di F.W. Taylor e Henry Ford, il quale introdusse la catena di
montaggio. Il fordismo ha portato a 4 conseguenze principali: ha contribuito alla de-qualificazione
del lavoro, ovvero prima la ditta assumeva artigiani qualificati, adesso che vi è la frammentazione
della produzione ha ridotto la necessità di impiegati specializzati; rafforzò la rigida gerarchia e la
netta separazione tra lavorati e dirigenti (sindacalizzazione); ha contribuito alla nascita delle
imprese multinazionali; la quarta riguardò le città industriali in quanto, la standardizzazione del
prodotto richiedeva di produrre grandi quantità in enormi stabilimenti, nei quali lavoravano decine
di migliaia di operai. Quindi, questa concentrazione produttiva richiese un altrettanto grande
concentrazione dei lavoratori, delle loro famiglie e dei relativi servizi, quindi una forte crescita
delle città industriali.

La catena di montaggio presenta tuttavia 3 limiti:


• richiede una fornitura regolare e immediata di materie prime, semilavorati, componenti e servizi
come il trasporto, sia a livello della catena di montaggio sia alla scala dell’intera impresa. (se un
macchinario si guasta, tutte le attività sono interrotte);
• il fordismo, per funzionare, deve fondarsi su un mercato di massa in grado di consumare una
ristretta gamma di beni prodotti. Questo modello di produzione contribuisce a collegare la
produzione al consumo di massa.
• il lavoro alla catena di montaggio può essere molto alienante per gli operai.

filiera— è una sequenza di operazioni collegate fra loro, che vanno dall’ideazione del prodotto,
alla
sua produzione e distribuzione. Di solito sono grandi imprese multinazionali ad integrazione
verticale a controllare queste filiere, influenzando le scelte produttive.

IL POST-FORDISMO
A partire dagli anni Cinquanta, i modelli di produzione fordisti divennero prevalenti nelle regioni
industriali dei paesi più avanzati, ma erano sviluppati soprattutto in Nord America e nell’Europa
Occidentale. Le imprese e i dipendenti beneficiavano di crescenti profitti e discreti salari portando
ad un boom economico che durò negli anni 50 e 60. La crisi del fordismo, nel successivo decennio,
segnò la fine di quel boom e fu legata soprattutto al calo di produttività e competitività delle
imprese.
I principali mutamenti che contribuirono alla crisi del fordismo furono:
• la crisi energetica degli anni Settanta, che fece aumentare i costi di produzione e trasporto;
• le diseconomie di agglomerazione;
• i gusti dei consumatori che non s’accontentavano più di una gamma ristretta di modelli
(automobili, vestiti) e soprattutto i miglioramenti nel campo dell’elettronica e dell’informatica,
che cambiavano il modo di organizzare la produzione industriale e la distribuzione dei prodotti.
Questi cambiamenti hanno dimostrato che il fordismo è un sistema di produzione poco flessibile.

Una prima risposta alla crisi del fordismo venne dal Giappone, all’interno dell’azienda
automobilistica Toyota, fu sperimentata la cosiddetta produzione flessibile, che utilizza le
tecnologie informatiche per rendere la produzione dei beni più varia.
Due strategie cruciali per il successo della produzione flessibile sono la pronta consegna e
l’esternalizzazione. La prima si riferisce al modo in cui un’impresa gestisce il suo inventario e
ottiene i materiali in base alla necessità del momento, consentendo all’impresa di far combaciare
le quantità di prodotto con la domanda effettiva dei consumatori. Attraverso la seconda, viene
subappaltata un’attività che prima veniva realizzata internamente ad un’altra azienda. La
delocalizzazione consiste nel trasferimento di
un’attività d’impresa, interna o esternalizzata, dal territorio dello stato in cui ha sede l’impresa, ad
un paese straniero.
La creazione di zone industriali di esportazione è legata alla delocalizzazione di alcuni segmenti
delle filiere produttive nei paesi in via di sviluppo. La delocalizzazione ha avuto 3 conseguenze:
• Ha dato alla produzione un carattere molto più globale, poiché le fasi hanno luogo in posti
diversi da quello in cui l’azienda principale ha sede
• Ha contribuito ad una nuova divisione internazionale del lavoro
• Ha avuto un importante effetto sulla geografia del profitto
Inoltre, la diffusione dei processi di delocalizzazione ha modificato notevolmente la struttura
mondiale delle attività manifatturiere. In primo luogo, ha influito sulla distribuzione della forza
lavoro, aumentando gli occupati nei paesi di ricollocazione e facendoli diminuire in quelle di
provenienza delle imprese delocalizzate. Inoltre, ha contribuito a dare forma all'attuale
globalizzazione dell'industria, fondamentale per la geografia della produzione.

L’EVOLUZIONE DELL’INDUSTRIA NEL RESTO DEL MONDO


L'attività manifatturiera trasforma i prodotti e ne cresce il valore attraverso il cosiddetto valore
aggiunto di produzione. È possibile quantificare questo valore sottraendo al costo del prodotto
finito il costo dei fattori produttivi necessari per produrlo, ad esempio il lavoro, i servizi, l’elettricità
ecc.
Negli anni 70 del secolo scorso cominciò a manifestarsi un importante mutamento nella geografia
della produzione, sviluppatosi in due fasi: la prima vide realizzarsi importanti trasformazioni nei
paesi più avanzati, per esempio, Il Giappone sperimentò un rapido aumento del valore aggiunto
delle imprese presenti sul suo territorio e cominciò a competere con i centri di produzione
industriale europei e statunitensi. la seconda vide invece una crescente importanza dei centri di
produzione di alcune aree semi periferiche dell'Asia, in seguito alla terza fase di diffusione della
rivoluzione industriale.

NUOVE ECONOMIE INDUSTRIALIZZATE DELL’ASIA


Il successo industriale del Giappone e determinò una rapida crescita economica e una riduzione
della povertà, tanto che il paese divenne un modello da imitare. La trasformazione economica
delle nuove potenze economiche, come Hong Kong o il Singapore, deriva da tre fattori principali:
1. iniziative promosse dai governi per incrementare la produttività industriale e migliorare il
commercio;
2. passaggio graduale da una produzione caratterizzata dal lavoro intensivo e ripetitivo ad una
a più alto valore aggiunto tecnologico;
3. presenza di forza lavoro scolarizzata e qualificata, a basso costo e poco socialmente
protetta.

LE ZONE ECONOMICHE SPECIALI


Una Zona Economica Speciale (ZES) è un’area industriale che funziona secondo politiche e leggi
diverse rispetto al resto del paese in cui si trova, con lo scopo di attirare e sostenere una
produzione
orientata alle esportazioni, ma sono spesso proibite o limitate le attività sindacali. Le ZES hanno
contribuito ad aumentare il numero di lavoratrici donne ed oggi in queste aree costituiscono la
grande maggioranza della forza lavoro. La creazione di zone industriali votate all’esportazione è
stata promossa come strategia in grado di aiutare i paesi ad industrializzarsi, per il suo potenziale
ruolo nell’attirare gli investimenti internazionali ed il commercio e creando nuovi posti di lavoro.
Le prime ZES furono istituite in Cina come parte di una politica nazionale per creare un'economia
più aperta e orientata al mercato. Quando questa politica fu realizzata per la prima volta nel 1979.
Le ZES furono inizialmente sviluppate a titolo sperimentale, e per restringere la diffusione
l'influenza del capitalismo, solo in quattro città.
analogamente ad altre zone economiche speciali, anche le ZES cinesi erano pensate come
strumenti per attrarre gli investimenti stranieri con una varietà di incentivi. due caratteristiche
delle differenziavano tuttavia da quelle di altri paesi: la prima è la loro dimensione in quanto
tendevano a essere generalmente più grandi. la seconda caratteristica è che esse tendono a essere
concepite in maniera più integrale, cioè che, in aggiunta alla produzione di beni per l'esportazione,
vengono promossi altri aspetti economici, come la ricerca e sviluppo o il turismo.
(Le ZEE, invece, sono le zone economiche esclusive, cioè la porzione di mare adiacente alle acque
territoriali su cui uno stato ha diritto di gestire le risorse o istallare strutture).

LA MAQUILADORA, o maquila— è un impianto manifatturiero spesso di proprietà straniera, che


importa
materiali esenti dai dazi doganali, li assembla, li tratta e infine li esporta. In Messico le
maquiladoras erano parte di una strategia del governo per alleviare la disoccupazione negli stati al
confine con gli USA e per decentrare parte dell’industria lontano dalla regione attorno a Città del
Messico. Negli anni 90 all’apice della loro diffusione, le maquiladoras davano lavoro a oltre un
milione di persone in 3500 differenti stabilimenti. A partire dal 2000 anche le maquiladoras
messicane si sono trovate in grande difficoltà anche a causa del ridimensionamento dell’economia
industriale statunitense.

DEINDUSTRIALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE
La crisi del fordismo ha segnato un periodo di cambiamento strutturale all'interno dei paesi
industrializzati, che ha portato ad un calo dei posti di lavoro nelle attività manifatturiere.
La perdita dei posti di lavoro nell'attività manifatturiera dei paesi più avanzati solleva alcune
domande sulle cause e le conseguenze della deindustrializzazione. Questo processo può essere
infatti ricondotto a tre cause generali:
1. un maggiore incremento della produttività del lavoro nell'attività manifatturiera rispetto a
quella dei servizi;
2. un cambiamento nella disponibilità di risorse;
3. la globalizzazione economica.

SERVIZI, GENERE E SOCIETÀ POSTINDUSTRIALE


La percentuale di persone impiegate nel terziario, a livello mondiale, è quasi raddoppiata dal 1970
e questo settore oggi dà lavoro ad una percentuale di popolazione maggiore rispetto a quella
impiegata in agricoltura. La crescita del settore dei servizi ha avuto anche un notevole impatto
sull’occupazione femminile, anche se le donne sono impiegate principalmente nel settore
sanitario,
educativo e sociale. La crescita del settore terziario è associata a:
1. Alti livelli di urbanizzazione
2. Prevalenza del settore dei servizi e delle attività d’ufficio
3. Infrastrutture fortemente basate sull’informatica e le comunicazioni
4. Un’economia basata sulla conoscenza.

In questa economia della conoscenza, sono la competenza, il know-how e le idee creative a


guidare l’innovazione e creare valore. Uno dei migliori indicatori di un’economia basata sulla
conoscenza è la quantità di denaro spesa in ricerca e sviluppo. Una delle espressioni
paesaggistiche
della ricerca e sviluppo è il tecnopolo, un’area nella quale si concentrano imprese che si occupano
di ricerca, progettazione, sviluppo e produzione nei settori dell’alta tecnologia. Un esempio di
tecnopoli è la Silicon Valley in California.
Dal punto di vista spaziale, i tecnopoli solitamente nascono come un raggruppamento di nodi che,
nel corso del tempo, crescono lungo le infrastrutture lineari di trasporto.
Sebbene i tecnopoli non si trovino esclusivamente nei paesi economicamente dominanti, la loro
presenza in paesi periferici e semi-periferici è spesso il risultato di iniziative pianificate dai governi.
In Italia è stato recentemente istituito un tecnopolo di Bologna, che mette in rete 53 laboratori
industriali disseminati sul territorio dell’Emilia-Romagna creando un sistema che coinvolge le
quattro università emiliane (il Politecnico di Milano, il Cnr, l’Enea e gli Istituti Ortopedici Rizzoli).

CAPITOLO 9 – LA CIRCOLAZIONE: FLUSSI, RETI E NODI


| I TRASPORTI E LE TELECOMUNICAZIONI RIDUCONO LE DISTANZE
Un tempo la circolazione delle persone, delle notizie e delle idee si svolgeva entro ambiti
geografici limitati, mentre su lunghe distanze circolavano pochi beni rari. A partire dall’età
moderna si fecero sempre più frequenti gli scambi a scala planetaria. In seguito, negli ultimi secoli,
le nuove tecnologie applicate ai mezzi di trasporto ne aumentarono la velocità, riducendo i tempi
necessari per i viaggi e rendendo sempre più agevoli le comunicazioni tra le varie parti del globo.
Grazie alla telematica (applicazione dell’informatica alle telecomunicazioni) la circolazione delle
persone, notizie e idee si è semplificata e ha reso possibile trasmettere dati, notizie, immagini in
tempo reale a scala planetaria e svolgere operazioni finanziarie, commerciali e produttive in sedi
molto lontane tra loro.
LE STRADE
Fin dalla preistoria gli esseri umani hanno avuto la necessità di spostarsi, per provvedersi di cibo,
di acqua, per cercare i luoghi più ricchi di selvaggina. Piste e sentieri segnarono i percorsi più
agevoli, quando si iniziarono a usare gli animali da soma per il trasporto delle merci. Con la
scoperta della ruota si rese necessario tracciare delle strade per i carri. Nell’antichità i romani
furono i primi a costruire una vera e propria rete di vie di comunicazione, che servivano per lo
spostamento delle merci e degli eserciti. Le strade romane furono usate anche nel Medioevo e
ancor oggi molte nuove strade ne seguono il tracciato. La costruzione di strade ebbe un notevole
impulso all’inizio del XX secolo con la diffusione dell’automobile, che rese necessario migliorare
anche il fondo stradale. Tra le due guerre mondiali del ‘900 la costruzione di strade si diffuse in
tutti i paesi, in particolare quelli industrializzati, dove si rese necessaria la costruzione anche di
autostrade.
Nel secondo dopoguerra si ebbe una rivoluzione dei trasporti, legato ai miglioramenti tecnologici
dei mezzi e delle vie di comunicazione, che ha portato a una forte riduzione dei costi e ad un
enorme aumento dei flussi. Strade e autostrade sempre più adeguate alla velocità permettono
spostamenti rapidi, veloci. Viadotti, gallerie, svincoli, stazioni di servizio coprono vaste superfici
che modificano i paesaggi tradizionali. Nei paesi industrializzati il traffico stradale è
particolarmente intenso anche a causa dell’uso di autocarri per il trasporto merci, utilizzati
generalmente per brevi e medi distanze, essendo più convenienti.
[La prima autostrada in Italia fu la Milano-Varese, che fu anche la prima strada a pagamento per
sole auto costruita in Europa].
LE FERROVIE
Le prime linee ferroviarie furono costruite in Inghilterra. La costruzione delle ferrovie fu
strettamente legata alla rivoluzione industriale; la ferrovia, infatti, oltre a favorire gli spostamenti
delle persone, ha ridotto i costi di trasporto delle materie prime e dei prodotti finiti, per questa
ragione ha avuto un ruolo importante nella localizzazione delle industrie, dei depositi merci e
quindi nello sviluppo delle città.. Nel 1888 si inaugurò l’Orient Express, il primo servizio tra Parigi e
Costantinopoli (Istanbul). In Africa e negli altri territori coloniali le prime ferrovie furono costruite
agli inizi del 900 dagli europei: si trattava di8 ferrovie dette di penetrazione, che servivano a
portare fino ai porti della costa i prodotti delle miniere e delle piantagioni che venivano esportati.
L’introduzione e l’evoluzione del treno era un modo per estender i confini e collegare mondi fino
ad allora lontani. A partire dagli anni 60 del secolo scorso i trasporti via strada e aereo divennero
competitivi rispetto a quello per ferrovia, ma negli ultimi anni la comparsa di treni superveloci ha
riproposto la ferrovia come mezzo di comunicazione competitivo con l’aereo per mezze distanze. I
treni ad alta velocità possono raggiungere al giorno d’oggi anche i 400 km/h.
I TRAFORI, detti anche tunnel, sono le gallerie costruite forando le montagne per farci passare
strade, ferrovie e autostrade. Mentre le strade in un primo tempo seguivano le forme del rilievo, i
treni necessitavano di un tracciato più lineare e non potevano superare agevolmente forti
dislivelli; pertanto, per far superare loro le montagne si rese necessario ricorrere ai trafori. Oggi i
trafori si realizzano anche per le gallerie stradali per sveltire i percorsi. Il primo traforo alpino, il
Buco di Viso sul Monviso fu aperto per far transitare gli animali da soma in inverno.
LE VIE D’ACQUA INTERNE
I corsi d’acqua fin dall’antichità furono utilizzati come via di comunicazione. Con l’aumento del
traffico e delle dimensioni delle imbarcazioni fu necessario intervenire sugli ostacoli naturali quali
portate irregolari, pendenze… i principali interventi furono di drenaggio, canalizzazione e
costruzione di chiuse, opere idrauliche che permettono alle imbarcazioni di superare dislivelli
lungo il corso d’acqua. Oggi il trasporto via fiumi, lento ma poco costoso, è usato soprattutto per il
trasporto delle merci e come attrattiva turistica. Per il trasporto delle persone è usato soltanto
nelle regioni del Sud del mondo poco dotati di vie di comunicazione, come la regione amazzonica
del Brasile. Inoltre, sia nel sud che nel nord nel mondo la navigazione sui fiumi rappresenta
un’attrattiva turistica, come nel caso delle crociere sul Volga, sul Danubio, ecc…
Con un percorso di 3.800 km, che comprende anche il lago Ontario, la via fluviale del fiume San
Lorenzo in Canada è la più lunga del mondo. Il più importante fiume europeo per la navigazione in
Europa è il Reno (che nasce in Svizzera e si getta nel mare del Nord in Olanda), che attraversa le
zone più industriali della Germania e serve come via di trasporto per materie prime, carbone,
petrolio, ecc.
I PORTI E LE ROTTE MARITTIME
I porti sono nodi di traffico in cui convergono rotte marittime, strade e ferrovie, canali e vie
fluviali. Sono quindi un’infrastruttura fondamentale per i collegamenti tra mare e terraferma. La
rivoluzione dei trasporti del secolo scorso impose profonde modifiche ai porti, molti dei quali
funzionavano da secoli come porti polivalenti, ovvero in grado di caricare e scaricare oltre ai
passeggeri, qualunque tipo di merce. L’impiego di navi sempre più grandi e specializzate rese
infatti necessaria la presenza non soltanto di fondali più profondi e terminali più estesi, ma anche
di attrezzature specializzate per velocizzare le operazioni di carico-scarico merci. Questa
evoluzione fece sì che il gran numero di porti polivalenti del passato si riducesse a poche unità di
grande importanza, come Rotterdam, Amburgo, Marsiglia, New York, ecc…
La necessità di maggior estensione è stata risolta in molte aree portuali con l’espansione in mare,
attraverso la costruzione di nuove strutture come i terminali offshore, ovvero impianti portuali
costruiti in mare aperto, molto spesso per lo sbarco-imbarco del petrolio e la sua lavorazione.
I porti moderni funzionano come gateway e come punto di collegamenti tra le vie di
comunicazione di mare e terraferma e, di conseguenza, condizionano la localizzazione delle
industrie, che avvicinandosi ai porti ottengono notevoli risparmi nella movimentazione delle merci.
Un ruolo particolare è svolto dai porti di trasbordo che hanno il compito di smistare i container
dalle navi transoceaniche a navi di stazza minore. I porti di oggi, oltre che strutture di
fondamentale importanza per il commercio, rivestono anche un ruolo sempre maggiore
nell’organizzazione del territorio.
I fronti marittimi più importanti sono quelli dell’Europa atlantica, quelli del Giappone orientale,
quelli degli USA orientali e del Golfo del Messico, che insieme gestiscono circa il 60% del traffico
mondiale. Dalla fine del secolo scorso i porti cinesi hanno incrementato molto il loro traffico, tanto
che Shanghai ha raggiunto il primo posto nel mondo per volume di merci movimentate.
Per poter gestire tutti i tipi di merci si ricorre alla creazione di sistemi portuali, cioè l’integrazione
tra più porti di una stessa fascia litoranea, ognuno specializzato in una o più funzioni (porto
petrolifero, carbonifero, ecc…).
Le rotte marittime appaiono particolarmente dense nella parte settentrionale degli Oceani
Atlantico e Pacifico. Le rotte principali a sud dell’equatore sono prevalentemente di
circumnavigazione di continenti come l’Africa, per connettere tra di loro paesi più settentrionali.
IL TRASPORTO AEREO
Il trasporto aereo è più veloce, ma assai più costoso degli altri mezzi di trasporto. IL trasporto via
aerea p utilizzato prevalentemente per il trasporto delle persone e delle merci deperibili di un
certo valore. Tuttavia, negli ultimi anni va diffondendosi l’uso dell’aereo all’interno di grandi
imprese organizzate second il sistema definito ‘’deposito centralizzato’’ che ritiene più utile e
meno costoso il mantenere scorte e pezzi di ricambio in un unico grande magazzino e spedirle ogni
volta che è necessario via aerea, anziché distribuirle in tanti piccoli depositi disseminati nel
territorio. L’uso della spedizione per aereo è sempre più usato per la consegna degli acquisti
online. Infine, l’aereo è di vitale importanza in paesi molto estesi per collegare località isolate,
molto lontane o addirittura non servite da altri mezzi. Una buona rete di collegamenti aerei e la
presenza di un aeroporto intercontinentale sono di primaria importanza per lo sviluppo
economico di una regione e il suo collegamento con il resto del mondo. Esso funge da nodo da cui
dipendono gli aeroporti minori non direttamente collegati con il resto del mondo. Particolarmente
vantaggiosa è la posizione di aeroporti situati lungo una importante rotta intercontinentale,
soprattutto se funge da nodo di raccordo con altre direttrici, come l’aeroporto di Lisbona, su cui
convergono la rotta aerea Europa-America meridionale ed Europa-America settentrionale.
LE TELECOMUNICAZIONI
Le telecomunicazioni sono il nodo per trasmettere informazioni. Nel mondo attuale alla
circolazione di veicoli e merci che utilizzano le vie di comunicazione, si accompagna un’intensa
circolazione di informazioni, sotto forma di denaro, dati, notizie, immagini, supportate dalle reti di
telecomunicazione e dai media. Le attività economiche e finanziarie utilizzano tali reti per
collegare tra di loro i vari punti nei quali articolano le aziende, trasferendo dati, denaro e
sviluppando l’e-commerce. Le ITC (Information and Communication Technologies) sono
importante anche in altri campi, come in quello della salute, della cultura, della ricerca,
dell’istruzione, e soprattutto nel campo sociale (basti pensare ai social network).
La differenza nella possibilità di accesso alle reti di telecomunicazione tra paesi del sud e del nord
del mondo dà origine al divario digitale, un fattore importante di discriminazione nei confronti
delle persone che vivono in regioni dove non vi è alcuna rete telematica e che dipende dal
possesso di strumenti tecnologici e dalla capacità di servirsene.
| LA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI E IL COMMERCIO INTERNAZIONALE
La logistica è l’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano i flussi di
materiali dalle origini presso i fornitori di materie prime fino alla consegna dei prodotti finiti ai
clienti e al servizio post-vendita.
Un primo compito della logistica consiste nel razionalizzare i trasporti merci, sia in entrata che in
uscita dall’azienda, per ridurne i costi. Di fondamentale importanza per tale riduzione è il
container, con il quale vengono velocizzate le operazioni di carico e scarico merci e viene reso
possibile un sistema di trasporto multimodale, utile a far percorrere lunghe distanze alle varie
merci, effettuato con una combinazione di mezzi diversi, per esempio nave+treno+camion.
L’importanza della logistica ha fatto sviluppare un intero sistema organizzativo, il settore logistico,
gestito da imprese specializzate che operano per mezzo di piattaforme logistiche, vaste aree nelle
quali convergono reti di trasporto diverse le cui merci vengono ricevute, immagazzinate, trattate e
poi smistate. Per esempio, nella piattaforma dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, oltre alla
rete aerea sono presenti quella ferroviaria e quella autostradale.
Anche il trasporto dei passeggeri ha seguito la stessa logica. La rete dei trasporti veloci ha alcune
piattaforme di interconnessione (hub aeroportuali) dove sono presenti contemporaneamente
terminali aerei, stradali, ferroviari e di ferrovie metropolitane. In Europa, ad esempio, gli aeroporti
di Zurigo e Francoforte fungono da piattaforme di interconnessione per i voli intercontinentali. Si è
verificata anche una differenziazione economica tra regioni, in quanto alcune assi di trasporto
dette corridoi plurimodali (come, ad esempio, l’asse Parigi-Lione-Marsiglia in Francia) acquistano
importanza, rispetto ad altri, con relative rilevanti conseguenze sullo sviluppo economico dei
territori attraversati.
IL COMMERCIO MONDIALE
Il commercio è un’attività da sempre presente nella storia dell’umanità. Il commercio
internazionale ebbe un grande impulso con la rivoluzione industriale, quando lo sviluppo delle vie
e dei mezzi di comunicazione aumentò la possibilità di circolazione delle materie prime e i prodotti
finiti. Poi i traffici commerciali mondiali continuarono ad aumentare e si sono ancor più
intensificati con la globalizzazione. I fattori che hanno influito sull’enorme crescita del commercio
nel mondo globalizzato furono, oltre alle innovazioni tecnologiche, anche la divisione
internazionale del lavoro, dovuta al diverso costo del lavoro tra i paesi del nord e del sud del
mondo, che spinge le imprese a delocalizzare le lavorazioni poco qualificate in quelle con i costi più
bassi. Un altro fattore è la progressiva liberalizzazione del commercio, legata alla nascita di
associazioni internazionali per l’abbattimento delle barriere al trasferimento di beni e servizi.
Oltre ai flussi di materie prime, ingenti sono gli scambi di manufatti e di semilavorati come
conseguenza della scomposizione verticale del processo produttivo, che si verifica quando una
grande impresa è proprietaria di stabilimenti localizzati in diverse parti del mondo, collegati tra di
loro, ciascuno dei quali rappresenta una fase della catena produttiva.
La globalizzazione del commercio ha influito anche notevolmente sui consumi della popolazione e
sui suoi stili di vita.
LA GEOGRAFIA DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE
Il commercio internazionale, fin dalla metà del secolo scorso, si p organizzato attorno a tre poli
principali: l’Europa occidentale, gli USA e i principali paesi dell’Asia orientale: Giappone, Cina, più
le cosiddette tigri cioè Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea. Altri paesi di un certo peso presenti
sui mercati internazionali sono i paesi del Medio Oriente, la Russia e i Messico e Brasile. Il polo più
importante è rappresentato dall’Europa, seguita dagli USA, con valori di importazione che
prevalgono sulle esportazioni. Ben diversa è la situazione per il terzo polo, quello dell’Asia
orientale che presenta flussi di esportazione ben superiori alle importazioni, determinando un
avanzo commerciale. L’area commercialmente più attiva oggi è quella del Pacifico. L’Italia è
storicamente un paese esportatore, soprattutto per quanto riguarda i settori del Made in Italy.
| IL TURISMO
Il turismo, cioè lo spostamento dal luogo di residenza in altre località per svago, interessi culturali,
salute, riposo o desiderio di conoscere nuovi luoghi. In forma moderna il turismo iniziò nel XVIII
secolo quando in Europa si diffuse l’usanza del Gran Tour, il viaggio ritenuto indispensabile per il
completamento dei giovani aristocratici. Con la rivoluzione industriale e il formarsi di una ricca
classe borghese il turismo ebbe un forte sviluppo. Si trattava di un turismo d’élite, cioè riservato a
persone co. un reddito elevato, che frequentano località rinomate e lussuose. Fu dopo il secondo
dopoguerra che si sviluppò quello che viene definito turismo di massa, praticato da larghi strati
della popolazione con servizi diversificati e prezzi convenienti.
Tra le attività del settore terziario, il turismo è quella con il maggior numero di addetti a livello
mondiale, che produce redditi elevati in paesi come l’Italia, che è ai primi posti per numero di
turisti, con entrate del settore che rappresentano il 13% del PIL. Dal punto di vista geografico, i
flussi turistici principali sono quelli tra i paesi ricchi, in particolare l’Europa, grazie alle sue città
d’arte ricche di storia e di monumenti del passato, al suo patrimonio artistico, e a livello di
infrastrutture USA e Cina.
Oggi il turismo si lega sempre di più al viaggio, che consiste nel visitare per proprio piacere un
luogo diverso da quello della residenza abituale. Particolarmente importante è l’immagine globale,
che comprende quella paesaggistica e culturale. Molto spesso invece l’immagine è parziale e
deriva da un cliché o stereotipo, cioè da una generica rappresentazione dovuta alle idee più
comuni e diffuse sulla località. In secondo luogo, l’immagine del paese è legata ai tipi di servizi: al
comfort degli alberghi, ai divertimenti offerti, al rapporto qualità-prezzo. La pubblicità turistica
fornisce attraverso i media immagini il più possibile varie di ciascun luogo turistico, per attrarre
l’uno o l’altro tipo di turista. Nell’attuale mondo globalizzato, cresce l’interesse per le diversità e le
specificità dei singoli paesi. Tale interesse dà origine al turismo culturale che è interessato a tutto
ciò che riguarda l’identità dei singoli luoghi, le testimonianze di ciò che ha formato tale identità, lo
stile di vita, la cucina e il folklore. Per questo il turista culturalmente motivato non si limita alla
visita dei monumenti, ma ricerca anche altri tipi di manifestazioni culturali che riguardino più
propriamente usi, i costumi, le tradizioni. L’immagine dell’Italia è legata profondamente al
concetto di cultura inteso non solo come patrimonio artistico-culturale-paesaggistico, ma anche di
quello che è stato definito l’Italian Style of Life, con un’attenzione particolare alle tradizioni ed al
patrimonio enogastronomico.

CAPITOLO 10 – GEOGRAFIA URBANA - CITTÀ E URBANIZZAZIONE


Le città sono i luoghi dell’interazione sociale, dello scambio, della produzione culturale, sono i
motori dell’economia. Negli ultimi anni il ritmo con cui sono cresciute le città è accelerato e oggi
più della metà dei cittadini del mondo vivono in un’area urbana.
Nonostante la loro grande varietà, tutte le città condividono queste caratteristiche di base:
1. Un’elevata densità di popolazione
2. Una certa dimensione demografica che la distingue dagli insediamenti rurali
3. Una complessità di funzioni culturali, sociali, economiche a cui corrispondono usi del suolo
specializzati
4. L’essere centri dei poteri connessi all’esercizio di queste varie funzioni
5. L’essere ambienti dinamici e creativi
6. L’essere connesse ad altri luoghi urbani e rurali attraverso una fitta rete di relazioni e di flussi di
persone, beni, servizi, informazioni e denaro
7. L’essere luoghi di grandi contraddizioni e conflitti. Le città offrono opportunità e speranze ma
anche povertà e privazioni.

COME SI DEFINISCE UNA CITTÀ?


Nel 1938 il sociologo americano Louis Wirth definì la città in termini di dimensioni, densità e
varietà. Questa definizione è ancora valida, ma nella pratica corrente si tende a semplificare
riducendo tutto al numero degli abitanti. Vi sono due tipi di città: nucleare (con
l’industrializzazione si sono dilatate nella campagna circostante, fino a comprendere le
municipalità vicine) e città estese (sistemi territoriali di vario tipo, per lo più multicentrici, formati
da più municipalità vicine). Le città estese prendono nomi diversi. Se l’espansione è stata continua
e a macchia d’olio, si parla di agglomerato urbano; se c’è stata espansione a macchia d’olio di più
agglomerati urbani vicini che si sono fusi tra loro, si parla di conurbazione;
Da quando l’uso generalizzato dell’automobile ha favorito un’espansione urbana non più compatta
e continua a breve raggio, ma discontinua e su un’area molto vasta, si parla di sistemi territoriali
urbani, che possono essere aree urbane, oppure, se molto popolose, aree metropolitane. Infine,
abbiamo le megalopoli, insieme di aree urbane e metropolitane collegate tra loro.

RETI URBANE E AREE METROPOLITANE


Le città intrattengono con l’esterno scambi di materia, energia, popolazione…e ciò significa che i
beni e i servizi prodotti da una città non sono solo destinati ai suoi abitanti, ma:
• a un territorio circostante che è servito dalla città e che si serve di essa, detto area di
gravitazione urbana;
• ad altre città e ad altri territori sparsi nel mondo.
I flussi determinati da tali interscambi formano sul territorio delle reti, dette reti urbane, nelle
quali
le città costituiscono i nodi. Tali reti possono avere forme e dimensioni diverse, con maglie più o
meno larghe secondo l’economia dei paesi o delle aree considerate. Per esempio, nei paesi con
un’economia prevalentemente agricola la rete della città ha maglie larghe e ogni città esaurisce la
maggior parte delle sue relazioni con il territorio circostante. Questa situazione caratterizza
attualmente parti dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina. Nelle regioni industrializzate europee,
dell’America settentrionale e dell’Asia orientale, vi sono invece reti urbane con maglie molto fitte e
con flussi molto intensi.

CRESCITA E DECRESCITA DELLA POPOLAZIONE URBANA


Il termine urbanizzazione viene usato in due significati diversi: può indicare il processo che porta
imprese e popolazione a concentrarsi nelle aree urbane, oppure più in generale, l’estendersi a
sempre più vasti territori delle caratteristiche e dei modi di vita delle città. Quando si parla di
grado di urbanizzazione di una regione o paese, ci si riferisce alla percentuale della popolazione
residente nella città, o popolazione urbana. Il tasso di crescita urbana si riferisce invece
all’incremento annuo percentuale della popolazione urbana.
Il geografo B. Berry fu il primo a descrivere la tendenza della contro-urbanizzazione, legata alle
nuove tendenze localizzative dell’industria che privilegiava i centri minori, dove la vita era meno
costosa, i salari più bassi e minori i conflitti sindacali. Si passò poi così alle disurbanizzazione, un
fenomeno che colpì soprattutto i comuni centrali delle grandi agglomerazioni urbane, ma sovente
anche le agglomerazioni nel loro complesso.

URBANO, RURALE E CITTÀ DIFFUSA


Tradizionalmente il termine urbano indica gli spazi limitati in cui la popolazione si concentra,
mentre il termine rurale si riferisce a tutti gli altri spazi abitati che hanno una bassa densità
abitativa. Nei paesi di economia avanzata, l’urbano tende ad espandersi nei territori rurali, nel
senso che molte città si allargano nella campagna circostante, coprendola di edifici e infrastrutture
e
trasformando i modi di vita della popolazione. Per indicare questi territori rurali ora urbanizzati si
utilizza il termine rurbano e, se si supera una certa densità, perirubano.

Sono due le circostanze necessarie per la nascita di una città:


• lo sviluppo di un sistema agricolo tale da consentire la produzione e la conservazione di un
surplus alimentare;
• un sistema di scambi commerciali tra regioni diverse e un’organizzazione sociale dominata da
un’élite religiosa, politica e militare.

Le città crescono da sempre, anche se in certe regioni e in certi periodi si sono avute temporanee
regressioni o arresti. Oggi si nota che i paesi più sviluppati tendono ad avere gradi di
urbanizzazione superiori, ma tassi di crescita urbana più bassi. La causa di questo fenomeno va
ricondotta ai cambiamenti sociali e tecnologici portati dalla Rivoluzione Industriale, quando
l’affermazione dell’industrializzazione e della meccanizzazione ridusse la richiesta di manodopera
nelle campagne, generando invece un aumento dell’offerta di lavoro da parte delle fabbriche e
delle industrie, che attirarono la popolazione proveniente dalle aree rurali, innescando un
massiccio processo di urbanizzazione. Intorno al 1975 questo modello iniziò a cambiare, grazie alla
rapida diffusione globale dell’urbanizzazione e alla nascita delle mega-città, agglomerati urbani
con più di 10 milioni di abitanti.
Un processo determinante nel trasformare i paesaggi rurale, caratteristico dei paesi a economia
avanzata è quello della dispersione edilizia (urban sprawl). Esso si verifica quando il tasso di
consumo di suolo dovuto all’espansione dell’area urbanizzata – per scopi residenziali, commerciali
o industriali – supera quello della crescita della popolazione. Si forma allora un tipo di
urbanizzazione dispersa detto città diffusa, caratterizzato da una bassa densità di popolazione e
dalla presenza di capannoni, allineamenti commerciali, villette unifamiliari, intervallati da spazi
liberi destinati all’agricoltura o alla ricreazione. La città diffusa soddisfa certe esigenze individuali,
ma ne scarica i costi sulla collettività in vari modi. Per esempio, sottrare le risorse suolo
all’agricoltura, richiede ingenti investimenti nelle reti elettriche, telefoniche, idriche e fognarie che
seguono la dispersione urbana. Anche se il fenomeno dello urban sprawl ha raggiunto i propri
picchi di diffusione negli Stati Uniti, tutte le città rischiano di trasformarsi in città disperse, se non
gestiscono adeguatamente la propria crescita.

LE MEGA-CITTÀ agglomerati urbani con più di 10 milioni di abitanti


Le città fanno parte del nostro mondo da circa 10.000 anni. Lo studio delle caratteristiche dei siti
urbani nella storia ha portato gli studiosi ad individuare due circostanze necessarie per la nascita di
una città: lo sviluppo di un sistema agricolo tale da consentire la produzione e la conservazione di
un surplus alimentare; un sistema di scambi commerciali tra regioni diverse e un’organizzazione
sociale dominata da un’élite religiosa, politica e militare.
Le città crescono sempre, anche se in certe regioni o in certi periodi si sono avute temporanee
regressioni o arresti. Ad esempio, i paesi più ricchi tendono ad avere gradi di urbanizzazione
superiori, ma tassi di crescita urbana più bassi. La causa di questo fenomeno va ricondotta ai
cambiamenti sociali e tecnologici portata dalla Rivoluzione industriale, che si diffusero in Europa a
partire dalla metà del XVIII secolo, quando l’affermazione dell’industrializzazione e della
meccanizzazione ridusse la richiesta di manodopera nelle campagne, generando invece un
aumento dell’offerta di lavoro da parte delle fabbriche e delle industrie delle città, che
cominciarono ad attirare la popolazione proveniente dalle aree rurali, innescando un massiccio
processo di urbanizzazione.

LE FUNZIONI DELLA CITTÀ


Si intende un’attività (amministrazione pubblica, commercio, industria, ricerca, istruzione) che
risponde sia a esigenze interne della città, sia esterne ad essa. Il raggio d’azione o portata di tali
funzioni può avere diversa ampiezza, di conseguenza, le diverse funzioni di una città possono
interessare un numero maggiore o minore di persone. L’importanza di una città si può quindi
desumere dalle sue funzioni, misurabili in base al loro raggio d’azione e al loro impatto sulla vita
sociale a diversi livelli territoriali.
Vi sono città commerciali che hanno dai grandi centri del commercio e della finanza internazionale
come Milano, Francoforte, NYC…, città-capitali che hanno la funzione politica pubblica e di
governo e non sempre è la città più importante del paese, come Washington o Brasilia, città-
fortezze, oppure quelle religiose, città del Vaticano e La Mecca, città pellegrinaggi Medjugorje,
Lourdes, città-minerarie, città della pesca, città industriali, città universitarie, città del turismo…
Dal punto di vista geografico le funzioni delle città svolgono un duplice ruolo. Il primo si rivolge al
territorio circostante e consiste nel fornire servizi e nel valorizzare delle risorse locali. Per svolgere
bene questo ruolo, la rete urbana deve essere diramata e diffusa sul territorio, deve modellarsi
quantitativamente e qualitativamente sulle differenze fisiche, storiche e culturali di esso, sulle
divisioni del lavoro esistenti e prevedibili in relazione alle potenzialità locali e regionali. Il secondo
ruolo geografico – funzionale delle città consiste nel fare da tramite tra il territorio circostante e i
circuiti internazionali della cultura, della conoscenza, delle innovazioni, della mobilità, delle merci,
del denaro.

IL MODELLO DELLE LOCALITÀ CENTRALI


Il raggio d’azione di un centro abitato dipende dalla portata delle funzioni che esso svolge, cioè dal
suo ruolo di località centrale. La relazione tra una località centrale e la propria area di gravitazione
è molto importante in quanto dimostra l’esistenza di una gerarchia delle località centrali, che a sua
volta ne determina la distribuzione. In questo caso parliamo di gerarchia urbana, la suddivisione
delle località centrali in ranghi (o livelli) in base alle funzioni centrali che esse svolgono.
Il primo geografo che si è occupato dell’argomento fu Walter Christaller che ha spiegato la nascita
di una gerarchia di località centrali fondando le proprie teorie sui concetti di soglia e di portata,
entrambi riferiti all’offerta di beni e servizi e legati a una semplice domanda: quanto si è disposti a
spostarsi per acquistare un prodotto o usufruire di un servizio? La portata esprime la distanza
massima che un consumatore è disposto a percorrere per fruire di un bene o un servizio, partendo
dal presupposto che solitamente questa sia maggiore nel caso di beni ai quali si attribuisce un
particolare valore, come un abito da sposa o il concerto di un gruppo famoso. Al contrario, la
maggior parte delle persone è abituata a percorrere solo brevi tragitti per compiere azioni
semplici, come spedire un pacco postale.
Se la portata stabilisce la dimensione di un’area di mercato, la soglia contribuisce invece a
spiegare quali beni e servizi sia probabile reperire al suo interno. Le città all’apice della gerarchia
sono le città globali.

LE CITTÀ GLOBALI — sono i centri principali del potere economico mondiale, in grado di esercitare
un’influenza e un controllo sul resto del mondo. Si tratta di città di grandi dimensioni che sono
diventate centri o nodi di comando, in grado di influenzare in maniera determinante i flussi di
informazioni, beni e capitali che circolano in tutto il mondo. La nascita delle città globali si riferisce
a due fattori: la crescita delle imprese multinazionali e l’importanza crescente di servizi
professionali avanzati, come quelli legati alla finanza, alle assicurazioni, alla pubblicità o al settore
legale, anch’esse concentrate in un numero limitato di centri. Le città globali collegandosi tra loro
su scala mondiale, formano una rete urbana globale, che ospita le funzioni più pregiate come per
esempio le borse valori di NYC, Londra, Tokyo e Francoforte.

I MOTORI ECONOMICI DELLA CRESCITA URBANA


Per capire i processi di crescita e decrescita urbana, occorre pensare le attività economiche come
motori della crescita. A tale scopo esse si dividono in due categorie:

1. LE ATTIVITÀ LOCALI: sono quelle il cui raggio d’azione non va oltre l’immediato intorno
territoriale della città e consistono nella produzione di beni e servizi che vengono consumati
localmente e che assicurano la sussistenza della città.
2. LE ATTIVITÀ ESPORTATRICI: hanno un raggio d’azione da regionale a internazionale. Si
occupano di produrre i beni e i servizi dall’esterno e di scambiarli con prodotti di valore almeno
pari a quelli che importa. Sono dette anche attività di base, perché ad ogni posto di lavoro nelle
attività esportatrici corrisponde un aumento della popolazione residente, ma ogni tanti nuovi
residenti ci sarà l’aumento di un posto nelle attività locali che provvedono ai loro bisogni e ciò
produrrà un ulteriore piccolo incremento della popolazione.

LA STRUTTURA URBANA: LA MORFOLOGIA URBANA


La morfologia urbana, cioè la forma fisica della città, è rilevata in prima approssimazione dalla sua
planimetria che mostra la distribuzione degli spazi costruiti e di quello liberi, questi ultimi a loro
volta distinti in pubblici (vie, piazze, parchi, stazioni ecc.) e privati (paesaggi, cortili, giardini ecc.): il
tutto in relazione ai lineamenti del sito (rilievo, corsi d’acqua, linee costiere) e a loro eventuali
trasformazioni storiche (bastioni, canali ecc.).
Negli agglomerati tradizionali si individuano due tipi morfologici a proposito della geometria delle
reti varie: piante a scacchiera (o a griglia) e radiocentriche, a cui se ne aggiunge un terzo, quello
della città lineare, che caratterizza le città minori nate lungo una strada o le città che si sviluppano
parallele alle coste.
Va notato che le classificazioni geometriche hanno di per sé poco significato se non vengono
collegate con i processi storici che le hanno generate. Così, ad esempio, la pianta a scacchiera può
rilevare un’origine romana, come nel caso di Torino e di Piacenza, oppure un’origine franca
medioevale (Castelfranco Veneto), o pianificata barocca (Noto), o ancora un’origine coloniale
come in molte città americane e australiane.
È difficile che una città presenti una morfologia omogenea, dando luogo a discontinuità nel tessuto
urbano: ad esempio, in corrispondenza di espansioni al di là di ostacoli come mura, canali, trincee
ferroviarie…
Altre volte, tessuti urbani storicamente omogenei sono stati modificato per interventi successivi o
per l’inserimento di complessi monumentali.
Se a grandi linee la forma è data dalla planimetria, un esame morfologico completo deve tuttavia
considerare la città come uno spazio tridimensionale. Variano infatti parecchio le volumetrie degli
edifici passando dai grattacieli dei centri e dei sub-centri periferici alle villette a schiera dei
quartieri suburbani.
Le volumetrie rispecchiano le densità della popolazione e delle attività economiche che a loro
volta sono regolate dal mercato del suolo e quindi dai valori di centralità, cioè la distanza dal
centro principale e dai diversi centri e sub-centri in cui si articola la città policentriche, o dalle
posizioni arteriali oppure inter-radiali e infine da fattori ambientali come le coste, i fiumi, le
posizioni panoramiche, i parchi e i giardini.
L’USO DEL SUOLO URBANO
Tra i principali processi che influenzano la struttura di una città ci sono la centralizzazione, la
decentralizzazione (sub urbanizzazione e peri-urbanizzazione) e l’agglomerazione. La prima indica
quelle forze che portano la popolazione e le attività economiche a concentrarsi nei quartieri più
centrali della città, mentre la decentralizzazione si riferisce invece al fenomeno opposto, ovvero la
tendenza di una parte degli abitanti e delle attività a spostarsi verso gli spazi periferici, infine
l’agglomerazione in un’area di determinate attività può incidere sulla struttura tanto delle aree
centrali, quanto di quelle periferiche.
Una struttura policentrica è quando una città ha tanti servizi come ospedale, attività commerciali…
detta anche multipolare. Le città spesso sono caratterizzate anche da una zonizzazione funzionale,
ovvero la suddivisione del territorio di una città in zone caratterizzate da specifiche attività ed usi
del suolo. Il valore dei terreni è una delle forze economiche che più incidono sull’uso del suolo
all’interno dei confini di una città. Questo valore è solitamente legato a fattori come l’accessibilità
e la desiderabilità dei terreni che in generale sono direttamente proporzionali al loro prezzo di
mercato. Le curve valore del suolo premettono di visualizzare queste forze economiche,
mostrando come la disponibilità di un potenziale acquirente a pagare per un terreno è
proporzionale alla sua distanza dal centro della città o dalla zona in cui si concentrano determinate
attività economiche. Una delle principali espressioni della forza delle istituzioni nel determinare
direttamente gli usi del suolo urbano è la zonizzazione.

All’interno delle città dei paesi economicamente avanzati gli abitanti e le diverse attività
economiche non si distribuiscono in modo causale, ma secondo una geografia legata a fattori
economici e socio-culturali. Gli affitti aumentano man mano che ci si avvicina al centro città e in
base al reddito medio e basso la popolazione si stabilisce nei quartieri. Le industrie manifatturiere,
sia per gli alti costi del terreno sia per motivi ambientali, tendono a localizzarsi in periferia delle
città.

MODELLI DI FORMA E DI EVOLUZIONE DELLA STRUTTURA URBANA (4 MODELLI)


1. Nel 1925 il sociologo Ernest Burgess ha sviluppato il modello delle zone concentriche. Alla base
di questa teoria c’era un’interpretazione ecologica detta crescita urbana, secondo la quale i gruppi
che vivono in città competono per il territorio e le risorse, proprio come avviene per le specie
animali. Questi processi portano ad una separazione dei gruppi sociali lungo confini economici ed
etnici. La mobilità sociale, l’immigrazione o i cambiamenti nell’uso dei terreni o nel loro valore
possono causare lo spostamento delle persone da una zona all’altra, in base ad un processo che
Burgess ha chiamato successione.

2. Nel 1939 Homer Hoyt ha proposto un nuovo modello di descrizione della struttura spaziale
urbana, chiamato modello dei settori che attribuisce grande importanza al ruolo dei mezzi di
trasporto nella divisione dei cerchi concentrici in settori radiali.
3. Nel 1945 Chauncy Harris ed Edward Ullman proposero il modello dei nuclei multipli. Per primi
hanno sottolineato come molte città non abbiano un solo centro commerciale e degli affari ma
molteplici nuclei centrali, che possono includere i porti, i quartieri amministrativi, le zone
universitarie o quelle industriali.

4. Nel 1970 John Adams ha messo in relazione le fasi dello sviluppo dei mezzi e delle reti di
trasporto con i cambiamenti nella struttura residenziale di una città.

Tutti questi modelli influenzano in diverse proporzioni, i modelli di utilizzo dei terreni all’interno
dei confini della città.

LE CITTÀ EUROPEE — In molte città europee vi sono i centri storici che risalgono al Medioevo
e questo dà una certa struttura urbana:
• la conformazione delle città è particolarmente adatta alla circolazione dei pedoni e delle
biciclette e spesso il centro cittadino è chiuso al traffico;
• il trasporto privato è più costoso che in altri continenti, a causa del carburante, assicurazioni…;
• i mezzi di trasporto pubblico sono economici e molto diffusi;
• il mantenimento degli edifici storici ha favorito la loro conservazione e ha annullato progetti di
rinnovamento urbanistico;
• i quartieri centrali sono occupati da residenze, oltre che da uffici e servizi.

LE CITTÀ NORD-AMERICANE — Le città nordamericane si distinguono da quelle europee perché


rispondono meglio ai modelli di forma ed evoluzione della struttura urbana. Inoltre, si
caratterizzano per la rapidità dello sviluppo: nate spesso come città pioniere, hanno avuto una
rapida evoluzione, rinnovandosi costantemente; pochissime conservano edifici storici paragonabili
ai centri storici europei. Gli schemi di costruzione sia delle piante urbane sia degli edifici seguono,
nelle aree centrali, il principio della massima utilità nell’uso dello spazio: piante a scacchiera ed
edifici elevati; invece, in periferia si trovano vasti quartieri di villette di abitazione unifamiliari,
intervallati da ampi spazi verdi.

LE CITTÀ DELL’EST EUROPA E DEI PAESI SOCIALISTI — Le città dell’Est Europa e dell’Unione
Sovietica hanno subito cambiamenti economici a causa della Seconda guerra mondiale e del
comunismo. Una delle principali caratteristiche di questi centri urbani era la proprietà
completamente pubblica dei terreni, che impediva qualunque fenomeno di competizione per il
loro utilizzo. Le città erano organizzate con grandi piazze pubbliche e molti palazzi con
appartamenti vicino alle fabbriche. Dal 1989 con la caduta del comunismo e grazie alla
globalizzazione, hanno iniziato a cambiare le caratteristiche urbane; tuttavia, l’impianto di molti
quartieri ed edifici conserva le caratteristiche originarie.

LE CITTÀ DEL SUD DEL MONDO E I PAESI EMERGENTI — La differenza fondamentale tra le città del
nord del mondo e quelle del sud del mondo è data dal fatto che le prime hanno attirato e attirano
la popolazione perché offrono possibilità di lavoro, mentre le seconde non offrono tali possibilità
se non a un numero limitato di persone. Nei paesi del Sud del mondo, infatti, si migra in città per
fuggire alla miseria delle campagne o comunque nella speranza di migliorare le proprie condizioni
di vita.
La tipologia delle città del Sud del mondo e dei paesi emergenti hanno aspetti comuni tra loro:
• forte crescita della popolazione dovuta all’immigrazione e all’elevato tasso di natalità;
• struttura urbanistica disordinata;
• tendenza a formare grandi agglomerati;
• una forte diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza della popolazione.
Nel centro si trova il quartiere degli affari e degli uffici pubblici, che rispetto a quello delle città dei
paesi sviluppati ha un’estensione più limitata e una minore varietà di funzioni. In esso sono
presenti le banche e gli uffici delle imprese nazionali e straniere. I quartieri della periferia abitati
dai poveri (baraccopoli) sono detti favelas in Brasile, barrios in Venezuela, bidonvilles in Africa e
slums in India, con situazioni igenico-sanitario scarse. Invece i ricchi ossessionati dalla sicurezza,
hanno case con mura di cinta e telecamere, sono quartieri nati sul modello delle gated
community.

LE CITTÀ ISLAMICHE — Le città islamiche hanno parecchi elementi in comune con le città
medievali europee: un centro religioso, un mercato centrale (suq), quartieri residenziali, un
reticolo stradale irregolare e una cinta muraria con funzioni difensive. Prendendo in
considerazione la umma, ovvero la comunità globale dei fedeli musulmani, la città islamica è
quella che permette ai fedeli locali di rimanere in contatto con la comunità musulmana
internazionale, per questo alcune città marocchine sono orientate in base alla qibla, la sacra
direzione della Mecca.

LE POPOLAZIONI E IL GOVERNO DELLA CITTÀ RESIDENTI E NON RESIDENTI


Per molti secoli, la popolazione della città coincise con quanti risiedevano e lavoravano nella città
stessa e normalmente la popolazione notturna coincideva con quella diurna.
Oggi, invece, la popolazione urbana si dive in 3 categorie principali: residenti, i city users ovvero i
pendolari che usano la città senza risiedervi stabilmente e che ogni giorno si recano in città per
lavorare, gli utenti di servizi, costituita da quanti si recano in città per acquisti, per visitare musei,
cinema e teatro, stadi di calcio, ecc. L’afflusso dei non residenti influenza la costruzione di nuovi
edifici di alloggio e quindi cambiamento urbanistico.

LA COMPOSIZIONE SOCIALE E LA GENTRIFICATION


Nelle città convivono persone con livelli di istruzione e tipi di occupazione diversi che ne
definiscono la posizione socio-professionale, dalla quale derivano redditi e tipi di consumi diversi.
Nelle città dei paesi economicamente avanzati vi è una numerosa presenza di imprenditori e liberi
professionisti. La domanda di servizi di questa categoria di cittadini ha un effetto moltiplicatore
sull’occupazione meno qualificata (addetti alle pulizie, sorveglianza, manutenzione, ristorazione).
Questo ha portato un flusso di popolazione povera e di lavoratori dequalificati immigrati. Negli
ultimi quarant’anni nei paesi di vecchia industrializzazione la situazione è nuovamente cambiata.
Le aree di degrado dei quartieri centrali si sono molto ridotte o perché demolite e ricostruite sono
state risanate e recuperate. Il risultato è stato un aumento dei prezzi e quindi una sorta di ri-
colonizzazione dei centri storici da parte delle classi più ricche, con prevalenza di single o di coppie
senza figli. Questo fenomeno ha preso il nome di gentrification, i cui sono controversi: c’è chi la
ritiene utile per mantenere elevato il valore delle proprietà immobiliari delle aree centrali delle
città, mentre c’è chi vede in essa un semplice strumento di sfruttamento economico della povertà
urbana.

LE BARACCOPOLI
La suburbanizzazione dei paesi del Sud globale si caratterizza per la presenza di grandi masse di
poveri che occupano per lo più settori svantaggiati. Si tratta di quartieri di baraccopoli (in inglese
slum, in francese bidonville), ammassi di abitazioni precarie, auto-costruite, in origine privi di
strade, fognature, acqua potabile, elettricità e servizi.
Gli interventi per demolirli sono stati fallimentari, poiché abbattere le baracche costringendo i loro
abitanti a spostarsi non risolve il problema, ma lo trasferisce semplicemente in un altro luogo.

LE POLITICHE URBANE E L’URBANISTICA


Le città non possono funzionare senza qualche forma di organizzazione collettiva che le governi, ne
controlli e ne indirizzi gli sviluppi, affronti i problemi… La geografia delle città dipende anche dalle
politiche urbane. In senso moderno esse nascono nel XIX secolo con i primi interventi urbanistici,
che cercano di porre rimedio alle condizioni disumane venutesi a creare nelle prime
agglomerazioni industriali.

L’urbanistica è la regolazione dello sviluppo spaziale e fisico delle città, nasce ispirandosi a due
orientamenti politici: quello riformista umanitario che vuole garantire condizioni abitative decenti
ai meno abbienti e quello igienico sanitario, che ha come obiettivo primario l’eliminazione delle
condizioni antigieniche capaci di generare epidemie che minacciano l’intera popolazione.
Se fino agli anni ’70 l’urbanistica si presentava come una tecnica della pianificazione razionale degli
spazi urbani, ora l’obiettivo principale diventa lo sviluppo economico in un’area, che le autorità
pubbliche devono favorire e sostenere. Lo strumento per l’applicazione di tali scopi è la
pianificazione strategica.

Altra direzione hanno invece i progetti di rigenerazione urbana che consistono in azioni e
interventi che hanno per oggetto parti della città caratterizzate da situazioni di degrado fisico e
sociale, allo scopo di migliorare le condizioni degli edifici e del contesto urbano, talvolta a
vantaggio dei vecchi abitanti o talvolta sostituendoli con nuovi residenti.

LE SMART CITY
L’espressione smart city si riferisce alle città che mirano a realizzare, grazie all’impegno di
tecnologie avanzate nel campo della comunicazione digitale, una serie di obiettivi di sostenibilità
ambientale, sociale ed economica tra loro connessi in modo da migliorare l’efficienza e la qualità
della vita.
Il primo passo per legare l’uso di internet al territorio urbano fu la creazione delle prime “reti
civiche” che offrivano online ogni tipo di informazione utile ai cittadini e molti servizi pubblici. Esse
si sono poi diffuse formando la base di quelle che furono chiamate città digitali.
L’idea di base della smart city è di integrare le città digitali nella concreta materialità dello spazio
urbano.

I PAESAGGI DEL POTERE CENTRALI, IL SITO


Per sito di una città si intende il luogo geografico in cui la città si è sviluppata. Dal sito di una città
interessano soprattutto le caratteristiche naturali: geomorfologiche, idrologiche, climatiche e
biogeografiche (flora, fauna).
Le caratteristiche del sito contribuiscono a formare il paesaggio urbano assieme ai vari componenti
della città opera dell’uomo, abitazioni, vie e mezzi di comunicazione, infrastrutture ecc., e ai
cittadini stessi.

LA CITTÀ COME ECOSISTEMA


La città può essere considerata come un ecosistema perché, come ogni essere vivente, assorbe
all’interno gas, acqua e vari materiali che poi vengono metabolizzati fino a diventare rifiuti. A
differenza della maggioranza degli ecosistemi naturali, l’ecosistema urbano è caratterizzato da un
costante squilibrio energetico con l’ambiente esterno. Dalle origini delle città fino alla fine del XVIII
secolo il cibo rappresentò, assieme alla legna da ardere, il principale flusso energetico in entrata
della città, in quantità limitate dalle possibilità di trasporto, maggiori soltanto nelle città marittime
e fluviali. Oggi la città si può approvvigionare di cibo in tutto il mondo, quindi aumentare la sua
popolazione e le sue attività. Il consumo di energia e di materiali comporta la produzione di rifiuti
di emissioni inquinanti che, se non smaltiti, porterebbero al blocco dell’ecosistema urbano.
Esso deve perciò sempre più organizzarsi per smaltirli e riciclarli e ciò richiede altri afflussi di
energia dall’esterno. L’indicatore utile per sapere in che misura ogni città si adatta a questo tipo di
sviluppo è quello dell’impronta ecologica urbana, un indice statistico che dà la misura di quanta
superficie in termini di terra e acqua la popolazione urbana necessita per produrre le risorse che
consuma e per assorbire i rifiuti prodotti.
I sistemi per ridurre l’impronta ecologica delle città sono molti e diversi tra di loro. In primo luogo,
si possono ridurre i consumi di energia con interventi sulla compattazione dell’edificato, sul
traffico automobilistico, sull’efficienza energetica degli impianti di riscaldamento ecc. Si può anche
intervenire sulle emissioni riducendo, riciclando e trattando quelle di materiali non biodegradabili
(plastica, detersivi ecc.), quelle di gas inquinanti e di anidride carbonica.
Una riduzione dell’impronta ecologica si ottiene anche con pratiche quali l’agricoltura urbana che
si va diffondendo anche nei paesi ricchi con la moltiplicazione degli orti urbani che producono
ortaggi e fruttiferi.
Il problema ambientale esiste nelle città fin dall’antichità. Pur essendo migliorata, la situazione
odierna delle città dei paesi ricchi presenta ancora delle criticità. Secondo il rapporto
Environmental sustenaibility, performances of EU cities, la speranza di vita media dei bambini nati
nel 2002, che vivono nell’UE, è di 79 anni per le donne e 73 per gli uomini. Tale differenza varia di
paese in paese.
CAPITOLO 11 – GEOGRAFIA POLITICA
| I CONCETTI CHIAVE DELLA GEOGRAFIA POLITICA
Il termine politica deriva dal greco politikè e dal concetto di polis, ovvero la città-stato.
Tutta la geografia umana è geografia politica, poiché c’è una stretta connessione tra il concetto di
politica e la condizione dell’uomo come animale politico.
La geografia politica è quella branca della geografia umana che studia le relazioni spaziali
connesse all’esercizio del potere esercitato su territori, popolazioni e risorse, su scala nazionale e
internazionale. È la branca della geografia che studia le relazioni di potere nello spazio geografico,
con particolare riguardo agli enti istituzionali che esercitano un controllo su territori, popolazioni e
risorse.
Il potere è la relazione di dominio di soggetti individuali o collettivi, pubblici o privati su altri
soggetti; il potere, secondo le teorie oggi più accreditate, è presente in ogni relazione tra soggetti.
Abbiamo visto che esistono le relazioni di potere tra l’economia globale e le culture, tra le diverse
culture e i generi, oppure per quanto riguarda le migrazioni, le lingue, le religioni, ecc…
I termini nazionale ed internazionale contengono il concetto di nazione che però si riferirà a Stato
soltanto quando si affermerà il sistema di produzione capitalistico.

TERRITORIALITÀ E SOVRANITÀ
Nella geografia politica sono basilari i concetti di territorialità e di sovranità, l’autorità completa
ed esclusiva di uno Stato sul suo territorio, sui suoi cittadini e sui propri affari interni. Dei rapporti
di territorialità abbiamo definito il territorio come uno spazio di interazioni di due tipi: quelle
rivolte a escludere gli altri dall’occupazione e dall’uso del nostro territorio (territorialità negativa o
passiva) e quelle rivolte a competere e cooperare per il miglior uso di esso (territorialità positiva o
attiva). Queste due facce della territorialità fanno parte di un unico problema che i gruppi umani
hanno: quello di ottenere dal territorio i mezzi per vivere e per essere autonomi.
La sovranità viene esercitata da ogni Stato all’interno dei confini del proprio territorio, anche se ciò
vale solo sul piano formale, perché di fatto esistono stati più forti, in grado di imporre i loro
interessi e il loro controllo a stati più deboli. Per esempio gli USA esercitano un certo controllo su
alcuni stati dell’America centrale, la Cina sul Mianmar, la Russia sugli stati caucasici, ecc.. Inoltre,
negli ultimi decenni si è anche affermato il principio che organizzazioni sovranazionali possano
intervenire a limitare la sovranità di quegli stati che violano gravemente i diritti umani o che
minacciano gli interessi generali dell’organizzazione. Così, ad esempio, si sono avuti gli interventi
militari della NATO negli Stati della ex-Iugoslavia, in Iraq, Afghanistan e in Libia.
In altri casi si impongono misure meno coercitive, come l’embargo, cioè il divieto di avere rapporti
commerciali con lo stato che si vuole condizionare o punire.
La sovranità dello stato si esercita nei riguardi dei propri cittadini, attraverso i poteri di governo
(legislativo, esecutivo, giudiziario), o nei confronti di altri Stati. A tal fine lo stato usa mezzi sia
pacifici (negoziazione, persuasione, ecc..) sia violenti. Si usa dire infatti che lo stato ha il monopolio
dell’esercizio della violenza; nei rapporti nazionali si va da una violenza potenziale che si esprime
come semplice minaccia, fino alla guerra. Lo stato sovrano è un concetto espresso da Thomas
Hobbes nel 1651 nel Leviatano. Il riconoscimento tra Stati della rispettiva sovranità a quei tempi
non esisteva, ma nacque quando si costituì lo jus publicum europaeum (diritto pubblico europeo),
teoria del giurista e filosofo Carl Schmitt. Questa teoria matura al termine della Guerra dei
Trent'anni, con il trattato di Westfalia (1648) che per la prima volta presenta una dichiarazione del
potere allegato al territorio e crea relazioni diplomatiche esterne che dovrebbero governare la
guerra e la pace. Leviatano è un mostro Biblico con un potere enorme, che Hobbes prende come
organismo modello innanzitutto perché deve avere un potere simbolico forte.

LO STATO
Nel lessico comune il termine paese è spesso sinonimo di Stato, anche se quest’ultimo esprime il
concetto in modo più formale. Lo stato è un’unità politica riconosciuta internazionalmente,
caratterizzata da una popolazione stabile, confini definiti e un governo con la completa sovranità
sul territorio, sugli affari interni e le relazioni internazionali. Lo stato è un’istituzione politica che
stato esiste nel momento in cui:
• possiede e controlla un territorio delimitato da confini definiti e riconosciuti dagli altri Stati;
• sul territorio risiede stabilmente una popolazione che si riconosce nelle leggi e nel governo
dello Stato;
• la sua esistenza viene riconosciuta da altri stati.
• ha un governo che si occupa degli affari interni e delle relazioni internazionali.
La sovranità costituisce un elemento fondamentale dell’esistenza di uno stato, e spesso è oggetto
di dispute territoriali. È interessante il caso di Taiwan, oggetto di una contesa territoriale
cominciata negli anni ’40 del secolo scorso, in seguito ad una guerra civile scoppiata in Cina tra
comunisti e nazionalisti, che portò alla nascita della Repubblica Popolare Cinesi. Taiwan non si è
mai dichiarata indipendente dal governo cinese, ma ha sviluppato un sistema politico ed
economico liberista. Il governo comunista cinese rivendica la propria sovranità su Taiwan e
considera l’isola la 23esima provincia della Cina, anche se di fatto non la controlla politicamente.
Questo dimostra quanto sia difficile rispondere alla domanda: ‘’quanti stati esistono al mondo?’’.

STATO E NAZIONE
Le persone che vivono all’interno dei loro confini condividono il senso di appartenenza ad una
nazione, spesso frutto di un insieme di circostanze storiche, culturali, economiche e politiche.
L’identità della nazione palestinese, ad esempio, è stata senza dubbio rafforzata dalla lunga lotta
per l’indipendenza e il riconoscimento. Anche se i termini di stato e nazione vengono
comunemente accostati, i geografi politici sono molto attenti a definire le differenze tra i due
concetti, riassumibili nel fatto che ‘’nazione’’ si riferisce ad un popolo, mentre ‘’stato’’ si riferisce
ad un’entità politica giuridicamente riconosciuta.
nazione → è la popolazione accumunata da origini, tradizione storica, lingua, religione, costumi e
dall’attaccamento allo stesso territorio;
stato → si riferisce a un’entità politica giuridicamente riconosciuta.
Di conseguenza Il nazionalismo è l’espressione dell’orgoglio di appartenenza e della lealtà nei
confronti di una nazione, mentre il patriottismo rappresenta l’amore e la devozione verso il
proprio stato.
In seguito alla nascita dello Stato territoriale Moderno nasce la Nazione, grazie all’invenzione di
simboli come la bandiera, l’inno nazionale, ricorrenze, riti significativi (es. il giorno della Festa della
Repubblica). La nascita della Nazione è stata possibile anche grazie all’obbligatorietà della
formazione scolastica, perché è attraverso questa che una Nazione, un popolo, riesce a formarsi.
Si insegna la storia, la geografia, la lingua (le minoranze della popolazione devono adeguarsi a
questo insegnamento almeno che non sia presente un bilinguismo o un dominio coloniale che non
impone una lingua ufficiale).
Oggi con la globalizzazione è come se ci fosse una sorta di perdita dell’identità; infatti, non a caso
con il crollo del Muro di Berlino e del cosiddetto bipolarismo c’è stata una spinta egemonica degli
Stati Uniti. Dall’altro lato però, la caduta del Muro di Berlino è stata una spinta, una rivendicazione
delle piccole e grandi Nazioni (es. ex Jugoslavia si è divisa in tanti stati, che in passato erano stati
messi tutti insieme in modo forzato durante la fase post-guerra mondiale).

La maggior parte degli stati del mondo sono stati multinazionali, cioè con una popolazione
appartenente a due o più nazioni (es— Svizzera, Belgio, Regno Unito, Spagna, Brasile, Canada).
Si parla invece di Stato-nazione quando i confini dell’entità statale coincidono con quelli di una
nazione, il cui popolo condivide un senso di unità politica. È il caso dell’Islanda, dove gli islandesi
sono il 94% della popolazione, o in Giappone, la cui quasi totalità degli abitanti (99%) si riconosce
nella nazione giapponese. Nel mondo però sono pochissimi gli Stati che possono essere ricondotti
ad una definizione di stato-nazione così precisa, anche se la maggior parte fdi essi presenta
comunque una certa identità nazionale unitaria, grazie all’integrazione sociale, economica e
politica dei suoi cittadini, anche se appartenenti a nazioni diverse. E’ il caso dell’Italia, dove gruppi
che parlano lingue minoritarie convivono con la maggioranza, che parla italiano.
Alcuni stati multinazionali, per vari motivi politici, economici e sociali, non sono stati in grado di
creare le condizioni per una vera integrazione delle nazioni e si sono disgregati, come è accaduto
negli anni 90 all’Unione sovietica, alla Jugoslavia e alla Cecoslovacchia. Il crollo di questi tre stati ha
generato la nascita, dal 1991 a oggi, di ben 24 nuove entità statali, 15 delle quali solo nell’ex
Unione Sovietica, il cui territorio oggi è occupato per la maggior parte dal nuovo stato russo.
Al contrario, esistono nazioni senza Stato, come quella Curda, il cui territorio, detto Kurdistan, è
diviso tra Iraq, Iran, Turchia, Siria, con qualche piccola enclave in Armenia.
L’IMPERIALISMO E IL COLONIALISMO — sono processi legati l’uno all’altro (ma non sono la stessa
cosa), che hanno contribuito alla nascita di molti Stati multinazionali, soprattutto a causa
dell’incontro forzato tra gruppi nazionali diversi. Molti stati hanno usato l’imperialismo e il
colonialismo come strategie per espandere il proprio potere su terre e popoli lontani.
imperialismo → è il controllo diretto o indiretto esercitato da uno stato nei confronti di un altro
stato o di un’altra entità politica territoriale;
colonialismo → è una forma di imperialismo in cui lo stato dominante prende possesso di un
territorio straniero, occupandolo e governandolo direttamente.
Questo fenomeno iniziò a diffondersi a partire dal XV secolo, quando i portoghesi diedero inizio
alle prime spedizioni lungo le coste africane e poi, insieme agli spagnoli, occuparono il territorio
americano. Queste prime conquiste stimolarono l’Olanda, la Francia e il Belgio a imitarli. Questo
processo portò alla fondazione di colonie europee in Africa, nell’Asia e nelle Americhe. La
conferenza di Berlino (1884-1885) diede inizio al processo che portò alla definizione formale dei
moderni confini politici degli stati del continente africano, imponendo dei confini netti che però
non tenevano conto della distribuzione dei diversi gruppi etnici che vivevano in quelle terre.
Dopo la Seconda guerra mondiale, i popoli della maggior parte delle colonie si sollevarono e
lottarono per ottenere indipendenza e autodeterminazione, ovvero la possibilità di scegliere
autonomamente il proprio status politico. In gran parte del mondo il colonialismo venne
considerato superato e molte colonie si liberarono dal dominio europeo, in particolare in Africa,
dove tra il 1960 e il 1970 nacquero ben 32 nuovi Stati indipendenti.
Le colonie che rimangono oggi nel mondo sono inevitabilmente posti strategici anche dal punto di
vista geopolitico, soprattutto quella di Guantanamo in cui vengono deportati i detenuti considerati
avversi alla cultura occidentale, come ad esempio i terroristi artefici dell’attentato alle torri
gemelle, vengono portati in questo carcere di massima sicurezza in cui vengono esercitate delle
condizioni disumane di tortura molto acute. Hanno anche delle funzioni geopolitiche di altra
natura: possono essere dei punti di appoggio per gli armamenti. Inoltre, alcune di queste
diventano dei paradisi fiscali, cioè dei posti dove si pratica una serie di strategie economiche.

| LE CARATTERISTICHE GEOGRAFICHE DEGLI STATI


Il concetto di confine si afferma nel corso della seconda parte dell’Età Moderna. Di fatto durante
tutta l’antichità c’era quella che Russell definisce frontiera.
L’idea del confine “lineare’’ si afferma solamente con l’affermazione di un'idea di Stato Nazionale e
con la specializzazione della cartografia: durante il ‘600 il Ministro delle finanze Colbert del Re
Sole, fonda l’Accademia delle Scienze a Parigi e chiama a corte un italiano, Giandomenico Cassini,
un grande studioso dell’università di Bologna e a cui viene chiesto il rilevamento topografico. Per
terminare la costituzione della carta geografica della Francia ci sono volute ben tre generazioni, e
sarà il nipote Cesare Francesco Cassini a consegnare la definitiva carta topografica. È la prima volta
che un paese presenta una carta così dettagliata del suo territorio. A mano a mano gli altri Stati
Europei cercheranno di avere una propria carta topografica.
Ogni Stato è costituito da un territorio ben definito, i cui limiti sono rappresentati da almeno un
confine. Un confine, solitamente rappresentato sulle carte come una linea, definisce il territorio di
uno Stato. Esso può svilupparsi sia su un piano orizzontale che verticale (spazio aereo, sottosuolo
e acque territoriali circostanti). I confini degli Stati che si affacciano sul mare non coincidono con la
linea di costa, bensì vengono tracciati al largo, per dividere le acque territoriali di uno Stato,
considerate a tutti gli effetti parte del suo territorio, da quelle internazionali accessibili a tutti, ad
una distanza dalla terraferma che raramente supera i 19 km. Quando il confine tra due Stati non
viene segnalato attraverso strutture fisiche, è probabile che si tratti di un confine conteso (es. area
del Punjab tra Pakistan e India, o come il caso della frontiera tra India e Cina), oppure che corra in
una zona molto poco popolata o poco accessibile, come il confine tra Cile e Argentina, lungo il
crinale più elevata della cordigliera delle Ande.
Oltre a definire formalmente i possedimenti territoriali di ciascuno stato, i confini contribuiscono a
circoscrivere il loro contenuto, in termini di popolazioni, risorse e territorio.
confini fisiografici — quando il confine tra due stati coincide con una catena montuosa, come le
Alpi, solitamente esso segue la cresta della catena, ovvero la linea che congiunge le cime più
elevate. Nel caso dei fiumi (ad esempio il Danubio che segna il confine tra Romania e Bulgaria),
invece, il confine può correre lungo una delle due rive, lungo una linea immaginaria posta a metà
del fiume oppure seguendo il percorso della sezione più profonda del suo letto. La parte critica di
un confine naturale è, nel caso delle montagne, l’erosione; di conseguenza i confini vengono
deformati e vengono modificate le strutture geomorfologiche. Lo stesso accade per i fiumi che,
durante il tragitto, lasciano dei sedimenti e cambiano forma. Questi mutamenti hanno portato
anche a dei conflitti interstatali. Dunque, i confini fisiografici ci proiettano nella logica in cui si
accetta che tutto si muove e cambia, con tempi e dinamiche differenti, e che quindi i confini non
sono immutabili.
confini geometrici — sono definiti tali quelli tracciati lungo linee rette che spesso seguono il
percorso dei meridiani o dei paralleli, come nel caso degli Stati Uniti e Canada a ovest dei Grandi
Laghi.
confini etnografici — vengono tracciati a partire da uno o più tratti culturali, come la religione, la
lingua o l’etnia. Ad es. nelle varie regioni che compongono la Spagna ci sono delle condizioni
etniche di base comuni, ma hanno delle differenze linguistiche e culturali. In Asia meridionale, il
confine tra India e Pakistan venne sancito su basi etnografiche, per separare il più possibile gli
induisti dai musulmani. Mentre in Europa sono molto diffusi i confini linguistici come quelli tra
Spagna e Portogallo o tra Bulgaria e Grecia. Non è il cado dell’Italia dove il confine statale alpino si
allontana da quello linguistico in alcuni casi, come la Valle d’Aosta per quanto riguarda la lingua
francese, la provincia di Bolzano per quanto riguarda il tedesco e ladino, il Cantone svizzero Ticino
dove si parla l’italiano come al di qua del confine.
confini relitti — le tracce di un’antica linea di separazione di due entità territoriali, oggi non più
riconosciuta ufficialmente, a causa di un’evoluzione delle divisioni politiche territoriali in una certa
area. Uno degli esempi più noti è la Grande Muraglia Cinese, che serviva per distinguere la
Mongolia e la Cina.
In alcuni casi la demarcazione fisica di un confine può dare vita a un paesaggio della sicurezza
creato per proteggere il territorio e la popolazione e controllato da telecamere e metal-detector,
per prevenire gli attacchi o l'immigrazione irregolare.
Al giorno d’oggi si sta creando un mondo di muri: tra USA e Messico dove Trump voleva ergere il
muro più alto possibile; in Brasile è stato fatto con tutti gli altri Stati confinanti, in particolare con
la Bolivia e il Paraguay.
Il principio di autodeterminazione dei popoli sancisce l’obbligo di consentire ad un popolo
sottoposto a dominazione, che diventi autonomo e abbia il diritto di auto-organizzare il proprio
sistema politico e sociale; quindi, che abbia il diritto di sganciarsi dal potere coloniale di un altro
paese che lo domina. L’obiettivo è ottenere l’indipendenza, associarsi o integrarsi ad un altro stato
o poter scegliere autonomamente il proprio regime politico.
La cittadinanza è una condizione della persona fisica alla quale l’ordinamento di uno stato
riconosce la pienezza dei diritti civili e politici. La cittadinanza può quindi essere vista come uno
status del cittadino, ma anche come un rapporto giuridico tra cittadino e stato. In Italia, quando si
diventa maggiorenni e non si è figli di immigrati, si hanno dei rapporti di dovere oltre che di diritti.
Ma il problema è di quelli che non vengono considerati cittadini. Intanto ci sono due condizioni
distinte: la cittadinanza de jure (giuridica) e de facto. La cittadinanza de jure cambia a seconda
dell’ordinamento e dei paesi. Secondo la legge italiana hanno la cittadinanza: chi è nato da genitori
italiani secondo lo ius sanguinis cioè il diritto di appartenenza di sangue; l’altra forma di diritto è lo
ius soli cioè per chi arriva in un paese allora diventa cittadino di quel paese (praticato dalla
Germania). La cittadinanza de facto è quella dei migranti ai quali non viene riconosciuto nessun
diritto dal punto di vista della vita politica. Anche quelli che lavorano legalmente e che quindi
portano ricchezza al nostro paese (alcuni sono diventati imprenditori), non hanno alcun diritto
politico e quindi non possono votare.

ESTENSIONE E FORMA DEGLI STATI


Gli stati del mondo sono caratterizzati da una grande varietà di forme e dimensioni. Il più piccolo
stato del mondo è la Città del Vaticano, che si estende per soli 44 ettari, all’interno della città di
Roma, inserendosi a pieno titolo nella categoria dei microstati. Al contrario, l’entità statale più
grande è la Russia, che si estende su una superficie di 17 milioni di kmq, pari a più di una volta e
mezza quella degli USA e a 57 volte l’Italia. L’Antartide è la sola terra emersa che, non essendo
stata abitata in modo permanente prima degli ultimi decenni, non appartiene a nessuno Stato,
anche se molti paesi rivendicano la propria sovranità su alcune parti del suo territorio.
In base alla propria forma gli stati possono essere classificati come compatti (grossomodo
circolare, es. Macedonia), allungati (lunga e stretta, es. Cile), articolati (con una o più proiezioni
verso l’esterno, es. Nambia), frammentati (divisa in due o più parti, es. Filippine) o perforati
(interrotta o penetrata da parte del territorio di un altro Stato). La frammentazione di uno stato
può generare delle enclave o delle exclave: enclave — è un territorio completamente circondato
da uno Stato, ma non controllato da esso (es. Città del Vaticano, o come il Lesotho, che ‘’perfora’’
il territorio del Sudafrica);
exclave — è un territorio separato dallo Stato al quale appartiene da uno o più altri Stati. L’Alaska
può essere considerato un’exclave degli USA, sai quali è separata dal territorio canadese.
Mentre in Europa la stretta penisola di Gibilterra, un’exclave britannica auto-governata nel sud
della Spagna, può essere considerata una semi-enclave rispetto alla Spagna, poiché i suoi confini
sono in buona parte marittimi. L’Italia è ad esempio in parte uno Stato allungato ma viene anche
detto “perforato’’ perché al suo interno ha le cosiddette “enclave’’, infatti c’è un’area territoriale
che appartiene ad un altro Stato, come la Città del Vaticano e San Marino.
La forma e la dimensione geografica degli Stati ha particolare rilevanza quando si tratta della loro
coesione territoriale, specie per quanto riguarda i trasporti e la logistica. Ad esempio, in Europa e
in Stati come la Germania, la Francia, la Spagna e l’Ungheria è più facile e meno costoso collegare
tutte le città e le regioni con la rete dei trasporti terrestri e il web a banda larga. Al contrario i
trasporti terrestri di stati come l’Italia e la Norvegia sono ostacolati dalla loro forma allungata, dal
frazionamento insulare e del rilievo. In compenso, trattandosi di stati costieri, hanno più facilità di
comunicare via mare, come avviene appunto in Norvegia.
La spazialità degli stati: geografi politici hanno posto il focus sulla forma geografica degli stati:
forma – compatta (Francia), allungata (Cile), articolata (UK), frammentata (Filippine), perforata
(Italia, in cui sono compresenti altri due stati: enclave (all’interno) ed exclave (territorio esterno).
Superficie – caratteristiche fisiche e orografiche. Confini.
FORZE CENTRIPETE E FORZE CENTRIFUGHE
Tanto gli stati federali, quanto quelli unitari, devono confrontarsi con forze che possono mettere in
discussione il loro assetto unitario e che si possono dividere in centripete (coesive) e centrifughe
(disgregatrici).
forza centripeta — un evento o una circostanza che contribuisce a rafforzare il sentimento
unitario e quindi la coesione, della popolazione di uno Stato (es. crollo Torri gemelli, sentimento
dolore condiviso);
forza centrifuga — si intende un evento o una circostanza che contribuisce ad indebolire il
sentimento unitario della popolazione di uno Stato e può portare alla sua disgregazione (es. lega
nord rivendica una secessione della Padania).
Le forze centrifughe intervengono quando dei gruppi in conflitto percepiscono un trattamento
discriminatorio dei propri interessi economici. Lo stesso quando lo stato centrale non riconosce le
aspirazioni autonomiste o indipendentiste di nazionalità che non si riconoscono in esso.
Gli stati cambiano nel corso del tempo e con essi le forze centripete e centrifughe. La stabilità di
uno stato dipende da quanto esso riesca a gestire queste forze che mettono in discussione la sua
unità e che sono presenti in tutti gli stati, compresi quelli apparentemente più stabili.
Una di queste forze è rappresentata dal separatismo — è la tendenza di una nazione di staccarsi
dallo Stato al quale appartiene, seguendo il proprio senso di identità e di diversità dagli altri gruppi
che popolano lo stesso Stato, per avere maggiore autonomia e auto-governo (es. Veneto vuole
staccarsi dall’Italia). Il separatismo può essere evitato assecondando l’aspirazione a una maggiore
autonomia o all’auto governo regionale, che si ha quando lo Stato trasferisce una parte dei propri
poteri ad una comunità o un territorio presenti al proprio interno, attuando un processo di
decentramento.

LE DIVISIONI TERRITORIALI INTERNE, CENTRALISMO, FEDERALISMO, SUSSIDIARIETÀ


La maggior parto degli Stati à a sua volta suddivisa internamente, dal punto di vista politico-
amministrativo, in torcitori più piccoli chiamati, a seconda dei casi, Stati (come negli USA o in
Brasile), regioni, Länder (in Germania), province, distretti, contee, prefetture (in Giappone), oblast
(in Russia), dipartimenti (in Francia), territori (in Australia e in Canada), cantoni (in Svizzera), ecc.
Questi a loro volta possono dividersi in circoscrizioni minori, fin alle singole municipalità, Ad
esempio la Costituzione italiana prevede una divisione su tre livelli inferiori a quello statale:
regioni, province, città metropolitane e comuni. I rapporti tra il governo centrale e le sue
suddivisioni territoriali interne variano notevolmente da Stato a Stato, a seconda dei gradi di
autonomia che le varie costituzioni assegnano alle divisioni interne. A grandi linee si hanno nel
mondo due sistemi di governo prevalenti: quello federale e quello centralista. Nei sistemi federali,
lo Stato delega parte del proprio potere alle entità politico-amministrative di scala sub-nazionale,
Esse hanno organi elettivi che possono darsi proprie leggi, faro piani e attuare politiche in ambiti
definiti, di regola, dalla Costituzione dello Stato, cioè dalla legge su cui si fonda tutto l'ordinamento
dello Stato stesso. Il riconoscimento delle autonomie alle comunità territoriali delle scale inferiori
risponde al principio di sussidiarietà, secondo cui se un ente sotto-ordinato (per es. un comune) è
in grado di svolgere certe funzioni, l'ente sovra-ordinato (per es, la regione) deve lasciargli questi
compiti.
Nei sistemi centralisti, al contrario, il potere è concentrato esclusivamente nelle mani del governo
nazionale, che si occupa della produzione e dell'applicazione delle leggi e delle politiche in ogni
parte del territorio, lasciando alle autorità locali competenze puramente amministrative. Tra gli
Stati tendenzialmente centralisti troviamo molti Stati europei, tra i quali soprattutto la Francia.
Sono invece federalisti la Germania, l'Austria, la Svizzera e la Russia. L'Italia è uno Stato che da
centralista, com'era ai tempi dell'Unità, si è andato spostando gradualmente verso il modello
federale.
La questione più importante è quella degli stati: unitario, federale e regionale.
Possiamo avere un tipo di stato assoluto con un potere assoluto; uno stato di tipo liberale che
non è uno stato propriamente libero, ma conosce i valori liberali (principio della libertà
individuale); uno stato democratico nel quale i poteri sono divisi; uno stato di tipo totalitario, che
accentra in sé i poteri di controllo poco democratici.
Le forme di governo sono: la Monarchia costituzionale in cui c’è un parlamento che decide
insieme alla regina; la Monarchia parlamentare che può essere monista o dualista; la Repubblica
parlamentale (Italia); la Repubblica presidenziale (USA) in cui il capo del governo è anche
presidente della repubblica; le Repubbliche semipresidenziali (Francia); e poi ci sono anche forme
di governo direttoriali.

ART 5
“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che
dipendono dallo stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi
della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.”
A differenza degli stati centrali regionali, gli stati che compongono lo stato federale sono detti stati
federati; i loro capi sono detti governatori che hanno un vero potere interno al loro stato come se
fossero dei presidenti. Il presidente degli Stati Uniti è uno solo, i rapporti internazionali sono gestiti
dallo Stato federale, mentre i rapporti militari sono gestiti dagli stati federati, ma dipende se
riguarda una questione interna o esterna tant’è che negli Stati Uniti ci sono due polizie: quella
nazionale e quella federale. Quando un crimine coinvolge più stati interviene l’FBI, quindi la polizia
interna deve cedere il posto alla polizia federale perché ha un potere maggiore e poi ha il controllo
interno politico (CIA).

LA GEOGRAFIA ELETTORALE
La geografia elettorale studia gli aspetti spaziali dei sistemi elettorali, le caratteristiche della
divisione del territorio in distretti elettorali e le variazioni spaziali del voto. Nei sistemi
maggioritari, quelli nei quali in ogni circoscrizione viene eletto un solo candidato, i distretti
elettorali, per assicurare una giusta rappresentanza, devono avere più o meno la stessa
popolazione e questo rende necessario a volte ridefinire i confini, seguendo i cambiamenti
demografici, ma il ritaglio delle circoscrizioni elettorali è comunque importante anche nei sistemi
proporzionali e misti per garantire un identico trattamento di tutti i partiti politici e delle
minoranze etniche e religiose.
Fa parte della geografia elettorale anche lo studio della distribuzione spaziale del voto tra i diversi
partiti politici. Di regola tale distribuzione non è casuale, In quanto le preferenze per i vari partiti
tendono ad aggregarsi per grandi aree regionali o macro-regionali. Ciò significa che c'è una
correlazione tra il voto politico e le caratteristiche dei contesti regionali, Queste possono
riguardare le attività prevalenti (industria, agricoltura, commercio, turismo ecc.), i cui interessi
possono essere più o meno sostenuti dai diversi partiti politici. Possono pesare anche tradizioni
storiche dovute a fattori religiosi, etnico-culturali e ideologici che storicamente orientano
l'elettorato verso certe scelte politiche piuttosto che altre, Possono esserci infine forti differenze di
sviluppo economico tra regioni ricche e povere, che por- tano alla formazione di partiti regionali.

L’Italia non è un vero e proprio stato federale e nemmeno centralizzato, ma per lo più una forma
intermedia chiamata Stato regionale perché si riconosce che lo Stato è unitario e uniforme e
l’interesse principale è quello di far prevalere l’interesse collettivo nazionale su quello locale e
individuale e per questo i poteri sono uguali in ogni regione, ma si riconosce
anche una maggiore autonomia, in particolare alle regioni a statuto speciale quali: Trentino-Alto
Adige, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia. In queste regioni, infatti, dopo la
Seconda Guerra Mondiale c’era una spinta autonomistica molto forte e dei movimenti locali molto
rilevanti.

RE-SCALING significa “rimodulazione delle scale” e fu introdotto da Neil Brenner nel 1999. Esso
consiste nella riorganizzazione, riarticolazione e ridefinizione delle scale territoriali. Tutti gli stati
del mondo hanno una suddivisione interna per poter governare i rapporti tra centro e periferie o
realtà locali, perché è del tutto evidente che sono i governi locali quelli ad essere più vicini alla
cittadinanza, e anche perché ogni contesto territoriale ha le proprie esigenze. In alcuni casi ci sono
troppi livelli politico-amministrativi che possono portare anche a dei conflitti di competenze, dei
costi elevati e un problema nell’erogazione dei fondi. Per questo il re-scaling è fortemente
sollecitato dall’Unione Europea.

| LE ISTITUZIONI INTERNAZIONALI E SOVRANAZIONALI


Anche se il separatismo è una forza potenzialmente destabilizzante, i suoi effetti sono in un certo
senso contrastati dalla diffusione dell'internazionalismo, lo sviluppo di strette relazioni politiche ed
economiche tra Stati, il cui esempio più chiaro è rappresentato dalle sempre più numerose
istituzioni politiche sovranaziona-li. Un’organizzazione (o istituzione) sovranazionale consiste
nell’unione di più Stati che decidono di lavorare insieme per raggiungere specifici obiettivi
economici, militari, culturali o politici.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), è un’istituzione sovranazionale che promuove la pace
e la sicurerzza globali, fu istituita nel 1945 e preceduta dalla Società delle Nazioni, che aveva come
scopo quello di accrescere il bene e la qualità della vita umana, e di prevenire le guerre. Tuttavia,
questa fu poi sostituita dall’ONU perché considerata non efficace, dato che scoppiò la Seconda
Guerra Mondiale. Ad oggi fanno parte dell’ONU 193 paesi più lo stato del Vaticano e la Palestina,
ma quest’ultima non viene riconosciuta come un vero e proprio Stato. Non ne fanno parte Stati
non ancora da tutti riconosciuti come il Kosovo, Taiwan o lo Stato della Palestina.
Lo scopo di tale organizzazione prevede:
• il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale;
• la promozione di soluzioni per le controversie internazionali;
• lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni;
• la promozione di cooperazione economica e sociale;
• la promozione di rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali;
• la promozione del disarmo e della disciplina degli armamenti;
• la promozione del rispetto per il diritto internazionale.
La sede principale dell’ONU si trova a New York, mentre in diverse parti del mondo si localizzano le
sue agenzie specializzate, come l’Organizzazione mondiale della Sanità con sede a Ginevra o la
Food and Agriculture Organization a Roma. i suoi organi principali: il Consiglio di Sicurezza,
l'Assemblea Generale e la Corte di Giustizia Internazionale. Quest’ultima si occupa delle dispute
legali internazionali. L’Assemblea Generale invece, composta da tutti gli Stati membri dell’ONU, ne
controlla gli aspetti economici e supervisiona le attività di tutte le altre branche
dell’organizzazione. Il lavoro quotidiano di mantenimento della pace e della sicurezza
internazionali è appannaggio del Consiglio di Sicurezza, che, a seconda dei casi, può proporre delle
sanzioni contro un paese o ordinare l’invio di truppe di peacekeeping in un’area calda del mondo.
Perché le raccomandazioni del Consiglio di Sicurezza vengano approvate devono esserci nove voti
favorevoli da parte dei membri non permanenti e il consenso unanime dei membri permanenti del
consiglio; Nol 2003, ad esempio, gli Usa e il Regno Unito cercarono invano il supporto dell'ONU per
l'invasione dell'Iraq, finalizzata al rovesciamento della dittatura di Saddam Hussein, a causa del
veto di Cina, Francia e Russia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

La NATO è l’organizzazione delle forze armate, ed è quella sicuramente più rivelante nel mondo.
Le caratteristiche della NATO sono di condividere alcune forniture militari e di consentire agli Stati
Uniti di poter creare delle basi all’interno dei vari paesi che appartengono all’organizzazione, delle
loro basi militari.
Il Consiglio d’Europa, che dal 1949 opera per lo sviluppo della democrazia e per la tutela dei diritti
umani, che vengono poi difesi dalla corte europea di giustizia e della salvaguardia dei diritti
dell’uomo. Per cui, quando ci sono delle violazioni di questo genere, c’è da appellarsi e denunciare
al Consiglio d’Europa.
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico), che ha come obiettivo
principale quello di favorire una crescita equilibrata dal punto di vista economico nei paesi
membri. Nell’OCSE rientrano una serie di paesi che non sono solo quelli nord americani, europei,
ma stanno acquisendo sempre più membri perché è una cooperazione basata sulla collaborazione
di tipo economico;
La Corte Penale Internazionale, che è quella che dirime i contenziosi penali su scala
sovranazionale.

Infine, c’è l’Unione Europea. Mentre le Nazioni Unite sono un'organizzazione sovra-nazionale, che
agisce a scala globale sui temi della sicurezza e del benessere internazionali, l'operato dell'Unione
Europea (UE) si sviluppa a scala regionale, con l'obiettivo di favorire la cooperazione economica e
la coesione territoriale e sociale tra i paesi dell’Europa. La storia di questa istituzione si è
sviluppata attraverso 5 tappe fondamentali:
1. Nel 1944 nasce l’istituzione del Benelux, l’unione doganale tra 3 piccoli Stati
europei: Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, convinti di poter ottenere vantaggi
economici e costi di produzione più bassi grazie alla cooperazione reciproca, alla
rimozione dei dazi doganali e alla semplificazione del movimento delle merci
all’interno dei confini dell’unione;
2. L’attuazione del Piano Marshall, dopo la Seconda guerra mondiale, stimola la
ricostruzione dell’Europa e incoraggia la cooperazione regionale;
3. L’istituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) nel 1952
unisce il Benelux a Francia, Germania Ovest e Italia con l’obiettivo di rimuovere le
barriere doganali per il commercio di acciaio e carbone;
4. La stipulazione del Trattato di Roma, che nel 1957 istituisce la Comunità
Economica Europea (CEE). Gli stati sottoscrittori di questo trattato si impegnavano
a rafforzare l’unione economica tra di essi, creando un mercato comune nel quale
beni, persone, servizi e capitali fossero liberi di circolare da uno stato all’altro. Gli
stati fondatori della CEE sono gli stessi che 5 anni prima istituirono la CECA;
5. L’entrata in vigore del Trattato di Fusione, firmato a Bruxelles nel 1967 sostituendo
il Trattato di Roma. Attraverso questo accordo si gettano le basi per la
cooperazione politica degli Stati europei, attraverso la creazione di un Parlamento
Europeo. Questa nuova prospettiva porta a un cambio di nome: la CEE diventò
Comunità Europea. (CE)
Nel 1992, i 12 stati membri siglarono il Trattato di Maastricht o Trattato dell’Unione Europea, la
principale istituzione sovranazionale europea. Da allora, altri 16 paesi si sono aggiunti all’Unione,
che conta oggi 28 Stati membri. Anche la Turchia si è candidata a far parte dell'Unione Europea. I
negoziati, iniziati nel 2005, sono proseguiti con fasi alterne fino a oggi, senza risultati. Su questo
insuccesso ha influito il recente rallentamento della crescita economica turca, il grande peso
demografico del paese, il
mancato rispetto dei diritti umani specie nei confronti della minoranza curda, la posizione della
Turchia nei conflitti in atto nel Vicino e Medio Oriente, non sempre corrispondente agli interessi di
alcuni paesi europei.
Il funzionamento dell’UE è affidato ad un certo numero di Istituzioni europee, che sono:
• La Commissione europea, con sede a Bruxelles, detiene il potere esecutivo. in cui
c’è un rappresentante per ogni paese, ed è quella che decide tutto. Il suo lavoro
consiste nel valorizzare quello che è l’Unione Europea nel suo insieme, nel
proporre nuovi atti legislativi e nell’assicurare il rispetto dei trattati tra i paesi
dell’Unione;
• il Parlamento europeo; Noi votiamo i rappresentanti politici delle aree politiche
che più ci convincono, dopodiché la Commissione europea è quella che decide
tutto. È composto dai rappres3entanti dei cittadini degli Stati membri eletti a
suffragio universale diretto, ha sedi a Strasburgo, Bruxelles E Lussemburgo. Esercita
il potere legislativo con il Consiglio dell’Unione Europea.
• Il Consiglio dell’Unione europea ha sede a Bruxelles ed è formato dai ministri dei
vari governi statali;
• il Consiglio dei ministri;
• la Corte di giustizia che garantisce il rispetto degli atti legislativi;
• il Consiglio europeo, con sede a Bruxelles, è formato dai capi di stato o di governo
di ogni paese membro ed ha funzione di indirizzo generale per le politiche europee;
• la BCE (Banca Centrale Europea), di cui l’attuale presidente del Consiglio Draghi è
stato il governatore e che per molti anni ha favorito anche una politica più mite nei
confronti degli stati, dal punto di vista del debito pubblico. Promuove le politiche
economiche;
• la Corte dei conti europea che verifica i bilanci dell’unione e che tutto sia corretto,
verifica tutti gli organismi dello stato, ministeri, delle strutture…
L'Unione europea è l'economia più grande al mondo, con un Prodotto Interno Lordo (FIL)
complessivo dell'ordine di 15.000 miliardi di euro. Inoltre, si calcola che i soggetti privati e pubblici
che ne fanno parte detengano circa il 30% della ricchezza mondiale. Redditi e ricchezza sono
tuttavia distribuiti in modo ineguale tra gli Stati membri e lo loro regioni. Il PIL pro capite varia da
valori superiori a 40.000 dollari in paesi come l'Austria, i Paesi Bassi, la Germania e la Svezia, a
valori inferiori ai 15.000 dollari in paesi come Croazia, Romania e Bulgaria. Differenze analoghe si
hanno all'interno di molti paesi, tra cui I’Italia, dove il PIL pro capite delle regioni più ricche del
Nord è circa il doppio di quello delle regioni più povere del Mezzogiorno.
Tra le principali politiche Europee vanno ricordate quelle per la ricerca e l'istruzione. A
quest’ultima è dedicato il programma Erasmus, per la mobilità studentesca, creato nel 1987, che
offre agli studenti universitari la possibilità di effettuare in una università straniera un periodo di
studio legalmente riconosciuto dalla propria università.
Dal 2009 la crisi dell'eurozona ha messo in dubbio la solidità dell'unione monetaria. La crisi ha
toccato alcuni Stati periferici come Grecia, Portogallo e Cipro, ma anche Italia e Spagna,
rispettivamente la terza e la quarta
economia dell'UE. Due sono i fattori che hanno determinato la crisi: l'alto livello del debito e la
vulnerabilità del sistema bancario, privo delle coperture necessarie a sopperire ai debiti insoluti. La
crisi dell'eurozona ha scatenato una grave recessione, alti tassi di disoccupazione e pesanti misure
di austerity, ovvero azioni volte a ridurre la spesa pubblica e ad aumentare l'imposizione fiscale,
Per prevenire simili crisi in futuro, infatti, I’UE ha approvato il cd. fiscal compact, che impone agli
Stati membri la stabilità di bilancio. Si è proposto, inoltre, di dare alla Banca Centrale Europea il
potere di monitorare lo stato di salute delle banche dell'eurozona, come già accade negli USA con
il sistema della Federal Reserve.
L’UE continua a sembrare un vero e proprio Stato, con una banca centrale, un parlamento, una
bandiera e un inno nazionale. Questi sviluppi hanno portato gli studiosi a chiedersi se l'UE
rappresenti un nuovo tipo di Stato sovranazionale, la risposta è negativa per ora, non avendo una
costituzione, né altre prerogative proprie dello Stato (come un esercito e una politica estera
comune). Tra le molte ragioni dell'importanza dell'Unione Europea, è utile in particolare metterne
in evidenza due. In primo luogo, si tratta di un esempio di successo di cooperazione economica
sovranazionale, che è stato preso a modello da altre organizzazioni simili nate in seguito. Inoltre, la
nascita della UE ha portato la cooperazione sovranazionale a livelli mai raggiunti prima, al punto
da mettere in discussione lo stesso concetto tradizionale di Stato, soprattutto per quanto riguarda
caratteristiche un tempo considerate prerogativa esclusive, come la presenza di un parlamento, di
una banca contrale e di un inno ufficiale. Nel 2004 è stata redatta anche una costituzione
dell'Unione Europea, la cui adozione è stata però respinta da alcuni Stati membri (in particolare
Francia e Paesi Bassi) attraverso un referendum. Inoltre, sono numerosi i segni di indebolimento
del progetto europeo negli ultimi anni. Il caso più clamoroso è quello della prevista fuoriuscita del
Regno Unito dall'Unione europea, nota come Brexit, conseguente al referendum svoltosi nel paese
il 23 giugno 2016.

Uno degli effetti della pressione competitiva esercitata dalla globalizzazione è la modifica delle
aggregazioni politiche alle diverse scale territoriali, fenomeno che prende il nome di rescaling.
Rescaling significa “rimodulazione delle scale” e fu introdotto da Neil Brenner nel 1999. Esso
consiste dunque nella riorganizzazione, riarticolazione e ridefinizione delle scale territoriali. Tutti
gli stati del mondo hanno una suddivisione interna per poter governare i rapporti tra centro e
periferie o realtà locali, perché è del tutto evidente che sono i governi locali quelli ad essere più
vicini alla cittadinanza, e anche perché ogni contesto territoriale ha le proprie esigenze. In paesi
come l'Italia (7.954 comuni) e la Francia (36.781 comuni) la dimensione comunale è di regola
troppo piccola per svolgere politiche efficaci di sviluppo locale, gestione di servizi pubblici e
pianificazione urbanistica. Si sono perciò creati sistemi locali derivanti da aggregazioni politico-
amministrative sovracomunali, per rimediare a conflitti di competenze, costi elevati ed eventuali
problemi nell’erogazione dei fondi. In Italia abbiamo vari tipi di istituzioni che rispondono a questa
esigenza: le unioni di comuni, le unioni montane, le città metropolitane, ecc… Nello stesso tempo,
autonomie e decentramento politico-amministrativo hanno favorito in molti Stati, tra cui l'Italia, il
rafforzamento della scala regionale, grazie al trasferimento verso il basso di competenze che prima
erano del governo centrale. Quest'ultimo ha poi subito anche un ulteriore indebolimento, dovuto
alla migrazione verso l'alto di prerogative e funzioni che sono state assunte in parte da organismi
sovrastatali, come l'Unione europea. Il rescaling mostra come il ruolo svolto dalle aggregazioni
territoriali alle diverse scale, pur avendo queste una notevole stabilità, possa mutare nel tempo.

| LA GEOPOLITICA DEL MONDO


Si esaminano alcune delle principali tradizioni o scuole di pensiero sia nel campo della geografia
politica, sia in quello della geopolitica. In generale si può dire che la geografia politica ha più le
caratteristiche di una disciplina scientifica, in quanto studia il rapporto tra spazio e potere così
come storicamente si presenta, mettendolo in relazione con l’insieme dei fenomeni fisici,
demografici culturali, sociali ed economici compresenti sulla superficie terrestre.
La geopolitica è uno studio delle relazioni tra attori politici che si contendono il possesso o il
controllo di un territorio; è una riflessione sui fatti studiati dalla geografia politica al fine di
orientare l’azione politica, anche individuandone le leggi spaziali. Nel XX secolo le dottrine
geopolitiche che hanno sostenuto e legittimato azioni politiche aggressive (soprattutto quelle della
Germania nazista) avevano gettato parecchio discredito sulla disciplina. Essa ha avuto una ripresa
negli ultimi decenni, a opera di autori come Yves Lacoste, secondo cui oggi la geopolitica studia le
situazioni in cui due o più attori politici si contendono un territorio. Ciò può avvenire a tutte le
scale, ma la scala più studiata è quella delle relazioni internazionali.
La geopolitica tradizionale si è occupata di studiare i vari modi in cui gli Stad acquisiscono il proprio
patere territoriale, le relazioni spaziali tra i diversi Stati e le loro strategie di politica estera. La
geopolitica affonda le proprie radici nei lavori di Friedrich Ratzel, geografo tedesco, scrittore delle
opere Anthropogeographie (la geografia umana) e Politische Geographie. Nel suo Teoria dello
Stato come organismo, la crescita e l’evoluzione di uno Stato venivano paragonate a quelle di un
organismo vivente. Secondo Ratzel infatti, gli Stati, proprio come gli esseri viventi, per
sopravvivere hanno bisogno di sostentamento, risorse e di uno spazio sufficiente per crescere, che
il geografo tedesco chiama Lebensraum, ovvero spazio vitale. In quest’opera, infatti, Ratzel
neutralizza l’idea della guerra affermando che ci sono degli stati che crescono e altri che
scompaiono, perché ogni Stato ha “bisogno di trovare il suo spazio vitale” e ovviamente questo lo
fa a discapito degli altri Stati più piccoli.
Bisogna ricordare che siamo nel periodo successivo alla pubblicazione delle opere di Darwin, con la
quale si afferma la cultura delle scienze positive, cioè quelle scienze che non risalgono alle origini
di un fenomeno, non spiegano gli effetti e soprattutto classificano le varie tipologie di forme che
studiano. Infatti, Ratzel fu uno dei primi a classificare le specie umane in base ai loro caratteri
somatici e vengono chiamate razze (siamo nella fase del colonialismo in cui l’Europa si incontra
con il resto del mondo).
Le tesi di Ratzel s'inspirano sia alla corrente di pensiero del determinismo ambientale (allora
dominante > la convinzione che l’ambiente sia responsabile e influenzi le culture umane, i
comportamenti e le decisioni individuali, attraverso una relazione di causa-effetto. Es. secondo
questa teoria le aree dei tropici erano meno sviluppate rispetto alle latitudini più elevate a causa
del continuo clima caldo, che non ha permesso loro di lavorare per garantire loro sopravvivenza),
sia alle teorie evoluzioniste di Charles Darwin. Per Ratzel gli Stati, come gli animali, competono
l'uno con l'altro per l'accesso alle risorse e il controllo del territorio. Anche se Ratzel non elaborò le
sue tesi per indirizzare la politica estera di uno Stato, altri lo fecero al posto suo. In particolare, lo
svedese Rudolf Kjellen, il primo a coniare il termine geopolitica, che utilizzò le proposte di Ratzel
per argomentare l'idea che solo gli Stati di maggiori dimensioni avrebbero potuto continuare a
esistere e che per questo la politica estera avrebbe dovuto avere come obiettivo principale
l'ampliamento dei confini dello Stato.

A questo periodo risalgono anche gli studi di Cesare Lombroso sulla criminalità e sulla
fisiognomica (una scienza che studia le forme del viso e classifica le tipologie caratteriali).
Lombroso è colui che individuerà i delinquenti in funzione dei loro volti e li classificherà. E ci sono
proprio dei caratteri morfologici ed esterni che vengono attribuiti a queste classificazioni. Questa
cultura positivista e colonialista porterà molti studiosi a credere che le società sono in guerra tra
loro e a questa guerra sopravviveranno solo quelle migliori (si afferma la superiorità di certe specie
rispetto ad altre.)
Alla scuola geografica tedesca di Ratzel, si oppone quella francese di Vidal de la Blache: questa
dava molto più valore alle peculiarità, alle specificità e alle differenze (es. se allevo pecore preparo
i vestiti usando le pelli delle pecore, mangeremo carne bovina e ovina, formaggi. Mentre se sono
in un contesto dove si privilegia la pesca la cultura, le pratiche, i modelli di vita sarebbero diversi.
Ancora, in un contesto di alta montagna avrò delle tradizioni e pratiche diverse perché ho a che
fare con la neve…). Per Vidal è fondamentale analizzare il territorio e delimitare una regione che
ha una caratteristica (la regione alpina, marina, diversa da una sponda all’altra) per non mescolare
i paesaggi, e specifici generi di vita. Da qui nasce la tradizione geografica delle monografie
regionali, cioè i singoli geografi andavano a studiare le regioni sotto ogni punto di vista. Uno degli
studiosi che si è formato alla scuola di de la Blache è Lucien Febvre. Tra i suoi scritti ritroviamo “La
terra e l’evoluzione umana", in cui conia il termine possibilismo, secondo cui sono gli uomini a
stabilire un rapporto con l’ambiente per sfruttare le sue risorse, e in questo caso è lui a modificare
l’ambiente e non viceversa. Il termine poi viene attribuito a Vidal, mettendo in dubbio il
determinismo ambientale, affermando che se questo fosse vero, allora alle stesse latitudini si
dovrebbero avere gli stessi usi, costumi, generi di vita e culturali, cosa che invece non accade.
Nei primi del Novecento muore Ratzel e intanto si afferma la teoria dell’Heartland di Halford
Mackinder, che metteva in relazione la stabilità geopolitica con il mantenimento di un equilibrio di
potere tra i diversi Stati, la cui rottura avrebbe potuto portare al predominio, su scala mondiale, di
uno o più Stati. Secondo Mackinder, la rottura di questo equilibrio sarebbe potuta avvenire non
tanto attraverso il controllo dei mari, quanto piuttosto controllando l'enorme massa continentale
eurasiatica, al sicuro da eventuali attacchi provenienti dal mare, che inizialmente chiamò «perno»
geografico e in seguito Heartland, perché secondo il geografo il mondo ha un cuore, una parte
centrale, che individua nell’area euro-asiatica, perché la storia millenaria viene da là. Intorno a
questa ci sono altre due fasce: una mezzaluna interna e una mezzaluna esterna, le aree che
subiscono l’influenza e l’egemonia della pivot area. Chi possiede e controlla l’Heartland, controlla il
mondo. Secondo Mackinder, infatti, la regione compresa tra l’Europa orientale e l’Asia centrale
presentava la migliore combinazione di fattori geografici strategici per un predominio su scala
globale. Il controllo di quest’area avrebbe significato l’accesso a una base enorme di risorse e il
possesso di un territorio interno, al sicuro da qualunque attacco proveniente dall’esterno. Nelle
idee del geografo, chiunque avesse controllato questa regione avrebbe potuto sconfiggere
qualunque potenza marittima. Secondo la teoria dell'Heartland la base territoriale degli Stati è un
elemento fondamentale nel definire il loro ruolo geopolitico. Ispirandosi a questa tesi Haushofer
sostenne in un primo tempo l'alleanza della Germania nazista con l'Unione Sovietica, che durò solo
dal 1939 al 1941, per trasformarsi poi nel tentativo fallito da parte della Germania di conquistare il
territorio sovietico e unirsi al Giappone nel controllo dell'Asia. Allo stesso modo, dopo la Seconda
guerra mondiale, fallì, a causa degli attriti con la Cina, un analogo tentativo dell'URSS che pure
occupava già una gran parte dello Heartland, ciò che tuttavia non le evitò il disfacimento
successivo. A partire dalla Seconda guerra mondiale si è però andata dimostrando sempre più
realistica, fino a essere ormai da tutti accettata, la teoria geostrategica del generale italiano Giulio
Douhet che, già nel 1921 aveva sostenuto che «chi comanda l'aria comanda anche la terra». In
altre parole, è l'entità delle forze aeree e missilistiche, unite al potenziale di satelliti artificiali, che
assicura oggi il controllo militare dei continenti e degli oceani.

Alla teoria di Mackinder poi, segue quella di Spykman. Anche lui riteneva che l’area euro-asiatica
fosse l’Heartland, perché aveva una serie di vantaggi strategici, oltre al fatto che affacciava su vari
mari. Da questa area poteva spingersi al controllo di quella che Spykman chiama il Rimland,
ovvero la fascia costiera, con la quale si dimostra la grande potenzialità di controllo del mondo.
Non a caso sosterrà la politica degli Stati Uniti nell’occupazione delle Hawaii per controllare l’area
caraibica.
Intorno ai primi decenni del ‘900 viene fondata la geopolitica da parte di Rudolf Kjéllen e che,
secondo lui, serve per gli aspetti dinamici e applicativi della guerra perché dietro ai conflitti,
soprattutto tra Stati, ci sono delle strategie militari. La sua tesi è legata all’idea dell’espansionismo
dello stato, quindi a delle forme applicative tra gli stati più forti rispetto a quelli più deboli;
La geopolitica è l’impatto dei fattori geografici, ovvero posizione, forma, aspetto fisico, di uno stato
relativamente alla sua politica estera. Queste tesi verranno poi studiate da Karl Hausofher, che
influenzerà molto gli studi di Adolf Hitler, che scriverà Mein Kampf (la mia battaglia), nel quale
riprenderà la teoria dello spazio vitale per giustificare la sua politica.
Dopo la Seconda guerra mondiale anche alcuni geografi accademici italiani avevano fondato una
rivista intitolata Geopolitica, la cui prefazione a cura di Mussolini e poi del ministro Bottai, i
massimi rappresentanti del fascismo. Tuttavia, dopo la fine della guerra essere geopolitici era
considerato come un marchio discriminante, per cui per alcuni decenni non se ne parlò quasi più.
Con i movimenti del ’68 di contestazione e trasformazione, cambia il contesto storico-economico:
c’è un boom economico, nascono una serie di organismi internazionali, il dollaro diventa il mezzo
di transizione fondamentale, viene fondato l’ONU e nel 1948, scoppia il conflitto araboisraeliano
perché l’area della Palestina viene assegnata agli ebrei come stato di Israele e i Palestinesi che
vivevano lì da centinaia di anni erano stati cacciati dal proprio territorio. I palestinesi verranno
sostenuti da quel mondo arabo che aspira anche ad una sorta di unità, per contrapporsi
all’egemonia occidentale.
Più recente è la teoria geopolitica di Samuel Huntington*, che è stata ripresa dopo l’attacco alle
torri gemelle e del terrorismo islamico. Secondo lo studioso il mondo è diviso in 9 civiltà: civiltà
islamica, africana, occidentale, ortodossa, giapponese, hindu, Sinica, buddista, latino-americana.

Dagli anni 70-80 ad oggi, la geografia politica si è sviluppata secondo tutta una serie di approcci
diversi che vedono l’intreccio delle dinamiche politiche come processo costituito da pratiche
istituzionali, sociali e territoriali.
Per lungo tempo si è fatto riferimento alla geografia come una scienza spaziale ciò è sbagliato
perché la geografia è un sapere, non è una scienza, ed è composta da tutta una serie di saperi che
sono territoriali, cartografici… Al tempo stesso la geografia non può essere ridotta solo allo studio
dello spazio, ma bisogna tener conto anche dei tempi e dare importanza alla storia, così come
sottolineava Lucio Gambi.
A oggi, infatti, la geografia politica comprende sia delle pratiche discorsive, ovvero delle
rappresentazioni, che sono le idee, i linguaggi, simboli iconografici (bandiere) e pratiche materiali,
ovvero l’insieme delle funzioni, delle attività finalizzate alla produzione, alla distribuzione e al
consumo dei beni e le condizioni di queste attività nelle loro connessioni e nel loro divenire.
Questo vuol dire che la geografia politica, si occupa di spazialità ma nel concetto di spazialità ci
sono anche la condizione sociale, la dinamica spaziale, territoriale e il rapporto con i gruppi sociali
con i vari gruppi umani, e politica. Di fatto, ogni decisione politica incide anche sugli eventi
economici, proprio perché produce leggi, norme, organizza e decide le politiche finanziarie in uno
Stato.
Prima, la geografia politica classica si occupava del potere dello Stato e di tutto quello che era
legato all’organizzazione statale (controllo del territorio, dei confini, ruolo della posizione
strategica), mentre dagli anni ‘70 in poi, c’è una maggiore attenzione verso quelli che si chiamano
attori non istituzionali, quindi ai movimenti dal basso (Rivolta degli ombrelli ad Hong Kong,
protesta dei gilet gialli in Francia, i NO-VAX), ma anche alle associazioni (ONG, Emergency, Medici
senza frontiere).

DALLA GEOPOLITICA DELLA GUERRA FREDDA ALLA GEOPOLITICA CONTEMPORANEA


Il termine «Guerra fredda» descrive il clima di ostilità e rivalità che caratterizzò i rapporti tra gli
Stati Uniti o l'Unione Sovietica nei decenni che seguirono la Seconda guerra mondiale. Uno degli
elementi principali delle tensioni tra le due superpotenze fu la corsa agli armamenti nucleari,
fattore che contribuì a radicalizzare le divisioni in un mordo che, dal punto di vista geopolitico, si
poteva definire bipolare. La fine della guerra fredda, all'inizio degli anni Novanta, segnò il termine
della contrapposizione geopolitica tra l'Occidente capitalista e l'Est comunista. Secondo molti
geografi politici, però, il mondo continua a essere caratterizzato da una configurazione bipolare,
rappresentata oggi dalla contrapposizione tra il Nord e il Sud del mondo, divisi delle grandi
differenze in termini di sviluppo e benessere.
Questa visione è stata sviluppata in particolare dal politologo Samuel Huntington* nel saggio Lo
scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, nel quale egli sostiene che oggi il mondo sarebbe
caratterizzato da una configurazione multipolare, costituita dalle diverse «civiltà» esistenti.
Utilizzando i termini tribù, gruppo etnico, nazione e civiltà come indicatori di scala, Huntington
afferma che quest'ultima rappresenta la scala più grande da cui deriva l'identità personale di un
individuo ed è connotata soprattutto dall'appartenenza religiosa. In base a questa visione del
mondo egli profetizza che le guerre del futuro saranno conflitti culturali dovuti allo scontro tra
«civiltà» diverse e si verificheranno in corrispondenza delle linee di faglia, che geograficamente le
dividono. A questa teoria si oppone un dialogo tra le culture, che può essere una valida alternativa
allo scontro. Altri fanno più realisticamente notare che la componente culturale e religiosa riveste
spesso conflitti di natura economica e geostrategica tra potenze rivali per il controllo di varie
risorse. Questi interessi fanno sì che le diversità culturali diventino fattori di scontro, quando di per
sé non avrebbero motivo di esserlo.
Un'altra scuola di pensiero parto da presupposti e arriva a conclusioni del tutto opposte a quelle di
Huntington. Essa si concentra sugli effetti di deterritorializzazione dovuti alla globalizzazione, che
allenta i legami tra i luoghi o le persone che ci vivono. Infatti, se lo Stato moderno affondava le
proprie radici nei concetti di territorialità, radicamento e sovranità, la globalizzazione, grazio
soprattutto alle maggiori possibilità di spostamento e all'integrazione tecnologica, pone le basi per
la progressiva recisione dei legami territoriali. Come sappiamo infatti, i membri di una nazione
possono essere dispersi in territori molto lontani pur mantenendo forti legami; quindi, oggi,
l’identità di una comunità può continuare a essere mantenuta indipendentemente dal suo
rapporto diretto con uno specifico territorio.

GLOBALIZZAZIONE E TERRORISMO
Il terrorismo è un fenomeno antico ed è stato usato come tattica politica, nel corso della storia,
non solo da singoli individui e piccoli gruppi di attivisti, ma anche da alcuni Stati, il cui sostegno ad
azioni terroristiche continua a essere un problema di scala globale. Il supporto da parte di uno
Stato può avvenire in molti modi: offrendo rifugio ai terroristi, addestrandoli, rifornendoli di armi,
equipaggiamenti o denaro, oppure condividendo con loro informazioni sensibili.
Gli esperti distinguono quattro grandi categorie di terrorismo, i cui confini spesso si
sovrappongono; il terrorismo rivoluzionario, il terrorismo separatista, il terrorismo religioso e
quello legato a un tema specifico. Il terrorismo rivoluzionarlo è solitamente collegato al tentativo
di rovesciare un regime, come nel caso del Front de Libération Nationale (FLN) algerino, che tra il
1954 ed Il 1962 combatté contro Il domino coloniale francese. Il terrorismo separatista è invece
quello messo in atto da gruppi che ambiscono all'autonomia o all'indipendenza di un territorio. In
altri casi il terrorismo, individuale o di gruppo, viene scelto come strumento per rivendicazioni
legate a tematiche specifiche, come i diritti degli animali o la tutela dell'ambiente.
Un caso particolare di terrorismo rivoluzionario è quello di matrice islamica fondamentalista. La
sua globalizzazione è avvenuta I'11 settembre 2001 con la distruzione delle Torri Gemelle di New
York a opera di Al Qaeda, un gruppo terrorista fondato nel 1988 in Afganistan da Osama Bin Laden
con lo scopo originarlo di contrastare l'Invasione del paese da parte dell'Unione Sovietica.
L'uccisione di Bin Laden nel 2011 ha assestato un duro colpo alle operazioni di Al Qaeda in
Afghanistan e Pakistan. In Iraq nel 2004, durante l'occupazione americana dell’Iraq, da Al Qaeda
ha preso origine l’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria). Nel 2012 M'ISI5 è intervenuto nella guerra
civile siriana, dove ha preso il controllo di una parte del territorio, estendendo poi Il suo domino su
un'area confinante del vicino territorio iracheno. Ciò ha permesso a questo gruppo terroristico di
proclamarsi Stato Islamico, come ora vene comunemente chiamato (IS, Islamic State). L’IS si
propone di ripristinare un unità politica, estendendola a tutte le regioni africane, asiatiche ed
europee che hanno avuto un passato mussulmano, e prendendo il controllo dei territori, tramite
azioni terroristiche; queste comprendono violazioni dei diritti umani, massacri di intere
popolazioni che rifiutano la conversione all’islam, distruzione di memorie storiche, come musei
ecc… L’affermarsi dell’IS sfrutta il malcontento e la frustrazione di tanti mussulmani poveri ed
emarginati, anche europei, che corrono ad arruolarsi in questo esercito.
| I PAESAGGI DELLA POLITICA
In che modo le questioni politiche possono modificare il paesaggio? Con quali mozzi i paesaggi
culturali possono venire utilizzati per trasmettere messaggi politici? Perché alcuni paesaggi,
culturali o naturali, possono trovarsi al centra di accese dispute politiche? Questo sono solo alcune
delle domande che possono aiutare a capire di cosa si occupano gli studiosi dei paesaggi politici.
Lo Stato esercita il proprio controllo politico attraverso il governo che a sua volta, per mezzo delle
sue politiche, delle sue agenzie e delle sue leggi, può influenzare l'aspetto delle città e delle
campagne. Finanziando la progettazione e la costruzione di infrastrutture, come ferrovie,
fognature, sistemi di irrigazione
o reti per la distribuzione dell'energia, lo Stato crea paesaggi che rispecchiano le scelte del proprio
potere centrale: lo stesso avviene per gli enti politico-amministrativi locali. La presenza del potere
centrale nel paesaggio è particolarmente importante per il processo di costruzione dello Stato in
quanto, ad esempio, collegando le diverse parti di un paese attraverso le infrastrutture ne aiuta la
coesione e rafforza l'importanza e l'autorità del governo statale. Ta Italia, ed esempio, l’unità
effettiva del paese fu realizzata una prima volta con le ferrovie e una seconda volta con le
autostrade. Appena proclamata l'Unità c'erano appena 1.900 km di ferrovie, in gran parte al Nord.
Poco più di trent'anni dopo, nel 1895 cc n'erano 14.100. Lo sviluppo delle autostrade fu altrettanto
rapido, soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando si costruì la maggior
parte della rete attuale, a cominciare dall'Autostrada del Sole che attraversa tutta la penisola.

I confini stabiliscono i limiti della giurisdizione di uno stato e di conseguenza della sua autorità
politica sul territorio. In alcuni casi la demarcazione fisica di un confine può dare vita a un
paesaggio della sicurezza, creato per proteggere il territorio, la popolazione, le strutture e le
infrastrutture da interventi esterni. Spesso questi paesaggi di confine sono contraddistinti da
telecamere di sicurezza, metal detector e ingressi controllati, con lo scopo di impedire
l'immigrazione irregolare o anche di prevenire il rischio di attacchi provenienti dall'altro lato del
confine.
L'impronta dell'autorità centrale può venire rivelata anche dalle sue politiche e dalle sue leggi, che
possono favorire o scoraggiare determinati comportamenti, portando alla creazione di alcuni
specifici paesaggi politici o all'esclusione di altri. Uno degli esempi più evidenti è quello dalle
politiche di sviluppo rurale, che incentivano la coltivazione di alcuni prodotti a discapito di altri (ad
es. la produzione della barbabietola in Europa, dove il clima è troppo rigido per coltivare la canna
da zucchero).
Sono molte le leggi che possono determinare la produzione di specifici paesaggi politici. Ad
esempio, la regolamentazione dell'eredità dei terreni, che possono essere frammentati tra tutti gli
eredi o trasmessi intatti al primogenito; o ancora, le leggi che incentivano l'insediamento di
impianti industriali in una determinata area. Anche l'istituzione di parchi nazionali e aree protette
produce effetti del potere politico sul paesaggio, attraverso le leggi che regolano la fruizione
dell'ambiente naturale.

Un altro importante aspetto dell'impatto della politica sul paesaggio è quello legato alla presenza
di simboli carichi di significati politici, definiti elementi di iconografia politica, come ad esempio
bandiere, statue o immagini di leader politici o militari, inni nazionali, memorial di guerra e simboli
di partiti politici. Spesso questi simboli sono dedicati a ideali come la libertà o la democrazia e
contribuiscono alla formazione di un senso di identità condiviso; l’iconografia politica veicola un
messaggio politico o che afferma la presenza del potere. Appartengono anche all'iconografia
politica i grandi complessi monumentali, sovente associati a piazze e grandi arterie urbane, dove si
svolgono raduni o parate militari. Essi caratterizzarono in particolare i grandi imperi del passato, le
monarchie di età moderna e le dittature più recenti. Ma non sono esenti da queste scenografie
molti paesi democratici come dimostrano ad esempio gli Champes Elisées e l'Arc de Triomphe a
Parigi, Il Campidoglio a Washington, il Reichstag a Berlino, il Parlamento a Londra, la piazza e la
basilica di San Pietro a Roma, la grande moschea a Casablanca e tanti altri nelle varie capitali.

Come sopravvivere allo sviluppo / Serge Latouche - Cos’è lo sviluppismo?


Latouche spiega come lo sviluppismo si fondi sulla convinzione che sia possibile ottenere prosperità
materiale per tutti: ma ciò è sostenibile per il mondo? no. Bisogna quindi riconsiderare concetti
fondamentali quali quelli di crescita, povertà, bisogni essenziali. Bisogna pensare a forme di
un’alternativa allo sviluppo. Latouche vuole fare una sintesi delle critiche dello sviluppo e aprire le vie
per la costruzione di un doposviluppo. Dalla nascita del concetto di sviluppo, cioè dal famoso discorso
del presidente degli Stati Uniti Truman, del 1949, questo concetto non è più stato messo in
discussione. Così il mondo è stato diviso in paesi del Nord e paesi del Sud, in un’ottica dove i paesi
ricchi avrebbero aiutato i paesi poveri a raggiungere uno sviluppo economico. In realtà, ciò nascondeva
semplicemente la volontà degli USA di impadronirsi dei mercati degli ex imperi coloniali europei e di
impedire ai nuovi stati indipendenti di cadere nell’orbita sovietica. Così lo sviluppo è finito per
diventare il proseguimento mascherato della colonizzazione (neoimperialismo). Ma che cos’è lo
sviluppo? Nella letteratura viene definito come la realizzazione dei desideri e delle aspirazioni di tutti e
di ciascuno, al di là del contesto storico, economico, sociale e culturale. Questa appare un po’ una
visione mitica dello sviluppo, in quanto una condizione del genere non si è mai verificata in nessuna
parte del mondo. Uno degli effetti del passaggio dallo sviluppo alla mondializzazione non è altro
che la scomparsa dell’effetto Trickle Down, cioè l’effetto ‘ricaduta’, questo ha avuto un impatto
negativo, perché la ripartizione della crescita economica al Nord e delle sue briciole al Sud
assicuravano una certa coesione nazionale. Le tre D (deregolamentazione, decompartimentazione
e disintermediazione) dei mercati finanziari hanno portato alla mondializzazione (1986) e hanno
permesso alle diseguaglianze di svilupparsi.
Guardando oggi allo sviluppo reale si può definire invece come un processo che porta a mercificare i
rapporti tra gli uomini e tra questi e la natura. Lo scopo è sfruttare, valorizzare, ricavare profitto dalle
risorse naturali e umane. Lo sviluppo è stato ed è l’occidentalizzazione del mondo. A seguito della
concettualizzazione dello sviluppo, si è entrati nell’era degli “sviluppi particolari” con i quali si è tentato
di esorcizzare gli effetti negativi dello sviluppismo. Si è quindi iniziato ad aggiungere aggettivi
eufemistici alla parola sviluppo: autocentrato, endogeno, partecipativo, integrato, equo, locale, ecc.. Si
è cercato, in poche parole, di dare un volto sociale, umano, allo sviluppo, senza però riuscire a mettere
da parte l’accumulazione capitalistica.
Le declinazioni dello sviluppo > si può dire che lo sviluppo sia cominciato in maniera implicita nel 1750
con la Rivoluzione Industriale e in maniera esplicita nel 1949 con la politica di Truman. Ciò nonostante,
si è sempre cercato di abbellire la parola sviluppo con aggettivi positivi, trovando anche un
antagonista, il malsviluppo, che in realtà non può colpire lo sviluppo che di per sé significa “buona
crescita” > Latouche analizza brevemente quattro tipologie di “nuovi sviluppi”.
• Lo sviluppo sociale. Attraverso questa dicitura si vuole aggiungere una dimensione sociale alla
crescita economica. Lo sviluppo sociale rappresenta di per sé un paradosso: sul piano dell’immaginario
si tratta di un pleonasmo (una ridondanza), in quanto lo sviluppo non può non essere sociale, mentre
sul piano del vissuto si tratta di un ossimoro, in quanto lo sviluppo realmente esistente non può non
produrre ingiustizia sociale. Lo sviluppo sociale è solo un esempio di questa operazione di
abbellimento eufemistico appena denunciato.
• Lo sviluppo umano. È in qualche modo il completamento statistico dello sviluppo sociale. Per andare
oltre il Prodotto Interno Lordo (PIL), indicatore prettamente economico che non può descrivere lo
stato di sviluppo di un paese, l’UNDP1 ha elaborato l’Indice di Sviluppo Umano (ISU) che prende in
considerazione – oltre al PIL – fattori sociali quali l’istruzione, la speranza di vita, la sanità, ecc… Per
quanto ciò rappresenti un passo in avanti, Latouche sostiene che si tratta sempre di variazioni più o
meno sottili sul tema del tenore di vita, cioè si tratta sempre sostanzialmente del numero di dollari
pro-capite.
• Lo sviluppo locale. Anche qui troviamo un paradosso: in mondo globalizzato lo sviluppo è il risultato
di un processo economico che non è né locale, né regionale e neppure nazionale, bensì mondiale.
Anche se sempre più deterritorializzato il processo mondiale si realizza in un contesto spaziale. Lo
sviluppo mondiale è una somma di trasformazioni situate localmente, ma la logica del processo è in
primo luogo globale. Lo sviluppo, si può dire, ha distrutto il locale, concentrando sempre più i poteri
industriali e finanziari. E allora, quale sviluppo locale? Non bisogna confondere sviluppo locale e
crescita localizzata, né, per quanto riguarda il Sud del mondo, sviluppo locale e dinamismo informale.
Ogni cambiamento locale non è sviluppo, è la reazione di sopravvivenza di un organismo aggredito
dallo sviluppo.
• Lo sviluppo durevole (o sostenibile). È entrato in scena alla Conferenza di Rio (giugno 1992). Si tratta
di uno sviluppo economicamente efficace, ecologicamente sostenibile, socialmente equo,
democraticamente fondato, geopoliticamente accettabile, culturalmente diversificato. Ma l’idea stessa
di sviluppo durevole è alquanto ambigua ed è al centro del dibattito tra ONG e la maggior parte degli
industriali, dei politici e degli economisti: da una parte viene infatti visto come la preservazione degli
ecosistemi (dunque sviluppo compatibilmente alla difesa dell’ambiente), dall’altra viene inteso
sviluppo che possa durare indefinitamente. Lo sviluppo sostenibile è lastricato di buone intenzioni: gli
esempi di compatibilità tra sviluppo e ambiente non mancano. Ma per chi dirige gli affari, in primo
luogo non è l’ambiente che si deve preservare, bensì lo sviluppo! Il problema con lo sviluppo
sostenibile non sta nella parola “sostenibile”, ma nel concetto di “sviluppo”, dato che il modello di
sviluppo finora seguito da tutti i paesi è fondamentalmente non durevole, nonostante le tante
dichiarazioni raccolte finora. Secondo Sachs forse è arrivato il momento di proporre una rivoluzione
semantica e di tornare al termine “sviluppo” senza nessuna qualificazione, a condizione di ridefinirlo
come concetto pluridimensionale. Molti antimondialisti pensano che una soluzione per tutti questi
punti sia un ritorno allo sviluppo degli anni ’60 e correggerlo. Lo sviluppo «durevole» o «sostenibile»
appare dunque come la cura sia per il Sud che per il Nord.

Sviluppo alternativo > un altro tipo di sviluppo è quello che si definisce alternativo, con il quale a volte
si propongono progetti che possano eliminare le piaghe del malsviluppo > alla modernizzazione
agricola avvenuta in Francia tra il 1945 e il 1980, attuata dalle ONG cristiane. Le campagne si
meccanicizzano e i contadini si indebitano, infatti pur essendosi moltiplicata la produzione, la
popolazione agricola si è ridotta di molto. Un ruolo predominante è stato svolto dai pesticidi e concimi
chimici, provocando l’inquinamento del 98% delle terre della Bretagna, anche se non ha destato
preoccupazione più di tanto poiché molti contadini hanno trovato lavoro nell’industria. Ciò
nonostante, senza la lotta della Confédération paysanne, l’agricoltura sarebbe scomparsa. La lotta per
l’agricoltura contadina non dovrebbe sottostare allo sviluppo, dovrebbe rappresentare un’alternativa
ad esso. E con alternativo si intende, ad esempio, una tecnologia capace di cambiare tutto lo sviluppo,
la concezione di tempo e di spazio.
L’IMPOSTURA SVILUPPISTA  Negli USA “sviluppare un’area” significa distruggere ogni forma di
vegetazione, coprire il terreno di cemento, sistemare i corsi d’acqua a terrazze, si avvelena tutto con
potentissimi pestici e infine si vende il terreno al miglior offerente. Lo sviluppo è al tempo stesso
un’impostura concettuale, a causa della sua pretesa universalistica, e un’impostura pratica, a causa
delle sue profonde contraddizioni.
L’etnocentrismo del concetto: in molte civiltà, prima di entrare in contatto con l’occidente, lo sviluppo
non esisteva, tant’è vero che molti non sapevano come tradurlo: in Guinea Equatoriale si usava una
parola che significava sia crescita che morte, in Ruanda lo sviluppo aveva origine nella parola
camminare. Questa lacuna indicava che alcune società non consideravano la loro riproduzione come
accumulazione dei saperi e dei beni e anche che lo sviluppo non si basa su concezioni universali. In
Africa nera, la popolazione dava importanza al tempo a partire dall’orientamento verso il passato,
perché quello che non possono vedere è il futuro, ma quello che sta davanti è il passato che già
conoscono.
Le contraddizioni reali: l’impostura pratica > la pretesa che lo sviluppo e la crescita economica
costituiscano l’obiettivo fondamentale delle società umane si basa essenzialmente sul famoso trickle
down effect o «effetto ricaduta». Il ragionamento sviluppista è diffuso di una tale quantità di paradossi
che l’effetto miracolo si rivela in realtà un effetto miraggio. Basterà mettere in luce tre di questi
paradossi: quello della creazione dei bisogni, quello dell’accumulazione e quello ecologico.
1) Paradosso della creazione dei bisogni = attraverso la creazione di tensioni psicologiche, lo sviluppo
e la crescita pretendono di soddisfare i bisogni primari dell’uomo. Lo sviluppo consiste soprattutto
nell’immaginare una strategia che permetta di sconfiggere i limiti che gli uomini pongono ai loro
obiettivi di reddito, e dunque ai loro sforzi. La pressione li spinge a lavorare e i sistemi contro la
povertà sono considerati come ostacoli. Nel 1994 venne svalutato il franco e questo, per alcuni
africani, rappresentava una possibilità per una maggiore esportazione di carne, per questo la Banca
Mondiale finanziò progetti per sviluppare gli allevamenti, ma gli esperti si sono opposti con fermezza
affermando che fare soldi era una cosa inutile. La popolazione cadde dunque in una doppia miseria, sia
psicologica che fisica. Inoltre, la povertà sembra essersi ridotta nel Nord grazie al trickle down effect e
alla diffusione dei frutti della crescita, ma si è tradotta in esportazione di povertà nei paesi del Sud.
2) Paradosso dell’accumulazione = la crescita viene presentata, in nome del trickle down effect, come
il rimedio miracoloso delle disuguaglianze. Essa permetterebbe di evitare le difficili riforme strutturali,
come la riforma agraria, e di attenuare i conflitti sociali. Piuttosto di affannarsi per accaparrarsi un
piccolo pezzo di torta, sarebbe più logico ingrandire tutti insieme la torta. Ma gli economisti pensano
che non si possa parlare di accumulazione senza diseguaglianze di reddito. Arthur Lewis (premio Nobel
per l’economia), riteneva che la diseguaglianza fosse positiva per la crescita in quanto, dal momento
che i ricchi risparmiano più dei poveri, si determina un investimento maggiore che a sua volta crea
ricchezza per tutti. I più poveri finiscono per beneficiare delle famose «ricadute». Un altro premio
Nobel, Simon Kuznets, ha affermato che nelle prime fasi dello sviluppo la disuguaglianza aumenta, ma
che in seguito la tendenza si inverte. Tuttavia, è chiaro che esisteva un’alternativa alla diseguaglianza,
infatti Corea del Sud, Cina e Giappone e Taiwan sono riusciti a ridurla con un importante attività di
risparmio.
3) Il paradosso ecologico della crescita = l’ossessione del PIL fa in modo che tutte le spese e le
produzioni vengano viste come positive poiché valore aggiunto di benessere. Però, le valutazioni del
costo del disinquinamento sono davvero problematiche, infatti è stimato che l’effetto serra costa tra i
600 e i 1000 miliardi di dollaro all’anno. L’indicatore di progresso autentico è un indicatore che
corregge il PIL per quanto riguarda le perdite dovute all’inquinamento. Ma risulta che mentre il primo
si riduce, il secondo aumenta sempre di più. Inoltre, il prezzo da pagare a livello politico e sociale è
enorme, fino agli anni ’60 era considerata normale la dittatura o la tortura. C’è addirittura chi sostiene
che è meglio un regime autoritario capace di realizzare le riforme necessarie piuttosto che una
democrazia incapace. Quanto tempo ancora servirà per capire che lo sviluppo non è altro quello che
già stiamo vivendo? Dunque, la guerra, il saccheggio e l’occidentalizzazione del mondo. Non è possibile
cercarne uno migliore, anche perché se fino a 70 anni fa l’Africa era povera solo rispetto ai criteri
dell’occidente, dopo cinquant’anni morire di fame è diventato normale.

QUINDI > con questi “sviluppi” interessanti ma poco realistici, si sente la necessità di uno sviluppo
alternativo, o meglio, di un’alternativa allo sviluppo. Si vuole costruire un doposviluppo e una
decrescita sostenibile. Ma per realizzare ciò si dovrebbe avere un’altra economia, un’altra razionalità,
un’altra concezione del tempo e dello spazio. Secondo Latouche lo sviluppo è al tempo stesso
un’impostura concettuale, a causa della sua pretesa universalistica, e un’impostura pratica, a causa
delle sue profonde contraddizioni. Quello che noi chiamiamo sviluppo è veramente quello che vogliono
gli abitanti dei villaggi? Il fatto stesso che molte civiltà non conoscevano il concetto dello sviluppo
prima del contatto con l’Occidente e che in quasi tutti i paesi del Sud del mondo la traduzione di
sviluppo nelle loro lingue sia stata impresa difficile ci deve insegnare molto2. Latouche si chiede
quanto ancora bisogna aspettare prima di capire che lo sviluppo è lo sviluppo realmente esistente.
Perché non esiste nessun altro sviluppo. E lo sviluppo realmente esistente è la guerra economica, è il
saccheggio senza limiti della natura, è l’occidentalizzazione del mondo e l’omologazione planetaria, è il
genocidio per tutte le culture differenti. L’alternativa allo sviluppo non può essere un impossibile
ritorno al passato e non può sicuramente prendere la forma di un modello unico, dato che la buona
qualità di vita si declina in molteplici forme a seconda dei contesti. Latouche identifica per il Nord del
mondo due forme di questa alternativa: la decrescita conviviale e il localismo. La nostra supercrescita
economica supera già largamente la capacità di carico della Terra: se tutti i cittadini del mondo
consumassero quanto gli americani e gli europei medi, i limiti fisici del pianeta sarebbero largamente
superati. Se si prende come indice del “peso” ambientale del nostro modo di vita l’impronta ecologica
di questo modo di vita in termini di superficie necessaria, si ottengono risultati insostenibili tanto dal
punto di vista dell’equità di accesso alle risorse naturali quanto dal punto di vista della capacità di
rigenerazione della biosfera3. “Decrescita” non significa una riduzione del benessere, ma significa
rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che «di più» è uguale a «meglio». Ma il bene
e la felicità si possono realizzare a minor prezzo. Per concepire la società della decrescita bisogna
uscire dall’economia e dall’ottica della necessità dei bisogni socialmente costruiti. Dobbiamo mettere
in discussione il dominio dell’economia sulla vita, ma soprattutto sulle nostre teste. La costruzione di
una società meno ingiusta si tradurrebbe nel recupero della convivialità e di un consumo più limitato
quantitativamente e più esigente qualitativamente. Si tratta di mettere in discussione il volume
esagerato degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta, con il relativo impatto negativo
sull’ambiente, la pubblicità ossessiva e a volte nefasta, e infine l’obsolescenza accelerata dei prodotti,
concepiti col sistema usa e getta soltanto per far girare sempre più velocemente la megamacchina
infernale: tutto questo costituisce delle riserve importanti di decrescita nel consumo materiale. Gli
effetti sul nostro tenore di vita della maggior parte delle riduzioni dei nostri prelievi sulla biosfera
corrisponderebbero necessariamente ad un maggior benessere qualitativo. Tutto questo senza parlare
delle possibili riduzioni delle spese militari, né naturalmente dei cambiamenti profondi dei nostri valori
e dei nostri modi di vita, che porterebbero a dare più importanza ai beni relazionali e a rivoluzionare i
nostri sistemi di produzione e di potere. La decrescita ha come obiettivo soprattutto quello di segnare
il fondamentale abbandono del perseguimento insensato della crescita per la crescita, il cui motore è
soltanto la ricerca sfrenata del profitto da parte dei detentori del capitale. Chiaramente, la decrescita
non punta a un’inversione caricaturale che consisterebbe nella decrescita per la decrescita.
Soprattutto, decrescita non significa crescita negativa. Sappiamo che il semplice rallentamento della
crescita oggi precipita le nostre società nello smarrimento, a causa della disoccupazione e
dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della
vita.
Osvaldo Pieroni ispirandosi alla carta Consumi e stili di vita4 propone un programma di sei R:
• Rivalutare i valori nei quali crediamo e sui quali organizziamo la nostra vita;
• Ristrutturare l’apparato di produzione e i rapporti sociali in base al cambiamento dei valori;
• Ridistribuire le ricchezze e l’accesso al patrimonio culturale;
• Ridurre l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare;
• Riutilizzare i beni d’uso;
• Riciclare. Tutto questo non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico: si tratta di un’altra
crescita per il bene comune.
Per quanto riguarda i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle conseguenze negative della crescita del Nord,
si tratta non tanto di decrescere, quanto di riannodare il filo della loro storia spezzato dalla
colonizzazione, dall’imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale, per
riappropriarsi delle loro identità. È la condizione perché questi paesi siano in grado di dare adeguate
soluzioni ai propri problemi. Proporre la decrescita conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e
già oggi identificabili e realizzare delle alternative concrete localmente sono elementi complementari.
È necessario rivitalizzare l’humus locale. Ed è necessario che sia al Nord che al Sud, perché anche in un
mondo virtuale si vive comunque localmente. Ma è soprattutto necessario per uscire dallo sviluppo e
dall’economia e per lottare contro la mondializzazione. La scommessa consiste nell’evitare che il
“glocale” serva da alibi al proseguimento della desertificazione del tessuto sociale e sia un cerotto su
una ferita aperta. L’economia mondiale, con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha escluso
territori popolati da milioni e milioni di persone, ha distrutto i loro modi di vita, ha soppresso i loro
mezzi di sussistenza per gettarle e mescolarle nelle bidonville e nelle periferie del Terzo mondo. Sono i
“naufraghi dello sviluppo”. Queste persone, condannate dalla logica dominante a scomparire, per
sopravvivere non hanno altra scelta che organizzarsi secondo un’altra logica, sono costrette ad
inventare un altro sistema, un’altra vita. A questa alternativa è stato dato il nome di economia
informale, in cui l’economico viene incorporato nel sociale, quasi si dissolve. Così i naufraghi dello
sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del circuito ufficiale, attraverso strategie
relazionali. Al Nord la riduzione dell’elemento nazionale5 riattiva il «regionale» e il «locale»: il tempo
libero, la salute, l’educazione, l’ambiente, la casa, i servizi alla persona si gestiscono a livello
microterritoriale. Questa gestione del quotidiano dà luogo a iniziative di cittadinanza ricche e
meritorie: dall’ Europa agli Stati Uniti, all’Australia, si vede fiorire una miriade di associazioni senza
scopo di lucro (imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, banche del tempo, banche
etiche, movimenti per il commercio equo e solidale, ecc…). Latouche evidenzia come le eventuali
ricadute economiche di tutto questo siano problematiche: si tratta di posti di lavoro nel settore dei
servizi (amministrativi o alle imprese), di lavori di subappalto o di servizi di prossimità per i residenti. È
chiaro che non si tratta di risultati di una dinamica integrata. Essendo connessi allo sviluppo economico
e al mercato mondiale (con i sussidi dello Stato e dell’Unione Europea), questi risultati prima o poi
sono condannati a scomparire o a confluire nel sistema dominante. Allora perdono completamente la
loro anima e finiscono per essere strumentalizzati dai poteri pubblici, dalle imprese, e anche dagli
stipendiati delle organizzazioni. Realizzare la società locale significa non trincerarsi in un terzo settore,
ma colonizzare progressivamente gli altri due, cioè il mercato capitalistico e lo Stato. Si tratta anche di
appoggiarsi su una democrazia locale rivitalizzata. Proporre, contro lo sviluppo, uno sviluppo durevole,
locale, sociale o alternativo, significa in fin dei conti cercare di prolungare il più possibile l’agonia del
paziente nutrendo il virus che lo sta uccidendo. È necessaria, secondo Latouche, una vera e propria
cura di disintossicazione collettiva. La crescita è infatti al tempo stesso un virus perverso e una droga.
Forse non rinunceremmo volentieri né allo sviluppo, né al nostro modo di vita, né alle tecniche che gli
sono associate. Allora non c’è né speranza né prospettiva per l’umanità? L’aberrazione di una
razionalità mossa dalla ricerca senza limiti del profitto produce catastrofi che, sebbene dolorose,
creano occasioni per la messa in discussione dello stato di cose esistente. Chernobyl ieri, la mucca
pazza oggi, l’effetto serra domani, per non parlare degli innumerevoli rischi tecnologici quotidiani, sono
potenti spinte alla riflessione. La pedagogia delle catastrofi stimola il necessario cambiamento
dell’immaginario, una delle condizioni necessarie perché le alternative possano farsi luce e trionfare.

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