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Geografie culturali, T.

Banini
Geografia
Università degli Studi di Roma La Sapienza
39 pag.

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Geografie culturali – Tiziana Banini

Capitolo 1: Gli approcci strutturalisti


In geografia il concetto di cultura ha assunto diversi significati nel corso del tempo ed è stato studiato in modi
altrettanto diversi. La nascita della geografia culturale è collocata tradizionalmente negli ’20 del 1900, con la
pubblicazione di alcuni saggi di Carl Sauer e la fondazione della Scuola di Berkeley. Prima di Carl Sauer diversi geografi
si erano soffermati sulla dimensione culturale di paesaggi e regioni nei loro contributi, ma senza costruirci attorno
un’epistemologia distinta da quella della geografia umana. In pratica, dalla nascita della geografia umana, seconda metà
del XIX secolo, fino agli anni ’20 del 1900, la geografia culturale è stata esercitata in maniera implicita, contenuta e
sottintesa in quella umana (le due geografie si intrecciano).
Le origini epistemologiche della geografia umana si devono a Alexander von Humboldt e Carl Ritter ma questi due
studiosi sono anche considerati in geografia culturale, precursori di due modi differenti di concepire e studiare la cultura.
A partire dalla seconda metà del 1800 e fino a tutti gli anni ’50 del 1900, il racconto di come la cultura sia stata studiata in
geografia si snoda attorno a tre ambienti scientifici principale: tedesco, francese e statunitense.

1.1 Precursori
Alexander von Humboldt e Carl Ritter sono considerati i padri della geografia umana, due studiosi ai quali si devono
le prime organizzazioni sistematiche delle conoscenze maturate fino ad allora sulla relazione tra esseri umani e ambienti
naturali. Entrambi risentono del clima culturale europeo della prima metà del 1800, a cavallo tra il razionalismo illuminista
e l’idealismo romantico.
Alexader von Humboldt (1769 – 1859) incarna l’impostazione razionalista, empirica, analitica, fondata su dati, strumenti,
carte, sull’osservazione diretta e il lavoro sul campo. Nella sua opera, Kosmos, Humboldt dimostra di prediligere lo studio
dei fenomeni naturali con l’ausilio di strumentazioni e tecnologie dell’epoca, giungendo a importanti scoperte in ambito
naturalistico, tanto è vero che venne considerato il fondatore della geografia fisica. In realtà, le sue descrizioni
associavano natura e cultura, forme del territorio e clima con usi del suolo e costumi sociali. Tuttavia, per il suo approccio
analitico e riduzionistico, volto cioè a scomporre ogni fenomeno studiato in singoli aspetti da esaminare dettagliatamente,
fu considerato il precursore della geografia sistematica che esamina un argomento alla volta (clima, geomorfologia,
demografia, economia). La geografia per von Humboldt equivaleva a descrivere, comparare, classificare; l’intero suo
operato era volto a ricercare le leggi generali che governano la Terra, secondo un procedimento deduttivo. Descriveva
partendo da una concezione realista, oggettiva della realtà, che era sufficiente riprodurre attraverso un’attenta
osservazione sul campo.
Carl Ritter (1779 – 1859) riflette invece il prototipo dell’impostazione idealista e storico-umanistica, fondata sulla
sensibilità soggettiva, su interrogativi filosofici senza tempo e su una visione teleologica spesso permeata di riferimenti
religiosi. La realtà per lui andava intesa in senso olistico. Secondo lui la ricerca geografica doveva rispecchiare una
rappresentazione personale, per cui soggettiva e non scientifica. La cultura si configura come un prodotto di un retroterra
di idee, atteggiamenti, valori quindi la dimensione immateriale della cultura assume per Ritter rilievo centrale. La sua è
una geografia che punta a ricostruire la storia e l’evoluzione degli spazi terrestri utilizzando un metodo induttivo che
muove dai luoghi anziché dai singoli fenomeni; il suo approccio no-riduzionistico considera l’insieme delle forme, degli
aspetti, degli elementi che connotano regioni e paesaggi. Per questo, Ritter fu considerato precursore della geografia
regionale.
due matrici scientifiche e filosofiche diverse.
Gli eventi storici e politici della seconda metà del 1800 favorirono l’affermazione dell’ottica razionalista e scientificamente
fondata dalla geografia utilizzando il paesaggio come strumento di tale storica transizione.

Box 1.1 L’arguzia di Humboldt


Al ritorno dal suo viaggio nelle regioni equinoziali, Alexander von Humboldt pubblicò una serie di volumi in cui associò
la descrizione dei paesaggi che aveva conosciuto a delle immagini ovvero a litografie e acquerelli realizzati da importanti
artisti europei dell’epoca. Humboldt trasformò il paesaggio da concetto estetico-letterario in concetto scientifico,
consentendo alla borghesia di emanciparsi dalla considerazione in termini contemplativi dello spazio e di acquisire
conoscenza scientifica, fondata su dati empirici e funzionale al dominio del mondo. Humboldt attirò l’interesse pubblico
anche scegliendo un titolo per la sua opera, “Quadri della natura”. L’unione di immagini pittoriche e di contenuti scientifici
introdusse la borghesia all’interesse scientificamente fondato per il mondo, trasformandosi da rappresentazione artistica
e letteraria in geografica.
Humboldt effettuò una traduzione concettuale utilizzando il paesaggio come strumento, proprio perché il paesaggio nella
sua ambiguità semantica (ovvero nella sua caratteristica di poter essere descritto in più modi) si prestava a questo.
L’intenzione di Humboldt era quella di emancipare la borghesia prussiana dalla concezione estetica del mondo, dotarla di
una teoria dello spazio, affinché essa acquisisse potere rispetto all’aristocrazia: una geografia per l’azione politica che
sosteneva il paesaggio dalla modernità aristocratica alla piena modernità borghese.
Le immagini contenute nei Quadri della natura si riferiscono soprattutto a vulcani, così come montagne e luoghi esotici.
Esattamente come Strabone, Humboldt cercò di sollecitare la borghesia al rovesciamento dell’ordine aristocratico.

1.2 Culture e determinismo ambientale


La seconda metà del 1800 vide l’affermazione delle scienze sociali: proprio in questo periodo nacquero
l’antropologia, la geografia, la sociologia, la psicologia, mutando il proprio modello generale di riferimento dall’anatomia,

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la fisiologia e le scienze naturali ovvero dalle discipline che avevano già costruito la propria epistemologia sul metodo
scientifico. Le discipline sociali poterono realizzare il passaggio da mero ambito di conoscenza a scienza proprio grazie
agli avanzamenti compiuti nell’ambito delle scienze mediche e naturali, che per prime riuscirono a comprendere strutture
e funzioni degli organismi viventi, essere umani compresi, ispirandosi alla teoria di Darwin sull’evoluzione della specie.
Le scienze sociali studiano soprattutto l’uomo, che è sia organismo vivente sia dotato di consapevolezza, quindi in grado
di rispondere in modo diverso alle sollecitazioni ambientali. Tuttavia, gli scienziati sociali dell’epoca non potevano
discostarsi troppo dalla notorietà e dalla rilevanza acquisita dalla teoria di Darwin, che si dimostrava perfettamente
funzionale agli obiettivi politici espansionistici e colonialisti che gli Stati stavano allora perseguendo (la produzione di
conoscenza era sottoposta a censure).
La nascita dell’antropologia culturale, cioè disciplina volta allo studio della cultura e delle culture, è ricondotta a Edward
B. Taylor quando nel 1871 pubblico Primitive Culture. Tylor definì la cultura in senso sociale e non più individuale: “La
cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le
credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto
membro di una società”. Attraverso questa definizione, Tylor concepiva la cultura come connotato di specifiche
collettività, decretando il superamento dell’idea di cultura illuministica intesa come insieme di conoscenze acquisibili
individualmente. Tylor concepì la cultura in chiave evoluzionistica, cioè secondo uno sviluppo lineare (nel tempo) e
universale (che riguarda tutte le culture) che lo portò a distinguere tra culture primitive e culture moderne. Per Tylor la
cultura era dunque unica per l’intera umanità e si diversificava in base allo stadio evolutivo in cui le singole culture si
trovavano in un determinato momento storico.
Con Friedrick Ratzel (1844 – 1904) anche la geografia assunse legittimazione scientifica, stabilendo un nesso di
casualità tra l’ambiente naturale (causa) e le attività umane (effetto). Grazie a questa impostazione, la geografia passò
dalla descrizione dei fenomeni osservati alla loro spiegazione, acquisendo legittimazione scientifica.
L’Anthropogeographie di Ratzel (opera in due volumi), fu in seguito considerata come l’atto di nascita ufficiale della
geografia umana, proprio perché Ratzel spiegò la distribuzione dei fenomeni umani sulla superficie terrestre in chiave
deterministica, cioè riconducendo le forme, le azioni, le connotazioni umane alle caratteristiche dell’ambiente naturale
(clima e geomorfologia soprattutto). Con Ratzel la geografia assunse dignità di scienza e il paradigma che ne derivò fu
definito determinismo ambientale, proprio perché basato sull’assunto che la natura fosse la variabile indipendente in
grado di determinare le azioni dell’uomo e dunque le connotazioni degli spazi terrestri.
Ratzel dimostrò grande interesse per la cultura, ma la osservò nell’ottica evoluzionistica e positivistica tipica del suo
tempo, cioè secondo un ordine logico che procede dal semplice al complesso, proprio come gli organismi vegetali e
animali nel loro percorso di adattamento all’ambiente.
Similmente all’antropologo Tylor, Ratzel, distingue due principali tipologie di gruppi umani: Naturvolker (popoli primitivi
dominati dall’ambiente naturale) e Kulturvolker (popoli evoluti in grado di gestire l’ambiente). Per Ratzel tale distinzione
era esito dell’evoluzione dell’umanità verso stadi progressivamente migliori, che gli Stati europei avevano già acquisito,
collocandosi in posizione di superiorità culturale rispetto ai popoli “naturali”. L’adesione alle logiche razionalistica tipiche
del suo tempo portò Ratzel a occuparsi soprattutto degli aspetti materiali e visibili della cultura, con particolare attenzione
agli strumenti e ai manufatti utilizzati per forgiare il paesaggio, così come alle pratiche abituali delle comunità rurali e
primitive, tanto da essere considerato il precursore del concetto di genere di vita successivamente sviluppato da Vidal de
la Blache.
Il determinismo ambientale fu adottato anche dai geografi anglosassoni come Ellsworth Huntington (1876 – 1947) e
Thomas Griffith Taylor (1880 – 1963) per spiegare le differenze tra le culture umane in differenti luoghi. Per i geografi
deterministi, le culture erano il prodotto delle condizioni ambientali in cui si sviluppavano. L’intento era teso a definire le
leggi che regolano i fenomeni antropici, sulla base delle caratteristiche ambientali; così, la geografia determinista
mostrava i suoi forti legami con il positivismo della metà del 1800, volto a fornire risposte scientifiche sotto forma di leggi
e modelli di validità generale.
Il determinismo ambientale si dimostrava così funzionale alle politiche di colonizzazione, che trovavano ulteriore
legittimazione grazie al concetto di spazio vitale elaborato da Ratzel (1901) di cui necessitano le civiltà per sopravvivere,
in analogia con il concetto di organismo vivente e perfettamente idoneo a sostenere gli obiettivi espansionistici degli Stati
europei.
Sulla base di tali premesse epistemologiche, altri studiosi, sempre in ambito germanico, si occuparono di questioni
culturali focalizzando l’attenzione sugli strumenti e le tecniche utilizzate per plasmare i paesaggi agrari oppure
utilizzando l’etnia come chiave di lettura per spiegare l’assetto urbanistico dei centri abitati.
Eduard Hahn (1856 – 1928) si occupò delle tecniche di coltivazione e di addomesticamento degli animali nelle varie
culture, così come delle diversità etniche nelle pratiche agricole, che conferivano peculiarità ai singoli paesaggi. Si
interessò anche delle pratiche religiose e rituali legate all’allevamento degli animali, accennando alla dimensione
spirituale della cultura.
Otto Schluter (1872 – 1959) attenzione al paesaggio, arrivando a definire la geografia come scienza del paesaggio
(1908). Il paesaggio era inteso da lui come insieme di forme fisiche e culturali, ma sempre in un’ottica evoluzionistica, in
base a cui il paesaggio naturale (originario e selvaggio), diventa paesaggio culturale, assumendo connotazioni diverse
nello spazio a seconda del livello di sviluppo tecnologico delle singole culture.
Ad Ernst Kapp (1808 – 1896) si deve l’introduzione del termine Kulturgeographie (1845) e l’avvio di studi geografici sulla
cultura, ma senza costruire un’epistemologia specifica, perciò rimanendo nell’ambito della geografia umana. I gruppi
umani, secondo Kapp, sono condizionati dall’ambiente naturale in cui risiedono.

Box 1.2 Evoluzionismo culturale

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La teoria dell’evoluzione, assurta a teoria scientifica grazie a Charles Darwin, postula che sulla Terra gli esseri viventi
si siano evoluti in forme sempre più complesse e differenziate. L’evoluzione è dunque il processo di cambiamento
adattivo attraverso cui le specie viventi si trasformano di generazione in generazione per adattarsi alle condizioni
ambientali, anch’esse in continua modificazione. Fondamentale principio della teoria dell’evoluzione è il meccanismo
della selezione naturale, secondo cui sopravvivono, si riproducono e si evolvono le specie in grado di adattarsi più di
altre all’ambiente e dunque di avere la meglio nella lotta per l’esistenza.
Sulla scia del positivismo della seconda metà del XIX secolo, la teoria dell’evoluzione assumeva che tutte le società si
evolvessero secondo un modello unilineare, dal semplice al complesso, in base alla loro capacità di rispondere
attivamente ai condizionamenti ambientali. Il fatto che esistano culture superiori, secondo l’antropologo Tylor (1871),
confermava la validità della teoria evoluzionistica, in quanto essere derivavano senza dubbio da stadi precedenti.
L’evoluzionismo sociale formalizzato da Hebert Spencer, portò a pensare le culture in termini gerarchici e a giustificare
l’imperialismo come missione civilizzatrice, sulla base di postulati evidentemente etnocentrici. Tale teoria sostenne
perfettamente gli obiettivi colonialisti ed espansionisti degli Stati moderni. Nel descrivere i luoghi e culture profondamente
diverse, si affermò nel frattempo la descrizione scientifica dell’Altro, ovvero la costruzione dell’Alterità attraverso discorsi
e narrazioni scientifiche, funzionale a sua volta al rafforzamento delle identità nazionali dei paesi colonizzatori.
La visione evoluzionistica e la necessità della missione civilizzatrice di fine 1800 si riscontra anche in diversi
componimenti letterari dell’epoca (Il fardello dell’uomo bianco di Rudyard Kipling 1899). La rappresentazione dell’Altro
trovò espressione anche nelle celebri tele di Paul Gauguin.

1.3 Culture, possibilismo e regionalismo


Agli inizi del 1900, Paul Vidal de la Blache (1845 – 1918), seguendo un approccio storico-geografico ispirato a Carl
Ritter e contrario agli assunti positivisti, rovesciò il determinismo ambientale, sostenendo che l’ambiente influenza ma
non determina le attività umane. Nella sua visione, la natura offre delle possibilità, che l’uomo sfrutta in base al proprio
genere di vita, specifico di ciascun gruppo umano insediato su un dato territorio. in seguito, tale nuovo modello di
riferimento teorico fu definito possibilismo geografico dallo storico Lucien Febvre, allievo di Vidal de la Blache e
sistematizzatore dell’opera del maestro.
I cardini attorno a cui si sviluppò il pensiero possibilista furono:
• genere di vita: combinazione di natura, cultura e livello tecnologico;
• regione: porzione di superficie terrestre connotata da un genere di vita;
• paesaggio: espressione visibile della regione.
La cultura, per i geografi possibilisti, è ciò che si interpone tra natura e uomo, che genera diversità territoriale, che al pari
della tecnologia trasforma l’ambiente, quindi l’attenzione era centrata soprattutto sugli strumenti e sulle tecniche utilizzati
per generare il volto unico e irripetibile dei paesaggi regionali. I possibilisti abbandonarono il loro pregiudizio della
superiorità o inferiorità delle culture, semplicemente le culture erano diverse. Ciò comportava il ritorno alla catalogazione
empirista dell’epoca delle esplorazioni settecentesche e ottocentesche. L’obiettivo della ricerca geografica era quello di
rilevare le specificità dei generi di vita e documentare gli artefatti materiali prodotti dalle culture nelle singole regioni:
strumenti e tecniche per forgiare i paesaggi agrari, forme degli edifici, usi del suolo. Ne derivò una geografia umana
descrittiva, che cercava di documentare e catalogare le manifestazioni materiali delle culture, così da stabilire analogie e
differenze tra le diverse regioni.
I geografi possibilisti rovesciarono non solo i presupposti teorici deterministi, ma anche le finalità implicite della ricerca:
se il determinismo si prestava a sostenere gli interessi degli Stati nazionali, fornendo un giustificativo alle politiche di
colonizzazione ed espansione territoriale, il possibilismo si dimostrava funzionale agli obiettivi della laboriosa borghesia
dell’epoca, che per ampliare commerci e attività imprenditoriali aveva bisogno di maggiore libertà d’azione e maggiore
conoscenza delle peculiarità regionali/locali ove avrebbe potuto operare, sempre comunque nell’ambito di un forte senso
di unità nazionale.
Diversi geografi possibilisti si occuparono in modo specifico di cultura:
• Jean Brunhes (1869 – 1930): focalizzò l’attenzione sugli ambienti rurali, dedicandosi anche agli elementi
psicologici che sono alla base dei fatti geografici e all’impiego del tempo nelle varie culture.
• Albert Demangeon (1822 – 1946): si interessò degli insediamenti rurali in prospettiva storica.
• Pierre Deffontaines (1894 – 1978): studiò strutture e paesaggi agrari, evidenziando le specificità regionali sulla
base delle differenze ambientali e culturali; s’interessò alle religioni, come agenti in grado di modellare i
paesaggi e regioni specifiche.
• Pierre Gourou (1900 – 1999): studi su regioni e paesi tropicali, rilevando che la cultura è la variabile
indipendente quindi determina i paesaggi e plasma la natura. Da queste riflessioni ci si avvicina al determinismo
culturale.
In Italia, il possibilismo geografico fu accolto con entusiasmo e dette inizio a una lungo serie di monografie regionali,
centrate sulla descrizione puntuale di singoli territori. L’attenzione fu riposta soprattutto sugli spazi rurali, allora ancor più
connotati di specificità; ma gli aspetti culturali erano trattati al pari degli altri elementi (ambientali, economici, sociali),
senza dar vita a un’epistemologia specifica ovvero una geografia culturale. In Italia, tra le opere più rappresentative
dell’epoca, vi fu la collana dedicata alla casa rurale; la collana Le Regioni d’Italia ove ampio spazio era dato agli aspetti
culturali materiali e immateriali; e le monografie regionali a commento della Carta dell’utilizzazione del suolo in Italia.
Tanto il possibilismo geografico quanto il determinismo ambientale studiarono le culture, dunque, ma non ne fecero
perno di indagine. Le riflessioni deterministe e possibiliste maturarono nell’ambito della geografia umana, senza dare

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luogo alla nascita della geografia culturale, delineata cioè nel suo oggetto, metodo e finalità. Il risultato, in entrambi i casi,
era preminentemente descrittivo: si descrivevano le differenze, secondo il metodo comparativo; si analizzavano le
relazioni tra ambiente naturale ed esseri umani, in logica causalistica unidirezionale (determinismo) o bidirezionale
(possibilismo). L’impostazione razionalista era in entrambi i casi fedelmente rispettata.

1.4 Ascesa e declino della Scuola di Berkeley


Negli Stati Uniti la geografia umana nacque come disciplina istituzionalizzata sul finire del XIX secolo, sulla base
della forte influenza esercitata dagli scritti di Alexander von Humboldt. La geografia statunitense dei primi del 1900,
aveva come protagonisti gli allievi di Ratzel, che iniziarono a diffondere gli assunti del determinismo ambientale portando
agli estremi il nesso di causalità tra ambiente e uomo, fino a ritenere che l’uomo è un prodotto della superficie terrestre.
Il determinismo statunitense assunse i tratti di una geografia che non solo era facilmente accettabile dal punto di vista
scientifico, ma anche inattuale dal punto di vista politico. Conclusa la fase colonialista centrata sul dominio territoriali e
apertasi quella del controllo economico, infatti, agli Stati Uniti, così come ai paesi europei, non interessava più un motivo
scientifico per giustificare la politica del dominio territoriale nei confronti di paesi ricchi di risorse e politicamente deboli.
Era importante piuttosto sostenere gli interessi di chi era in grado di esercitare un dominio economico sui territori, cioè
quelli della crescente borghesia industriale e commerciale.
L’espressione “geografia culturale” era già diffusa in ambito statunitense, poiché dalle carte geografiche dell’epoca i
simboli riferiti agli artefatti umani (edifici, strade, ferrovie) erano riuniti sotto il termine culturale, distinguendoli da quelli
riferiti alla natura. Nel volgere di alcuni decenni, però, l’aggettivo “culturale” associato al termine “geografia” fu utilizzato
per delineare un ambito di studi specifico e rivoluzionario che fu proposto dalla cosiddetta Scuola di Berkeley, in
California, e che in breve tempo acquisì notevole rilievo scientifico e politico, grazie all’opera di Carl Sauer, considerato, il
fondatore della geografia culturale.
Carl Sauer (1889 – 1975) nacque nel Missouri, studiò geologie e geografia all’Università di Chicago e ottenne un incarico
all’Università del Michigan nel 1915. Nel 1922 decise di trasferirsi all’Università di Berkeley, in California, ove assunse il
ruolo di direttore del Dipartimento di Geografia.
La sua era una geografia che mutuava dalla geografia tedesca l’interesse per la dimensione ambientale e dalla geografia
francese quello per il paesaggio e la regione, ma attribuendo ruolo centrale alla cultura. Per questo, egli stabilì legami
soprattutto con l’antropologia, da cui acquisì il metodo di ricerca etnografico (sul campo, qualitativo), mostrando forti
perplessità nei confronti dei metodi quantitativi. A Berkeley, Sauer collaborò con gli antropologi Robert Lowie (austriaco),
allievo di Franz Boas, il cui campo di studio principale era costituito dagli indiani d’America, e con Alfred Kroeber,
anch’egli allievo di Boas, con cui condivise diversi studi sulle popolazioni indiane e precolombiane.
Contrario al determinismo e al volontarismo del Middle West, Sauer centrò l’attenzione sul paesaggio (anziché sulla
regione possibilista) e rovesciò la relazione cultura-ambiente: le culture influenzano fortemente l’ambiente in cui vivono,
cioè il paesaggio naturale, che viene trasformato in paesaggio culturale. Come Vidal de la Blache, Sauer intendeva
ristabilire la tradizione di studi corologici della geografia, ossia quelli umani e ambienti naturali in una prospettiva storica
di lungo termine. L’approccio di Sauer era dunque storico ma diverso dal possibilismo, sia per la forte attenzione
attribuita alla natura, alle risorse, alle specie vegetali selvatiche e coltivate, sia perché la cultura fu posta al centro della
sua analisi, sia in riferimento agli strumenti utilizzati per trasformare la natura in paesaggio culturale, sia riguardo agli
esiti di tale trasformazione (cioè alle forme del paesaggio).
Nel saggio The Merphology of Landscape, 1925, Sauer fornì una sua definizione di paesaggio culturale: “Il paesaggio
culturale è un paesaggio naturale forgiato da un gruppo culturale. La cultura è l’agente, gli elementi naturali sono il
mezzo, il paesaggio culturale è il risultato”. Il compito della geografia culturale era dunque quello di descrivere la
morfologia di un dato paesaggio, rivelando le tracce materiali lasciate dalle culture umane. Morphology, cioè la forma,
l’aspetto, la struttura visibile del paesaggio. Per Sauer il paesaggio è l’oggetto di studio della geografia, e la geografia
deve occuparsi di studiare come l’uomo modifica gli ambienti naturali e crea paesaggi. A tale scopo, egli fondò a
Berkeley la Scuola del Paesaggio, che si occupò specificatamente di studiare la forma e la storia culturale dei paesaggi,
con particolare attenzione alle pratiche agricole dei primi coloni. Nel 1925, in un contributo, Sauer confermò la sua
opinione circa l’obiettivo della geografia: cartografare la distribuzione spaziale degli artefatti umani, per rilevare le loro
origini, scoprire la loro diffusione, comprendere il contesto culturale e ambientale in cui sono sorti.
Sauer e i suoi allievi focalizzarono l’attenzione sulle culture native, sulla storia e l’evoluzione degli insediamenti umani,
così come sugli spazi rurali e lo sviluppo storico delle pratiche agricole degli Stati Uniti, con particolare attenzione alla
domesticazione di piante e animali e combinando una minuziosa ricerca d’archivio con un dettagliato lavoro sul campo.
Delle società industrializzate Sauer e i suoi allievi presero in considerazione solo due aspetti:
• come esse distruggono l’ambiente in cui si sono sviluppate;
• le piante e gli animali non autoctoni di cui si circondano (anticipando le preoccupazioni dei movimenti
ambientalisti).
Lo stesso Sauer specificò che “ il paesaggio naturale è sottoposto a trasformazioni per mano degli uomini, l’ultimo e
secondo noi più importante fattore morfologico. Per mezzo delle sue culture egli utilizza le forme naturali, in molti casi le
altera, in alcuni casi le distrugge”.
Gli studi di ecologia culturale della Scuola di Berkeley puntarono a valutare le trasformazioni/alterazioni della natura ad
opera delle culture. La gestione dell’ambiente diventò per Sauer e i suoi allievi un parametro di valutazione delle culture,
un’occasione per avanzare una forte critica alle civiltà moderne e per capovolgere l’evoluzionismo culturale: sono le
culture più avanzate ad essere più distruttive dell’ambiente e quindi meno evolute rispetto a quelle primitive o tradizionali.

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Sauer non fornì una definizione del termine “cultura”, poiché riteneva ce non dovessero essere i geografi ad
occuparsene; ma di fatto abbracciò un’idea di cultura piuttosto diffusa negli ambienti antropologici dell’epoca e delineata
da Alfred Kroeber, il quale, in un contributo del 1917, aveva parlato di cultura come entità superorganica, contro l’idea
dell’origine biologica fino ad allora dominante. Kroeber considerava la cultura come forza superiore ed esterna alla
realtà, un’entità impossibile da descrivere e comprendere, qualcosa che si trasmette di generazione in generazione e
guida gli esseri umani nel plasmare gli spazi con cui interagiscono.
Sauer aveva contrastato fortemente il determinismo ambientale abbracciando l’idea superoganica di cultura, non fece
altro che stabilire un nesso di causalità diretta tra la cultura e l’ambiente naturale, dando vita a una sorta di determinismo
culturale: la cultura fu definita come shaping force (forza plasmante) che risiede in culture itself (nella cultura stessa). La
cultura era quindi considerata come una sorta di black box, insondabile e inconoscibile, e allo stesso tempo come una
forza causativa in grado di guidare il comportamento dei diversi gruppi umani nei diversi ambienti di vita. La Scuola di
Berkeley, sul finire degli anni ’50, subì un rapido declino.
Ciò che fu criticato a Sauer era soprattutto l’idea superorganica di cultura, in base a cui la cultura era una forza superiore
es esterna agli esseri umani, qualcosa di impossibile da descrivere e comprendere, ma in grado di determinare le azioni
dell’uomo; la critica era rivolta dunque alla geografia culturale che recava in sé il rischio di un’idea di cultura reificata e
precostituita. Emersero così i limiti della Scuola di Berkeley, per le sue radici nell’ambientalismo statico della cultura, per
l’immutabilità, staticità, a-storicità della cultura e l’assenza di una dimensione processuale, per la debole
caratterizzazione dei contenuti e la scala geografica privilegiata, cale a dire quella dell’area culturale; tutti elementi che
rendevano la geografia culturale di Sauer priva di connotazione epistemologica ovvero molto simile alla geografia
umana.
L’idea superorganica della cultura era già stata soggetta a durissimo attacco in ambito antropologico e dichiarata
superata agli inizi degli anni ’40 del 1900; in geografi, invece, essa fu portata avanti dai geografi culturali statunitensi, i
quali, ignorando la varietà delle definizioni alternative, continuarono a impostare le loro ricerche sulla concezione
superorganica della cultura senza alcuno spirito critico, sviluppando un interesse ossessivo per gli elementi materiali
della cultura anziché sulla sua dimensione sociale, con una serie numerosa di scritti centrata sulla distribuzione e
descrizione dei tratti caratteristici dei paesaggi rurali statunitensi. I geografi californiani, attraverso i libri e insegnamenti
universitari, promossero una generazione di studenti addestrati a distinguere e classificare i popoli della Terra in mondi
culturali, come entità omogenee nettamente delimitabili. Questa idea di cultura cominciò a essere messa in discussione
a partire dalla metà degli anni ’70, grazie alcuni geografi che ne presero le distanze.
Ma le critiche alla Scuola di Berkeley si basavano anche su altri motivi:
• si trattava di una geografia soprattutto descrittiva, basata sull’inventario delle caratteristiche ambientali e
culturali di un dato territorio;
• era puntualmente conoscitiva, le regioni apparivano come frutto di partizioni terrestri che erano utili per
descrivere la Terra, ma non per applicazioni pratiche;
• limitandosi a descrivere la morfologia di aree e paesaggi culturali, la Scuola di Berkeley non arrivava a
comprendere il vero motivo della differenziazione tra regioni e a fornire spiegazioni sul perghè fatti e fenomeni
accadevano in uno specifico “dove”.
La geografia culturale della Scuola di Berkeley fu considerata non scientifica, cosicché si tornò a riflettere su Varenio (la
geografia è scientifica o non scientifica?) e sul metodo nomotetico (volto a stabilire leggi e modelli di validità generale) o
idiografico (descrittivo delle particolarità); ma Varenio aveva risposto che la geografia culturale di Carl Sauer e della
Scuola di Berkeley si dimostrava inadeguata al contesto politico, sociale ed economico venutosi a creare tra gli anni ’60
e ’70: un’epoca segnata da crisi economiche mondiali e guerre drammatiche, inasprimento degli squilibri sociali e
territoriali, movimenti di protesta e rivendicazioni di nuovi diritti. Per questo, la geografia di Sauer appariva irrilevante
rispetto al mondo reale in cui gli stessi geografi erano immersi.
Entrò in crisi, quindi, l’intera geografia culturale, che restò senza legittimazione sociale e scientifica.

1.5 Nodi problematici


La geografia della Scuola di Berkeley fu messa in discussione soprattutto per la sua concezione superorganica della
cultura, e più in generale fu sottoposto a critica l’intero modo razionalista di studiare la cultura fino ad allora praticato
dalla geografia, per diversi problemi che esso presenta.
Il primo aspetto problematico riguarda la scarsa connotazione epistemologica rispetto alla geografia umana. Nell’ottica
razionalista tradizionale, i confini tra geografia umana e geografia culturale si assottigliano, cosicché per la geografia
culturale di intende sia il lavoro alla scala nazionale, continentale o globale, volto ad individuare localizzazione,
distribuzione e diffusione di caratteri culturali ovvero a delimitare aree/regioni connotate da una più specificità culturali,
sia di indagine riferita a specifici contesti/aree/regioni culturali. A Carl Sauer e alla Scuola di Berkeley furono attribuiti
quattro campi di studio facente capo in parte alla geografia umana e in parte alla geografia culturale:
1. distribuzione e diffusione di elementi culturali;
2. individuazione aree/regioni culturali;
3. le modalità di utilizzazione delle componenti naturali da parte delle diverse culture e il diverso grado di
alterazione ambientali arrecato agli spazi naturali delle singole culture;
4. la specializzazione regionale delle culture ovvero lo studio delle connotazioni culturali all’interno di ciascuna
area/regione culturale individuata.
I primi due punti rientrano nella geografia umana, il terzo e il quarto nella geografia culturale.

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Nel complesso, la geografia culturale di Sauer e della Scuola di Berkeley aveva realizzato una sorta di miscuglio tra
geografia umana e geografia culturale, piuttosto comprensibile visto che negli Stati Uniti era invalsa l’abitudine di
considerare umano e culturale come sinonimi. Tale tradizione deriva infatti dalla cartografia ottocentesca, che
distingueva solo due tipi di simboli: quelli “naturali” e quelli “culturali”.
Col senno di poi, si ha la sensazione che la geografia culturale della Scuola di Berkeley sia stata un fenomeno locale, da
intendersi alla luce del contesto accademico, sociale, storico e politico degli Stati Uniti della prima metà del 1900. In
Europa, la geografia culturale non si delineò come campo di studi specifico, perché ciò di cui si occupava la Scuola di
Berkeley era affrontato nell’ambito della geografia umana oppure nell’ambito della geografia regionale, dando sì rilevo
agli aspetti culturali, ma senza farne cardine di una specifica epistemologia.
Perciò si delineava la differenza tra l’ambito europeo e l’ambito statunitense: l’uno orientato maggiormente a centrare
l’attenzione sul territorio, nella sua accezione complessiva, inteso cioè come commistione di aspetti naturali, storici,
economici, culturali; l’altro ad erigere la cultura come chiave di lettura del volto unico e specifico di ciascuna area/regione
culturale. Fin da subito la geografia culturale della Scuola di Berkeley mostrava il suo punto debole: per rintracciare le
caratteristiche uniche e irripetibili che forgiavano i paesaggi culturali bisognava rivolgersi alle culture native o a quelle
rurali tradizionali, non coinvolte nei processi di urbanizzazione o industrializzazione che pure stavano emergendo.
L’approccio razionalista tende a considerare la cultura in termini spazialmente omogenei dando cioè per scontato che un
determinato territorio sai connotato da omogeneità culturale e coesione sociale a priori, senza tenere conto delle
coesistenze culturali che ormai connotano ogni territorio, coesistenze spesso conflittuali, che creano chiusure e
contrapposizioni reciproche. Questo approccio è stato messo in dubbio anche perché considera la cultura in termini non
problematici, secondo canoni “moderni”, romanticamente intesi, non a caso messi in discussione proprio dalla svolta
post-strutturalista. Attribuire un connotato di omogeneità aprioristico alle culture e farle coincidere con uno specifico
spazio geografico equivale a disconoscere le inevitabili diversità interne (ad ogni luogo) di matricola sociale, politica ed
economica, nonché seguire una logica di continuità temporale (dal passato al presente) che indica più o meno
consapevolmente il futuro, la direzione da intraprendere nel solco della storicità, senza possibilità di cambiamento.

1.6 Fare geografia culturale in ottica razionalista


L’approccio culturale razionalista per essere praticato ha bisogno di conoscenze di base geografiche, di cartografia,
di dati statistici, di osservazione, di riferimenti storici.
Silvio Piccardi, geografo italiano, pubblicò un volume di geografia culturale. Premette alcune osservazioni generali sui
paesaggi culturali: “il paesaggio culturale si può considerare un’astrazione ottenuta isolando le forme culturali presenti
negli elementi umani del paesaggio ”. Tale affermazione riflette il riduzionismo cartesiano. Gli elementi culturali che
l’autore considera sono quelli “il cui possesso genetico rivela una matrice appunto culturale o spirituale, come una
conoscenza religiosa, etica o sociale, una moda qualsiasi; matrice che può essere passata o attuale, data la tendenza di
questi medesimi segni a sopravvivere lungamente alla causa originaria”. Piccardi si riferisce agli aspetti materiali e
immateriali della cultura, ma considerati in modo separato cioè a delle caratteristiche che sono esito di un passato
storico.
Piccardi sottolinea che ciò che distingue un paesaggio culturale è la specificità, l’individualità, la personalità. Parla di
regionalizzazione dei paesaggi culturali, cioè di ritaglio della superficie terrestre in ambiti omogenei, presupponendo il
nesso diretto tra culture e luoghi, e disconoscendo così la diversità culturale e sociale che è nei luoghi.
Piccardi inoltre descrive il procedimento da seguire, definendo le tre fasi della ricerca geografica sul paesaggio culturale:
1. inventario sistematico di tutti i segni paesistici dotati di un significato culturale;
2. classificazione e aggregazione dei dati rilevati in rapporto al territorio (cioè l’individuazione di insiemi paesistici
e la loro ubicazione);
3. analisi di questi segni e la loro interpretazione, anche genetica, a cui si accompagnerà lo studio delle
correlazioni culturali e materiali che legano insieme e danno origine ai paesaggi culturali.
L’interpretazione dei segni culturali non è effettuata ricorrendo alla semiotica e all’ermeneutica (che assumono rilievo con
la new cultural geography), bensì sembra riferirsi a un valore assoluto attribuito da saperi esperti. Secondo Piccardi lo
studio degli insiemi paesistici culturali non può esaurirsi nell’analisi descrittiva delle forme ma deve anche tentare di
definire il significato complessivo dei paesaggi e scoprirne i contenuti culturali dominanti. Ma il significato complessivo di
un paesaggio non può che essere frutto dell’interpretazione di qualcuno. Infine, Piccardi segnali gli strumenti di ricerca:
1. studio diretto dei luoghi;
2. esame della produzione geografica e parageografica, urbanistica, letteraria, storico-artistica, archeologica,
storica, toponomastica, linguistica;
3. foto e immagini aeree.
La geografia culturale proposta da Piccardi non differiva molto da quella di Carl Sauer e della Scuola di Berkeley; la
potremmo definire una geografia umana razionalista attenta alle connotazioni culturali macroscopiche e rivolta a
descrivere le caratteristiche delle singole aree culturali concepite come entità analizzabili in termini oggettivi e obiettivi.

Capitolo 2: Trent’anni di fermenti (1950 – 1979)


All’indomani della Seconda guerra mondiale si ebbe una fase di espansione economica senza precedenti. La
repentina trasformazione della società da prevalentemente rurale a urbana e industriale si accompagnò alla diffusione di
stili di vita improntati al benessere materiale individuale, sempre più assecondato dai progressi tecnologici nel frattempo

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conseguiti. Sul piano sociale si ebbe un atteggiamento di fiducia e curiosità verso l’innovazione, il futuro, il progresso
tecnologico.
L’economia diventò disciplina cardine, così come la sociologia, intenta ad analizzare i nuovi fenomeni sociali indotti dagli
intensi processi di industrializzazione e urbanizzazione. La scienza era chiamata a sostenere l’obiettivo della crescita
economica illimitata, proponendo modelli e teorie in grado di ottimizzare funzioni e strutture urbane, produttive, sociali,
nonché in grado di predire scenari futuri.
Anche la geografia risentì di questo trend: diversi studiosi iniziarono a perseguire obiettivi pragmatici e dal risvolto
concreto, a praticare una geografia che voleva essere scienza utili alla pianificazione territoriale e alla programmazione
economica. La “nuova geografia” portò agli estremi gli assunti razionalisti e dopo qualche anno furono mosse alcune
critiche. A partire dagli anni ’70 presero così forma altre geografie basate su presupposti teorici completamente diversi,
che costituirono un passaggio importante per la nascita, nel decennio successivo, della nuova geografia culturale.

2.1 Il contributo della spatial analisys


Risentendo del clima neopositivista che si affermò negli anni ‘50/’60, la geografia umana tornò a farsi scienza
nomotetica (cioè ad elaborare teorie e modelli di validità generale); anziché idiografica (cioè descrittiva dei singoli
luoghi), con l’obiettivo di diventare disciplina utile alle scelte politiche. L’attenzione era soffermata su strutture e funzioni
ritenute determinanti ai fini dell’organizzazione dello spazio insediativo e produttivo, il che implicava un lavoro di
selezione dagli aspetti da considerare, escludendo quelli ritenuti marginali. La geografia iniziò ad utilizzare i termini delle
cosiddette scienze dure, dalla fisica all’anatomia umana (poli, magneti, aree di gravitazione, arterie).
Si trattò di una geografia che utilizzava modelli matematici, statistici e ispirati alla geometrica euclidea, spostando
l’attenzione dallo spazio concreto allo spazio astratto, isotropo e isomorfo, disegnato su un foglio di carta. Ciò che
contava era isolare strutture e funzioni portanti, analizzarne il funzionamento, prevederne le evoluzioni, formulare
proposte. Furono così ripresi alcuni modelli teorici elaborati in precedenza da geografi e studiosi di altre discipline (von
Thuen, Weber, Christaller), con l’obiettivo di ricondurre le forme dell’organizzazione spaziale a figure geometriche,
centrate sulle variabili principali dei fenomeni esaminati e sul loro peso ai fini della localizzazione ottimale di attività
agricole, industriali, urbane.
La finalità nomotetica rendeva questa geografia nettamente diversa dalla geografia tradizionale francese (regionalista,
induttiva, descrittiva) e dalla geografia culturale nordamericana, e molto simile a quella positivista tedesca della seconda
metà del 1800; un nuovo tipo di determinismo su base statistico-economia, anziché ambientale, che escludeva dalle sue
analisi natura, cultura e storia. Tale geografia, che maturò soprattutto nel Midwest statunitense, con la Scuola di Chicago
tra i principali poli di ricerca, fu definita in vario modo: funzionalismo; geografia quantitativa; spatial analysis; new
geography; geografia neopositivista. La spatial analysis, sotto il profilo scientifico, costituiva la punta estrema di un più
ampio movimento di pensiero affermatosi in tutte le discipline, ovvero lo strutturalismo.
Secondo Doreen Massey (2005), lo strutturalismo che sottendeva la geografia quantitativa fu motivato dalla necessità di
svincolarsi dal dominio della narrazione, cioè dalla generalizzata tendenza a privilegiare la coordinata tempo nella lettura
dei fenomeni studiati dalle discipline sociali, che aveva contraddistinto il periodo precedente. Gli strutturalisti intendevano
rovesciare le priorità della ricerca di matrice storica, affermando la prevalenza della sincronia sulla diacronia, della
struttura sulla narrazione, dello spazio sul tempo, ma in realtà produssero l’effetto di portare alle estreme conseguenze i
ragionamenti di matrice cartesiana e razionalista.
La diffusione della spatial analysis, con i relativi riferimenti alle relazioni centro/periferia, condizionò anche i risultati delle
ricerche centrate sull’analisi di determinati fenomeni culturali, dimostrando ulteriormente i limiti dell’approccio neo-
positivista. Tale è il caso dello studio condotto da Donald Meinig (1965) sui Mormoni, comunità religiosa che ha il suo
centro principale nello Utah. Meinig analizzò la diffusione di piccole comunità mormone lungo la Pacific Coast, cui si
andavano insediando, subendo nel contempo una qualche trasformazione. Meinig stava parlando di ibridazione
culturale, processo secondo cui alcuni caratteri culturali assumono connotazioni diverse rispetto alla versione originaria,
grazie al contatto con luoghi connotati da preesistenti caratteristiche culturali. Ma per gli studiosi del tempo, condizionati
dalla visione neo-positivista, tale fenomeno era interpretato come gemmazione (riproduzione) della core area (area
centrale), cioè secondo una modalità di sviluppo urbano che considerava la nascita di nuovi centri come derivanti dal
centro urbano principale, con gli stessi connotati e legati ad esso da legami funzionali, quando in realtà essi andavano
sviluppando caratteri specifici e contestualizzati.
Questo modo di fare la geografia mostrò dei limiti: focalizzare l’attenzione su strutture e funzioni costanti implicava una
visione priva di dinamicità e incapace di considerare la complessità degli elementi e delle relazioni in gioco; essa
postulava inoltre, il comportamento razionale di persone, soggetti economici e attori sociali, a prescindere dalle
preferenze individuali e collettive, il che era alquanto distante dalla realtà delle cose. Con la svolta quantitativa la
geografia aveva rinunciato alla sua tradizione di studi, allontanandosi dai legami che aveva maturato con le discipline
ambientali, storiche e sociali, per avviarsi su un terrone di collaborazione scientifica con discipline dure (statistica,
geometria, matematica) che non aveva molta possibilità di sviluppo, non solo per la profonda diversità dei linguaggi e
degli obiettivi, ma anche per la formazione tradizionalmente umanistica della maggior parte dei geografi.
Nell’ambito della spatial analysis maturarono tuttavia alcuni campi di ricerca che mostravano una loro ricaduta culturale,
come nel caso di Torsten Hagerstrand (1916 – 2004) e della Scuola di Lund (Svezia) da lui capeggiata, sulla diffusione
spazio-temporale delle innovazioni e sulla geografia del tempo.
Hagerstrand concepì la diffusione dell’innovazione come propagazione di novità, idee, mode secondo diverse modalità e
a partire da un centro. Tali ricerche assunsero rilevante interesse sia per la novità metodologica, sia perché consentivano
una visione dinamica dei fatti di interesse geografico, che concorreva a meglio interpretare i processi di organizzazione

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e di regionalizzazione dello spazio, laddove il soffermarsi sulla sincronicità equivaleva a parlare non tanto di con-
temporaneità quanto di a-temporalità, quindi di uno spazio senza tempo e di un tempo senza spazio.
La cosiddetta time geography fu focalizzata proprio sull’analisi dei comportamenti spaziali e dell’uso del tempo
individuale e collettivo, dimostrando la diversità delle esperienze che compongono lo spazio geografico. Utilizzando un
modello geografico del tutto nuovo, definito “acquario spazio-temporale” contenente alcuni simboli riferiti alle principali
attività che un soggetto può svolgere nell’arco di una giornata, Hagerstrand intendeva rappresentare l’uso del tempo e
dello spazio da parte degli individui, evidenziando i comportamenti routinari, i ritmi di vita quotidiani, le restrizioni di
tempo, gli impedimenti che ostacolano l’accesso di individui/gruppi a determinati spazi. Associando tale modello a un
territorio reale, furono costruire anche delle carte spazio-temporali, che oggi, con l’ausilio delle tecnologie GIS, è
possibile arricchire in termini di contenuto ed efficacia rappresentativa.
Realizzando mappe spazio-temporali Hagerstrand dimostrava di aver virato la sua attenzione dalla geografia quantitativa
alla geografia culturale. Lo studioso svedese contribuì a mettere in discussione l’idea della comunità coesa e uniforme,
dimostrando che in realtà le biografie quotidiane delle persone variano notevolmente anche all’interno di collettività e
gruppi uniti da qualche motivo aggregante. Il concetto di genere di vita, già messo in discussione dagli stili di vita
urbanizzati e industrializzati delle società occidentali, perdeva ulteriormente senso; piuttosto, la time geography di
Hagerstrand apriva nuovi orizzonti di ricerca, che ancora oggi sono praticati in diversi ambiti di studio disciplinari,
aggiornandone contenuti e basi teoriche.
La time geography sollecitò critiche, soprattutto per il fatto di considerare i comportamenti umani nello spazio-tempo solo
in termini di traiettorie e direzioni, senza tenere in giusto conto vincoli, condizioni e limitazioni individuali o collettive. La
critica femminista specificò ulteriormente tali limiti, considerando la time geography un’espressione della scienza sociale
maschile, poco incline a considerare la corporeità, nelle sue differenze di genere e nei diversi contesti in cui essa si
esprime.

Box 2.1 Lo strutturalismo


Le origini dello strutturalismo sono ricondotte al linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857 – 1913). Saussure
intendeva la lingua come sistema di segni ovvero come una struttura composta da singoli elementi linguistici (grafemi o
fonemi), in relazione tra loro, che svolgono una funzione (segno-significato ovvero struttura-funzione). Secondo
Saussure, la relazione tra una parola e l’oggetto a cui si riferisce è puramente arbitraria. La Lingua, secondo l’autore, è
un sistema di segni che funziona per dare significato agli oggetti; per comprendere la lingua è necessario dunque
conoscere la struttura del sistema simbolico e le relazioni tra i vari elementi che la costituiscono. Per Saussure, esiste
una relazione unidirezionale tra segno e significante, per cui ad un significante, corrisponde un solo significato.
Più in generale si intende per strutturalismo il movimento filosofico, scientifico e critico-letterario che, sviluppatosi
soprattutto in Francia durante gli anni ’60 del secolo scorso, estese all’antropologia, alla critica letteraria, alla
psicoanalisi, al marxismo e all’epistemologia le teorie e il metodo dello strutturalismo linguistico. L’opera in esame (testo
letterario, creazione pittorica o filmica) è intesa come un insieme organico scomponibile in elementi e unità, il cui valore
funzionale è determinato dal complesso dei rapporti fra ogni singolo livello dell’opera e tutti gli altri.

2.2 La rivoluzione delle geografie soggettive e radicali


Nel corso degli anni ’70, in aperta critica nei confronti della spatial analysis, maturarono delle geografie basate su
presupposti teorici e obiettivi profondamente diversi. Alcuni di questi nuovi approcci, che fiorirono nell’ambito della
geografia umana, assunsero particolare rilievo e svolsero un ruolo importante per la nascita della nuova geografia
culturale, che prese avvio negli anni ’80.
Da una parte emersero le geografie soggettive (geografia della percezione, geografica umanistica) che rovesciarono il
punto di vista, ponendo al centro dell’indagine geografica i comportamenti, le percezioni, le esperienze di soggetti, gruppi
sociali e collettività; dall’altra parte si affermò la geografia radicale, di ispirazione marxista o neo-marxista, che pose al
centro dell’attenzione le ineguaglianze dello sviluppo e le questioni della giustizia sociale. Entrambi gli orientamenti
furono accomunati dalla critica al paradigma neo-positivista della spatial analysis, che con le sue teorie e i suoi metodi
quantitativi aveva ricondotto le attività umane al mero meccanismo razionalista, anche escludendo dalle analisi
disciplinari l’universo delle sensibilità, delle referenze e dei vissuti soggettivi.
Partendo dal presupposto che le scelte umane non siano dettate sempre e soltanto dalla razionalità e dalla ricerca del
profitto, le geografie soggettive, collocandosi contro il neo-positivismo e il razionalismo, proclamarono l’impossibilità della
conoscenza oggettiva e attribuirono priorità alla dimensione soggettiva.
Wright (1891 – 1969), geografo statunitense, affermò che “le più affascinanti terrae incognitae di tutte sono quelle che
risiedono nelle menti e nei cuori degli uomini”. Il riferimento era alle terre sconosciute in cui gli esploratori-geografi si
erano avventurati per molto tempo, ma Wright proponeva ora di esplorare le geografie interiori, si studiare come le
persone conoscono, immaginano e percepiscono il mondo, anche attraverso la letteratura. Il suo appello rimase
inascoltato per molto tempo ma chi raccolse il suo invito fu David Lowenthal (1923), secondo cui la conoscenza
geografica si basa su geografie consensuali. Per Lowenthal la percezione del mondo di ogni persona è infatti il risultato
di un processo dato da fattori personali e culturali, ove l’immaginazione, la fantasia, la memoria, le esperienze di luogo
dirette e indirette che ciascun individuo vive nel corso della propria esistenza assumono un ruolo fondamentale, a
prescindere da conoscenze e competenze scientifiche.
È il caso di specificare che spesso la geografia comportamentale viene identificata nella geografia della percezione, così
come la geografa della percezione viene confusa con la geografia umanistica.
Tanto le geografia soggettive, quanto quella radicale, riflettevano il clima sociale venutosi a creare tra la fine degli anni
’60 e gli anni’70: la crisi del modello della crescita economica illimitata, l’emergere della questione ambientale, le tensioni

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internazionali che erano sfociate in guerre dagli esiti disastrosi, gli stili di vita urbani che avevano comportato il degrado
delle relazioni tra le persone, gli apparati legislativi ormai inadeguati a riflettere le esigenze della società sfociarono tanto
nei movimenti di protesta del ’68, quanto in frequenti scioperi e manifestazioni pubbliche dalle dimensioni imponenti.

2.3 Behavioral geography e geografia della percezione


La geografia comportamentale detta anche behavioral geography, prese forma negli Stati Uniti già nel corso degli
anni’40 ma si sviluppò soprattutto negli anni ’70, con l’obiettivo di esaminare il comportamento spaziale di individui e
gruppi sociali in diverse circostanze di vita o in specifici luoghi.
Secondo questa geografia, contraria ai modelli meccanicisti introdotti dalla geografia quantitativa, i comportamenti delle
persone sono comprensibili solo se si esaminano i modi in cui esse concepiscono l’ambiente in cui vivono e agiscono,
ovvero se si prendono in considerazione i processi cognitivi e decisionali che portano all’azione. Tale geografia prende
spunto dal comportamentismo o behaviorismo, corrente della psicologia secondo cui per comprendere la psiche umana
è necessario osservare il comportamento esplicito degli individui, eliminando a priori il costrutto teorico della mente
(coscienza, percezioni, emozioni), che va considerata come una black box insondabile e inspiegabile. La psicologia
comportamentale, ritiene dunque che sia importante esaminare i meccanismi che inducono ad agire secondo una logica
stimolo-risposta: a un determinato stimolo, il soggetto risponde con un determinato comportamento.
La geografia comportamentale non prese alla lettera questo assunto di base dalla psicologia comportamentale di allora,
temprandolo con la psicologia cognitiva (più incline a considerare la mente umana in termini complessi) che nel
frattempo cominciava ad affermarsi.
L’attenzione fu dunque puntata sui comportamenti umani in relazione a diversi eventi personali, sociali, naturali: dalla
decisione di emigrare, al comportamento nelle aree soggette a rischio naturale; dalla desiderabilità residenziale al
cognitive mapping, vale a dire l’analisi dei processi mentali che portarono alla formazione delle immagini dei luoghi.
Furono cinque i principali campi di studio praticati dalla behavioral geography:
1. studi sul comportamento nell’ambito delle scelte decisionali (soprattutto in riferimento al livello locale);
2. analisi dei flussi di informazione (diffusione dell’innovazione);
3. modelli di ricerca e apprendimento (spesso derivati dalle teorie psicologiche);
4. analisi del comportamento elettorale;
5. studi sulla percezione (in particolare sulla percezione del rischio ambientale, sulla formazione delle immagini dei
luoghi e sulle mappe mentali).
Si cominciò a parlare di behavioral geography durante gli anni ’70, ma non tutti erano d’accordo a considerarla una
branca della geografia umana, piuttosto si preferì considerarla come un corpus di studi volto a sviluppare teorie e a
proporre soluzioni pratiche riferite a un’ampia gamma di questioni.
In contrapposizione alla geografia quantitativa che utilizzava modelli matematici e dati statistici, la geografia
comportamentale optava per la produzione di dati primari, vale a dire direttamente rilevati dai ricercatori attraverso
interviste e questionari. Stabilendo legami con la psicologia comportamentale, la behavioral geography puntò a proporre
ricerche utili, che avessero una loro spendibilità pratica nella gestione degli spazi urbani o nell’organizzazione degli spazi
pubblici.
La geografia della percezione è maturata più tardi, soprattutto in Francia, in aperta critica tanto con la spatial analysis
quanto con la behavioral geography, accusata di leggere il comportamento umano nella logica del meccanismo stimolo-
risposta. Secondo la geografia della percezione, le azioni umane sono motivate da opinioni, valori, giudizi individuali e
collettivi, che variano in funzione di attori non solo soggettivi ma anche sociali e culturali. In tal senso, la geografia della
percezione stabilì maggiori legami con la psicologia cognitivista, interazionista, della Gestal, più attente, rispetto alla
psicologia comportamentale, agli stati psicologici soggettivi e alle relazioni di interdipendenza che ogni individuo
stabilisce con gli spazi e con altri soggetti.
Protagonista di questa nuova branca della geografia umana fu Armand Frémont, a cui si deve l’elaborazione del concetto
di spazio vissuto. A tal proposito Frémont distinse tre tipi di spazio:
1. spazio di vita, cioè l’insieme dei luoghi frequentati da una persona o da un gruppo;
2. spazio sociale, vale a dire lo spazio di vita unitamente alle interazioni sociali che lo sottendono;
3. spazio vissuto, che è dato dallo spazio di vita, dallo spazio sociale e dai valori psicologici (memoria,
conoscenza, affettività) attribuiti ai luoghi.
Concepito in opposizione agli spazi alienati, frenetici e impersonali creati dalla rivoluzione industriale, lo spazio vissuto
rompeva con la tradizione di studi oggettivisti parlando di benessere, qualità, relazionalità o meno del vivere quotidiano.
Lo spazio vissuto varia di soggetto in soggetto, anche in funzione all’età e di altre variabili individuali collettive. In un
secondo tempo, Frémont cercò di emancipare la nozione di spazio vissuto dalla dimensione prettamente individuale,
sottolineando che tale nozione consente di individuare diversi gruppi sociali insediati in uno stesso territorio proprio in
base alla medesima percezione dello spazio, derivante da fattori culturali.
La regione non è dunque un oggetto, ma uno spazio vissuto, cioè percepita, sentita, caricata di valori dagli uomini.
La nozione di spazio vissuto anticipò di qualche anno il linguaggio della nuova geografia culturale, parlando di
rappresentazioni soggettive e collettive di luoghi, regioni, paesaggi. Tra i modelli teorici che tentarono di schematizzare
gli elementi in gioco nei processi percettivi, quello di Bailly (1974) mise in evidenza come tra la realtà e la
rappresentazione della realtà si interpongano almeno tre filtri, riferibili alla sfera soggettiva, sociale e comunicativa.
La geografia della percezione dedicò ampio spazio alle fonti letterarie, in quanto ritenute in grado di restituire le
caratteristiche dei luoghi attraverso la sensibilità e la creatività artistica degli autori. Lo stesso Frémont sottolineò

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l’importanza delle fonti letterarie. Frémont dette forte impulso all’utilizzo delle fonti letterarie in geografia, che acquisì
maggiore rilievo proprio grazie alla formalizzazione teorica di questa nuova branca della geografia, dando inizia a un
fecondo ambito di studi, condiviso anche dalla geografia umanistica. Se il cambiamento sociale di Emma Bovary
(dall’ideale romantico giovanile al consumismo borghese adulto) offrì a Flaubert lo spunto per una critica alla società
urbana del suo tempo, che non sapeva più apprezzare i valori semplici, a Frémont fornì l’occasione per criticare la
società consumistica post-dopoguerra, che aveva generato spazi alienati e aveva perso la capacità di sentire e vivere
appieno i luoghi.
La nozione di spazio vissuto, secondo Frémont, poteva assumere una rilevante funzione sociale e politica ai fini della
promozione della qualità della vita e del benessere collettivo, argomenti che a quel tempo erano molto battuti dalle
discipline sociali. La svolta percettiva coinvolse anche altre discipline, nel generalizzato clima culturale teso a contestare
la tendenziale omogeneizzazione degli spazi terrestri, la massificazione degli stili di vita, la progressiva perdita delle
connotazioni territoriali e culturali.
Strumento e prodotto di ricerca allo stesso tempo, comune sia alla geografia comportamentale che alla geografia della
percezione, fu la mappa mentale o mental map, vale a dire l’immagine mentale che le persone elaborano rispetto ai
luoghi che frequentano, abitano, conoscono direttamente o indirettamente, partendo dal presupposto che tali immagini
possono influire sulle decisioni delle persone, ad esempio quella di trasferirsi in un’altra città, emigrare in un altro paese
o fare un viaggio.
Già studi in proposito consentirono di mettere in discussione il concetto di distanza, tradizionalmente inteso in senso
oggettivo-euclideo, avendo rilevato che la percezione della distanza varia notevolmente di soggetto in soggetto, proprio
perché entrano in gioco emozioni, affetti e valutazioni individuali che prescindono dalle considerazioni razionali. Frémont
parlò in proposito di stanza-tempo, distanza-sociale, distanza-affettiva, distanza-ambientale.
Molto in uso erano ad esempio le cosiddette figure ambigue o reversibili, utilizzate dalla psicologia della Gestal: immagini
che generano ambiguità percettive, poiché la struttura figura-sfondo è riferita a due forme diverse di raffigurate
contemporaneamente nello stesso spazio rappresentativo; e siccome la mente umana non è in grado di percepirle
simultaneamente, per osservarle una alla volta si deve ricorrere a differenziare ogni figura dal suo rispettivo sfondo. Il
punto è che una certa immagine acquista significato quando appare come figura, mentre lo perde quando è considerata
sfondo.
In geografia, le figure ambigue furono utilizzate per demistificare il processo di osservazione, cardine della geografia
razionalista e oggettivista evidenziando che anche nell’osservazione di paesaggi e territori tutto dipende da come si
osserva.

2.4 La geografia umanistica


La geografia umanistica è nata in ambito nord-americano nei primi anni ’70 anch’essa in aperta critica con il
meccanismo della spatial analysis che della behavioral geography: alla prima essa contestò il fatto di considerare l’uomo
come mero essere razionali, guidato da leggi generali di convenienza e profitto; alla seconda di pensare il
comportamento umano in termini di risposta automatica agli stimoli ambientali.
Più legami la geografia umanistica intrattiene con la geografia della percezione, con cui spesso è stata confusa sebbene
il retroterra filosofico sia diverso; la geografia della percezione stabilisce legami preferenziali con la psicologia sociale, la
geografia umanistica invece trae alimento dalla filosofia, in particolare dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo. Anche
rispetto ai metodi c’è differenza: se la geografia della percezione si basa principalmente sui rilevamenti diretti (interviste,
questionari), la geografia umanistica ha utilizzato soprattutto le fonti indirette (letterarie e filosofiche) per le sue indagini.
Diversi sono anche gli obiettivi di fondo della ricerca, l’una orientata maggiormente verso la denuncia e la proposta
sociale, l’altra propensa a sollecitare riflessioni di ordine morale, etico e spirituale.
Fenomenologia ed esistenzialismo divennero molto popolari nel mondo anglosassone tra la fine degli anni ’60 e gli inizi
degli anni ’70. Per questi geografi, l’importante non era la conoscenza oggettiva di un determinato spazio geografico, ma
conoscere quello spazio attraverso la sensibilità delle persone, per le sue forme, i suoi colori, i suoi odori. Essi
intendevano costruire una geografia che tenesse conto della centrale questione del significato della vita; così, mentre i
fautori della spatial analysis volevano capire il mondo e la società nella loro presenta oggettività, studiando le persone
come se studiassero degli oggetti, i geografi umanisti focalizzarono l’attenzione sulle relazioni tra le persone e il mondo
in termini di esperienza, valore e significato. I geografi umanisti operarono una chiara distinzione tra lo spazio (oggetto di
studio astratto delle analisi scientifiche) e il luogo (lo spazio a cui sono attribuiti significati).
Yi-Fu Tuan (1930), geografo statunitense di origine cinese, uno dei primi e importanti esponenti di questa branca
disciplinare, sottolineò l’impossibilità della conoscenza geografica in termini oggettivi. Per la geografia umanistica, infatti,
non esiste un mondo oggettivo separato dall’esistenza, tutta la conoscenza è riferita all’esperienza, come
nell’impostazione fenomenologica. Facendo propria la nozione dell’essere nel mondo di Martin Heidegger (2008), la
geografia umanistica sofferma l’attenzione sul modo in cui gli esseri umani concepiscono, vivono ed esperiscono la
propria condizione di abitanti della Terra, esaminando i legami che essi stabiliscono con i luoghi, in termini di valori e
significati.
In geografia umanistica l’attenzione si sofferma sul luogo, concepito come spazio in cui si svolge l’esperienza, con tutti il
carico di riflessioni, significati, valori, sentimenti che tale condizione reca con sé. Adottare la prospettiva umanistica
significa occuparsi di come gli esseri umano stanno al mondo, come si relazionano ad esso e come trasformano lo
spazio in luogo. In senso lato, il luogo non può essere compreso in termini soggettivi poiché presuppone radicamento e
coinvolgimento emotivo.

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Il luogo per Tuan, prescinde dal concetto di scala geografica. Secondo Tuan, è l’esperienza che costruisce il luogo alle
diverse scale geografiche: quello che hanno in comune i luoghi, indipendentemente dalla scala geografica, è che sono
fulcri di significato per individui e gruppi. Per essere tale, il luogo, deve essere vissuto con consapevolezza e sentimento.
Tuan distingue due tipologie principali di luogo:
1. Simboli pubblici: tendono ad avere un elevato potere di comunicazione poiché colpiscono l’occhio, stimolano
attenzione e talvolta soggezione. Tuan parla di luoghi connotati dalla presenza di monumenti famosi o
commemorativi, edifici storici, siti archeologici e testimonianze di antiche civiltà, ma anche monumenti naturali
a cui è attribuito valore simbolico.
2. Campi di attenzione: non hanno necessariamente pregio estetico, storico o artistico ma sono luoghi conoscibili
solo con l’esperienza prolungata e rivestono importanza per il soggetto o le collettività che li esperiscono,
poiché sollecitano affezione e appartenenza.
Alcuni luoghi sono sia simboli pubblici che campi di attenzione, altri sono l’una o l’altra cosa.
Tuan effettua poi un’ulteriore distinzione tra luoghi dotati di:
1. Spirito: è ciò che fa spiccare determinati siti dallo spazio indistinto e profano; si tratta di luoghi ove si ritiene che
dimorino entità sovrannaturali o che hanno acquisito nel tempo un’aura di sacralità, incutendo rispetto e
soggezione.
2. Personalità: è invece ciò che rende unico un determinato luogo, grazie alla prolungata esperienza conoscitiva
e percettiva di chi lo frequenta e sa coglierne le specificità.
I luoghi possono avere spirito e/o personalità, ma solo gli esseri umani possono provare un senso del luogo; le persone
dimostrano il loro senso del luogo quando applicano il loro giudizio estetico e morale a certe località. Il senso del luogo
richiede tempo, presenza continuata e coinvolgimento di tutti i sensi per essere sviluppato, e si amplifica con la memoria,
la nostalgia e il distacco.
Legato al senso del luogo è il concetto di topofilia che, secondo Tuan, è il legame affettivo tra le persone e i luoghi, che
egli ritiene fondamentale per un’esistenza e una spiritualità umana piena e gratificante. Al contrario, il concetto di
topofobia indica l’avversione, la repulsione, l’odio per un luogo.
Luogo, senso del luogo, topofilia, topofobia, radicamento, attaccamento: la geografia umanistica ha dunque elaborato
una serie di concetti nuovi che sono poi entrati a regime nel lessico geografico, sebbene con sfumature di significato
diverse, anche tra gli stessi geografi umanisti.
Edward Relph (1944) altro esponente della geografia umanistica, ha fornito una diversa interpretazione del concetto di
luogo e senso del logo. Secondo Relph, il luogo è dato dall’ambiente fisico, alle attività umane e dai significati che gli
vengono attribuiti, laddove i significati, a loro volta, maturano a seguito dalle esperienze di vita che si svolgono nei
luoghi. per senso del luogo, invece, egli intende la capacità di cogliere e apprezzare le qualità distintive dei luoghi, il
senso del luogo è sinestetico. Unisce la vista, l’udito, l’olfatto, il movimento, il tatto, la memoria, l’immaginazione. Si tratta
di una capacità che secondo Relph varia notevolmente tra gli individui. Rispetto alla concezione contemplativa e
filosofica di Tuan, Relph propone dunque un’idea di senso del luogo dai risvolti concreti, orientata alla pratica sociale e al
prendersi cura dei luoghi, nella direzione indicata da Martin Heidegger con la sua nozione dell’essere nel mondo.
In Relph, l’idea di luogo si accompagna a quella di radicamento. Il termine radicamento indica per Relph l’esperienza di
luogo individuale e collettiva che produce una sensazione di stretto legame e familiarità con un determinato luogo;
sensazione che è data non solo dalla conoscenza dettagliata del luogo stesso, ma anche dal sentimento di cura e
dedizione che si nutre nei suoi confronti. Secondo Relph, il radicamento e l’attaccamento ai luoghi sono bisogni umani
fondamentali, poiché avere radici in un luogo significa avere un punto sicuro da cui guidare il mondo. Relph legò il
concetto di luogo a quello di casa, definendo i concetti di insideness e outsideness:
• La condizione di insideness riguarda chi si sente dentro un luogo, a casa, al sicuro, protetto.
• La condizione di outsideness riguarda chi si sente separato da un luogo.
Relph elaborò dunque sette tipologie di insideness e outsideness a seconda del legame che le persone stabiliscono con
i luoghi, ove i termini estremi sono costituiti proprio dalla existential insideness e dalla existential outsideness:
• La prima si riferisce alla sensazione profonda e inconsapevole immersione in un luogo, l’esperienza che la
maggior parte delle persone prova quando si sente a casa;
• La seconda riguarda il senso di estraneazione che le persone provano quando si trovano in un nuovo luogo
oppure quando tornano in un luogo significativo da cui si erano separate, riscontrando che esso non è più
quello di prima.
Diversi altri geografi svilupparono riflessioni di matrice umanistica. Ad esempio, Porteous parlò di paesaggio come
esperienza corporea, vissuta attraverso i sensi, non più limitati solo alla vista, ma riferiti anche all’udito (soundscape),
l’olfatto (smellscape), il corpo (bodyscape), facendo leva sulla letteratura come strumento di indagine privilegiata.
Basandosi sui concetti di insideness/outsidenes e home/away elaborò quattro tipologie principali di legame con i luoghi:
1. home-insideness: il livello di radicamento più profondo;
2. home-outsideness;
3. away-outsideness: il desiderio di viaggiare e di conoscere nuove terre e culture;
4. away-outsideness: il livello di sradicamento più totale, il senso di inquietudine esistenziale che si traduce in
un’esistenza senza radici.
David Seamon ha proposto a sua volta una rielaborazione in senso dinamico del concetto di luogo e senso del luogo con
la nozione di place ballet. Seamon parte dal concetto di body ballet e time-space routine. Per body ballet egli intende un
insieme integrato di gesti e movimenti finalizzati a determinati scopi; per time-space routine, invece, intende un insieme

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di comportamenti abituali del corpo che si estendono su un certo arco di tempo. Il place ballet è dato dall’interazione di
molte routine spazio-temporali e balletti del corpo radicati in uno spazio. Alla base del concetto di place ballet c’è dunque
la regolarità del comportamento umano nello spazio e nel tempo. Ogni luogo frequentato collettivamente e regolarmente
è connotato da un place ballet.
Seamon ha proposto anche di superare la dialettica insideness/outsideness, che si riferisce al livello di comfort o
discomfort che si prova stando dentro/fuori dal luogo, per abbracciare quella di inward/outward (entrata/uscita), che in
contrasto a quella inside/outside, prende in considerazione la gamma dei possibili modi in cui un luogo è in connessione
o non è in connessione con il più ampio mondo di cui è parte. La nozione di inward/outward innova quella di inside/
outside, relativizzando a situazioni e condizioni contestuali la sensazione di vivere all’interno o all’esterno di un luogo, e
proponendo una chiave di lettura meno drastica e oppositiva. Coloro che vivono nelle cosiddette gated-community,
possono provare un forte senso di insideness quando sono all’interno delle proprie abitazioni recintate e sorvegliate da
sistemi di sicurezza, ma quando ne sono fuori possono sentire un forte senso di outsideness, posto che con l’esterno
delle proprie residenze stabiliscono pochi ed effimeri contatti. In termini più generali, persone/gruppi possono provare un
senso di estraneazione in riferimento a un’ampia compagine di situazioni, che possono riguardare anche la reputazione
che determina luoghi hanno per effetto di giudizi e opinioni di persone che non sono di quei luoghi e che magari
vengono riprodotti in narrazioni, rappresentazioni artistiche e discorsi mediatici. Secondo Seamon il senso di outsideness
può riguardare anche i frequentatori di strade e centri commerciali, spazi pubblici e altri non luoghi, come la definizione di
Marc Augé.

Box 2.2 Eric Dardel e la géographicité


L’opera di Eric Dardel, L’homme et la terre, 1952, può essere considerata una sorta di manifesto delle correnti
fenomenologiche e umanistiche che si svilupparono negli anni ’70. Secondo Dardel, “ l’oggetto della conoscenza
geografica è chiarire ciò che la Terra rivela all’uomo circa la sua condizione umana e il suo destino”, dunque una
conoscenza basata sullo studio delle relazioni profonde che legano l’uomo alla Terra e che Dardel definì geograficità. La
geografia è intrinsecamente legata alla più generale questione dell’essere dell’uomo. L’obiettivo di Dardel sarà mostrare
quanto la geografia sia implicata nella sua stessa essenza da questa interrogazione ontologica a riguardo dell’uomo, e
come essa trovi lì infine il suo senso più vero. La posizione di Dardel è antropocentrica: lo spazio geografico è da
intendersi come espressione dei sentimenti individuali e collettivi. L’uomo è un essere terrestre, le cui scelte acquistano
senso solo se ricondotti alla relazione ancestrale che lega l’uomo stesso alla Terra.
L’opera di Dardel non riscosse immediato successo e fu riscoperta solo più tardi, diventando una notevole fonte di
ispirazione per i geografi umanisti.

Box 2.3 Il place ballet di Varbeg


Seamon e Nordin (1980) hanno proposto il caso di un mercato storico che si svolge a Varbeg, in Svezia. Oggetto
della ricerca è l’impiego della nozione di space ballet per esplorare il comportamento delle persone nello spazio
esaminato utilizzando la fenomenologia come riferimento teorico; il metodo è cosistito nell’osservazione partecipante e le
interviste ai frequentatori del mercato; la finalità della ricerca è stata quella di rilevare in che modo il place ballet del
mercato di Verberg contribuisce a creare senso del luogo e comunità locale.
Gli autori specificano le nozioni di body ballet, time-space routine e place ballet per poi affrontare il caso specifico del
mercato della cittadina svedese.
Il body ballet del mercato consiste in una serie di attività e movimenti del corpo che connotano lo spazio in cui esso si
svolge (coinvolgendo venditori, abitanti, acquirenti). La time-space routines dei venditori consistono nelle regolarità di
montare le bancarelle, caricare e scaricare merci, tagliare verdure, disporre fiori, ecc.; le time-space routines degli
acquirenti sono invece costituite dall’andare al mercato, scegliere le merci, ecc. Seamon e nordin specificano anche,
tuttavia, che il place ballet del mercato di Varberg è soggetto a eventi imprevedibili, costituiti dagli incontri casuali che vi
avvengono, dall’irregolare presenza di certi veditori, dal comportamento dei vendiroi, dalla presenza di altri attori sociali
(vigili, polizia, ecc.). a seguito di questa ricerca il mercato di Varberg è risultato non solo un sito per la vendita delle
merci, ma un importante elemento del senso di comunità locale, un luogo di incontro che sollecita interesse,
divertimento, interazione, contatto tra le persone e per questo favorisce un senso di continuità e appartenenza al luogo
e alla comunità locale.

2.5 Geografia umanistica e letteratura


La geografia umanistica ha più volte sottolineato il potere del linguaggio, delle metafore e delle immagini nella
costruzione della realtà. Le metafore, secondo Buttimer hanno la capacità di catturare l’intera gamma degli aspetti
sensoriali ed emozionali dell’esperienza del mondo delle persone; esse ci danno la possibilità di andare oltre le visioni
del mondo mentalmente e cartograficamente schematizzate, dischiudendo un universo di sentimenti ed emozioni non
raggiungibili attraverso il linguaggio letterale o il pensiero razionale. Tuan aveva sottolineato che la letteratura come le
altre forme dell’arte ha il potere di rendere vivide le immagini dei nostri sentimenti e delle nostre percezioni che
normalmente appaiono confuse. Secondo Tuan, non tutti possiedono tali abilità comunicative ed è proprio questa una
delle ragioni per cui molte esperienze di luogo restano nel nostro intimo privato. La rilevanza attribuita al linguaggio
artistico ha portato Tuan a interessarsi a più riprese e in modo specifico dei legami tra letteratura e geografia.
Dagli anni ’70, l’interesse della geografia anglosassone per la letteratura è proliferato in modo esponenziale ampliandosi
ad autori minori e alla letteratura d’immaginazione. In ambiente francofono e italiano, l’interesse per la letteratura
(veicolato principalmente dalla geografia della percezione) portò alla nascita di un fecondo filone di studi.

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2.6 La geografia radicale
Nasce nel corso degli anni ’70 ed ha avuto una notevole influenza nella nascita della new cultural geography per gli
argomenti e le finalità che la contraddistingue. Questa geografia viene definita radicale per gli obiettivi rivoluzionari che si
prefigge, ispirata a principi e riferimenti filosofici completamente diversi dalle geografie soggettive e in opposizione a tutte
le geografie fino ad allora praticate. La geografia radicale si sviluppò in risposta alla geografia quantitativa, al neo-
positivismo che la sottendeva e alla tendenza a trasformare la geografia in una scienza dello spazio ( spatial science), ma
anche alla geografia tradizionale (ritenuta conservatrice), alla geografia regionale (per non aver considerato le relazioni
sociali) e alla geografia regionale (per non aver considerato le relazioni sociali) e alla geografia umanistica (perché
ritenuta universalista e priva di riferimenti ai conflitti e alle ingiustizie sociali).
La geografia radicale si è configurata come critica alla società capitalistica. Attribuendo enfasi ai modi di produzione che
in ogni società determinano i rapporti economici e le relazioni sociali tra le persone, la geografia radicale proponeva una
lettura dei fatti geografici secondo i cardini del materialismo storico e i modelli normativi della teoria marxista: il
marxismo, nelle parole di Richard Peet, corrisponde al tentativo di comprendere in modo olistico e anche a quello di
cambiarlo; per questo, la geografia radicale invoca un forte impegno sociale dell’uomo di scienza.
La geografia radicale si sviluppò soprattutto in Francia e negli Stati Uniti, intorno ad alcuni studiosi e riviste scientifiche.
Particolarmente questa geografia focalizzò l’attenzione su fenomeni quali la disuguaglianza, la povertà, l’emarginazione,
gli squilibri tra paesi economicamente avanzati e paesi del Sud del mondo, le discriminazioni per etnia, genere, razza,
così come sui ghetti e il degrado delle condizioni di vita urbana. Questa geografia viene definita come un approccio alla
ricerca geografica che cerca di comprendere i problemi socio-spaziali e di proporre soluzioni.
Secondo Peet e Thrift la geografia radicale si è sviluppata negli Stati Uniti a partire da tre questioni sorte nei tardi anni
’60:
1. la guerra del Vietnam e in generale gli interventi armati nelle aree del cosiddetto Terzo Mondo;
2. la lotta per i diritti civili dei neri americani;
3. la povertà e l’ineguaglianza sofferta dagli abitanti dei ghetti urbani.
tali motivazioni in realtà attraversarono l’intera società dei tardi anni ’60, confluendo nel movimento del Sessantotto.
Il movimento di contestazione (a livello internazionali) di contestazione da parte di studenti, operai e gruppi sociali
vessati per questioni di reddito, razza, etnia, genere o orientamento sessuale, reclamava il riconoscimento dei diritti civili,
così come un ambiente più sano, migliori condizioni di vita e di lavoro, l’eliminazione di tutte le forme di oppressione.
Sotto il profilo teorico i geografi radicali contestavano la razionalità occidentale e il ruolo che la geografia aveva fino ad
allora detenuto, sostenendo, la riproduzione dell’ordine capitalistico e delle sue insite ingiustizie.
Secondo i geografi radicali, l’organizzazione dello spazio riflette l’organizzazione della società. La chiave di lettura fu
assunta nella teoria centro-periferia. Su scala globale, la teoria centro-periferia era utilizzata per spiegare la condizione
di sottosviluppo e dipendenza dei paesi del Sud del mondo rispetto a quelli del Nord. Il sottosviluppo fu intesto come
strettamente legato e funzionale alla riproduzione del modello capitalistico. Sulla scorta del modello messo a punto da I.
Wallerstein (1974), il sistema-mondo fu pensato in termini di aree centrali e aree periferiche. Un sistema iniquo basato
sullo sfruttamento delle popolazioni, delle risorse e dei territori del Sud del mondo ad opera di pochi paesi
economicamente avanzati.
Povertà e ineguaglianza sono funzionali alla riproduzione del sistema capitalistico: non può esserci accumulazione di
capitale se non sottraendolo ad altre popolazioni e aree geografiche, e chi detiene il potere decisionale ha interesse a
mantenere tale ineguaglianza. Tale sistema, riproducendosi nel tempo, non fa che allargare il divario tra società e aree
geografiche ricche e povere, secondo il meccanismo, teorizzato dall’economista e sociologo svedese G. Myrdal (1959),
della causazione circolare cumulativa. La soluzione secondo Peet, non poteva che risiedere in un cambiamento radicale
del sistema di produzione che rovesciasse completamente il modello capitalistico: una rivoluzione sociale ed economica
che avrebbe dovuto affermare un nuovo sistema di produzione associato a principi di eguaglianza e giustizia sociale.
Gran parte delle ricerche di geografia radicale si concentrò sulla città, specie a seguito del saggio di David Harvey, Social
Justice and the City pubblicato nel 1973 e impostato sull’ideologia marxista. Harvey fornisce un contributo significativo
alla teoria marxista sostenendo che il capitalismo annienta lo spazio per garantire la sua riproduzione; nello stesso
tempo sostiene l’idea che la geografia non può rimanere oggettiva di fronte alla povertà urbana e ai mali ad essa
associati. La città, secondo Harvey, è una macchina generatrice di disuguaglianza, cosicché egli pone enfasi sui processi
che generano l’ingiustizia sociale nello spazio. Per Harvey, senza intervento pubblico non c’è soluzione ai mali generali
del capitalismo, e in quel volume egli fornì le basi concettuali per pensare l’ingiustizia spaziale attraverso le connessioni
tra filosofia morale, teorica critica sociale e spazio geografico.
Harvey nel 1982 pubblicò The limits to Capital, testo che costituisce un tentativo di aggiornare le basi del ragionamento
marxista introducendovi il concetto di spazio. Il testo di Harvey introdusse in geografia il materialismo storico di Marx e
all’anarchismo. Il materialismo dialettico risultò meno deterministico rispetto al materialismo storico e più disposto ad
argomentare le contraddizioni implicite nel sistema politico-sociale capitalistico. Sul piano metodologico, il materialismo
di Harvey si è tradotto nell’approccio dialettico ai conflitti spaziale, vale a dire nell’opposizione tra centro-periferia,
capitale-lavoro, città-campagna, dominanti-dominati, in parte traendo ispirazione dall’opera di Henry Lefebvre.
I geografi radicali restarono infatti legati a una prospettiva strutturalista di derivazione marxista, concentrata cioè sulle
condizioni strutturali della disuguaglianza sociale e spaziale.
I geografi radicali degli anni ’70 parlarono di cultura come ideologia dominante, come sistema di valori basato su capitale
e le sue implicite discriminazioni, che si traduce nel modo in cui gli spazi sono organizzati e usati. L’approccio
materialistico limitava dunque il raggio di analisi, poiché se è vero che il sistema di produzione e consumo svolge un

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ruolo importante nei processi di esclusione sociale e spaziale, è altrettanto vero che esistono altri processi di esclusione
basati su concezioni, idee e valori.
Nell’ultimo quarto del XX secolo la geografia marxista, radicale e femminista criticò l’assunto di base che sottendeva la
concezione della cultura come insieme organico e coeso, sottolineandone, al contrario, le divisioni sociali interne, le
contraddizioni e i conflitti, soffermando l’attenzione sui contesti urbani contemporanei. Secondo Mitchell, fu soprattutto
Denis Cosgrove che tentò, nel corso degli anni ’80 di conciliare la rinascita della geografia culturale con il materialismo di
Marx ed Engels, sostenendo che la geografia culturale aveva molte affinità col materialismo storico, ma fino ad allora
non aveva sviluppato una dimensione di classe, cosicché la nozione di cultura che essa utilizzava non era attrezzata per
affrontare le questioni di potere e diseguaglianza; era necessario quindi adottare un nuovo apparato teorico che
consentisse l’esame storico dei rapporti di produzione prendendo le distanze tanto dall’idealismo fenomenologico quanto
dall’individualismo radicale.
La nuova geografia culturale ha effettivamente proposto una rilettura del determinismo storico implicito nelle teorie di
Marx, fornendone un’interpretazione più aperta, intendendolo cioè come insieme di limiti e pressioni che individui e
gruppi sociali possono subire, ma sottolineando comunque la possibilità di scelta, come del resto era già stato detto negli
anni ’70.
La nuova geografia culturale, a partire dagli anni’80, prese in gran parte forma proprio dalla rivisitazione delle nozioni e
dei concetti della geografia radicale, nel frattempo evolutasi nella cosiddetta geografia critica sulla scorta delle riflessioni
maturate nell’ambito della teoria critica sociale, specie quelle riconducibili al neo-marxismo, al socio-costruttivismo e al
femminismo.

Box 2.4 Henry Lefebvre (1901 – 1991)


Henry Lefebvre, sociologo e filosofo orientato al materialismo dialettico, innovò la teoria marxista con il concetto di
quotidianità e con l’attenzione riposta sul fenomeno urbano.
Lefebvre rivolse una critica alla quotidianità definendola in modo dialettico come intersezione di illusione/verità, potere/
importanza, controllo/non controllo. La quotidianità è asservita al capitalismo, ne riproduce le logiche, poiché è rivolta al
consumo ed è una pratica che riguarda tutte le classi sociali. La quotidianità ingabbia la fantasia e la creatività, reitera i
rapporti di potere, sottrae tempo personale e sociale; secondo Lefebvre è necessario liberare la quotidianità dal ruolo
che essa svolge nel capitalismo, sollecitando consapevolezza sociale per rivoluzionare la qualità della vita delle persone.
Tra le nozioni elaborate da lui, quella riferita alla produzione sociale dello spazio ha mantenuto nel tempo la sua
rilevanza in geografia, diventando cardine anche delle riflessioni post-strutturaliste e postmoderne (es: concetto di
Thirdspace di E. Soja). Lefebvre innova il concetto di spazio sociale, fino ad allora pensato in termini dialettici tra lo
spazio fisico (derivante dai sensi e dalle attività che si svolgono) e lo spazio mentale (quello elaborato da scienziati e
filosofi). Lefebvre attribuisce importanza alle rappresentazioni, percezioni e costruzioni mentali dello spazio. Egli propone
infatti una concezione dello spazio concentrata sulla relazione trialettica tra:
1. spazio percepito: (spazio fisico) corrisponde alle azioni eseguite nello spazio o attraverso lo spazio (camminare,
costruire);
2. spazio concepito (spazio mentale): riguarda teorie e rappresentazioni dello spazio (esempio quelle elaborate
dia geografi, urbanisti, architetti);
3. spazio vissuto (spazio sociale): è quello riconducibile a immagini, invenzioni, utopie che sollecitano
l’immaginario collettivo.
Lo spazio, per Lefebvre, è una complessa costruzione sociale basata sui valori e significati socialmente prodotti, che
condizionano le percezioni e le pratiche sociali. La produzione sociale dello spazio urbano è funzionale alla riproduzione
della società, ovvero del capitalismo e delle sue iniquità, poiché gestita da una classe egemone per riprodurre il suo
dominio: lo spazio così prodotto serve come strumento di pensiero e di azione; oltre ad essere un mezzo di produzione
è anche uno strumento di controllo, e quindi di dominio e di potere, che dà luogo alla riproduzione dei rapporti sociali di
produzione, cioè dei rapporti costitutivi della società capitalistica, sempre voluti e imposti come tali.
Lefebvre focalizzò l’attenzione sulle contraddizioni, i conflitti e il carattere politico dei processi di produzione dello spazio,
sostenendo che la società che non produce il proprio spazio è un’entità anomala, astratta, incapace di sfuggire dalla
sfera ideologica o culturale. Per Lefebvre, la trasformazione sociale non può prescindere dalla trasformazione degli
spazi.

2.7 Critiche reciproche


La geografia umanistica è fin da subito sottoposta a dure critiche, soprattutto dalla geografia positivista, radicale e
femminista.
La geografia positivista, le ha contestato il fatto di essere soggettiva, astratta, esoterica, non verificabile, non
sottoponibile a replica o falsificazione come il procedimento scientifico impone, e anche di non essere riuscita a scoprire
le relazioni causali dei fenomeni indagati. Le critiche più forti sono provenute dai marxisti e dai socio-costruttivisti,
secondo cui l’impianto teorico della geografia umanistica non corrisponde alla realtà delle cose, poiché non tiene conto
delle circostanze temporali, sociali e individuali che modellano i luoghi e l’esperienza che i diversi gruppi sociali fanno di
essi.
La geografia umanistica è stata così descritta come una geografia tradizionale, conservatrice se non reazionaria.
Il concetto di lifeworld, declinato in termini fenomenologici e inteso come esperienza intima, relazionale e significativa dei
luoghi, è stato duramente criticato per il fatto di sollecitare una visione della realtà condivisa universalmente da tutti gli

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esseri umani. In tal senso, alla geografia umanistica è stato contestato il fatto di dichiararsi contro l’universalismo
positivista.
La geografia umanistica è stata accusato di essenzialismo, così come di essere nostalgica del passato e non aderente
alla realtà dei luoghi odierni. Tale tendenza ad essenzializzare il luogo è stata ricondotta al fondamento filosofico su cui la
geografia umanistica si basa, cioè la fenomenologia, poiché l’obiettivo di questa corrente filosofica è quello di rivelare le
qualità essenziali delle cose.
Alla geografia umanistica è stata contesta anche la modalità nostalgica e superficiale con cui è stata affrontata la
topofilia. Le studiose femministe hanno accusato la geografia umanistica di aver parlato di luogo come casa in termini
maschilisti e conservatori, come rifugio tranquillo e sereno, ignorando le vessazioni fisiche e psicologiche subite dalle
donne proprio entro le mura domestiche o nei luoghi stessi.
Gli umanisti sono stati accusati di ignorare il ruolo della struttura del contesto nel veicolare l’azione umana.
Alla geografia umanistica è stata contestata anche la tendenza a reiterare la dicotomia cartesiana (oggetto-soggetto) e il
razionalismo che la sottende.
A loro volta, i geografi umanisti hanno rivolto critiche alla geografia radicale, per il fatto di basarsi su una visione
ideologicamente orientata del mondo, viziata in partenza da preconcetti e pregiudizi impliciti; per la base teorica troppo
debole e prova di originalità, vista la tendenza ad applicare teorie maturate in altri ambiti disciplinari; per i metodi di
analisi tradizionali, quantitativi o regionalisti per spiegare le differenze sociali o regionali; per la priorità attribuita al tempo
anziché allo spazio, soprattutto nella versione del marxismo ortodosso, ove lo spazio è sostanzialmente assente. Ai
geografi radicali fu dunque contestato il fatto di essere radicali negli argomenti e negli aspetti politici, ma non nelle teorie
e nei metodi di analisi, cosicché essi non sono riusciti a sviluppare modelli alternativi per rimuovere o ammorbidire le
ineguaglianze e intra e inter-regionali.
Resta il fatto che sia la geografia umanistica sia le geografie critiche, hanno offerto riflessioni che hanno influenzato
l’evoluzione della geografia umana degli ultimi trent’anni. Se la geografia umanistica è provenuta l’attenzione per il
concetto di luogo e senso del luogo, per le emozioni e i sensi, per il corpo e le performatività della vita quotidiana, per
l’identità e l’aspetto simbolico e metaforico dei paesaggi, per il linguaggio e l’interpretazione dei testi, la geografia di
matrice radicale si è imposta all’attenzione dell’intera geografia per aver parlato di conflitti e relazioni di potere, di
disuguaglianze e giustizia sociale. Tuttavia, la letteratura umanistica è scarsamente citata dalla gran parte dei contributi
della new cultural geography, piuttosto entrando nelle riflessioni geografiche di impianto etico e morale.

2.8 L’attualità dell’approccio umanistico


Alla geografia umanistica va riconosciuto il merito di aver apportato un significativo cambiamento nel modo di fare
geografia:
1. rovesciando il punto di vista, come tutte le geografie soggettive, ha contribuito al superamento della presunta
neutralità dell’osservatore;
2. ha introdotto una serie di nozioni (senso del luogo, topofilia, radicamento, attaccamento);
3. attribuendo centralità alle esperienze, alle pratiche, alle percezioni e ai vissuti individuali e collettivi ha posto le
basi per la nascita di diverse geografie di impianto post-strutturalista;
4. ha contribuito alla delineazione dei concetti di spazio e luogo, fino ad allora non sufficientemente precisati.
La geografia umanistica centra l’attenzione sull’esperienza di spazi e luoghi.
Gli individui agiscono ispirando le proprie idee e i propri comportamenti a norme, valori e idee condivise. I geografi
umanisti, in tal senso, hanno sempre riconosciuto l’importanza della cultura e dei simboli culturali nella vita delle
persone. La cultura stessa può essere definita come un’esperienza condivisa che offre specifiche visioni del mondo e
della realtà; la cultura agisce come un filtro, permettendo ad alcuni fenomeni mondani di raggiungere la nostra
consapevolezza e di escluderne altri. Il comportamento soggettivo può essere considerato come una sorta di traduzione
personalizzata delle norme e dei valori culturali condivisi con altre persone/gruppi.

2.9 Una ricerca sul senso del luogo


Tra i pochi esempi di ricerche empiriche sul senso del luogo, vi è quella condotta da Shamai (1991). L’autore
specifica due diverse modalità attraverso cui uno studio sul senso del luogo può essere condotto:
1. Ricorso ad una visione filosoficamente orientata: si presta ad analizzare il senso del luogo sotto il profilo teorico,
centrando l’analisi sulla nozione di esperienza e facendo riferimento a rituali, miti e simboli che legano le
persone ai luoghi, partendo dal presupposto che i simboli locali esprimono di per sé il legame tra persone e
luoghi.
2. Ricorso ad una visione di carattere descrittivo: precisa che le ricerche possono essere basate sui diari
personali, opere d’arte, poesie, romanzi, ma anche attraverso il rilevamento diretto, indagando, ad esempio, sul
legame che intercorre tra le persone e i luoghi secondo una scala di intensità, precisando che la scala può
indicare solo il livello del senso del luogo e non il significato del, e le attitudini verso il, senso del luogo.
Per la ricerca considera le scale di appartenenza riducendole a tre livelli di intensità:
1. appartenenza al luogo;
2. attaccamento al luogo;
3. impegno per il luogo.
Per ciascuno di essi specifica poi ulteriori due livelli, così da ottenere sette tipologie di senso del luogo, configurate per
livelli crescenti di coinvolgimento personale.

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1. nessun senso del luogo, poiché non è detto che le persone provino un senso del luogo;
2. consapevolezza di essere localizzato in un luogo, la condizione che riguarda le persone che sono consapevoli
di vivere in uno specifico luogo e sono in grado di riconoscerne i simboli, ma non provano nessun tipo di legame
con esso, non si sentono parte di esso;
3. appartenenza del luogo, c’è un sentimento di appartenenza al luogo, quindi c’è consapevolezza del luogo e dei
suoi simboli;
4. attaccamento del luogo, stadio che implica un attaccamento emozionale al luogo a livello più alto. Il luogo
assume significato, è il centro dell’esperienza personale e collettiva e si combina con il significato del luogo e
dei suoi simboli. Al luogo è riconosciuta unicità
5. identificazione negli obiettivi del luogo: si ha quando la maggior parte delle persone conosce gli obiettivi del
luogo e agisce in conformità ad essi. C’è adesione agli interessi e alle necessità collettive dei luoghi, così come
fedeltà, devozione e lealtà verso un luogo; le persone provano attaccamento profondo al luogo.
6. coinvolgimento nel luogo, implica che i residenti assumano un ruolo attivo nella comunità, svolgendo attività nel/
per il luogo, con relativo investimento in termini di energie, tempo e competenze, come nel caso delle attività
svolte nell’ambito di associazioni e organizzazioni.
7. sacrificio per un luogo, è il più alto livello di senso del luogo. Implica il massimo livello di coinvolgimento emotivo
e pratico con un luogo, e si manifesta attraverso il sacrificio di importanti valori o con la vita stessa delle
persone (a questo livello si è pronti a rinunciare ad interessi personali o collettivi per il più ampio bene e
interesse del luogo).
La ricerca sul senso del luogo difficilmente può essere affrontata attraverso questionari e metodi di elaborazione
statistica. Proprio perché si tratta di rilevare sensazioni, sentimenti, emozioni associati ai luoghi, le ricerche sul senso del
luogo richiedono metodologie di indagine preferibilmente qualitative, ove ciò che conta non è la rappresentatività
statistica del campione o la quantità delle risposte a una determinata domanda, ma le parole che le persone impiegano
a proposito della relazione che esse stabiliscono con il luogo in cui vivono, i significati che gli attribuiscono e l’opera di
interpretazione che il ricercatore effettua in modo deliberatamente e dichiaratamente soggettivo.

Capitolo 3: Post-strutturalismo e postmodernismo


Sulla base delle filosofie francesi degli anni ‘60/’70, la critica alla modernità metteva in discussione non solo i limiti del
progresso, dello sviluppo e del benessere, ma anche il modo di produrre conoscenza, dall’idea di paradigma scientifico
alle costruzioni concettali che ne erano derivate.
Le riflessioni post-strutturaliste e postmoderne, insieme a quelle femministe e postcoloniali, hanno alimentato una
rivoluzione ontologica ed epistemologica in tutte le discipline, con l’intento di rovesciare assunti teorici, prassi e metodi
consolidati della ricerca. Tali nuove correnti di pensiero sono state determinanti per l’affermazione del cosiddetto cultural
turn che ha attraversato tutte le discipline a partire proprio dalla revisione del concetto di cultura, comportando nuovi
interrogativi e nuovi obiettivi di ricerca. Anche in geografia, il cultural turn è coinciso con la revisione profonda dei concetti
chiave della disciplina e del modo di studiarli, segnando l’inizio di una serie di svolte a partire dai primi anni ’80.

3.1 Post-strutturalismo
Il post-strutturalismo, movimento filosofico sorto in Francia negli anni ’60, ma affermatosi in tutte le discipline a partire
dagli anni ’80, ha contestato le teorie e i principi che hanno informato la produzione di conoscenza dell’epoca moderna.
L’accusa è stata rivolta soprattutto ai principi dello strutturalismo. Il post-strutturalismo si riferisce infatti, alle filosofie e
alle teorie sociali che sono emerse dopo lo strutturalismo.
Lo strutturalismo, nato in linguistica con Ferdinand de Saussure, aveva postulato l’equivalenza tra segno e significato in
forma del tutto arbitraria. Ciò che i post-strutturalisti mettono in discussione è il fatto che tale linearità arbitraria tra segno
e significato si è estesa progressivamente a tutti i campi del sapere, producendo significati stabili, fissi, indiscutibili,
assoluti, tra oggetti, concetti, idee e il loro significato. Il post-strutturalismo è dunque contro l’idea di realtà come struttura
che ne restituisce un’immagine statica, rigida e data per vera.
Il post-strutturalismo ha messo in discussione anche il razionalismo cartesiano (alla base delle concezioni positiviste e
strutturaliste della realtà) e i principi che lo fondano ovvero evidenza, riduzionismo, casualità, esaustività, opponendo i
principi opposti ovvero quelli di pertinenza, olismo, teleologia e aggregatività. Tali principi, sono stati fortemente attaccati
per la distinzione oggetto/soggetto e la presunta neutralità dell’osservatore nel descrivere la realtà oggettivamente e
obiettivamente (principio di evidenza); per il rilievo attribuito alle cause meccanicistiche dei fenomeni indagati anziché
alle loro dinamiche (principio di riduzionismo); per la pretesa di poter descrivere fedelmente e completamente i fenomeni
indagati (principio di esaustività).
Al contrario la logica non-razionalista considera la realtà soggettivamente conoscibile, cioè pertinente a ogni osservatore
(principio di pertinenza); complessa, cioè non scindibile in singoli elementi e comprensibile solo considerandolo nel suo
insieme (principio di olismo). Inoltre, alla causalità razionalista essa contrappone l’idea che sia importante conoscere le
direzioni verso cui tende una data realtà, la sua progressione temporale verso il futuro, anziché guardando al passato
(principio di teleologia). Infine, la logica non-razionalista ritiene che sia possibile solamente aggregare alcuni elementi e
costruirci attorno una soggettiva versione di conoscenza, dichiaratamente non esaustiva (principio di aggregatività).
Sul piano scientifico, il post-strutturalismo ha duramente criticato il concetto di paradigma scientifico e inteso come
l’insieme delle teorie, dei metodi, degli strumenti ritenuti validi e utilizzati dalla comunità scientifica in un dato momento

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storico. Anche in geografia, almeno fino gli anni ’70, è stata invalsa l’attitudine a considerare l’evoluzione della disciplina
in base ai paradigmi predominanti succedutisi nel tempo (determinismo, possibilismo, funzionalismo), non considerando
che in questo modo si rendeva conto solo di una parte della produzione scientifica, quella più confacente alle mode
scientifiche e agli interessi politici del momento. Il concetto di paradigma, pensato in questo modo, obbliga visioni
dissodanti, fuori dal coro, a coloro cioè che con le loro riflessioni, nuove e diverse, possono sollecitare modi altri di
pensare la realtà e di immaginare il futuro.
Il post-strutturalismo si colloca contro gli approcci analitici e razionalisti, contro l’idea di struttura da cui derivano
significati stabili e univoci, contro le dicotomie cartesiane, le categorizzazioni sociali, le opposizioni binarie. Al contrario, il
post-strutturalismo afferma l’idea relativista della produzione di conoscenza e attribuisce rilievo alla soggettività, da cui
derivano significati plurimi, mutevoli, contestuali. La ricerca post-strutturalista tende a focalizzare l’attenzione proprio
sulla diversità delle letture e delle interpretazioni.
Per questo, il post-strutturalismo attribuisce grande rilievo al linguaggio, ovvero il modo in cui la realtà è stata raccontata,
narrata, descritta. La critica alla modernità si sostanzia nel mettere in discussione le categorie dualistiche (natura/cultura;
corpo/mente) che hanno uniformato la descrizione del mondo, stabilendo di fatto ciò che era giusto/sbagliato, vero/non
vero, normale/anormale, e ciò che andava detto/non detto.
Categorie e categorizzazione indotte dallo strumentalismo sono considerate un prodotto delle relazioni di potere, poiché
sono i gruppi più potenti che di fatto riescono a imporre la propria visione del mondo. I post-strutturalisti, dunque,
focalizzano proprio sui concetti e le categorie sociali poste ai margini/al di fuori della struttura (gruppi sociali o etnici,
spazi e luoghi etichettati come marginali, anormali, diversi).
Tra gli obiettivi del post-strutturalismo c’è quello di decostruire i discorsi che la scienza ha prodotto in epoca moderna. La
decostruzione è stata definita come un metodo post-strutturalista che rende contestuale e incerto un sistema concettuale
evidenziando la co-dipendenza di quel sistema da altri concetti o altri sistemi di pensiero. Anche in geografia si è iniziato
così a utilizzare la decostruzione dei testi per analizzare i discorsi creati e impiegati da élite e attori decisionali, e per
valutare le conseguenze che ne sono derivate sul piano sociale e culturale.

Box 3.1 Decostruzionismo


Il decostruzionismo ha contribuito notevolmente all’affermazione elle tesi post-strutturaliste, delineando modi di
produrre conoscenza partendo non dall’oggetto (realtà indagata), ma dal testo, cioè dalla rappresentazione della realtà.
Il decostruzionismo significa interrogazione dei testi, è il tentativo di estrarre i significati, le tendenze e i preconcetti che
sono alla base del modo in cui il testo descrive. Decostruire significa mettere in evidenza la soggettività di chi descrive e
racconta una realtà, una realtà che non è oggettiva, razionale, assoluta, bensì soggettiva e dettata da interpretazioni
parziali e arbitrarie.

3.2 Voci del post-strutturalismo


Diversi studiosi hanno contribuito alla costruzione del pensiero post-strutturalista riferita a diversi ambiti disciplinari.
Gran parte delle origini e degli sviluppi del movimento post-strutturalista si deve a Jacques Derrida (1930 – 2004),
secondo cui l’idea di struttura ha orientato la produzione di conoscenza nel pensiero occidentale; ma le categorie
ontologiche creare dallo strutturalismo (es: causa, sostanza, verità) sono solo costrutti epistemologici, trasmessi e
riprodotti automaticamente di generazione in generazione. La struttura, sostiene Derrida, è costituita da elementi portanti
e da un “centro gravitazionale”, pertanto essa esclude gli elementi che non hanno relazione con il suo centro. La
struttura postula un dentro e un fuori, da cui sono derivata per estensione, tutte le opposizioni binarie che hanno
connotato la modernità (vero/falso, normale/diverso, centro/periferia, natura/cultura, sé/Altro, ordine/caos). Dunque, il
concetto di struttura ha generato una conoscenza totalizzante costringendo la visione e la concezione del mondo.
Se lo strutturalismo poggia sulla linearità segno-significato (Saussure) che è ordinatrice, il post-strutturalismo rifiuta l’idea
di una struttura da cui deriva un significato stabile e garantito. Al contrario, per i post-strutturalisti il significato è plurimo,
mutevole, contestuale, cioè un insieme diversificato, mutevole. Rifiutando il principio di evidenza cartesiano (che
presuppone l’esistenza di una realtà esterna al soggetto oggettivamente e obiettivamente descrivibile), il post-
strutturalismo focalizza l’attenzione sui processi che hanno prodotto la realtà così come concepita nei diversi campi,
domandandosi “chi, come e a quale scopo” ha prodotto conoscenza. Le categorizzazioni che hanno guidato la
produzione di conoscenza e le scelte sociali e politiche sono considerate come prodotto di relazioni di potere. Per
questo, i post-strutturalisti cominciarono a focalizzare l’attenzione sulle categorie poste ai margini/al di fuori della
struttura, vale a dire i gruppi sociali esclusi dalle grandi narrazioni della modernità per questioni di genere, etnia, razza,
orientamento sessuale, condizione sociale o altro.
I post-strutturalisti adottano il decostruzionismo, inteso come “metodo di scavo” dei testi, attraverso cui indagare logiche
e significati manifesti e impliciti. Derrida sottolinea che la conoscenza si produce a partire non dall’oggetto, ma dal testo
ovvero dalla rappresentazione della realtà. Decostruire significa interrogare i testi, scoprire posizioni, preconcetti,
pregiudizi, assiomi, verità nascoste; mettere in evidenza la soggettività di chi scrive/racconta/rappresenta una realtà, per
dire che non esistono verità assolute.
Altra figura cardine nello sviluppo delle correnti post-strutturaliste è stata quella di Michel Foucault (1926 – 1984), che
molta influenza ha avuto nell’evoluzione del cultural turn in geografia. La critica al concetto di struttura in Foucault
diventa critica all’orine precostruito che costringe a visioni preconcette e universali del mondo. Secondo il filosofo
francese, ogni struttura è una forma di dominio che bisogna smascherare e scuotere alle fondamenta; e se ogni
relazione implica un potere, allora è necessario dare voce ai soggetti esclusi dalle narrazioni moderne. La conoscenza
moderna ha costruito una serie di non-normali (es: folli, criminali), dunque è necessario analizzare i processi di
formazione della conoscenza.

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La conoscenza per Foucault è uno strumento di potere, e il potere indirizza la conoscenza. Le discipline sociali hanno
“normato” gli individui, stabilendone caratteristiche assolute, al solo fine di esercitare un controllo/dominio su individui/
masse, finalizzato alla riproduzione dell’ordine sociale esistente. È stato anche sottolineato come la cultura possa essere
assimilata a quella che Foucault chiamava governamentalità o governamentality cioè un mezzo per produrre cittadini
conformi alle regole e docili, soprattutto attraverso il sistema educativo.
Il potere per Foucault è qualcosa che circola, che funziona a catena, che è capillare, che stabilisce ciò che è giusto/
sbagliato, fattibile/non fattibile, dicibile/non dicibile.
Per Foucault esiste una relazione tra potere e corpo. Il potere ha il suo punto di appoggio proprio nel corpo, nel controllo
della vita delle persone. Le relazioni di potere formano, utilizzano, definiscono il corpo.
Fondamentale, anche per gli studi geografici, è stato anche il concetto di eterotopia. Foucault definì le eterotopie come
“quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spezi, ma in modo tale da
sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano”. Faocault
fa riferimento a quegli spazi che sono normali da sistemi di regole speciali, con propri sistemi di accesso più o meno
complessi; luoghi nei luoghi, di inclusione ed esclusione al tempo stesso, che esistono perché altri spazi li includono.
L’eterotopia, per Foucault si colloca all’opposto dell’utopia (che non ha luogo, non esiste). Le eterotopie inquietano
perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano
i luoghi comuni, perché devastano anzitempo la sintassi che fa tenere insieme le parole e le cose. Associate alle
eterotopie sono le eterocronie, vale a dire i luoghi che consentono un uso diverso ed eccezionale del tempo (es:
biblioteche e musei come luoghi del tempo che si accumula; fiere, mercati, villaggi turistici come luoghi dell’effimero).
Altrettanto influenti nell’affermazione delle tesi post-strutturaliste sono state le riflessioni di Roland Barthes (1915 –
1980). Critico letterario, linguista e semiologo. Barthes equipara lo strutturalismo a una procedura mentale, ovvero che lo
strutturalismo è essenzialmente un’attività, una successione regolata di un certo numero di operazioni mentali. Lo scopo
di ogni attività strutturalista, riflessiva o poetica che sia, è di ricostruire l’oggetto, in modo da manifestare in questa
ricostruzione le regole di funzionamento di questo oggetto. La struttura è dunque un simulacro orientato, interessato
dell’oggetto poiché l’oggetto imitato fa apparire qualcosa che restava invisibile o intelligibile nell’oggetto naturale.
L’uomo strutturale, sempre secondo l’autore, prende il reale, lo scompone, poi lo ricompone perché tra la scomposizione
e la ricomposizione dell’oggetto si produce e di fornisce il modo di comprendere gli oggetti, ciò che Barthes chiama
“l’intelligibile generale” ovvero “il simulacro dell’oggetto”.
La restituzione della realtà sotto forma di simulacro implica notevoli ripercussioni sulla lettura e comprensione della realtà
stessa, poiché ne restituisce una versione specifica.
In quanto modalità di pensiero che ha ripercussioni nel modo di intendere lo spazio e il tempo, Barthes ritiene che lo
strutturalismo possa essere meglio compreso in riferimento alla coppia significante-significato e sincronia-diacronia.
Per Barthes, dunque, lo strutturalismo corrisponde a specifici procedimenti mentali (forma mentis) orientati a scomporre
gli oggetti di studio (struttura) per evidenziarne le regole di funzionamento (cioè le loro funzioni). Ma questo
procedimento implica inevitabilmente la selezione degli elementi della struttura ovvero dei tanti possibili elementi
contenuti in una struttura. Ed è proprio questa operazione selettiva dei possibili elementi di una struttura a rendere
debole e viziato in partenza il ragionamento strutturalista.
Ampio spazio Barthes dedicò alla lingua, intesa come patrimonio collettivo e individuale. Il lettore è interpretante e a tanti
lettori diversi corrispondono altrettante diverse letture, interpretazioni, declinazioni di significato.
La testualità ideale per Barthes non è un sistema concettuale basato sull’idea di centro, margine, gerarchia e linearità,
come sono concepiti e sviluppati i testi tradizionali, ma su multilinearità, nodi, collegamenti, reti, tele, percorsi da cui
deriva l’ipertesto. Il testo ideale, dunque, non ha una struttura di significati, ma un universo di significanti, corrisponde a
una entità non lineare a cui si può accedere da più parti, senza entrata principale, poiché il suo scopo è quello di
sollecitare fantasia, creatività, immaginazione, relazionalità. Barthes si riferì all’intertestualità come alla presenza di altri
testi nel testo, alle relazioni/interazioni tra testi, ai legami tra testi diversi e/o di diversi autori, concetto che acquisirà
grande rilievo nel lavoro dei nuovi geografi culturali.
Il contributo di Clifford Geertz (1926 – 2006) fu altrettanto fondamentale per tutte le sue discipline sociali e umanistiche.
L’antropologo americano nel suo The Interpretation of Cultures, 1973, introdusse la cosiddetta “antropologia
interpretativa”, focalizzata sui simboli nella costruzione dei significati collettivi.
Per Geertz il concetto di cultura “denota una struttura di significati trasmessa storicamente, incarnati in simboli, un
sistema di concezioni ereditate, espresse in forme simboliche per mezzo delle quali gli uomini comunicano, perpetuano
e sviluppano le proprie conoscenze sulla vita e i propri atteggiamenti verso di essa”. Partendo dal presupposto che la
cultura è un sistema di segni costruiti mentre si interpretano, Geertz affermò che l’antropologia è l’interpretazione del
ricercato di interpretazione dei nativi. L’antropologo, a sua volta carico di concezioni proprie della sua cultura, non può
fare altro che interpretazioni di interpretazioni, vale a dire interpretazione personale di interpretazioni fornite da nativi/
gruppi. È in questo modo he Geertz abbracciò una concezione semiotica della cultura, vale a dire un’idea di cultura alla
cui definizione concorrono sia le interpretazioni di nativi/gruppi, sia quelle dell’antropologo.
Geertz introdusse anche un nuovo metodo etnografico in base a cui la cultura è considerata come un testo sociale, per
cui si tratta di cogliere il significato e l’importanza che nativi/gruppi attribuiscono a propri comportamenti, concetti,
simboli, consapevolmente o inconsapevolmente, con tutti i limiti e le insidie che tale procedimento implica.
Tra gli altri studiosi che più hanno influito sulla revisione dei modi di concepire e produrre conoscenza va menzionato
Michel de Certeau (1925 – 1986). Nel suo teso più noto, ‘invenzione del quotidiano, 1980, de Certeau distingue i concetti
di strategia e tattica: se le strategie sono le azioni istituzionali pensate su uno spazio giù costruito, dato, statico,
assimilato a una struttura sostanzialmente fissa e immutabile, le tattiche sono le pratiche messe in atto sai cittadini per
destreggiarsi tra gli ambienti creati dalle strategie. De Certeau mette a confronto:

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• la città delle strategie, quella concepita dall’alto delle istituzioni e dei decisori, ma anche dall’alto di una mappa
dello spazio urbano pianificato;
• la città delle tattiche praticate dai cittadini a livello stradale, dal basso delle attività quotidianamente agite,
cercando di eludere le barriere e i vincoli stabiliti dall’alto.

3.3 Postmodernità, postmoderno, postmodernismo


Sul finire degli anni ’80 hanno preso corpo in geografia anche le correnti ispirate al postmodernismo. Maturato negli
Stati Uniti, tale movimento coinvolse dapprima l’architettura e la critica letteraria, quindi le scienze sociali, quelle della
comunicazione e del diritto, per poi estendersi ai più disparati ambiti della vita sociale, dal design alla moda, dalla musica
alla televisione.
Secondo Dear (1986) il postmodernismo può essere definito in riferimento a tra ambiti diversi ma interconnessi:
1. Postmodernismo come stile (letterario, architettonico, artistico) che inneggia alla diversità, la creatività, la
sovrapposizione di generi, il disordine;
2. Postmodernismo come metodo (che utilizzava la decostruzione per svelare le verità assolute della modernità);
3. Postmodernismo come epoca (in cui il cambiamento culturale deve fare i conti con un’economica e una
geopolitica globale, cosicché il postmodernismo può essere considerato come la cultura del tardo-capitalismo).
Il postmodernismo contrasta ogni pretesa di verità assoluta e ogni meta-teoria universale, tant’è che tra le sue
metodologie principali annovera la decostruzione, intesa come strategia che punta a svelare come il posizionamento di
un autore influenza la scrittura di un testo.
Il postmodernismo può essere considerato una sorta di estremizzazione degli assunti post-strutturalisti, in quanto
orientato a realizzare una radicale riforma del modo di produrre conoscenza, ispirata al relativismo, alla
contestualizzazione, all’ibridazione di strumenti, concetti e metodi, all’assoluta libertà di azione del ricercatore di spaziare
liberamente tra idee, nozioni e concetti, realizzando così inedite associazioni e creando movimento, circolazione e
creatività nella costruzione del sapere.
Fondamentali, per lo sviluppo delle tesi postmoderne, sono state le riflessioni di Jean-Francois Lyotard (1924-1998),
filosofo, sociologo e critico letterario francese, condensate soprattutto nel saggio La condition postmoderne (1979)
considerato come una sorta di manifesto del pensiero postmoderno. Il filosofo sosteneva che ormai l’epoca moderna era
giunta al suo compimento e si era entrati nell’epoca postmoderna, laddove il postmoderno designa lo stato della cultura
dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX
secolo.
Secondo Lyotard si è aperta una nuova fase per la società, che egli definisce postmoderna, caratterizzata dalla
necessità di ricercare nuovi criteri di giudizio e legittimazione che non siano più universali e totalizzanti, bensì locali e
contestualizzati. La nuova epoca postmoderna, sempre secondo lui, è segnata dall’esplosione dei linguaggi e dei punti di
vista, generando continue nuove ibridazioni e contaminazioni.
Storicamente, secondo Lyotard, l’epoca moderna è iniziata nei secoli XVII e XVIII e si è protratta fino al tardo 1900, in cui
si è affermata la postmodernità. Tra le due epoche vi è un’antitesi nel modo di intendere la società e il mondo. La
modernità è ruotata attorno all’idea di progresso, cioè a un’idea lineare ed evolutiva della storia dell’umanità che da stati
peggiori si emancipa progressivamente verso condizioni marginali che arricchiscono facoltà e opzioni. La postmodernità
nega validità a ogni assetto o traguardo preconfigurato e si pone nei confronti del futuro in modo dichiaratamente
confuso, ironico, disincantato e deliberatamente aperto a ogni nuova idea, suggestione, proposta che sia espressione di
libertà e originalità creativa.
In geografia, le riflessioni postmoderne hanno iniziato a diffondersi a partire da due fulcri principali:
1. quello europeo facente capo a Gunnar Olsson (1987);
2. quello facente riferimento alla cosiddetta Los Angeles School of Urbanism, in particolare a Michael Dear e
Edward Soja.
Vallega sottolineò come la scuola di Los Angeles fosse contraddistinta da un approccio più attento e concreto alle realtà
urbane, soprattutto quelle di livello metropolitano, mentre le riflessioni maturate in Europa presentavano carattere più
teorico e speculativo.
La questione della differenza tra il postmodernismo nordamericano e il post-strutturalismo europeo è stata delineata da
Minca (2001), secondo cui si tratta di due fenomeni paralleli che pur avendo punti di congiunzione hanno preso vita su
differenti corpus teorici. Nel Nord America si sviluppavano movimenti radicali e marxisti che mettevano in discussione
teorie sociali e culturali su cui si fondava la società di allora, in Francia prendeva forma il post-strutturalismo basato su
analoghe riflessioni ma portate avanti sul piano ontologico ed epistemologico. Solo in un secondo momento gli ambienti
culturali nordamericani si sono dimostrati sensibili alle questioni portate dal post-strutturalismo francese e si è diffusa
l’opinione che quelle istituzioni avrebbero potuto rafforzare ulteriormente le argomentazioni radicali e marxiste,
confluendo, nel corso degli anni’80, nel pensiero postmoderno.
Il postmodernismo non è stato unanimemente accolto con favore in geografia, soprattutto da parte delle geografie
radicali e femministe, a partire dal durissimo attacco sferrato da David Harvey. D. Harvey ritiene che il postmodernismo
non fa altro che delegittimare la critica sociale e la politica progressista anziché il neo-capitalismo e il
neoconservatorismo. Per D. Harvey, la cultura postmoderna è la veste metaforica indossata dall’economia capitalista nel
tentativo di collocare l’accumulazione del capitale su nuovi percorsi redditizi, senza riguardi per l’espulsione dei lavoratori
da tali processi o per il degrado ambientale.

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D. Harvey introduceva il concetto di compressione spazio-temporale, entrato poi a regime nel dibattito accademico,
politico e mediatico, per significare l’estensione globale e la flessibilità dei regimi di accumulazione del capitale indotte
non solo dal progresso dei sistemi di trasporto e comunicazione, ma anche dai cambiamenti registrati sul piano politico
ed economico.

Box 3.2 Compressione spazio-temporale e disuguaglianza


La locuzione “compressione spazio-temporale”, formulata da David Harvey, è entrata a regime nel linguaggio
scientifico, politico e mediatico per indicare la velocizzazione della vita sociale e la diminuzione degli effetti costrittivi della
distanza sulle attività umane indotta, soprattutto, dai progressi conseguiti nel campo dei trasporti e delle comunicazioni.
In realtà, Harvey utilizza tale nozione per significare quanto la riduzione delle distanze e dei tempi delle relazioni abbia
permesso al capitalismo di conquistare lo spazio e il tempo, di rendere più immediati la produzione e il consumo, e di
agevolare l’incremento dell’accumulazione di capitale.
La geografa britannica Boreen Massey (1991) ha invece sottolineato le contraddizioni e le diseguaglianze che
accompagnano la contrazione dello spazio e del tempo nelle società contemporanee, essendo un fenomeno che
riguarda principalmente alcuni gruppi sociali, rispetto a una moltitudine di persone per le quali il mondo è più grande e
inaccessibile che mai. Massey ha specificato infatti che la compressione spazio-temporale riguarda soprattutto coloro
che sono in una posizione di controllo nel campo del movimento (del denaro, delle merci, ecc.) e della comunicazione.
Sottolinea, tuttavia, che ci sono anche coloro che si muovono da un capo all’altro del mondo per motivazioni
completamente diverse e di cui non sono responsabili (rifugiati, migranti clandestini). Massey parla anche di coloro che
vivono indirettamente la coda della compressione spazio-temporale, come nl caso dei pensionati che mangiano
fish&chips tipicamente inglesi acquistati in un qualche take away cinese. Massey conclude che se da una parte ci sono
persone e gruppi che contribuiscono attivamente all’occorrenza della compressione spazio-temporale, dall’altra ci sono
anche coloro che ne restano imprigionati

3.4 Thirdspace e spatial turn


Con la diffusione delle tesi postmoderne si è realizzato un cambiamento sostanziale nella concezione del tempo e
dello spazio. In epoca moderna la prevalenza attribuita al tempo sullo spazio aveva implicitamente stabilito una linea di
continuità tra passato-presente-futuro, in modo tale che nessun cambiamento sarebbe stato concepibile, ma solo piccole
modifiche nel solco della continuità con il passato.
la postmodernità attribuisce priorità allo spazio, proprio perché i luoghi sono polisemici, incoerenti, plurali, contengono
già la diversità ovvero i germi del cambiamento.
Il problema di fondo sotteso alla concezione moderna/postmoderna del mondo lo ha evidenziato Doreen Massey (1994),
riconducendolo alla concezione tradizionale del tempo e dello spazio di derivazione kantiana: il tempo inteso come
processo e lo spazio come struttura (ovvero come assenza di processo). Da qui è derivata l’idea moderna che il
processo (ovvero il cambiamento, le cose nel loro divenire) coincidesse con la storia, e che lo spazio (ovvero la
sincronia, lo stato delle cose) corrispondesse alla geografia.
Negli anni ‘70/’80 la città diviene la protagonista delle riflessioni postmoderne e degli studi urbani. Se Chicago (e la sua
School of Urban Sociology, che nella prima metà del 1900 aveva prodotto i modelli funzionalisti dello spazio urbano) era
la città emblema della modernità, ora è Los Angeles a divenire città-simbolo del postmoderno, con la Los Angeles School
of Urbanism e le riflessioni proposte da Edward Soja e Michael Dear a illustrarne le ragioni.
Edward Soja, nel suo Postmodern Geographies, 1989, auspicò uno spatial turn in tutte le discipline, portando tutte le
discipline a contestualizzate e relativizzare eventi, rappresentazioni, narrazioni della realtà, al fine di affermare la
frammentarietà e la relatività dei significati, al posto delle generalizzazioni e degli universalismi moderni.
Soja avanzò una critica allo strutturalismo e allo storicismo moderno, proponendo una rilettura delle teorie marxiste. Ad
esempio, Soja rielaborò il modello spazio-tempo-società di Lefebvre, formulando la teoria del Thirdspace. Il Thirdspace,
per Soja, è un dove in cui tutto di incontra la soggettività e l’oggettività, il reale e l’immaginario, il sapere e
l’inimmaginabile, la coscienza e l’inconscio… Il Thirdspace è dunque un concetto che rielabora ontologie, epistemologie
e storicità consolidate, creando movimento continuo, oltrepassando ogni dualismo e introducendo l’apertura costate alla
diversità, a modi altri di concepire e vivere lo spazio.
Per Soja, la commistione tra lo spazio reale e lo spazio immaginato trova nella Los Angeles contemporanea la sua più
emblematica espressione. Prendendo spunto dalla nozione di iperspazio di Fredric Jameson, critico letterario e teorico
statunitense, Soja si sofferma in particolare sul Bonaventure Hotel, un albergo che con i suoi esterni arrotondati e
ricoperti di specchi, i suoi interni destrutturati e densi di riferimenti simbolici diversi, realizza in pieno l’idea di iperspazio
postmoderno, vale a dire iper-reale, senza ordine, né simmetria.
L’architettura del Bonaventure Hotel, fa riferimento ad una struttura edilizia ad alto contenuto simbolico che stravolge la
tradizionale idea rassicurante di albergo che esprime la caotica e contraddittoria polisemia della metropoli californiana,
creando volutamente un disorientamento. Il Bonaventure Hotel diventa così metafora della condizione esistenziale
dell’epoca postmoderna: lo spazio di un albergo è assimilato a un iperluogo in cui è difficile orientarsi, così come è
difficile orientarsi negli spazi del capitalismo tardo-moderno, con le sue logiche politiche ed economiche suggenti e
incomprensibili agli individui; logiche che creano disorientamento e allo stesso tempo arrendevolezza, perché è sempre
più difficile mappare se stessi nella rete globale del capitalismo transnazionale.
In architettura, la postmodernità si sostanzia nella commistione di stili ed elementi architettonici riferibili ad epoche e
culture diverse, nell’associazione creativa di forme inedite e dal risvolto ironico. L’obiettivo è quello di rovesciare il tempo
e la storia, di creare movimento nella struttura architettonica e di conferirle un contenuto simbolico volutamente
polisemico e confuso, che lasci spazio all’immaginazione, allo stupore e alla creatività.

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Il postmoderno ha attraversato e reso protagonista anche la letteratura, dove ha preso forma il cosiddetto topographical
turn. Lyotard denunciò in tal senso la fine delle avanguardie e l’affermazione di un’industria culturale che induce artisti e
letterati a conformarsi al gusto di ciò che il sistema impone, proponendo un’idea di postmodernità chiamata a resistere a
tale mercato culturale, proprio attraverso un rinnovato modo di pensare e praticare l’arte, la letteratura, la cinematografia.
Una delle componenti fondamentali del pensiero postmoderno risiede proprio nella narrazione che può raccogliere in sé
una pluralità di giochi linguistici, con la differenza, rispetto al passato, che non esistono più regole generali e
universalmente valide.

3.5 Approccio moderno e postmoderno a confronto


Nel volume di Vallega è contenuto un esempio delle differenze che intercorrono tra la geografia di impianto
strutturalista e quello postmoderna. Il contesto territoriale a cui si riferiscono i due brani è lo stesso, ovvero la città di Los
Angles, ma i contenuti e il senso che ne deriva sono profondamente diversi.
Corna-Pellegrini descrive Los Angeles dall’alto o dall’esterno (come fosse situato su un belvedere o su un aereo).
Prende in considerazione gli elementi macroscopici del paesaggio e parla di forma materiali, distanze, confini, posizioni
assolute (nord/sud). Lo spazio che descrive è geometrico, euclideo, ordinato, assimilabile a una struttura costituita da
elementi legati da relazioni causali. La realtà osservata è raccontata dettagliatamente, con finalità esaustive e
sostanzialmente a-critiche.
Soja è invece dentro Los Angeles, e si guarda intorno. Interpreta i simboli di quello spazio apparente e appariscente, che
cela squilibri e ingiustizie sociali. Il brano fa riferimento a questioni politiche ed economiche in ottica transcalare (urbana,
suburbana, metropolitana, globale, regionale). Fornisce una rappresentazione deliberatamente soggettiva e critica.
Esse rispecchiano die impostazioni teoriche profondamente diverse. Quello che cambia è soprattutto la finalità: politically
correct nel primo caso, e di aperta denuncia nel secondo.

3.6 La crisi della rappresentazione


La svolta post strutturalista e postmoderna, mettendo in discussione i modi in cui la conoscenza è stata prodotta,
intesa e interpretata, coinvolse anche la geografia. La questione è nata dal fatto che la geografia ha tradizionalmente
descritto paesaggi, luoghi e territori senza curarsi troppo né delle premesse concettuali, né delle implicazioni delle sue
descrizioni.
Dalla metà degli anni ’80 è così iniziata una riflessione attorno al potere, alla responsabilità e alle ripercussioni etiche
della conoscenza geografia e alle modalità attraverso cui essa è costruita. Sulla scorta delle riflessioni di Clifford Geertz,
il progressivo ampio ricorso ai metodi qualitativi di derivazione etnografica ha in tal senso sollecitato nuove domande sul
ruolo del ricercatore nel corso del lavoro sul campo.
Già le geografie soggettive degli anni ’70 avevano eroso alle fondamenta l’idea che la geografia potesse descrivere
fedelmente la realtà. A partire dagli anni ’80 gran parte del dibattito scientifico è ruotato proprio attorno al tema della
rappresentazione: la geografia ha contribuito in modo rilevante a interrogare criticamente conoscenze, saperi e modalità
di descrizione del mondo, agganciandosi strettamente alle questioni sociali, culturali e politiche affrontate anche in altri
ambiti disciplinari, così come ai progressi delle tecnologie di elaborazione, rappresentazione e comunicazione dei dati.
In Le metafore della Terra (1985), Giuseppe Dematteis spiegò molto chiaramente in che cosa consistesse il problema
della rappresentazione in geografia: la geografia restituisce un sapere metaforico, poiché produce conoscenza in
riferimento a qualcosa di inevitabilmente rappresentativo. Il sapere geografico può essere assimilato a una metafora,
perché esso evoca al tempo stesso la materialità dei fenomeni del mondo e la soggettività dei loro significati.
Occupandosi di questioni antropiche che avvengono in uno spazio materiale, la geografia non può fare altro che
utilizzare metafore e funzionare da interfaccia cognitivo tra questa materializzazione necessaria per la vita e la
rappresentazione della stessa che ogni cultura produce. Criticando le geografie quantitative degli anni ‘50/’60, che pure
aveva inizialmente abbracciato, Dematteis ha parlato di rappresentazione normale del territorio e rappresentazione
discorsiva, basata sull’uso di metafore. La metafora è intrinseca al modo geografico di rappresentare la superficie
terrestre e conduce a una varietà e ricchezza di risultati maggiore rispetto alla geografia “normale”. La geografia è
scienza connettiva per eccellenza, poiché è in grado di connettere la materialità dei fenomeni terrestri alla pluralità dei
significati possibili.
Per la geografia, la crisi della rappresentazione ha comportato una valutazione in termini critici dell’intero modo
tradizionale di concepire e descrivere il mondo, anche attraverso il suo strumento cardine: la carta geografica, che è
stata sottoposta a un’intensa opera di decostruzione critica, coinvolgendo anche le sue evoluzioni tecnologiche sotto
forma fi GIS. Fondamentali in tal senso sono state le riflessioni di Gunnar Olsson sulla “ragione cartografica” che orienta
le persone sia nel pensare le relazioni umane, sia nell’attraversare materialmente spazi e luoghi, creando distinzioni e
delimitazioni sociali molto simili ai confini he separano gli stati ed entità amministrative; così come quelle di Franco
Farinelli sul potere performativo della carta nel costruire una visione della Terra bidimensionale, incidendo
profondamente sul modo di pensare e stare al mondo, e sul modo di fare la geografia.
Farinelli dice che contrariamente a quanto siamo abituati a pensare (cioè che la carta geografica si la rappresentazione,
la copia della Terra), è la Terra che ha assunto progressivamente le sembianze di una carta geografica. Secondo
Farinelli, la modernità è coincisa con la riduzione del mondo alla sua rappresentazione cartografica, poiché la ascita
degli Stati moderni si è accompagnata alla necessità di fare in modo che il territorio statale diventasse la copia della
mappa: continuo, omogeneo e isotropico, proprio come le proprietà richieste alla mappa, secondo le regole della
geometria euclidea. Il passaggio dalla pre-modernità alla modernità è avvenuto grazie a tale straordinaria rivoluzione: la
geografia ha continuato a imitare la mappa, ma la mappa nel frattempo ha acquisito potere performativo, ed è il mondo

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che è divenuto copia della mappa, riducendo la realtà a un piano bidimensionale. La mappa precede pertanto il territorio
e l’ordine del mondo, è la rappresentazione di un’idea del mondo in realtà già pensata.
Attraverso la geografia, che è descrizione della Terra, il mondo è stato ridotto alla Terra, la Terra alla sua superficie e
quest’ultima alla mappa. Ma il mondo delle relazioni sociali, economiche, culturali richiede un approccio globale per
essere descritto (non solo attraverso mappe e disegni). La geografia può allora tornare ad essere quello che era prima
che la modernità trasformasse la mappa da strumento a idea bidimensionale del mondo, con tutto ciò che ne consegue.
Abbiamo bisogno di tornare a pensare la Terra come una sfera, tonda, tridimensionale e che ruota su sè stessa:
un’immagine metaforica per dire che ciò che accade a migliaia di chilometri di distanza, prima o poi, ci tornerà davanti.

3.7 Postcolonial, femminst e queer studies


Parallelamente all’affermazione delle correnti post-strutturaliste e postmoderne hanno preso corpo una serie di
approcci teorici che hanno soffermato l’attenzione sui gruppi sociali e culturali vessati da politiche, narrazioni e discorsi
importanti alla subordinazione, all’emarginazione e alla costruzione discorsiva dell’Altro, del diverso.
Gli studi postcoloniali hanno esaminato gli aspetti politici ed economici legati alla costruzione del colonialismo,
configurando la razza e l’etnia come costruzioni discorsive funzionali alla riproduzione delle logiche di potere tra
colonizzati e colonizzatori.
Gli studi postcoloniali hanno impiegato l’analisi testuale per mettere in luce retoriche, dissimulazioni e costruzioni
discorsive attraverso cui l’Altro, il diverso da sé, è stato “inventato” per riprodurre e rafforzare dinamiche sociali e logiche
di potere consolidate. Nello stesso tempo, gli studi postcoloniali hanno incoraggiato gruppi esclusi dalle grandi narrazioni
della modernità ad emanciparsi e impegnarsi nelle lotte di liberazione che di lì a poco sarebbero effettivamente esplose
in diversi contesti del mondo. Connessa alla questione postcoloniale è infatti la questione del nazionalismo ovvero delle
retoriche che hanno accompagnato la nascita degli Stati-nazione moderni e dei postulati su cui è stato costruito lo
stereotipo della superiorità culturale dell’Occidente. Influente fu il testo del sociologo Benedict Anderson (1996) nel
definire le nazioni come “comunità immaginate” e nell’argomentare criticamente l’invenzione degli Stati-nazione come
unico spazio geoculturale del progresso e dell’emancipazione.
Se il termine postcolonial fece la sua apparizione in diversi studi storici della metà del XX secolo per indicare i movimenti
di liberazione nazionale dal dominio coloniale, nel corso degli anni ’80 tale termine fu largamente utilizzato negli studi
letterari per individuare il corpus di narrazioni prodotto dagli autori delle ex colonie, con particolare riferimento ai prodotti
letterari scritti nelle lingue dei paesi colonizzatori. Edward Said (1991) sottolineò come la narrazione letteraria fosse il
luogo privilegiato per operare la costruzione dell’alterità e la trasfigurazione dei conflitti identitari che avevano nel
dominio coloniale il loro tratto comune.
Gli studi postcoloniali intercettano quelli femministi in quanto entrambi focalizzati sulla costruzione discorsiva della razza
e del genere ovvero sulle questioni del potere politico maschilista e patriarcale.
La ricerca geografica ha contribuito a sfatare miti e idealizzazioni del genere femminile, sottolineando la necessità di
esaminare le logiche di potere e resistenza nei contesti socio-spaziali in cui esse prendono forma.
Il femminismo si presenta come un corpus teorico sfaccettato e denso di versioni e posizioni diverse. Non tutto il
movimento femminista, ad esempio, è d’accordo con la destabilizzazione e la messa in discussione delle identità
(comprese quelle di genere) sostenute dal post-strutturalismo, ritenendo che in realtà è proprio attraverso il concetto di
identità che è possibile portare avanti le lotte per il riconoscimento delle diversità di genere e sessuali. Ciò nonostante,
gran parte delle riflessioni maturate in ambito femminista è diventata parte integrante del post-strutturalismo.
Negli anni ’90, nell’ambito delle scienze umane e sociali, è anche emerso un movimento volto a porre i temi della
sessualità e del genere al centro della riflessione. Il termine queer (strano, eccentrico, bizzarro, irregolare) fa riferimento
alla diversità dei modi in cui la sessualità e il genere possono essere declinati, opponendosi a ogni visione del mondo
normata, fissa, stabile che stabilisca ciò che è normale o desiderabile, esponendo di fatto ogni diversità di scelta
sessuale all’esclusione e alla marginalizzazione. Si tratta si un ambito di studio interdisciplinare il cui scopo è quello di
portare al centro dell’attenzione la questione teorica e politica delle differenze. Le ricerche queer fanno parte di
quell’ambito più ampio di studi che sono stati definiti indentity politics proprio perché collegati ai movimenti che lottano
per il riconoscimento di diritti e contro ogni forma di esclusione, emarginazione e discriminazione derivante dalla propria
appartenenza culturale, sociale, etica, di genere o di orientamento sessuale.
Fondamentali, per lo sviluppo di questo ambito di studi, sono state le riflessioni di Foucault in merito alla repressione-
produzione di diversità, poiché è proprio attraverso la repressione più o meno manifesta delle diverse espressioni della
sessualità che i movimenti di liberazione hanno potuto prendere forma e portare avanti le proprie battaglie.
In comune con gli altri studi postcoloniali, femministi e queer, così come con quelli post-radical, c’è l’intento condiviso di
decostruire le identità sociali e culturali edificate da discorsi e pratiche sociali consolidate, che hanno prodotto
consapevolmente o inconsapevolmente iniquità e ingiustizie, ghetti e segregazioni, e di ricostruire tali identità sulla base
di riflessioni contestualizzate e mai definitive.

Box 3.3 Corpo e feminist studies


Negli anni ‘70/’80 i corpi delle donne erano spesso chiamati in causa come prova della differenza essenziale (e
dell’inferiorità) della donna dall’uomo. Molte femministe temevano che quel riferimento al corpo fisico sarebbe servito
solo a neutralizzare ciò che in realtà era differenza sociale. Le femministe in quel momento preferivano parlare di genere
(la costruzione sociale di ruoli e relazioni) piuttosto che di sesso (il corpo biologico).
Questa distinzione tra sesso e genere, impiegata da molte femministe negli anni ’70/’80, è derivata dal lavoro dello
psicologo Robert Stoller (1968), secondo cui il sesso biologico di una persona aumenta ma non determina l’identità di
genere di una persona, che è principalmente il risultato di influenze psicologiche post-natali. Molte femministe hanno

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inteso questa distinzione tra sesso e genere come un modo per sostenere che è possibile cambiare i comportamenti di
genere. Negli anni ’90 le femministe hanno teorizzato il sesso e il genere non come entità discrete e separate ma come
mutuamente costituite. Le femministe hanno decostruito non solo il dualismo tra sesso e genere, ma anche quello tra
mente e corpo. Le geografe femministe, come Gillian Rose (1993), hanno sostenuto che la geografia non è stata
immune al pensiero dualistico. In geografia, la mente, la maschilità, la razionalità e l’identità sono state privilegiate
rispetto al corpo, alla femminilità, all’irrazionalità e all’alterità. Alcuni geografi, quindi, si sono concentrati sul corpo per
contestare i discorsi dominanti nella disciplina. Per questo, c’è stata una crescente attenzione/preoccupazione per il
corpo in geografia. Che è divenuto l’argomento centrale attorno a cui basare le rivendicazioni politiche, le analisi sociali
e le indagini teoriche.

Capitolo 4: La nuova geografia culturale


La nuova geografia culturale, emerse nel corso degli anni 80, in opposizione alla scuola di Berkeley, stabilendo forti
legami con i cultural studies della scuola di Birmingham e con le teorie femministe, post-strutturaliste e postcoloniali. In
geografia culturale, l’influenza di R. Williams è stata significativa, soprattutto per aver impostato lo studio delle culture
nella loro dimensione quotidiana.
I cultural studies hanno esercitato un forte impatto sulla geografia, soprattutto quella britannica, dando vita ad un nuovo
modo di intendere e studiare la cultura che si è sostanziato in un generalizzato cultural turn, in contemporanea spatial
turn.
Fin dagli esordi la nuova geografia culturale è stata sviluppata in diversi modi dai geografi. La svolta partì nei primi anni
80, da alcuni testi che misero in discussione il concetto di cultura allora ancora in uso, riconducibile alla scuola di
Berkeley. Infatti mentre nelle altre discipline era in atto già da tempo una rivoluzione che rovesciava i concetti e i metodi
consolidati, la geografia culturale era rimasta ferma alla scuola di Berkeley.
Con la svolta culturale si intendeva ampliare l’ambito d’interesse disciplinare estendendolo ad una maggiore varietà di
soggetti e processi. Così la svolta culturale implicò un nuovo impegno verso la dimensione “immateriale” della vita
umana-sociale, aprendo nuovi interessi e obiettivi di ricerca.

4.1 Tre pionieri


In geografia, le origini della svolta culturale sono fatte coincidere con la pubblicazione di alcuni articoli significativi
pubblicati da: Peter Jackson, James Duncan e Denis Cosgrove.
Peter Jackson – A plea for Cultural Geography (1980)
Nel suo articolo Jackson espose la sua preoccupazione per l’assenza della geografia culturale negli ambienti scientifici
anglo-americani, che a suo dire avevano origine dai “paletti” imposti dalla Scuola di Berkeley. Nel denunciare il ritardo
della geografia culturale, Jackson auspicava a una rivoluzione epistemologica, che consentisse un avvicinamento tra la
geografia sociale e la geografia culturale, basandosi anche sui metodi dell’antropologia sociale.
James Duncan – The Superorganic in American Cultural Geography (1980)
Nel suo articolo Duncan sferrava un duro attacco alla concezione superorganica della cultura adottata da Sauer e dalla
Scuola di Berkeley. Tale concezione, secondo Duncan, materializzava la nozione di cultura come fosse un oggetto;
considerare la cultura come fosse una cosa e porla al di fuori della volontà umana, per Duncan equivale a considerare gli
essere umani in termini passivi e impotenti.
Nella concezione suprorganica, la cultura è assunta come forza non identificata, in grado di determinare i comportamenti
umani che si trasmettono di generazione in generazione. Duncan contestò l’atteggiamento passivo riportato dalla
concezione superorganica della cultura, secondo cui la cultura appartiene all’ambito dell’inconsapevolezza e
dell’abitudine (anziché a un’attività intellettuale e cosciente).
Inoltre Duncan contestò la pretesa di considerare la cultura in termini di omogeneità interna, e di conseguenza a creare
tipi di ideali di cultura, riducendo il carattere di milioni di persona, a un paio di tratti.
La Scuola di Berkeley non si poneva tale problema; attribuire potere causale alla cultura equivale a nascondere le
questioni che riguardano l’origine, la trasmissione e la differenziazione della cultura all’interno di una popolazione.
Prima dell’intervento di Duncan, non c’era nessuna considerazione per le molteplici variabili esplicative impiegate nei vari
ambiti; allo stesso modo, non era maturato nessun interesse sul ruolo delle istituzioni, della politica, e dell’economia nelle
questioni culturali. Infatti, molte di queste dinamiche erano date per scontate, e dunque non venivano esaminate e prese
in considerazione.
Secondo Duncan, i geografi culturali descrivevano un mondo in cui l’individuo è in gran parte assente, un mondo
incontaminato da conflitti intraculturali, dove la cultura è il risultato di processi di trasmissione, valutazione e
reinterpretazione.
Denis Cosgrove – Towards a radical cultural geography (1983)
Cosgrove propose una geografia culturale radicata centrata sulla dimensione simbolica della cultura e sul ruolo
fondamentale nel dare forma/ordine allo spazio (anziché considerarla una forza in grado di determinare trasformazione
della natura, come fecero Sauer e de la Blache).
Sauer era più preoccupato a specificare metodi e procedure per studiare le forme materiali derivanti dalle culture,
piuttosto i processi che costruiscono e trasformano le culture stesse.

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Alla base della nuova geografia culturale c’erano soprattutto le idee contrarie a ogni epistemologia essenzialista e
totalizzante.

Box 4.1 – Cultural studies


Per cultural studies si intende un campo di studi interdisciplinari, che hanno preso forma alla fine degli anni 50. Iniziati
nell’ambito della critica letteraria britannica per poi coinvolgere più ambiti disciplinari, i cultural studies sono motivati
dall’idea che tra cultura e potere ci sia un forte nesso, e che la cultura possa costituire un oggetto di studio ma anche un
ambito in cui proporre letture critiche del mondo.
L’intento è quello di esaminare criticamente la cultura nelle diverse declinazioni teoriche: dalle tradizioni popolari ai
mass-media, dai canoni letterari alle pratiche sociali…
Secondo Raymond Williams la cultura non è una cosa, ma un processo storicamente articolato, articolato in tre diversi
significati:
1. cultura come processo intellettuale e sviluppo spirituale
2. cultura come “way of life”
3. cultura come insieme di attività intellettuali e artistiche (cultura alta, bassa, popolare, di massa…)
Il problema, secondo Williams, sta nel fatto che la grande complessità del termine cultura non risiede nella parola in sé,
ma nei problemi che le sue variazioni d’uso comportano.
Nella prospettiva di Stuart Hall, i cultural studies, sono nati dalla disgregazione delle idee marxiste classiche, basate una
visione eurocentrica e sulla tesi che la struttura economica ha effetti determinanti sulle strutture culturali.
Stuart Hall ha definito i cultural studies come una formazione discorsiva, cioè come un insieme di riflessioni diverse e
instabili.

4.2 Un programma di lavoro


I fondamenti della nuova geografia culturale sono stati sintetizzati in un articolo di Cosgrove e Jackson, intitolato New
directions in cultural geography. Da una parte Cosgrove affermò che i paesaggi sono configurazioni di simboli e segni
che richiedono nuove metodologie di indagine. Il tema della rappresentazione di Cosgrove assume rilievo centrale, così il
paesaggio è inteso come una tessitura di simboli da interpretare.
Fino alla svolta culturale, la geografia ha cercato di produrre una rappresentazione del mondo “così com’è”. Cosgrove
invece propone di interpretare il paesaggio attraverso le sue rappresentazioni, in particolare attraverso le immagini
visuali. In tal modo Cosgrove influì nell’affermazione di un nuovo modo di considerare l’osservazione come metodo di
indagine geografica, facendone una questione sociale e politica.
P. Jackson pose l’accento sulla dimensione sociale della cultura; infatti secondo lui, la geografia poteva sviluppare strade
alternative per teorizzare la cultura, senza fare necessariamente riferimento al paesaggio.
Jackson proponeva l’integrazione tra la dimensione sociale e quella culturale; il suo era un appello alla
“culturalizzazione” della geografia sociale. Dunque suggeriva la possibilità di sviluppare strade alternative per teorizzare
la cultura, sottolineando come lo stimolo maggiore provenisse dai cultural studies.
Secondo Jackson e Cosgrove, la nuova geografia culturale doveva essere costruita contro tutto ciò che era vecchio, e
contro la nozione di cultura come entità indipendente dalle persone.
Nelle intenzioni di Jackson, la nuova geografia culturale doveva aprirsi agli ambienti urbani, doveva riferirsi non solo al
paesaggio, ma anche allo spazio e ai luoghi, mettendo al centro la vita umana.
Il taglio sociale di Jackson trovò modo di esplicitarsi con le Maps of Meanings, dove le culture sono equiparate a mappe
di significato. La visione alternativa della geografia di Jackson, poggiava su tre posizioni di base:
1. la cultura corrisponde ai significati costruiti dalle persone attraverso interazioni e relazioni sociali. La geografia
culturale studia come questi significati si relazionano alle questioni: tempo, spazio e paesaggio.
2. i processi di costruzione dei significati culturali dello spazio, del luogo e del paesaggio, sono legati alle questioni
del potere. I geografi culturali devono occuparsi di esaminare chi ha il potere di creare tali significati.
3. i significati sono costruiti attraverso processi di rappresentazione. I geografi culturali devono studiare come
spazi, luoghi e paesaggi, sono rappresentati e trasmessi attraverso media e mass-media.
Inoltre Jackson invitava la nuova geografia culturale a interessarsi di gruppi marginali, anziché di grandi civiltà (come
aveva fatto la Scuola di Berkeley), di culture popolari, anziché di élite.
Attingendo a idee e metodi dell’antropologia sociale, Jackson focalizzò l’attenzione sulle politiche culturali (cultural
politics) e sulla costruzione discorsiva dei gruppi sociali e del luogo, attraverso il linguaggio.

Box 4.2 – Cultura e pregiudizio etnico


Secondo Jackson sebbene la concezione superorganica della cultura fosse decaduta negli ambienti accademici, a
livello popolare essa manteneva ancora il suo rilievo. Ancora oggi, potremmo dire che essa si manifesta ogni volta che si
parla di “cultura britannica” o “islamica”, o “gay” …, cioè ogni volta che, parlando di cultura si faccia riferimento a uno
specifico gruppo sociale. In tal modo, si finisce spesso con l’utilizzare la cultura per spiegare fenomeni ed eventi.
Jackson riporta un caso tratto dal Los Angeles Time del 12 maggio 1984, in cui si racconta che un alto funzionario de
dipartimento federale “Housing and Urban Development”, aveva cercato di spiegare le condizioni di vita povere della
popolazione ispanica, attraverso la preferenza culturale per gli alloggi sovraffollati e il vivere comunitario in famiglie
estese. Non considerò il fatto che le preferenze individuali e collettive sono soggette a vincoli materiali, economici e
istituzionali.

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Secondo Jackson non si tratta di ignoranza dell’alto funzionario, ma del riflesso di un’attitudine istituzionalizzata nei
confronti dei gruppi ispanici. Spiegare le condizioni di povertà degli ispanici facendo ricorso alla cultura, senza
considerare le circostanze materiali, è una spiegazione densa idi pregiudizio etnico.
(Fine box)

Diversi studi condotti da Massey e Mitchell sostengono che la principale critica che si può avanzare al superorganicismo
e alle relative popolari spiegazioni culturaliste, è che esse sono divise e pericolose perché sottolineano opposizioni ed
inimicizie inutili, e possono rappresentare la differenza, offuscando le connessioni. Questa divisione tra cultura, politica,
istituzioni economiche… separa gli ambiti dell’esistenza umana. Per questo la nuova geografia culturale cominciò a
ritenere che le categorizzazioni assumono rilievo centrale per le teorie che tentano di spiegare come il mondo è
organizzato.
Sulla scia di Jackson altre critiche hanno sottolineato come la concezione superorganica della cultura, continuasse ad
essere diffusa a livello popolare: siamo infatti abituati a parlare di cultura inglese, islamica, gay, cultura dei giovani, nera,
urbana… Molte persone continuano ad essere affascinate dalla differenza tra la propria/altrui cultura. Di fatto, la cultura
è spesso usata per spiegare condizioni ed eventi, e ciò riflette una tendenza popolare al culturalismo, cioè a ritenere che
la cultura esista in modo indipendente dalle scelte e dai comportamenti delle persone.

4.3 Identity politics: culture in lotta per il riconoscimento


Uno dei principali temi di ricerca che ha preso forma negli anni 80, è quello delle identity politcs, locuzione utilizzata
per indicare le lotte per il riconoscimento dei diritti, messe in atto dai gruppi sociali tradizionalmente esclusi per questioni
di genere, razza, etnia, orientamento sessuale o altro.
Ciò che viene messe in discussione con le identity politics è il modo in cui le differenze sono state essenzializzate,
riconducendole a caratteristiche innate e non modificabili. Quindi le i.p. costituiscono un comune terreno di lotta,
solidarietà e resistenza per i gruppi sociali discriminati.
Legato al concetto di i.p. c’è il concetto di cultural politics, utilizzato dalla nuova geografia culturale per indicare una
nozione di cultura intesa come costruzione sociale politicamente contestata. L’idea di fondo è che le identità prendono
forma in determinati luoghi, contribuendo a loro volta a generare il significato dei luoghi. Quindi se in passato lo spazio è
stato considerato come un contenitore di identità, con la svolta culturale si è affermata l’idea che lo spazio e le identità
siano costituite nelle loro articolazioni.
Le identità sociali e culturali, sebbene siano spazialmente costruite, non hanno un legame imprescindibile con i luoghi:
ad esempio la definizione di gay o lesbica non ha nulla a che fare con una dimensione di luogo, ma rimanda ad un
orientamento sessuale. Sicuramente farà differenza essere gay/lesbica a Los Angeles o a Napoli, nel senso che il luogo
dove quell’identità si esercita contribuisce a dare ad essa caratteri specifici, e quindi il luogo può favorire o ostacolare
questo tipo d’identità.
Contro le i.p. si è schierato Eric Hobsbawn, il quale ha contestato il carattere particolarista ed esclusivista delle i.p.
Secondo Hobsbawn, i gruppi identitari guardano ai propri interessi indipendentemente dagli ideali di sinistra, cercando
appoggio in qualsiasi movimento o partito politico che sostenga i loro obiettivi. Il punto è che le i.p. mobilitano solo le
minoranze, frammentando le politiche di resistenza della sinistra.
È stato sottolineato anche che la questione di fondo sta nel riconoscere o meno il carattere identitario delle affermazioni
politiche.
Al dibattito sulle i.p. contribuiscono i movimenti femministi, anti-razzisti, il cui operato è volto a problematizzare la
questione dell’identità, analizzando i diversi modi in cui il capitalismo, e la supremazia bianca, modellano la formazione
dell’identità.

4.4 Representational geography


La prima fase della svolta culturale riguarda il grande valore attribuito alla rappresentazione, tanto che, questa
geografia fu definita “representational geography”. La nuova geografia culturale ha evidenziato l’importanza della
rappresentazione nella comprensione della realtà; su spunto di Derrida e Foucault, i nuovi geografi culturali hanno
cominciato a porre attenzione su come paesaggi, luoghi, città, sono stati rappresentati, centrando l’attenzione sul testo e
sul discorso.
Secondo Cosgrove, il paesaggio è un modo di vedere il mondo, che è nato in un preciso tempo e luogo (l’Italia
rinascimentale) e grazie ad una precisa invenzione: la prospettiva. Gli studi sulla prospettiva maturarono nella Firenze
rinascimentale grazie a Brunelleschi e Leon Battista Alberti; con la prospettiva le immagini rappresentate acquisirono
profondità, diventando molto simili a quelle percepite attraverso la vista.
La prospettiva consentì non solo di fornire una rappresentazione simile alla realtà, ma introdusse un nuovo modo di
vedere lo spazio secondo il punto di vista dell’osservatore. La domanda che si pone Cosgrove è: quale osservatore?
Con il tempo Cosgrove arrivò all’idea che certi paesaggi, edifici e manufatti erano un segno culturale che esprimeva
interessi e obiettivi delle classi politiche dominanti. Quindi per Cosgrove il paesaggio è un segno di rapporti di potere, un
modo di vedere il mondo coinciso con l’affermazione della borghesia capitalistica, un modo di autocelebrare il proprio
status sociale elevato.
Sulla base delle proposte di Cosgrove, altri geografi culturali iniziarono a interpretare le pitture di paesaggio conservate
nei musei nazionali, che raffigurano paesaggi rurali, ville di campagna dell’aristocrazia. Gli operai e i contadini, qualora
fossero presenti, apparivano mentre svolgevano il proprio lavoro, in modo connaturato, come se quel lavoro fosse
normale.

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Box 4.3 – Mr and Mrs Andrews
Questo dipinto rappresenta la classica pittura di paesaggio inglese del XVIII secolo. Il dipinto ritrae una coppia di
possidenti terrieri, sotto una quercia (simbolo di stabilità economica e sociale), vestiti alla moda (scarpette di seta). Lui
sta in piedi, con il fucile al braccio e un cane da caccia ai suoi piedi (la licenza di caccia era concessa solo alle classi
agiate), appoggiato alla panchina (con volute in roccocò), dove p seduta in posa composta la moglie (supremazia di
genere). Vengono poi riportati i campi coltivati che sollecitano una sensazione di pace e armonia.
Di questo dipinto è stata fornita anche una lettura in chiave femminista, da Gillian Rose. Ha evidenziato alcune
differenze: mentre lui è in piedi, pronto a lasciare la scena, lei è seduta in posizione statica, vestita in punto con le scarpe
di raso, quindi non in grado di avventurarsi per le strade terrose della proprietà.
Secondo Rose, queste due figure rappresentano il pensiero dominante dell’epoca che associava la femminilità alla
natura e la mascolinità alla cultura. Il nesso tra la quercia e la donna: la quercia richiama l’albero genealogico che lei è
chiamata a proseguire. Quindi secondo Rose le pitture di paesaggio, implicano non solo relazioni di classe, ma anche di
genere. (Fine box)

Cosgrove specificò la sua idea di paesaggio come modo di vedere in un articolo del 1985, dove ribadì che il paesaggio
è un modo di vedere borghese, individualista, riferito all’esercizio del potere.
La representational geography mise in primo piano le questioni del conflitto e della lotta nella lettura del paesaggio
culturale, utilizzando una metodologia interpretativa.
James Duncan invece nel 1990, si immerse nella cultura cingalese per scoprire che il paesaggio può essere letto come
un testo, e che i tratti architettonici costituiscono citazioni di testi sacri facilmente riconoscibili dalle popolazioni locali.
Duncan considera il paesaggio come testo, cioè come un sistema di segni, con autori che rappresentano paesaggi e
lettori che interpretano paesaggi.
In altre parole, il paesaggio non è solo visione come in Cosgrove, ma è anche interpretazione di testi (libri, documenti…).
Se Cosgrove è un osservatore distaccato, Duncan si dimostra più attento a valutare il sistema simbolico in cui vivono le
persone.
Per Duncan, l’obiettivo dello studio dei paesaggi è quello di svelare valori, credenze, pratiche e ideologie di coloro che
hanno costruito ed interpretato i paesaggi, attraverso le varie soluzioni testuali. La cultura e i segni culturali diventano
oggetto di interpretazione soprattutto alla luce delle dinamiche politiche, sociali ed economiche che hanno generato
determinati paesaggi.
Duncan sceglie come oggetto di studio la città di Kandy (Sri Lanka) e in particolare il Palazzo Reale, allo scopo di
rintracciare i segni materiali che hanno svolto un ruolo importante nella determinazione dell’ordine sociale. Secondo
Duncan, il paesaggio di Kandy esprime il legame tra le forme dello spazio e l’esercizio del potere: il paesaggio rispecchia
i discorsi sul potere, e servono come manifesto per ricordare quotidianamente tale potere agli occhi del popolo.
Leggendo il paesaggio della città di Kandy attraverso testi e documenti del passato, Duncan sostiene che la forma fisica
della città costituiva un testo, che era a sua volta rielaborazione di testi che informavano il campo discorsivo della
monarchia kandiana.
Sul piano pratico, l’analisi del paesaggio come testo, richiede molta ricerca in archivio, al fine di rintracciare materiali
testuali da cui ricavare le condizioni sociali e politiche.

4.5 La rilettura dell’heritage e della memoria


Il concetto di heritage assume un significato diverso e non traducibile nella nozione di “patrimonio culturale”. Heritage
implica un riferimento al lascito, all’eredità trasmessa dalle precedenti generazioni.
Legate a tale concetto, sono le politiche di protezione e conservazione, non solo dal punto di vista fisico, ma anche nel
senso di significati incorporati.
Ciò che è stato messo in discussione è sia il concetto di heritage, sia il concetto di heritage industry, cioè l’insieme delle
attività che trasformano oggetti, siti, pratiche culturali in merce o attrazione turistica. I due concetti sono legati tra loro,
dato che il patrimonio costituisce la principale attrazione turistica e fonte di entrata.
Heritage inoltre, è un concetto connesso alla memoria collettiva, intesa come pratica condivisa al ricordare e celebrare
eventi a cui è assegnato un significato simbolico. Molto importante è state il contributo del sociologo francese Maurice
Halbwachs, il quale ha concepito la memoria come attività sociale in grado di fondare e rinsaldare sensi di appartenenza
e legami identitari. Altrettanto importante è il contributo di Edward Said, il quale ha evidenziato come il crescente
interesse accademico per la memoria, sia coinciso con i rilevanti cambiamenti sociali e politici registrati a partire dal XX
secolo.
La revisione critica della nuova geografia culturale si è basata sul fatto che l’heritage è spesso frutto di una selezione
parziale e selettiva, della storia della collettività; quindi l’operato dei geografi si è diretto sulla decostruzione dei simboli
nazionali. La questione dell’heritage si è così legata al dibattito scientifico sulla memoria collettiva.
La vasta letteratura legata al tema della memoria ha evidenziato il legame tra memoria e luogo: per essere perseverata
la memoria ha bisogno di un luogo in cui ancorarsi, dando così origine ai cosiddetti “luoghi nella memoria”.
Il problema di fondo dell’heritage è che spesso basa le sue argomentazioni sulla storia per avvalorare le proprie ragioni
e sostenere il valore di determinati luoghi. Ma tale ricostruzione storica è spesso effettuata facendo una selezione degli
eventi e dei relativi significati, così gran parte del dibattito è stato posto in termini di “vera storia” e “falsa identità”. Infatti
lo storico Eric Hobswan ha coniato il concetto di “tradizione inventata”, che sta ad indicare un insieme di pratiche,
governate da regole o da rituali di natura simbolica, che cercano di inculcare certi valori e norme legate al passato.

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Gli studi in materia, però, hanno messo in evidenza come dietro alla costruzione di determinate opere della memoria, si
nascondono conflitti e lotte di potere tra gruppi sociali, e come la materializzazione di un’opera monumentale o di un
museo, sia sempre esito di un gioco di potere. A tale ambito di ricerche può essere condotto lo studio di Atkinson e
Cosgrove sul Monumento Nazionale a Vittorio Emanuele II (Altare della Patria), in Piazza Venezia: una piazza costruita
sul simbolismo di tale monumento per produrre un teatro della memoria. Secondo Atkinson e Cosgrove, nonostante i
tentativi di da parte dei vari governi di promuovere quello spazio come luogo simbolico della città e della nazione, il
monumento è stato in realtà oggetto di ironia e derisione.
La memoria è riprodotta e comunicata attraverso libri, racconti, film, ma anche attraverso monumenti, siti, luoghi e
paesaggi, che incorporano un significato. I luoghi sono stati definiti come mosaici fluidi di memoria, metafora, materia di
esperienza che creano spazi e tempi sociali.
Riguardo al concetto di heritage industry, il dibattito ruota attorno alla reiterazione di discorsi e narrazioni che mettono in
luce la natura artificiale, sentimentale e nostalgica del patrimonio culturale.
È stato messo in evidenza come tale concetto, implica conflitti tra diversi sensi di luogo e diverse opinioni sul carattere
distintivo di una città, cioè tra diversi gruppi che cercano di imporre i valori sul paesaggio. Ma accade spesso che, nella
costruzione selettiva dell’heritage viene eseguita in funzione dell’utilizzo economico di siti e oggetti che si prestano a tale
scopo, così il processo di mercificazione del patrimonio è realizzato sugli aspetti più spettacolari e più attraenti all’occhio
del pubblico.
A seguito di tutte queste considerazioni, è iniziata un’opera di risignificazione di spazi e siti-simbolo. Inoltre la ricerca
geografica ha diretto la sua attenzione non solo sugli spazi dell’heritage tradizionale, ma anche sugli spazi che
testimoniano la storia di gruppi esclusi dalle grandi narrazioni.
4.6 Dal paesaggio al luogo
I nuovi geografi culturali hanno focalizzato l’attenzione sui significati e i valori che i diversi gruppi sociali attribuiscono
a pratiche e prodotti culturali. Infatti la nuova geografia culturale si pone come obiettivo quello di comprendere come i
diversi gruppi umani celebrano e contrastano prodotti e pratiche culturali inscritte nei paesaggi, luoghi e territori. Il
paesaggio viene così inteso come una tessitura di segni costruita dai poteri di turno, sotto forma di simboli culturali, ma
anche come terreno di scontro tra i vari gruppi sociali: il paesaggio è la materializzazione della lotta per rappresentare le
norme.
La cultura è sempre impiegata nelle questioni di potere, infatti se un significato diventa dominante, vuol dire che altri
significati sono stati repressi. Per questo i geografi culturali si propongono di fornire una risposta ad alcuni interrogativi:
in che modo alcuni significati diventano dominanti? Attraverso quali processi? In particolar modo i geografi si chiedono
chi ha costruito determinati significati, come e quale scopo, dando origine a stereotipi e conflitti culturali.
È cambiata quindi anche l’idea di luogo; i luoghi non sono più considerati come spazi unici, singolari, ma come crocevia
di flussi, reti e relazioni. Oggetto di studio, sono i luoghi che sono contestai da differenti gruppi.

Box 4.4 – Luoghi contestati


Un esempio del conflitto sul futuro dei luoghi è riportato nel libro di Massey e Jess. Si tratta di una questione sorta
nelle Valle del Wye, in Inghilterra; un contesto che ha mantenuto la tipica impronta rurale e per questo ha richiamato
l’attenzione di nuovi residenti.
Lo scopo del progetto era quello di trasformare una fattoria locale abbandonata del XV secolo, in agriturismo. I residenti
di vecchia data hanno visto tale progetto come un modo per rilanciare l’economia locale, senza però incidere sull’assetto
storico del paesaggio. Altri residenti si sono scagliati contro i nuovi arrivati, presentando tre argomentazioni: 1)i
personaggi famosi schieratisi contro la realizzazione del progetto non vivono nella zona e non conoscono la vita di
campagna; 2)un’attivista del comitato contro la realizzazione del progetto ha manifestato l’intenzione di acquistare una
proprietà confinante con l’antica fattoria in questione, per insediarvi un’attività di apicoltura; 3)altri due oppositori del
progetto, hanno scatenato la rabbia degli agricoltori quando hanno richiesto che l’uso dei trattori e altre macchine
rumorose fosse impedito almeno due giorni alla settimana.
Alla fine, nonostante la grande mobilitazione messa in atto dai nuovi residenti, il progetto è stato approvato.
Quello della Valle del Wye è un conflitto tra visioni del tutto diverse sul carattere e il futuro dei luoghi: da una parte i
vecchi residenti, dediti alle attività agricole, dall’altra i nuovi arrivati che amano il luogo per la sua tranquillità. (Fine box)

La nuova geografia culturale ha attribuito molta importanza al ruolo attivo che persone e gruppi possono rivestire nella
costruzione dei luoghi e dei loro significati. L’intento di fondo è quello di allontanarsi dall’idea di luogo come insieme
omogeneo, e di affermarne la natura multidimensionale. Proprio per questi motivi, in geografia si è fatta strada l’idea che
i luoghi non possano più essere pensati nella loro stabilità/staticità, bensì come crocevia di flussi di merci, persone,
informazioni.
Sottolineando tale aspetto, Doreen Massey ha proposto una rilettura della nozione di senso del luogo, e proponendo
l’idea di un global sense of place, ovvero di un senso della dimensione locale aperto alla dimensione globale. Secondo
Massey le connessioni che le persone stabiliscono, sono tante e variano. Massey invita ad osservare la Terra dall’alto di
un satellite e ad immaginare tutti i collegamenti ce intercorrono tra le persone. Quello che sta cambiando, secondo
Massey, è la geografia delle relazioni; sociali, economiche, politiche e culturali. A tal proposito Massey utilizza anche la
nozione di progressive sense of place per sottolineare che i luoghi non possono essere intesi in senso romantico come
unità coese, ma tutt’altro: il luogo è un crocevia di relazioni spaziali di potere che si dispiegano a tutte le scale. È da
questa prospettiva che è possibile immaginare un’interpretazione del luogo alternativa.
All’idea razionale del luogo è corrisposta la formalizzazione del concetto di spazio relazionale, alla cui delineazione
hanno contribuito Harvey e Massey.

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Box 4.5 – Spazio relazionale
Quando si parla di spazio geografico si pensa all’estensione di un’area della superficie terrestre. In realtà il concetto
di spazio è molto più ampio.
Secondo Harvey lo spazio può essere: assoluto, relativo e relazionale.
Lo spazio è assoluto quando è concepito come una sorta di contenitore dove le cose si dispongono e i fatti avvengono.
È lo spazio concepito come realtà già data, fissa, e immutabile; quindi ogni oggetto, o fenomeno può essere localizzato
in modo preciso.
Lo spazio relativo è lo spazio associato alla teoria della relatività di Einstein. Lo spazio è relativo in un duplice senso: da
una parte esso introduce l’idea che esistano diverse geometrie tra cui scegliere, dall’altra esso afferma che la
concezione dello spazio dipende da che cosa viene relativizzato e da chi. Lo spazio diventa così relativo, in funzione del
fenomeno osservato e dell’osservatore. Il punto di vista dell’osservatore gioca un ruolo fondamentale nel delineare la
prospettiva attraverso cui concepire lo spazio.
Lo spazio relazionale non è uno spazio già dato (spazio assoluto) o uno spazio vista da una determinata prospettiva
(spazio relativo), bensì è il prodotto di relazioni plurime e mutevoli che intercorrono tra lo spazio e i soggetti umani.
Harvey ritiene che la visione relazionale dello spazio descriva meglio il modo in cui attualmente viviamo, perché è
impossibile comprendere la realtà senza prendere in considerazione le relazionalità e le connettività che costruiscono il
mondo. (Fine box)

L’affermazione del concetto di spazio relazionale ha contribuito alla revisione del concetto di scala geografica, che non
viene più intesta in termini gerarchici, ma in termini relazionali. Dalla concezione multiscalare del mondo (in cui le
ampiezze territoriali sono intesi come compartimenti che avanzano dal livello più piccolo a quello più grande), a quella
transcalare (ciò che succede in uno specifico luogo può essere frutto di fenomeni e decisioni che avvengono a qualsiasi
altra scala).
La geografia culturale focalizza la sua attenzione su spazi e luoghi di diverso tipo e a diversa scala, leggendoli come
fossero testi narranti. Le identità sociali/culturali vengono studiate sulla base di nuove coordinate teoriche, condivise con
altre discipline sociali ed umanistiche. Più in generale, sono diventate oggetto di studio le relazioni tra culture dominanti
e culture subordinate; le relazioni tra letteratura, produzione di cultura e politica del luogo; le geografie degli oggetti
quotidiani…
Inoltre ponendo in primo piano la questione della visualità e effettuando una distinzione tra vision (struttura biologica
della vista) e visuality (il modo di vedere socialmente costruito), la RG ha favorito la nascita di un nuovo campo di
indagine della geografia, ovvero la visual geography, relativa allo studio sulle immagini e con le immagini. Nel primo caso
l’attenzione si sofferma sulle immagini già esistenti e costruite culturalmente su segni, simboli e discorsi, come nel caso
del paesaggio nell’arte. Nel secondo caso, le immagini sono prodotte dal ricercatore stesso o dalle persone coinvolte
nella ricerca, cercando di sollecitare domande/risposte sul senso e il cambiamento dei luoghi.
A partire dalla metà degli anni 90 è aumentato l’interesse della geografia, anche per la musica, dando origine
all’esperienza soggettiva del soundscape.

4.7 Non-representational theory


Nel corso degli anni 90 la RG è stata sottoposta a dure critiche: troppo centrata sulle teorie, sui linguaggi e sui
discorsi; troppo elitaria; troppo interessata a codificare le idee e troppo distaccata dal mondo reale. Secondo i critici, i
geografi erano rimasti intrappolati nei loro “wordy word” e la vita reale era stata risucchiata dalle parole che studiavano.
L’invito di N. Thrift era quello di tornare alla dimensione concreta della cultura, focalizzando l’attenzione sulle geografie
direttamente agite. La NRT elaborata da Thrift, è stata definita “geography of what happens”.
Secondo Thrift la rappresentazione è parziale, esclude diversi aspetti della cultura; quindi invece di studiare le
rappresentazioni delle relazioni sociali, egli propone di focalizzare l’attenzione su come le relazioni umane sono agite
(enacted) o performate (performed). Si tratta quindi di studiare, non solo ciò che ci è dato, prodotto o narrato, ma quei
processi che operano prima del pensiero.
La NRT cerca di superare la fase contemplativa, basata sulle colpe del potere, per poter tornare alla concretezza della
realtà e alle partiche della vita quotidiana. L’obiettivo della NRT è quello di dimostrare come le relazioni sociali si
esprimono in modi nuovi.
Al centro dell’attenzione ci sono le routine quotidiane, movimenti corporei, emozioni, intensità affettive e ordinarie; in
pratica tutto ciò che è alle radici delle geografie che gli esseri umani costruiscono ogni giorno: danza, camminare,
ascolto della musica, giardinaggio, ecc… diventano oggetto di interesse della NRT, sollecitando anche domande (come
prendono vita queste esperienze? Come spingono all’azione? Da quali idee sono alimentate?).
Nella NRT l’attenzione è riposta su pratiche, pensieri, azioni che stanno prima/oltre la rappresentazione. In questo
concetto, grande rilievo è dato al corpo, il quale crea rapporti con luoghi e realizza esperienze. Questo perché la NRT
parte dal presupposto che i nostri corpi siano creativi es espressivi attraverso le azioni che compiamo.
La differenza con la RG è rilevante. Se la RG focalizza l’attenzione sulla rappresentazione dei luoghi, paesaggi, etnie…
considerandoli come entità da interpretare, il cui significato può essere decodificato attraverso metodi di indagine che
richiedono competenze specifiche. La NRT parte invece dall’esperienza del mondo nel momento in cui essa prende
forma, studiando la cultura mentre si produce, e nei luoghi in cui si produce. Secondo tale prospettiva, i geografi
dovrebbero occuparsi, non solo dei processi di significazione e di rappresentazione, ma anche del modo in cui lo spazio
è animato e vissuto emotivamente e materialmente dalle persone. Infatti nelle loro ricerche, i geografi hanno utilizzato i

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metodi già introdotti dalla nuova geografia culturale, e cioè l’osservazione partecipante, documenti visuali prodotti dagli
intervistati, focus group, ma ponendo maggiore attenzione alle espressioni linguistiche: non su cosa viene detto, ma sul
come gli intervistati parlano della loro esperienza.
La NRT prende spunto dalle filosofie post- strutturaliste di Benjamin e de Certeau, ma anche dalle opere di Foucault, e
quindi anche dalle prospettive di Latour e Serres, sottolineando la necessità di tornare alla dimensione concreta della
cultura.
La NRT adotta la prospettiva delle embodiment geographies, ovvero su quelle geografie che focalizzano l’attenzione su
azioni, fatti ed eventi che performano culture/gruppi, attraverso il corpo, dove per embodiment si intendono gli aspetti
corporei della soggettività: il corpo come origine soggettiva dell’esperienza, e l’esperienza a sua volta è condizionata dai
luoghi. I luoghi, in questo senso, si intendono come costruiti attraverso ritmi/espressioni dei corpi.
La NRT punta l’attenzione anche sul concetto di affect, inteso come interazione non-cognitiva, non simbolica tra le
persone e l’ambiente che consente l’emergere di un senso del luogo. Il concetto di affect ha assunto molta importanza in
geografia, grazie alla NRT, nei tardi anni 90; e tale concetto è utilizzato per significare le diverse forze che con varia
intensità entrano in gioco nella composizione e ricomposizione dei corpi, anche attraverso le esperienze tattili.
In altre parole, la NRT soffermando l’attenzione sulle pratiche e le attività che le persone compiono quotidianamente, non
solo fornisce visibilità a pratiche dal significato rivoluzionario, ma anche la possibilità di sollecitare consapevolezza delle
proprie azioni, dato che troppo spesso le routines quotidiane vengono date per scontato dalle persone e vengono
inserite nelle proprie vite in modo automatico.

4.8 More-than representational e materialist turn


La non-representational theory è stata criticata perché si focalizza sulle esperienze che stanno prima/oltre la
rappresentazione senza utilizzare il linguaggio della rappresentazione, e ciò è impossibile. C’è un mondo oltre le parole:
funzioni corporee, movimenti, espressioni… infatti ogni volta che comunichiamo idee, sensazioni, sentimenti, siamo
coinvolti nella rappresentazione.
Rappresentare non è solo inevitabile, ma anche importante perché è riflettendo e discutendo le nostre esperienze che
generiamo cultura.
È stato messo in evidenza inoltre, come l’interesse della NRT per le pratiche quotidiane in particolari siti, in realtà ha
radici in precedenti correnti di pensiero in ambito geografico, come la geografia umanistica e le geografie sensuali.
La NRT considera il soggetto non in termini universalistici, ma come entità radicata al momento e al luogo in cui le
esperienze prendono forma.
Quindi la teoria non-rappresentativa è diventata una sorta di termine ombrello per un lavoro diversificato che cerca di
affrontare meglio i nostri mondi (umani, testuali, multinsensuali).
Contro l’ossessione della RG verso le rappresentazioni e i discorsi politici che le hanno costruite, la NRG punta
l’attenzione sui metodi che co-producono il mondo, cioè che descrivono con una certa fedeltà ciò che avviene. Sembra
che NRT utilizzi una sorta di montage teorico-metodologico, intrecciando più metodi e più riflessioni critiche, per dare
forma a prodotti di ricerca innovativi. Il pluralismo metodologico non è una novità in geografia, dato che ha origine nelle
correnti femministe che hanno sottolineato la necessità di impiegare metodi creativi.
Quindi, dato che le rappresentazioni, i discorsi e le norme non possono essere escluse dall’analisi della cultura, H.
Lorimer ha proposto una “more-than representational theory”, cioè una geografia che incorpora manifestazioni materiali
della cultura e loro significati, teorie, cose, emozioni ed esperienze.
Dopo circa un decennio di dominio della RG, la geografia anglosassone ha avvertito l’esigenza di tornare alla materialità
dei luoghi, parlando della necessità di un “ materialist turn”. L’appello di una ri-materializzazione della geografia, era stato
già avanzato da P. Jackson, sostenendo che era necessario tornare agli oggetti, ma nella prospettiva dell’embodiment.
Secondo Murdoch, il materialist turn si colloca nel cosiddetto post-strutturalismo materialista, perché si basa non sulla
rappresentazione, sui discorsi e sulle teorie come nella RG, bensì su una nuova concezione dello spazio e del mondo,
come intreccio di più dimensioni.
Fondamentale in tal senso, è stato l’apporto alle geografie ibride di S. Whatmore, e delle filosofie post-umane. In tale
prospettiva, l’uomo agisce in continua sinergia con il mondo non-umano, compresi gli oggetti che incorporano energia,
materia e formazione.
Le attinenze con la Actor-Network Theory (ANT) sono evidenti, come dimostra il largo impiego del lessico della teoria
formulata da Latour.

4.9 Actor-Network Theory


Elaborata da B. Latour, M. Callon e J. Law nel corso degli anni 80, la Teoria Attore-Rete è un approccio teorico e
metodologico sviluppato nell’ambito della teoria sociale che concepisce il mondo come composto da associazioni di
elementi eterogenei. Il compito dll’ANT è quello di tracciare tali associazioni.
La ANT sostiene che ogni fatto, fenomeno, oggetto del mondo è il risultato di una complessa rete di relazioni, in cui
agiscono fattori umani e non che non si collocano in opposizione. Quindi la ANT supera la tradizionale attribuzione del
ruolo di “attore” ai soli essere umani, estendendola alle entità naturali/materiali, in quanto anche esse sono capaci di
generare un’azione.
Le entità naturali/materiali sono definite “attanti”, perché contribuiscono a generare un’azione. Un attante è qualsiasi
cosa che agisce sugli altri o che generi una modificazione dell’azione.
Gli attanti però hanno diverse capacità di impatto sulle reti di relazione: gli attanti che fanno parte di un network
detengono un diverso grado di potere, e tale potere può essere indirizzato intenzionalmente verso specifici obiettivi.

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In termini generali, la ANT propone il radicale superamento degli assetti binari che hanno caratterizzato l’epoca moderna,
e che hanno portato alla separazione tra geografia fisica e umana.
La ANT adotta la metafora del network non solo per concettualizzare il legame di interdipendenza che incorre tra natura
e società, ma anche per proporre un’analisi delle interazioni sociali. La ANT è ritenuta diversa dalle alte teorie proprio
perché utilizza un approccio materiale-simbolico; quindi presuppone che tutti gli oggetti e le cose del mondo esprimano
una loro consapevolezza e attraverso tale consapevolezza essi interagiscono con altri enti.
La ANT però è stata anche criticata per il fatto di considerare le entità non umane come implicitamente benevole e a
portata di mano degli umani, quando in realtà, gran parte di ciò che avviene nel mondo naturale, non è facilmente
controllabile o prevedibile.
Resta il fatto che la ANT ha influito in tutte le discipline sociali. In geografia, le sollecitazioni dell’ANT hanno aperto un
dibattito che ruota attorno alle cosiddette hybrid geographies.

Capitolo 5: Declinazioni italiane


A partire dalla svolta culturale, in ambiente anglo-americano, si è assistito alla nascita di volumi e articoli centrati sulla
geografia culturale.
Diversi anni fa, in un articolo pubblicato da Claudio Minca, egli esortava la geografia italiana a uscire dal suo isolamento
e ad abbracciare gli input provenienti dal mondo anglosassone, che ormai avevano dato vita a una geografia
internazionale, allineata sui riferimenti della new cultural geography. Fino a molti anni fa, la geografia italiana aveva
accolto solo alcuni degli stimoli provenienti dal mondo anglosassone, e a dimostrarlo sono le poche traduzioni dei testi.
La geografia italiana è stata a lungo contraddistinta da una scarsa attenzione verso gli aspetti teorico-metodologici; negli
ultimi dieci anni però, la geografia italiana sembra aver perso questo connotato di isolamento.
Resta però il fatto che il contesto sociale, culturale e politico italiano, è storicamente diverso da quello anglosassone;
quindi le ragioni del ritardo, sono diverse. Anche se non si trattò di un mero ritardo, ma una selezione degli input
provenienti dal mondo anglofono, che si sono riadattati al contesto storico-culturale e scientifico italiano.

5.1 Questione sociale vs questione territoriale


Il background storico, politico e culturale anglo-americano è differente da quello italiano. Vediamo le differenze.
In Italia la specificità culturale è storicamente radicata, è presente in ogni angolo di territorio nazionale ed è declinata in
molteplici espressioni diverse: paesaggi, lingue, dialetti, prodotti e piatti tipici… Un passato storico fondato sulla
frammentazione, fatto più di dominazioni che di dominio (Greci, Arabi, Longobardi, Goti, Francia napoleonica). L’Italia
inoltre è solo da qualche anno che ha sperimentato l’immigrazione dal Sud del Mondo e dall’Europa dell’Est, mentre è
stata a più riprese un paese di emigrati.
Negli Stati Uniti il tratto distintivo è rappresentato dalla diversità raziale, etnica e sociale.
I paesi anglo-americani hanno alle spalle storie di colonialismo e neocolonialismo, schiavitù, discriminazione razziale,
deportazione e sterminio di popolazioni native. Le tensioni tra la componente bianca e nera della popolazione sono
ancora oggi all’ordine del giorno.
La storia degli Stati Uniti, è stata caratterizzata da lotte di liberazione, come ad esempio quelle degli americani bianchi
contro il sistema coloniale inglese e quelle degli afroamericani. Inoltre nel 1861, mentre in Italia era unita, la metà degli
Stati Uniti soprattutto meridionali, non aveva abolito la schiavitù e le discriminazioni razziali sono proseguite senza mai
estinguersi del tutto.
È stato anche evidenziato come la storia degli Stati Uniti sia stata costruita più sulle diverse declinazioni dello spazio:
dallo spazio fisico della frontiera e del confine da superare (es. la conquista del West come territorio sconosciuto ed
inospitale), ai confini immaginari della letteratura e della cinematografia di fantascienza.
Quindi negli Stati Uniti, ma anche negli altri contesti anglofoni, le questioni socio-culturali sono sempre state strettamente
intrecciate a quelle storiche, politiche ed economiche, e hanno influito sulla nascita e l’evoluzione della geografia
culturale.
Le nuove geografie culturali costituiscono un’evoluzione delle idee politiche radicali marxiste e posmarxiste, che negli
Stati Uniti hanno trovato per molto tempo forti ostacoli ad esprimersi. Non è un caso che la nuova geografia culturale sia
esplosa negli anni 80, in coincidenza con degli eventi di importanza mondiale, come ad esempio la caduta del muro di
Berlino e l’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, sulla teoria dello sviluppo sostenibile.
Nel contesto americano la questione sociale assume priorità, nel nostro Paese, è la questione territoriale. Ciò che
caratterizza l’Italia non è solo la densità di diversità culturale, ma anche il fatto che sono diffusi fenomeni di malaffare e
opportunismo su tutti i livelli sociali. A pagarne le conseguenze è il territorio, il quale porta segni dell’abusivismo edilizio,
dell’appropriazione privata dei beni comuni, della devastazione paesaggistica, della mancata cura e di cui l’estrema
vulnerabilità agli eventi naturali e al trascorrere del tempo costituisce un’evitabile conseguenza. Macerie di terremoti
rimaste ancora lì, edifici storici pronti a crollare per l’assenza di opere di conservazione.
Diversa è anche l’idea di patrimonio culturale. In ambiente statunitense e britannico l’idea di heritage è intesa come
lascito condiviso dalla collettività e trasmesso di generazione in generazione. È proprio il concetto di heritage è stato
sottoposto a dure critiche della new cultural geography; tale critica ha riguardato in particolare gli heritage sites, cioè gli
spazi utilizzati per <<inscrivere le narrazioni nazionaliste del passato nell’immaginario collettivo>> (piazze, monumenti,
cimiteri…), restituendo una storia fasulla che ha ignorato le voci degli esclusi e degli emarginati. L’idea di heritage
narrata dalla nuova geografia culturale è associata alla rilettura critica della storia anglo-americana.

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In Italia invece, il passato storico non è mai stato messo in discussione, anzi è motivo di orgoglio; i numerosi segni
lasciati sul territorio rappresentano un valore simbolico ed identitario per la collettività.
Nel nostro Paese inoltre la locuzione “patrimonio culturale” è molto utilizzata nel linguaggio quotidiano, ma a livello
legislativo si è sempre parlato di “beni culturali e ambientali”.

Box 5.1 – La legislazione italiana sui beni culturali ambientali


Nell’Italia preunitaria quasi tutti gli stati avevano emanato norme sulla tutela delle antichità, delle opere d’arte e dei
beni archeologici, nonostante mancasse l’idea di patrimonio della comunità e lo scopo di provvedimenti legislativi.
Dopo l’Unità d’Italia, prevalse l’idea che lo stato dovesse evitare ogni ingerenza pubblica in materia di beni culturali, per
evitare di imporre limitazioni alle iniziative individuali.
La prima codifica del principio dell’interesse pubblico, dell’obbligo di conservazione e dei poteri della pubblica
amministrazione in relazione ai beni di interesse storico ed artistico, si ebbe con la L. 185/1902 (Legge Nasi) sulla Tutela
del patrimonio monumentale e soprattutto con la L. 364/1909 (Legge Rosadi) sull’Inalienabilità delle antichità e delle
belle arti. Con queste leggi si affermava per la prima volta la natura pubblica dei beni culturali e la necessità della loro
tutela da parte dello stato.
Con l’emanazione della L. 688/1912, la Legge Rosadi fu estesa anche a ville, parchi, giardini che avessero interesse
storico-artistico.
Una significativa svolta si ebbe nel 1939 con le Leggi Bottai; in particolare questa legge sulla Tutela delle cose di
interesse artistico e storico, ampliò l’ambito della tutela facendo rientrare nella normativa le cose immobili che a causa
del loro riferimento storico, politico e culturale siano state riconosciute di rilevante interesse.
Invece la L. 1497/1939 sulla Protezione delle bellezze naturali, includeva definitivamente il paesaggio nel patrimonio
culturale nazionale, che risultò diviso in due categorie: beni culturali e beni paesaggistici.
Con la costituzione della Repubblica (1948) è stata sancita l’azione dello stato volta a tutelare il patrimonio storico e
artistico nazionale (Art. 9).
L’espressione “bene culturale” è entrata nel nostro ordinamento solo negli Atti della Commissione Franceschini (1967),
che contenevano le proposte per la revisione delle leggi in materia di beni culturali e ambientali.
Affinché decadesse l’aggettivo “materiale” associato ai beni culturali, bisognò aspettare fino al 1998, con il D. Lgs.
122/1998, dove per beni culturali si è inteso <<quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale,
archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà>> mentre i beni
ambientali sono intesi come <<quelli individuati in base alla legge quale testimonianza significativa dell’ambiente nei suoi
valori naturali o culturali>>
Con il D. L. 657/1974 fu istituito il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, a cui furono conferite competenze nella
tutela, valorizzazione e diffusione del patrimonio culturale del paese, fino ad allora divise tra ministero della pubblica
istruzione, ministero degli interni e la presidenza del consiglio dei ministri.
Negli anni 90 si è intervenuto con il D. Lgs 490/1999, il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali. Tale testo integrava tutta la legislazione prodotta dalle Leggi Bottai, riconosceva un ampio ruolo
gestionale alle autonomie locali, e ampliava l’ambito della tutela dei beni. Con la Legge Costituzionale 3/2001 che ha
modificato il Titolo V della Costituzione, i beni culturali sono rientrati tra i compiti dello Stato per quanto riguarda le attività
di tutela, mentre la loro valorizzazione spetta alle regioni e agli enti territoriali.
L’ultimo passaggio importante si è avuto nel 2004 con il D. Lgs 42/2004 che ha istituito il Codice Urbani, abrogando il
precedente Testo Unico del 1999. (Fine Box).

Diverso è anche l’uso dei termini geografici: ad esempio “territorio” nel contesto americano assume un significato legato
alla dimensione politico-amministrativa, rispetto al contesto italiano. Infatti difficilmente utilizzano il termine “territory”, ma
usano il termine “space-place”.
La geografia italiana invece usa il termine territorio, preferendolo a quello di spazio e luogo.
In ambito statunitense la svolta culturale è stata vissuta con termini diversi. Come si legge nell’articolo di Olwing (2010),
egli paragona la “British invasion” della cultural geography all’invasione dei Beatles negli Stati Uniti degli anni 60.

5.2 La lezione di Lucio Gambi


Lo studio della geografia italiana è legato ad un personaggio molto importante: Lucio Gambi, il quale ha centrato i
suoi studi sulla revisione critica della connessione tra geografia e storia. Nella veste di presidente dell’Istituto dei beni
artistici culturali e naturali dell’Emilia Romagna, egli ebbe modo di porre le basi di un modo diverso di concepire i beni
culturali e la loro tutela. Per Gambi, l’attività di tutela del patrimonio culturale non poteva limitarsi alla semplice
catalogazione come finora in uso; i beni culturali richiedono un’opera di conoscenza contestualizzata del territorio, in
quanto espressione dei rapporti che i gruppi umani hanno storicamente stabilito con gli ambienti di vita. Quindi i beni
culturali sono testimonianza di relazioni sociali, economiche e politiche inscritte nel territorio.
Uno dei punti cardini del suo pensiero risiedeva nella rottura degli steccati tra ambiti disciplinari diversi, tra politica,
società e accademia; una geografia quindi, per l’azione sociale.
Gambi più volte specificò la necessità di una scienza orientata all’agire sociale, sottolineando le radici storiche poste
all’incrocio tra Illuminismo e Positivismo. Il riferimento a questi movimenti non riguarda i contenuti, ma l’idea di una
produzione di conoscenza orientata all’azione concreta concentrata sul territorio. Così la riflessione sui beni culturali
assume una profondità storica ed è contestualizzata con il valore sociale che tali beni detengono.

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Gambi fu critico anche nei confronti delle esposizioni museali intese solo come mera raccolta e presentazione di cimeli
dei mondi rurali e contadini. Da qui la proposta di mettere a disposizione degli usi sociali i documenti di una cultura,
ricostituendoli in quadri storicamente corretti; e di impiantare i musei etnografici de plein air in ambiente rurale, proprio
per fare in modo che le testimonianze del passato fossero contestualizzate all’ambiente originario in cui presero forma e
senso.
Gran parte delle sue riflessioni si rivolsero agli spazi rurali, già alle prese con una trasformazione capitalistica, la quale
criticò duramente, per la profonda alterazione che aveva apportato al territorio e all’ambiente naturale.
Nonostante le molte critiche rivolte a Gambi dai suoi colleghi contemporanei, i quali lo accusarono di aver ceduto la
geografia alla storia, di aver utilizzato toni sprezzanti nei confronti della geografia antiquata e di aver abbracciato la
causa dei movimenti del ’68. La prospettiva di Gambi fu però presto accolta da un gruppo di geografi riuniti da una parte
intorno alla geografia critica e civile, e dall’altra dalla geografia democratica. Entrambe intendevano promuovere il
rinnovamento della disciplina e della sua organizzazione accademica.

5.3 Manuali e volumi


In Italia la geografia culturale non si è distinta come ambito di studio specifico, e le questioni culturali sono state
affrontate nel più ampio ambito della geografia umana. I primi manuali di geografia intitolati alla geografia culturale,
rendevano impercettibile la differenza con geografia umana. È il caso dei volumi di Piccardi (1994) e di Caldo (1996).
L’ambiente accademico in cui si è praticata più da vicino la geografia culturale è stato quello palermitano, con a capo
Costantino Caldo. Altro polo importante è stato quello veneziano, dove sono stati organizzati due convegni (1998 e
1999) sotto forma di colloquio tra la geografia italiana e quella post moderna.
Nel corso degli ultimi anni si è assistito alla pubblicazione di alcuni testi centrati sulla dimensione culturale tra cui
Alessandra Bonazzi (2011), Clara Carta (2013) e Claudio Minca (2012).
A partire dagli anni 90, anche nel nostro Paese è iniziato un cambiamento nel modo di intendere la cultura; questa
evoluzione si è manifestata nel progressivo cambiamento degli argomenti e dei riferimenti teorici. Ne esce fuori ad
esempio, la rilettura del territorio italiano attraverso le sue meta narrazioni artistiche, cartografiche e letterarie.
Resta il fatto che in Italia la maggior parte delle riflessioni sono maturate in riferimento ad aspetti specifici della cultura o
che vi ruotano attorno: beni culturali, patrimonio culturale, turismo culturale, tradizioni.

5.4 Approccio umanistico e/o fonti letterarie


La geografia umanistica ha fatto ingresso nella geografia italiana nel corso degli anni 80, sostenuta dalle riflessioni di
Wright, Lowenthal, Relph e altri esponenti nordamericani.
Nell’ambito dell’indirizzo umanistico, la geografia italiana ha soffermato la sua attenzione sulle fonti letterarie; la
letteratura infatti è stata utilizzata dai geografi per ottenere descrizioni più vivide dei territori, per rintracciare esperienze
affettive ed emozionali dei luoghi.
L’interesse per le fonti letterarie si è manifestato già nel corso degli anni 20 del 900; ad esempio all’ VIII congresso
geografico italiano del 1921, furono presentati diversi contributi centrati sulla lettura geografica della Divina Commedia e
dell’Orlando Innamorato.
L’interesse delle geografie e dei geografi italiani per la letteratura è aumentato a seguito dell’affermazione delle geografie
soggettive; da allora la geografia italiana ha prodotto una numerosa serie di contributi riferiti a specifici autori letterari o
centrati su specifici luoghi: paesaggi danteschi, paesaggi di Grazia Deledda, paesaggi siciliani. L’interesse nei confronti
del concetto di luogo, ha comportato la necessità di riscoprire le radici di tale concetto. Altrettanto interesse hanno
sollecitato le opere di autori come Verga, Pasolini e Calvino.
Nel corso del tempo l’utilizzo delle fonti letterarie si è caricato di nuovi significati e obiettivi, infatti la letteratura è stata
concepita come strumento fondamentale per la comprensione del mondo, in quanto rivelatrice di relazioni occulte,
soffocate, omesse.
Il testo letterario fornisce la descrizione di esperienze soggettive legate ai luoghi, ma attraverso le analisi testuali è
possibile riconoscere il rapporto autore-geografo-lettore. I romanzi e le poesie possono svelare i legami che uniscono
l’uomo al suo spazio vissuto, e possono apportare la loro creatività, la loro ricchezza, la loro capacità di ridefinire il reale
e il rapporto che l’uomo ha con esso.
Le opere letterarie possono accrescere anche l’attrattività di alcuni luoghi; è il caso del “turismo scenico”, il quale
prevede il consolidarsi del senso del luogo, alimentato o generato dalla creatività artistica. Ne sono un esempio le opere
di W. Scott per quanto riguarda la Scozia, e Wordsworth per il Lake District.
Uno degli esempi dell’approccio geografico alle fonti letterarie, è fornito da Maria de Fanis (2001); la scrittrice partendo
dal concetto che i poeti e scrittori locali trasmettono stati d’animo, emozioni e vissuti sollecitati dall’esperienza diretta sul
luogo, de Fanis ha effettuato una ricostruzione geo-storica dell’alto Adriatico.
I romanzieri e i poeti sono divenuti anche i protagonisti dei “parchi letterari”; in Italia se ne contano una ventina e sono
intitolati a scrittori che hanno contribuito a costruire l’immagine di quel luogo: le Cinque Terre di Montale, l’Abruzzo di
D’Annunzio, Roma di Pasolini… Il parco letterario è stato visto come strumento di valorizzazione turistica e culturale del
territorio. Quindi la letteratura consente una lettura dei luoghi attraverso emozioni, sensazioni, stati d’animo cioè quegli
aspetti non razionali che hanno assunto crescente importanza.
In tale contesto anche la letteratura ha conosciuto profonde evoluzioni a seguito della svolta post-strutturalista e
postmoderna, generando un topographical turn che ha restituito centralità ai luoghi e a ciò che vi accade. La letteratura
postmoderna va contro il realismo e l’idea di verità, e si è cimentata nell’impresa di dare voce a più versioni delle storie
raccontate in particolare a quelle dei gruppi più deboli, allo scopo di dare spazio al dibattito e al conforto sociale.

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5.5 Beni culturali in prospettiva semiotica
Tra i vari contributi dedicati ai beni culturali, quello di Costantino Caldo e di Vincenzo Guarrasi (1994) può essere
considerato una sorta di meditazione tra la tradizione di studi geografi e i nuovi approcci semiotici, già diffusi in Italia
negli anni 80.
In tale volume, i beni culturali non sono più descritti nella loro forma, bensì per il loro significato simbolico e relazionale;
monumenti, piazze, impianti industriali dismessi sono esaminati in veste di segni impressi sul territorio.
Già qualche anno prima, Guarrasi aveva segnalato la necessità di intraprendere i modelli culturali sulla base della loro
funzione di segno; segno che da una parte orienta l’azione dei gruppi umani e dall’altra si esprime in forme concrete
espresse nei luoghi. Della cultura, Guarrasi metteva in risalto soprattutto gli aspetti comunicativi, ovvero le modalità di
comunicazione verbale e non verbale attraverso cui si trasmettono nel tempo e nello spazio.
Nel testo ricorre frequentemente il riferimento alla comunicazione come fattore rilevante per la sopravvivenza e la
riproduzione della cultura, sebbene l’attenzione sia focalizzata sul valore simbolico che determinati luoghi o oggetti
possono assumere per gli insiders (coloro che frequentano stabilmente il luogo, es. abitanti), e per gli outsiders (coloro
che frequentano temporaneamente il luogo, es. turisti).
La dialettica insiders/outsiders già introdotta da Cosgrove (1984), nel volume di Caldo/Guarrasi, si riferisce al fatto che
determinati elementi materiali o non, possono assumere significato simbolico per chi vive in un determinato luogo, ma
non per gli altri.
Il bene culturale è inteso come elemento, materiale/immateriale, che assume significato simbolico per determinate
popolazioni e attraverso cui esse stabiliscono relazioni identitarie con i luoghi. Piazze, monumenti, opere artistiche o
letterarie… assumono un ruolo fondamentale nel rappresentare i valori in cui la collettività locale si riconosce. Grazie a
questo soffermarsi sulla funzione simbolica sui beni culturali, il concetto di spazio risulta modificato: esso non è più
scenario dell’azione umana, non è più lo spazio assoluto che contiene fatti, oggetti e persone, bensì uno spazio
culturale, investito di valori e appartenenza al luogo.
Caldo/Guarrasi hanno sottolineato anche il processo dei beni culturali, riferendolo alle dinamiche sociali che comportano
il passaggio da un mero elemento materiale/immateriale del territorio, a bene culturale. Tale processo viene innescato
dal un élite intellettuale che si fa artefice dell’iter volto alla conservazione o valorizzazione del bene in questione,
innescando magari conflittualità tra i gruppi sociali. Il bene culturale, in tal senso, evidenzia la sua stretta connessione
con le dinamiche sociali che connotano i luoghi. Quindi nell’analisi del bene culturale, va tenuto conto: quali attori sociali
sono stati coinvolti? Quali conflitti ha provocato? Perché l’elemento in questione ha assunto un valore simbolico? Ma
soprattutto: per chi un determinato elemento territoriale, materiale o non, assume valore? Può darsi che il bene in
questione abbia rivestito un ruolo simbolico ed identitario nel passato, ma che ora non lo abbia più; il significato stesso
delle cose cambia nel tempo. Per questo motivo, il valore di un bene culturale va verificato attraverso ricerche sul campo
volte a rilevare se tale bene assume ancora valore simbolico e in quali forme si manifesta.
Tra le motivazioni che portano alla risignificazione dei beni culturali, Caldo ha indicato il cosiddetto “stress culturale” che
si verifica quando la collettività locale, a seguito di una trasformazione rilevante del contesto in cui si è inserito il bene
culturale, subisce uno stravolgimento dei propri punti di riferimento, che a sua volta genera uno stress paragonabile a
quello fisico o psichico. In tal caso, il bene culturale in questione può diventare oggetto di rivalutazione e pretesto per la
riaffermazione dell’identità locale, ma può anche succedere che il bene sia abbandonato.

5.6 La proposta di Adalberto Vallega


Di taglio semiotico è il testo di Vallega (2003), in cui l’autore formalizza tale approccio teorico alla geografia culturale,
basandosi sulla semiotica di Pierce.
Secondo Vallega, l’obiettivo della geografia culturale è quello di indagare le manifestazioni geografiche della cultura,
considerando la cultura come oggetto di indagine, come metodi di indagine propri. Oggetto di studio della geografia
culturale sono i simboli attribuiti a luoghi e spazi.
L’attenzione di Vallega si sofferma sui processi che comportano la trasformazione di semplici entità in simboli. La cultura,
in tale prospettiva, è intesa come creazione di simboli attribuiti a luoghi e spazi e per questo viene stabilita una relazione
tra geografia e semiotica (scienza dei segni). Le domande che Vallega propone sono: come può essere concepito un
simbolo? Come possono essere rappresentati luoghi e spazi? A tale scopo Vallega prende in considerazione due
sistemazioni scientifiche: la prima maturata da Saussure, fondatore della semiologia; la seconda maturata da Pierce,
fondatore della semiotica.
Saussure aveva postulato un rapporto univoco tra il significante (cioè il modo in cui si esprime il segno: grafema,
fonema) e il significato (il concetto a cui si riferisce il significante), dando vita ad un modello di interpretazione linguistica.
Il triangolo di Pierce, invece, costituisce l’avanzamento della teoria strutturalista di Saussure; secondo Pierce c’è
differenza tra l’oggetto e la sua interpretazione, così il segno si trova inserito in una relazione triangolare: referente
(l’oggetto; è l’entità materiale/immateriale), il representamen (il significante, è la rappresentazione dell’oggetto sotto
forma di discorsi, dipinti…) e l’interpretante (il significato, è in relazione costante con l’oggetto e con il significante, per
questo dà origine a nuovi significati).
Nel triangolo di Pierce, il significato si comporta come un significante, diventa segno a sua volta, rinviando nuovi
significati; per questo si è parlato, a proposito del triangolo di Pierce, di semiosi illimitata, cioè una produzione di senso
che non si interrompe mai.
Vallega restò radicato nella dicotomia tra lo strutturalismo e il post strutturalismo; infatti egli continuava ad affermare che
il fine della geografia culturale era quello di rappresentare cartograficamente i simboli della cultura; lui le chiamò “carte

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geosimboliche”. Inoltre Vallega restò legato a un’idea di cultura alta e legata all’idea di comunità culturale unitaria, senza
considerare gli avanzamenti teorici della new cultural geography.
Nell’approccio semiotico, oggetto di indagine diventano documenti, fotografie film, graffiti… L’obiettivo è quello di
esaminare come una determinata realtà o luogo siano state rappresentate, e quali significati siano stati assegnati. C’è
l’idea che eventi, fatti e questioni che riguardano territori o spazi, devono essere rivalutati al di là delle loro apparenze, in
riferimento alla pluralità di significati che assumono.

Capitolo 6: L’approccio territorialista


Se il dibattito di matrice anglofona è centrato sui concetti di spazio e luogo, in Italia il è termine “territorio” ad essere
utilizzato più frequentemente, non solo in geografia.
Attorno al concetto di territorio e di territorialità, a partire dagli anni 80 è stato elaborato un approccio teorico le cui origini
sono da rintracciare nelle riflessioni di Claude Raffestin.
L’approccio territorialista si configura come un approccio teorico complesso, intento ad esaminare il territorio sia nelle
dimensioni politico-progettuali, sia in quelle di matrice umanistica.
Tale approccio si è affermato inizialmente in ambito francese, italiano e latino-americano, ma negli ultimi dieci anni ha
chiamato l’attenzione della geografia anglofona.

6.1 Territorio, territorialità, territorializzazione


Le connotazioni generali di questo approccio possono essere rintracciate nelle riflessioni di Raffestin e di Angelo
Turco, il cui loro fulcro ruota attorno al concetto di territorio e territorialità.
Nel significato comune, per territorio si intende una porzione di spazio dotata di confini, controllata e gestita dall’autorità,
le cui competenze variano in base alla scala delle relazioni istituzionali.

Box 6.1 – Etimologia del termine territorio


Il termine territorio è sempre ambiguo e problematico. La sua radice etimologica non deriva da “terra” ma da “terrore”.
Nel Codice Giustiniano si specifica che il territorio equivale all’ambito dell’esercizio del potere politico, di controllo e
giurisdizione, e a tagliare se nel caso la testa alle persone. Nella bassa latinità molte testimonianze riportano che il
territorium era lo spaventapasseri piantato all’interno del campo di grano che rappresentava l’esercizio di un potere
relativo alla terra. Per Varrone invece, esso deriva dall’atto di triturare (terrere) le zolle con l’aratro e il bue.
Nelle etimologie di Isidoro da Siviglia deriva invece da tauritorium, ambito percorso dai bovini durante l’aratura. Ma nel
Corpus Juris di Giustiniano il territorio è l’estensione che ricade sotto la giurisdizione del magistrato: il termine quindi non
ha nulla in comune con la terra, ma discende dalla stessa base di terrore (terrere). Il territorio perciò è individuato
dall’esercizio della partica del potere, cioè dalla produzione della paura. (Fine box).

Sotto il profilo scientifico, la nozione territorio e di territorialità è più complessa; infatti non a caso, Jacques Lévy ha
individuato nove significati diversi attribuiti al termine “territorio”: sinonimo di spazio, equivalente di spazio abitato,
metafora di territorialità, ambito di appartenenza…
Quanto alla territorialità, in ambito geografico sono state elaborate due principali concezioni:
-quella anglosassone con a capo Robert Sack (1);
-quella francofona-italiana con a capo Claude Raffestin (2).
Quest’ultima è quella che si è più diffusa a partire dagli anni 90.
(1)Nella versione anglofona, la territorialità si esprime nelle strategie di potere e di controllo dello spazio che vengono
adottate per gestire le risorse o la popolazione di un’area; il riferimento è quindi allo spazio occupato e controllato da
individui, gruppi sociali o istituzioni. Per Sack la territorialità è associabile ad una tattica esercitata per controllare
persone, spazi, cose e che implica quindi questioni di potere e ordine.
Il territorio è espressione di potere esercitato su uno spazio fisico e sociale ben definito, delimitato da confini che
definiscono un dentro e un fuori. Tali spazi geografici trasmettono messaggi di controllo e potere politico attraverso
delimitazioni, confini, norme, che condizionano il nostro modo di pensare o agire.
Questa declinazione di territorialità è stata definita “passiva” e “in negativo”: passiva perché il territorio è inteso come una
parte inattiva che non interagisce, ma funge da sfondo; in negativo perché un gruppo ristretto di soggetti esercita un
controllo sul territorio implicando il controllo su altri soggetti.
In conclusione, questa versione considera la territorialità come risultato del comportamento umano nello spazio e si
esprime con strategie di controllo su soggetti e risorse.
(2)Nella versione francofona-italiana, il territorio non necessariamente si riferisce a un’entità politico-amministrativa; al
contrario, la territorialità è concepita come l’insieme delle relazioni che gli essere umani intrattengono con lo spazio in cui
agiscono al fine di soddisfare le proprie necessità.
Raffestin ha definito la territorialità come l’insieme delle relazioni che nascono in un sistema tridimensionale società-
spazio-tempo in modo da raggiungere la più alta autostima possibile. Il territorio è il risultato di un’azione condotta da un
attore sintagmatico (attore che realizza un programma). Appropriandosi concretamente o astrattamente di uno spazio,
l’attore territorializza lo spazio.
Quindi la territorialità è pensata in termini processuali e sociali, poiché si riferisce al complesso delle partiche e delle
conoscenze messe in atto da un gruppo umano per trasformare uno spazio. Tale declinazione è stata definita “attiva” e

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“in positivo”: attiva perché il territorio è socialmente costruito con termini processuali; in positivo perché si manifesta
attraverso pratiche sociali.
In questa declinazione di significato, l’approccio territorialista presenta diversi legami con la geografia radicale,
nonostante centri l’attenzione sul territorio e non sullo spazio. A differenza della geografia radicale, gli approcci
territorialisti puntano ad elaborare una teoria generale dello spazio, a partire da alcuni concetti chiave.

Box 6.2 – Glossario territorialista


Ambiente naturale: materia prima su cui lavora l’uomo/la società
Attore: soggetto portatore di interessi privati o pubblici
Attore sintagmatico: colui che realizza un programma
Milieu: insieme localizzato di connotati naturali e umani
Spazio: ambito preesistente all’azione umana
Territorialità: complesso delle relazioni che i gruppi umani stabiliscono con lo spazio
Territorializzazione: processo sociale che trasforma l’ambiente naturale/lo spazio in territorio
Territorio: prodotto, esito della territorializzazione
(Fine box).

La territorialità di Raffestin è pensata sulle relazioni sociali, sui processi di costruzione attiva del territorio, sui rapporti che
un determinato gruppo umano stabilisce con il contesto in cui agisce. Tale concezione di terriotorialità tiene conto dei
cambiamenti che il territorio può avere nel tempo, attraverso processi di territorializzazione-deterritorializzazione-
riterritorializzazione (TDR), dove T indica il processo di formazione storica del territorio, D corrisponde ad un
cambiamento nell’organizzazione del territorio che modifica l’assetto precedente e R equivale alla ricomposizione
naturale.
Le teorie sulla territorialità non si occupano solo di considerare i processi di distribuzione di un fenomeno, ma anche le
scelte che riguardano il territorio e quindi le relazioni tra attori.
Il concetto di territorialità maturato in ambiente francofono, italiano e latino-americano, presenta diversi punti di contatto
con le idee e i concetti praticati in ambiente anglosassone: il territorio inteso come costruzione sociale; l’importanza
attribuita alla dimensione simbolica; il concetto di attore sociale.
In conclusione, il concetto di territorialità di Raffestin offre una visione multidimensionale della vita sociale da una
prospettiva relazionale; la sua territorialità apre la strada ad un concetto geografico dell’essere-nel-mondo.

6.2 Cultura, territorialità e complessità


Angelo Turco ha ulteriormente sviluppato le idee di Raffestin elaborando una teoria della complessità basata sul
concetto di territorialità. Secondo Turco un gruppo umano, vive, cresce e progredisce grazie alle trasformazioni che
apporta all’ambiente in cui è insediato. Tale ambiente, grazie all’azione umana acquista valore antropologico e diventa
progressivamente come territorio. Il territorio è un prodotto dell’azione umana, ma al tempo stesso è una condizione
dell’azione umana.
Il processo di territorializzazione, secondo Turco, implica 3 caratterizzazioni:
1. è costitutivo della società, in quanto il gruppo umano insediato si evolve sviluppando conoscenze, percezioni,
rappresentazioni;
2. è un riflesso dell’azione sociale, dato che il territorio che si viene formando reca segni delle trasformazioni
operate dal gruppo;
3. è una condizione dell’agire sociale dato che consente alla società insediata di ottenere risorse materiali e
simboliche di cui hanno bisogno per vivere e riprodursi.
Il passaggio da ambiente naturale a territorio non avviene una volta per tutte, ma si sviluppa lungo una traiettoria con fasi
più o meno accentuate in corrispondenza di eventi naturali, cambiamenti demografici… Turco, a tal proposito, ha
elaborato una chiave di lettura dei processi di territorializzazione che si articola in 3 forme di controllo: simbolico,
materiale e organizzativo.
La denominazione è il primo atto di territorialità e corrisponde al controllo simbolico del territorio. Dare un nome ad un
luogo equivale ad appropriarsi intellettualmente di un ambiente. Il nome dato ai luoghi è anche espressione delle
conoscenze, dei saperi e delle convinzioni della società che lo assegna.
La reificazione è il secondo atto della territorializzazione e riguarda il controllo materiale del territorio. Essa consiste nella
trasformazione concreta della natura nelle sue fattezze fisiche; può trattarsi di un artefatto materiale, costruito in risposta
ad un bisogno, oppure estetico: case, ponti, dighe…
La strutturazione riguarda l’organizzazione politica e amministrativa del territorio che comporta la creazione di confini,
ambiti di competenza. Essa corrisponde al controllo organizzativo del territorio.
Secondo Turco il processo di territorializzazione può essere:
- autocentrato (la collettività locale definisce le proprie connotazioni, garantisce e riproduce il proprio funzionamento);
- eterocentrato (la società locale perde la capacità di gestire autonomamente il territorio ed entra nella sfera di influenza
di un altro corpo sociale. Tale territorialità può configurarsi come processo di acculturazione, se il processo riesce ad
essere governato dalla società locale; di appropriazione, se l’attore esterno interviene istituendo un controllo su almeno
uno dei suoi segmenti; di denominazione, se l’attore esterno sostituendosi all’attore locale, assume la responsabilità del
totale processo).

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La territorializzazione implica il riferimento anche ad aspetti più umanistici, ed è per questo che la territorialità è anche
costruzione narrativa. Nell’approccio territorialista, la dimensione culturale è incorporata nel concetto di territorio e di
territorialità, nell’agire sociale che trasforma lo spazio in territorio.

6.3 Valori territoriali e territorialità attiva


È a Lucio Gambi che si deve la proposta di una geografia storico-sociale fondata sul concetto di valore,
distanziandosi così dalle discipline che adottano il metodo scientifico.
Facendo riferimento all’insegnamento di Gambi, Giuseppe Dematteis ha sostenuto che i territori sono depositari non di
semplici cose, ma di valori, cioè di cose a cui è attribuito un valore. Dematteis ha più volte proposto riflessioni sui valori
territoriali, definendoli come quei caratteri del territorio a cui viene riconosciuto un valore in positivo o in negativo.
Dematteis inserisce anche i valori negativi perché li considera per la loro natura relazionale. Quindi i valori territoriali
sono tali in quanto si possono individuare solo nel rapporto di un oggetto (il territorio) con dei soggetti che tali valori gli
attribuiscono.
Dematteis ha preso più volte le distanze da chi ha lasciato intendere che non ci sono cose, ma solo interpretazioni di
cose. Secondo l’autore, limitarsi alle interpretazioni, porta ad una mezza geografia incapace di indicare la relazione che
c’è tra le rappresentazioni e i comportamenti. Sostiene che la geografia non può ignorare le rappresentazioni; infatti
Dematteis pensa ad una geografia orientata in senso progettuale, capace di indicare quali rappresentazioni territoriali
muovono l’agire individuale/collettivo.
I valori, in quanto frutto di un rapporto tra soggetti e territorio, non possono essere conosciuti in modo assoluto e
oggettivo, bensì attraverso metodologie di rilevamento qualitative. Inoltre Dematteis sottolinea la natura transcalare dei
valori territoriali, nel senso che essi vengono individuati, definiti, attribuiti a più scale, sia per quanto riguarda l’oggetto
(territorio considerato) sia per quanto riguarda i soggetti.
I valori possono essere diversi anche all’interno di uno stesso contesto locale; questo perché i soggetti e i gruppi diversi,
possono attribuire differente importanza e significato ai luoghi. È sulla base di queste diversità che traggono origine i
conflitti ambientali.
Dematteis ha proposto una metodologia per l’analisi dei valori territoriali, che si basa su due nuclei tematici:
1. capire i luoghi nelle loro connotazioni storiche, ecosistemiche ed economiche, ma nell’ottica dei significati che
gli vengono attribuiti, in una prospettiva progettuale futura;
2. valutale sa sostenibilità delle possibili trasformazioni territoriali in termini di integrazione ambientale, equità
sociale ed efficienza economica.
Inoltre l’autore distingue 3 tipologie di rappresentazioni:
1. Quelle false, cioè diversa da come stanno le cose (es. finzioni cinematografiche);
2. Quelle che rappresentano i fatti culturali come specifici prodotti, manifestazioni separati dal loro processo di
produzione, facendo l’esempio dei beni culturali quando siano trattate solo come mere testimonianze del
passato;
3. Quelle che narrano valori e risorse culturali tenendo conto dei processi da cu derivano, dove l’aggettivo
“culturale” si riferisce all’agire dei gruppi umani che interagiscono con un materiale simbolico.
In tal senso si fa riferimento alla territorialità attiva, che secondo Dematteis deriva dall’interazione orizzontale (tra
soggetti che operano in uno stesso territorio) e dall’interazione verticale (tra soggetti e territorio, trasformando le
potenzialità in risorse per lo sviluppo).

6.4 Cultura e patrimonio genetico-culturale


In più occasioni Dematteis ha fatto riferimento al “codice genetico” di un sistema territoriale, inteso come specificità
sedimentata nel corso della storia e come base invariante dei processi di sviluppo locale.
Il patrimonio culturale è assimilato al patrimonio genetico di un organismo che si riproduce nel tempo; i territori possono
quindi evolversi, cambiare, ma mantenendo sempre qualche traccia del proprio passato.
Tale considerazione costituisce un modo per sviluppare l’argomento della gestione e della valorizzazione del patrimonio
culturale, coinvolgendo un gran numero di riflessioni parallele.
Dematteis effettua un parallelo con i sistemi biologici, partendo dal presupposto che ci sono meccanismi dell’evoluzione
biologica e di quella culturale che svolgono un’analoga funzione: quella di assicurare la continuità della vita attraverso la
trasmissione dell’informazione da una generazione ad un’altra.
Il patrimonio culturale costituisce una sorta di traccia evolutiva già iscritta nei territori, che condiziona il futuro dei territori,
ma che può essere continuamente riformulata in base agli input interni ed esterni al sistema locale. Il patrimonio culturale
può essere considerato sia come risorsa non rinnovabile (perché soggetto a deperire con il tempo), sia come risorsa
rinnovabile (perché suscettibile ad essere investita di nuovi significati). La conservazione e la riproduzione innovativa del
patrimonio culturale sono legate tra di loro.

Box 6.3 – Perché è importante tutelare il patrimonio culturale?


Se ci chiediamo perché dobbiamo conservare il volto antico delle regioni, le risposte convincenti non sono molte e
pochi ne parlano. Dunque è necessaria una giustificazione razionale della conservazione.
F. Choay (1992) ha individuato vari motivi. Alcuni sono poco difendibili, come quello di legittimare un’ideologia o un
regime politico (come fece il fascismo con il patrimonio archeologico romano), oppure ancora assicurare
l’autoriproduzione delle corporazioni di esperti addetti alla conservazione. Altri argomenti sono più convincenti, ma legati

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a interpretazioni soggettive; sono le motivazioni estetiche: il bello è un valore da tutti riconosciuto, ma non tutti sono
d’accordo quando si tratta di dire cos’è bello o cos’è brutto.
Non del tutto pacifica è la funzione che il patrimonio può avere nel fondare o rafforzare l’identità di un gruppo, sia perché
è fonte di conflitti interni alle società locali, sia perché delle identità locali non sempre se ne fa un buon uso.
Oggetto di valutazioni diverse, sono altre due motivazioni apportate dalla Choay, le quali rispondono a dati di fatto
indiscutibili: quella che il paesaggio e il patrimonio sono risorse per lo sviluppo economico locale, e quella per cui esse
meritano di essere conservate perché ci trasmettono delle conoscenze localmente utili, oltre che dei valori universali.
I paesaggi e gli assetti territoriali ereditati dal passato sono un valore, e trasmettono alla società conoscenze necessarie
per mantenere e riprodurre la loro specificità culturale, interagendo con uno specifico ambiente geografico. (Fine box).

Tuttavia può anche succedere che il patrimonio culturale contenga elementi discussi o non accettati perché emblema di
sottomissioni (es. statue leader dell’Europa orientale abbattute dopo la fine delle dittature), o perché tale patrimonio
detiene un elevato valore artistico e storico, ma non costituisce un elemento identitario.

6.5 Cultura, territorio e progetto politico


Altro protagonista dell’approccio territorialista è Alberto Magnaghi. Anche secondo Magnaghi il territorio non esiste in
natura, in quanto è il prodotto storico di atti culturali dell’uomo in relazione con l’ambiente naturale. In questa accezione il
territorio si identifica con l’ambiente dell’uomo. Secondo l’autore il territorio è l’esito dinamico e stratificato di successivi
cicli di civilizzazione; è un complesso sistema di relazioni fra comunità insediate e ambiente, di cui il paesaggio
antropizzato costituisce il prodotto sensibile. Quindi il territorio è il risultato dell’incontro fra eventi culturali e natura, e si
manifesta in luoghi dotati di identità, storia e carattere.
Il concetto di co-evoluzione fra ambiente insediativo e ambiente naturale richiede lo studio dei processi di trasformazione
dell’ambiente naturale. Il territorio, prodotto in questa co-evoluzione, risulta come un sistema vivente ad alta complessità,
la cui crescita si alimenta di relazioni fra ambiente fisico, ambiente costruito e ambiente antropico. In quanto soggetto
vivente, il territorio assume i caratteri di un organismo individuale che cresce, si sviluppa e si differenzia. La relazione tra
comunità antropica e ambiente naturale genera un altro soggetto: il territorio. E in quanto sistema, il territorio necessita di
cura, alimentazione, manutenzione in forme continue. Quando tale rapporto di cura viene a mancare, il territorio può
decadere e morire; in questo caso ritorna in “natura”.
Sotto il profilo culturale il territorio è frutto di un dialogo tra culture e spazi geografici svolto in tempi lunghi; è una
costruzione culturale. Il patrimonio necessita di attenzione, cura e dedizione per mantenersi in vita. Concepire il territorio
come patrimonio implica la connessione diretta con le specificità locali e i valori che esse rappresentano; mentre il
territorio inteso come risorsa costituisce un insieme di risorse suscettibili di essere economicamente valorizzate. È la
duplice connotazione di valore e risorsa, a rendere il territorio un bene razionale. In tale ottica, i caratteri che connotano
un territorio possono essere individuati e conosciuti solo ponendosi all’interno di tale relazione.
Secondo Magnaghi il luogo definisce l’identità di un determinato territorio e includi la variabile “tempo” nella sua
definizione, dato che la sua costruzione è un processo storco di lunga durata.
Lo studio della storia del processo di territorializzazione è importante per capire l’identità del luogo e delle sue dinamiche
riproduttive: è un racconto per cicli successivi di civilizzazioni. Ogni civilizzazione deposita strutture insediative e culturali
che permangono nel lungo periodo; infatti ogni ciclo successivo di civilizzazione si alimenta degli atti territorializzanti del
ciclo precedente, reinterpretandoli e strutturandoli in forma diversa.
In Magnaghi l’elaborazione scientifica della territorialità si unisce al progetto politico di autonomia decisionale, attraverso
il concetto di “sviluppo locale auto sostenibile” e di “statuto dei luoghi”. Nella sua ottica la territorialità diventa proposta
politica in quanto funzionale alla costruzione di uno statuto dei luoghi che insedia una cultura. I principi ispiratori dello
statuto dei luoghi risiedono nella sostenibilità ambientale e nello sviluppo auto sostenibile dei territori e cioè nella
valorizzazione delle risorse locali naturali e culturali.
Quando Magnaghi parla di autogoverno e di sviluppo locale auto sostenibile, non si riferisce all’autosufficienza, ma alla
capacità di autogoverno dei rapporti di territorialità interni ed esterni, di auto progettazione di uno sviluppo basato su tali
rapporti.
Per Magnaghi serve un’opera di ricostruzione della coscienza di luogo, cioè della consapevolezza del valore
patrimoniale dei beni territoriali, in quanto elementi essenziali per la riproduzione della vita individuale e collettiva. Una
consapevolezza che ha guidato le diverse civiltà succedutesi nel tempo e che si è persa. Infatti le questioni del territorio,
sono state delegate a grandi organizzazioni che gestiscono le risorse primarie (acqua, elettricità…), dunque non c’è più
l’esigenza, da parte delle comunità insediate, di garantire la riproduzione delle risorse e delle componenti del territorio. È
questo il motivo principale per cui Magnaghi lega la coscienza di luogo allo sviluppo locale auto sostenibile e all’auto
governo del territorio. Solo attraverso la cura diretta del territorio è possibile sperimentare le scelte più appropriate ai
connotati del territorio stesso.

6.6 Cultura, identità e sviluppo locale


Dematteis e Francesca Governa hanno legato i concetti di territorio e territorialità a quelli di sviluppo locale,
elaborando il concetto di SLOT (Sistema Locale Territoriale), che si configura come modello di riferimento per le politiche
di sviluppo territoriale. Lo Slot è costituito da una rete locale di soggetti che in determinate circostanze si comporta come
un attore collettivo, facendo da tramite tra le risorse e i valori locali, in vista di un progetto condiviso.
Lo Slot è strettamente collegato al concetto di territorialità attiva e in positivo, e fa riferimento alle progettualità che
possono riguardare anche la valorizzazione del patrimonio territoriale.

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L’elemento che caratterizza l’approccio territorialista è la sua dimensione progettuale; inoltre tale approccio considera il
territorio come elemento costitutivo dello sviluppo. Il territorio non è un supporto dello sviluppo locale, piuttosto
l’approccio territorialista propone una concezione relazionale del territorio.
Demattesi sottolinea che il valore dei beni culturali non è definibile in base alle loro proprietà oggettive (cioè per la loro
rilevanza storica, artistica o economica), quanto per la loro natura relazionale e per il rapporto che le persone
stabiliscono con essi. La geografia in tale senso è chiamata a studiare i beni culturali non come fossero cose, ma per il
significato e il valore che essi assumono nei rapporti sociali. Quindi i beni culturali operano come segni, e in quanto tali
vanno conosciuti per il significato che assumono; il significato è mutevole nello spazio e nel tempo.
Anche Fabio Pollice sostiene che l’identità territoriale costituisce una condizione e una premessa dello sviluppo locale,
quando questo sia inteso come strettamente legato alla sostenibilità.
Il nesso tra patrimonio culturale, identità territoriale e sviluppo locale non va inteso in senso slegato dal contesto globale.
In tale senso Dematteis ha formulato l’idea di locale come nodo di rete globale, cioè un sistema globale costituito da
singoli nodi locali tra loro interconnessi grazie alla fitta rete di relazioni, ma anche grazie alla specializzazione funzionale
degli stessi nodi.

6.7 Senso del luogo e identità territoriali


Quello dell’identità è l’ambito di studio più rappresentativo delle differenze che intercorrono tra gli ambienti geografici
inglesi/americani e quelli francofoni/italiani: mentre nei primi, il dibattito politico ruota attorno alle identity politics e cioè
alle lotte che i gruppi sociali combattono per il loro riconoscimento e contro le discriminazioni; nei secondi invece,
l’interesse è rivolto alle identità territoriali.
La differenza sta nel fatto che le identity politcs non si definiscono rispetto a un territorio specifico, mentre le identità
territoriali, si.
L’identità è un termine scomodo, poiché rimanda alla costruzione di una specificità che è complementare alla diversità:
l’identità si definisce sempre rispetto a qualcosa o qualcuno di diverso da sé. Per questo gran parte del dibattito
scientifico ha evidenziato i rischi e gli effetti negativi che il termine identità porta con sé.
Tale termine mostra delle problematiche anche nel caso delle identità territoriali, perché se l’identità richiama ad una
specificità, il rischio è quello di ridurre la complessità del territorio a pochi aspetti.
Il secondo termine (territoriale) viene però in soccorso: se il territorio è concepito come prodotto e condizione dell’azione
umana, l’identità territoriale si configura come un processo di costruzione sociale operato alla scala locale, con abitanti e
attori locali.
L’identità territoriale fa riferimento ai caratteri materiali/immateriale del territorio, specifici di un dato territorio e contesto
sociale, ma non tutti indistintamente, bensì quelli a cui è attribuito un valore: segni di territorialità. Tali segni assumono
significato proprio perché è la collettività insediata che gli conferisce valore. In questo modo, gli elementi del territorio
oltrepassano la connotazione oggettuale e diventano iconemi o semiofore, perché sono in grado di sollecitare sentimenti
di appartenenza sociali e territoriali.
Il sentimento di appartenenza al territorio dell’abitare non va dato per scontato: non sempre le persone vivono a proprio
agio nel territorio in cui risiedono; tuttavia, chi abita in un territorio, anche se temporaneamente e non per scelta, di fatto
stabilisce un legame con esso, ne conosce i limiti e le potenzialità.
La psicologia ambientale ha fornito due nozioni per la ricerca geografia: l’identità di luogo e l’identità del luogo.
L’identità di luogo si riferisce a quella parte dell’identità personale che deriva dall’abitare in specifici luoghi, mentre
l’identità del luogo è definita sulla base delle rappresentazioni o immagini più condivise.
Si tratta di una distinzione importante di cui si deve tenere sempre conto, perché spesso si tende a confondere i due
piani in cui si articola il percorso identitario. Si tratta quindi, di comprendere quali legami intercorrono tra le persone e il
luogo oggetto di studio, e quali caratteristiche sono attribuite al luogo da parte di chi vi abita/opera di solito.
Solo la ricerca sul campo attraverso interviste, focus ecc.… può restituire un’idea delle relazioni che intercorrono tra
persone e luoghi.
L’identità territoriale è un argomento complesso da affrontare e pieno di insidie. Il gruppo A.Ge.I. “Identità territoriali”, è
stato istituito nel 2008 proprio per rispondere ai tanti interrogativi che ruotano attorno a tale concetto. Il gruppo di ricerca
ha orientato le sue riflessioni soprattutto sulla scala locale, cioè quella che consente la prossimità fisica tra gli abitanti dei
luoghi, e che costituisce motivo di condivisione progettuale. Si è scelto di operare sull’ambito locale per 3 motivi:
1. perchè a questa scala si concentrano le principali priorità politiche;
2. perchè è a questa scala che i vissuti, le pratiche, le esperienze e i saperi fanno di un territorio un luogo, cioè
uno spazio di significazione collettiva;
3. perchè è a questa scala che può essere costruita una territorialità attiva e in positivo.
L’idea di fondo sta nel concepire il territorio dell’abitare in senso consapevole e partecipato. Una finalità non facile da
raggiungere nelle società, che spendono gran parte del loro tempo altrove e che vivono le proprie relazioni sociali
attraverso uno schermo.
L’identità territoriale è un obiettivo auspicabile da perseguire, almeno quando sia ispirato ai principi di sostenibilità
ambientale, equità sociale ed efficienza economica.
Inoltre l’identità territoriale può essere intesa come un processo di costruzione sociale, attraverso cui le collettività
insediate in un dato territorio individuano i connotati distintivi del territorio, configurando obiettivi e progetti condivisi. Sul
piano pratico si tratta di rilevare due tipi di informazioni principali: 1)il tipo di legame che intercorre tra gli abitanti/attori e il
territorio in cui essi risiedono, al fine di valutare la propensione alla territorialità attiva; 2)le connotazioni attribuite al

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territorio oggetto di studio da parte di abitanti/attori locali, con l’obiettivo di estrapolare giudizi e opinioni assegnati al
territorio.
A cosa serve tutto questo? Al fatto che i risultati di queste due procedure di ricerca possono costituire una base di
riferimento per le scelte di pianificazione territoriale e per le iniziative che puntano a coinvolgere le collettività insediate.
L’identità territoriale così concepita è da intendere in termini:
- dinamici (l’identità territoriale non è fissa)
- aperti (al cambiamento, alla diversità)
- complessi (perché implica la dimensione sociale, culturale, etica, ecc.)
- processuali (perché processo di costruzione sociale)
- teleologici (orientato a finalità condivise)
- transcalari (in costante relazione con altro).

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