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Riassunto Manuale di geografia culturale – Alessandra Bonazzi

Introduzione
1980: la geografia culturale anglosassone ridefinisce le coordinate intellettuali, politiche e
accademiche. Prima stabiliva canoni e temi, ma era marginale per la produzione
disciplinare. Alla Berkeley School in California, Sauer e gli allievi studiavano il rapporto
uomo-ambiente, gli aspetti materiali della cultura, le forme del paesaggio e la loro
diffusione. Anni ’60 e ’70 in risposta all’introduzione in geografia della teoria positivista,
della rivoluzione quantitativa e della psicologia comportamentista, i geografi culturali
guardano la dimensione simbolica delle attività umane e la comprensione dei mutamenti
delle forme della società. Nel 1980 nasce la “New Cultural Geography”; la novità viene
dalla critica all’idea di “cultura” della Berkeley: cultura sarebbe una variabile esplicativa
reificata che non spiega nulla del suo funzionamento, una «scatola nera» della geografia.
Bisogna capirne il funzionamento con un approccio sociologico e politico, che spieghi le
differenti rappresentazioni e formazioni culturali. Ci si rivolge ora alla Cultural History ed ai
Cultural Studies. La New Cultural Geography promuove una nuova forma di sapere sullo
spazio e sui luoghi usando risorse materiali insolite, aprendo i confini della disciplina a
metodi e temi del dibattito filosofico, dell’antropologia, degli studi letterari e culturali. Gli
scopi e metodi dei Cultural Studies: 1) esaminare ogni oggetto di studio secondo i termini
delle pratiche culturali e in relazione al potere: bisogna rintracciare le relazioni di potere ed
esaminare come influenzano e danno forma alle pratiche culturali. 2) scopo: non è studiare
la cultura come entità discreta e separata dal contesto politico e sociale; bisogna capirla
nelle sue forme. 3) la cultura è sia l’oggetto di studio che il luogo della critica politica e
dell’azione; i Cultural Studies sono un’impresa intellettuale e pragmatica. 4) essi vogliono
superare la divisione tra le forme di sapere tacite (intuitive e locali) e quelle oggettive
(universali). 5) vogliono una valutazione morale della società moderna e una radicale linea
di azione politica. I temi in geografia diventano lo spazio del potere, il significato e la forma
dei paesaggi delle aree metropolitane, la produzione delle pratiche discorsive, la natura
politica e ideologica del sapere scientifico, la rappresentazione dei corpi, la differenza, il
trans-nazionalismo, la diaspora, le pratiche di trasgressione e resistenza, il femminismo,
l’impresa coloniale. I temi classici (spazio, luogo, paesaggio) vengono ridiscussi, l’interesse
per il rapporto uomo-ambiente rinnovato e si riflette sull’opposizione natura-cultura. La
New Cultural Geography si interroga su come l’ideologia della «conoscenza scientifica»
supporti progetti coloniali e imperiali. Cambia lo scopo della disciplina: come dice Mitchell,
ora bisogna spiegare i mondi sociali e culturali in cui viviamo; scopo della geografia è
spiegare le relazioni politiche, economiche e materiali che costruiscono i paesaggi culturali.
Le domande della New Cultural Geography sono: 1- cosa rende significativa una differenza
culturale? 2- origini e processi che portano alla differenza culturale? 3- come queste origini
e processi sono legati agli sviluppi dell’economia politica? 4- come si contesta, negozia,
combatte un cambiamento culturale? 5- chi produce la cultura? 6- chi definisce cosa sia
una differenza culturale?

Cap 1 – Una mappa per orientarsi tra direzioni, cultura e punti di vista:
Anni ’80: Jackson e Cosgrove propongono una rifondazione della disciplina, bisogna
mettere al centro il funzionamento della cultura: capire il ruolo della «produzione
simbolica» nella costruzione e ordinamento dello spazio. Con la nuova geografia è futile
ogni tentativo di concettualizzare la nuova disciplina come unitaria, coerente e ben
definita. Con Duncan si riflette su cosa intendere per “cultura”. Il rimando all’idea di
cultura di Williams porta in primo piano le rappresentazioni geografiche e cartografiche.
Ogni punto è determinato da coordinate geografiche, ideologiche, politiche ed
economiche: ciò che vedo dipende dal «dove» che occupo per guardarlo. DIREZIONI: la
New Cultural Geography è segnata dal femminismo, post-strutturalismo, dalla teoria post-
coloniale e si sviluppa nell’area anglosassone. La vicinanza ai fatti e al vissuto implicherà
l’allontanamento dai temi tradizionali. La trasformazione economica degli anni ’70 porta
paesaggi politici e culturali dalla Thatcher in Gran Bretagna a Regan negli Stati Uniti. Si
afferma la «saggezza del libero mercato» e inizia la globalizzazione. Anni ’80: la
dissoluzione dell’Unione Sovietica porta ad un cambiamento nella divisione e
rappresentazione del mondo. Uno dei temi della nuova geografia secondo Cosgrove,
dev’essere la definizione di un nuovo «ordine mondiale» dopo la caduta del muro di
Berlino. Il particolarismo diventa la novità, si definiscono i nuovi confini emergono
sentimenti di appartenenza e identità con esclusività territoriali. Bisogna capire ora la
funzione di spazio e luogo nella formazione del potere culturale. Nell’occidente
industrializzato sono più evidenti le battaglie sociali e politiche. Si apre un eterogeneo
ambito di ricerca su spazi e paesaggi urbani, con lo studio di differenti stili di vita e la
costruzione sociale di «gender» e «razza». Anche la realtà è una costruzione sociale.
L’attenzione per le aree urbane dell’occidente di Scott è un’esigenza di distacco da un
passato imperiale, quando la cultura si riferiva solo ai generi di vita non occidentali e
«primitivi» (come l’interesse di Sauer per aree rurali non occidentali). Anderson analizza il
quartiere di Chinatown di Vancouver come occidentale: l’arrivo dei cinesi a Vancouver è
accompagnato da immagini e immaginazioni che vengono da discorsi razziali; alla
reclusione culturale si aggiunge quella spaziale. I cinesi sono una minaccia morale e fisica
perciò si stabilisce la segregazione: nessuna attività economica può essere svolta da loro al
di fuori del quartiere di Dupont Street, nel quale aumenta la densità di popolazione e
peggiorano le condizioni di vita; questo conferma la propensione dei cinesi alla sporcizia e,
visto che attività come la prostituzione e lo spaccio di oppio venivano svolte nel quartiere
(ma NON da loro), era confermata anche la depravazione morale. Durante la Grande
Depressione (prima del 900) però, i cinesi mostrarono benevolenza e di riuscire a vivere
con un salario minimo. Nacquero così nuove immaginazioni e alleanze. Nel 1936 venne
concessa la costruzione di una pagoda e di un «villaggio cinese». Mitchell: saggio di
Johnstown, città della Pennsylvania che si reinventa dopo la dimissione degli stabilimenti
per la lavorazione dell’acciaio. Questo accade con la costruzione di un paesaggio che mette
in scena un passato di lavoro ripulito dalle lotte sindacali e dalla segregazione sociale dei
lavoratori. La città rimane centrale nella New Cultural Geography, ma la ricerca diviene
eterogenea. Si indaga il rapporto tra natura e cultura, il genere, l’identità nazionale, il
turismo, la globalizzazione. Un’altra direzione di fine anni ’90 si occupa di altri soggetti:
diversamente abili, anziani, donne, bambini. Alla marginalità nello spazio sociale
corrisponde la stessa posizione nella disciplina. Attraverso il concetto di paesaggio si
considerano molti argomenti; Cosgrove, Duncan, Daniels e Barnes all’inizio vedono la
natura testuale e simbolica dei paesaggi, poi vi è una riflessione sulla natura dinamica del
paesaggio, inteso come processo sociale attivo. Il paesaggio è “lavoro” degli uomini e
contenitore dei loro sogni, ed è anche “lavoro” che orienta e definisce lo sviluppo futuro di
ogni luogo. Queste le direzioni più recenti: movimento di individui e gruppi e la fine di ogni
fissità e sedentarietà. Cresswell: la mobilità è ovunque, è ubiquitaria. La cultura non è
ferma in un luogo, è dinamica. Il sociale non è più confinato “dentro” la società. La mobilità
produce l’idea di progresso, libertà, opportunità e modernità. La mobilità è uno spazio
muto indefinito, in alternativa al luogo ed alla limitatezza. Il movimento che sta tra due
punti A e B rimane inesplorato, Cresswell intende perciò esplorarlo perché i movimenti
producono potere e da esso sono prodotti. Chi è sradicato è portatore di valori instabili,
come i beduini in Libia durante il fascismo: l’Italia risponde alle truppe mobili con la
sedentarietà dei campi di concentramento. L’11 settembre porta in rilievo la politica nella
New Cultural Geography, si riscopre la radice di “terrore” nel termine “territorio”.
CULTURA: ciò che cambia dalla Cultural Geography di Sauer a quella nuova è che la cultura
non si può usare per spiegare la realtà visto che è la cultura a volere una spiegazione. Essa
non è riferibile a nulla di concreto, è astrazione. È utilizzata per associare i comportamenti
di classi o individui, è un medium, sta “tra” le relazioni degli individui influenzandoli.
Mitchell: com’è possibile che, non esistendo, essa sia una delle maggiori forze o impulso?
“Cultura” ha molti significati: la usiamo per spiegare i comportamenti, vi è la «cultura alta»,
«controcultura», «cultura popolare» … è il genere di vita delle persone; Williams: essa è 1)
«una nebulosa struttura del sentire» che definisce la vita delle persone; 2) insieme delle
produzioni che riflettono e modellano la «struttura del sentire» con diverse strategie di
rappresentazione. Mitchell aggiunge: la politica, l’economia e la società hanno a che fare
con le relazioni materiali, la cultura con relazioni simboliche. Essa è la teoria che consente
di comprendere come le persone si rappresentano e rappresentano le relazioni sociali,
politiche e materiali. La teoria culturale fa capire in che modo gli ambiti interagiscono e si
strutturano per costruire una società. Passando da cultura a teoria culturale, non si deve
più definire un oggetto o riferirsi ad un’astrazione; si cerca ora un medium per svelare
l’orientamento delle strutture che definiscono i rapporti. Altro modo di intendere la
cultura: è tutto ciò che non è natura. Per superare l’incertezza sul termine si guardi la
compilazione dei significati Williams. Il significato cambia a seconda dei modelli sociali in
cui entra; ogni significato contiene potere e modalità di lotte per ottenere i propri scopi.
Per questo, Mitchell si riferisce a cultura per la sua natura politica e per le relazioni di
potere che esprime. “Cultura” ha come primo significato quello legato alla coltivazione,
così si sviluppa in Francia e poi in Inghilterra. Con il tempo “coltivazione” passa da piante e
animali agli individui e alle loro menti. Da qui vi è una distinzione legata alla cultura: da una
parte la mente coltivata, moralmente buona e superiore; dall’altra una mente priva di
regole e governo, immorale e cattiva. Vi è (dice Williams) un legame tra cultura, disciplina e
moralità. In Francia e Germania, (XIX secolo) “cultura” comprende la civilizzazione. Fine
‘800: Herder critica l’idea che educazione e cultura abbiano portato la società europea in
alto nello sviluppo umano; per lui si deve parlare di “culture” al plurale, non solo di culture
nazionali ma di culture diverse nella nazione, che possono coesistere. La pluralità culturale
è ripresa dai romantici, così “civilizzazione” è della sfera materiale, e “cultura” a quella
simbolica/spirituale. La geografia dell’800 ricorre al neolamarckismo, dall’idea di Lamarck
secondo il quale si possono trasmettere caratteristiche acquisite. Ciò che lo permette è:
l’abitudine, la volontà e l’ambiente. In geografia questo permette di spiegare le differenze
culturali sui differenti ambienti naturali; l’ambiente influenza il comportamento. Sauer si
distacca e crea una teoria culturale (il superorganicismo), che va nella direzione opposta.
Al determinismo ambientale, Sauer sostituisce il determinismo culturale che determina i
comportamenti (insieme alla natura). Il paesaggio geografico manifesta questa
connessione. Il punto debole della teoria di Sauer è che la “cultura” non è usato con
considerazione critica. La cultura è un sistema di vita, superiore alla somma degli individui;
è «superorganica» ed ha vita propria. È una forza esterna superiore che imprime i suoi
messaggi su chi occupa un’area geografica. La cultura “si fa” non si possiede (ora enfasi sul
“fare” della geografia culturale). Manuale doing cultural geography si cerca la pratica della
geografia; si passa dai temi della rappresentazione a quelli di prassi e valore del sapere
geografico. Si considera il contesto di relazioni economiche, politiche, sociali della
produzione di mappe e testi, e la produzione culturale. Ci si sposta anche dallo spazio
metaforico delle geografie imperiali alle “reali” geografie coloniali e postcoloniali, per la
funzione degli spazi nelle identità e nel potere. Bisogna poi definire concetti
territorialmente limitati di cultura. Inizialmente, con la globalizzazione si pensava a futuri
confini senza cambiamenti, irrilevanza. Ora si ripensa a questi termini usati contro il
consumo di valori culturali, luoghi e spazi locali. La comprensione dei meccanismi che
regolano i processi culturali e l’organizzazione dello spazio, avvengono su confini. I saggi
“Cultural turns/ Geographycal turns” spezzano i confini della geografia e stabiliscono
legami con altre discipline. PUNTI DI VISTA: il punto di vista ha a che fare con la
costruzione e rappresentazione del sapere scientifico e con l’idea che esso sia cumulativo e
progressivo. Cosgrove e Domosh: crisi della rappresentazione al centro della Cultural
Geography come crisi di autorità e potere del discorso scientifico nella modernità. Duncan
e Ley introducono l’argomento, con il disegno di Sharp, essi richiamano la mappa. Il titolo
del disegno (Topographical survey) e ciò che rappresenta uniscono l’atto cartografico alla
critica di Focault sulla sorveglianza: l’oggettività scientifica non si discosta dal potere. La
topografia è una scienza che si dichiara universale e senza interessi culturali e politici. Ma
essa è anche una pratica al servizio del potere, vuole descrivere le forme visibili di
organizzazione sociale dello spazio (confini, anche proprietà). Essi sono linee normali,
tracciati e limitazioni quasi naturali. Topografia e cartografia hanno rilevato il mondo. Il
“rilevamento” è l’atto di guardare una cosa da una posizione di comando. “Osservare”
contiene “rilevare”. (Di solito a farlo è un maschio bianco europeo e decide cosa rilevare e
cosa escludere). L’occhio è centrale e sovrastante; tutto è nella superficie del supporto,
quadrettata. Ogni topografia vuole essere una riproduzione oggettiva di una porzione di
mondo. Il realismo quindi implica vanificare l’astrazione. Nel disegno non vi è più la
prospettiva autoritaria della Berkeley e di Sauer. L’intenzione di Ley e Duncan è mappare
punti di vista alternativi e interpretarli nella Cultural Geography. Nella geografia umana
anglosassone (XX secolo): 4 modalità di rappresentazione (2 del realismo e 2 no): 1) quella
della geografia umana e culturale, basata sul lavoro sul campo e l’osservazione diretta
1950; 2) quella che si basa sul positivismo scientifico e sull’astrazione; ma il mondo ridotto
a modelli matematici non ha differenze culturali; 3) quella postmoderna che critica la
teoria mimetica e decentra i soliti punti di vista; nega l’illuminismo e il modernismo, alle
grandi narrazioni oppone il frammento; 4) quella che ha alla base l’ermeneutica, cioè l’idea
di interpretazione. Ammette un relativismo della rappresentazione perché ogni studioso è
in contesti materiali, istituzionali, culturali e politici: ogni conoscenza è interpretazione che
dipende da oggetto e da chi lo rappresenta. Ogni rappresentazione ha 3 elementi: 1- il
testo che l’accademia produce; 2- dati per produrlo; 3- elementi di altri testi. La
rappresentazione testuale rimanda a qualcosa che nel mondo esterno non esiste, non è
una trascrizione del mondo esterno. È una ri-presentazione del mondo, con essa ci si
colloca nello spazio e nel sapere. Secondo la Berkeley i paesaggi delle regioni culturali sono
la somma dei lineamenti e forme che li compongono.
Cap 2 – Definizioni militanti: Peter Jackson, James Duncan, Denis Cosgrove
I cambiamenti dell’ultimo quarto di secolo fanno sentire a Jackson l’esigenza di una
rifondazione teorica e filosofica della geografia culturale britannica. La Cultural Geography
della Berkeley School è rimasta uguale dall’anno della sua fondazione, il 1925 con Sauer.
L’energia e l’irruenza del cambiamento la costringono ad uscire dall’isolamento teorico,
dalla lezione di Carl Sauer e dai suoi eredi. PETER JACKSON (e l’inutile ricerca): denuncia
l’assenza di produzione scientifica nella geografia culturale britannica. «i geografi inglesi
hanno un’idea imprecisa delle implicazioni e delle potenzialità di questa disciplina».
L’assenza bibliografica dipende in parte dalla divisione disciplinare dell’Accademia inglese
che separa geografia e antropologia; in America (Berkeley) invece esse condividono
interessi e metodi. Sauer definisce la geografia come articolazione regionale della storia
culturale, e la geografia regionale come studio e descrizione di un’area culturale. La
definizione è possibile grazie all’unione con l’antropologia; Sauer infatti riconosce
un’unione con essa che può portare ad una grande scienza dell’uomo. Il particolarismo
culturale che deriva da questa unione porterà la geografia della Berkeley ad interessarsi
solo di paesaggi delle aree rurali non toccate dall’industrializzazione. Il corso della
geografia culturale americana è dipeso da contiguità disciplinari, dalla personalità
intellettuale di Sauer e da circostanze geografiche: il Nuovo Mondo era un laboratorio per
osservare la cultura dei nativi americani, le aree rurali marginali, la frontiera. Il concetto di
paesaggio culturale di Sauer è la mescolanza di queste particolarità e contiguità. La
differenza non è nei luoghi ma nelle persone e nelle loro abitudini. Da una parte del
confine vi è l’innovazione, il cambiamento; dall’altra vi sono modi di vivere del passato,
conservatori. La prima critica di Jackson riguarda l’Introduzione di Wagner e Mikesell (eredi
di Sauer), i quali dicono che: il geografo culturale non è interessato al lavoro interno della
cultura o alla descrizione del comportamento umano, ma valuta le capacità delle comunità
umane di modificare il loro habitat. Per Jackson ciò trasgredisce i principi di Sauer: il
“lavoro interno” della cultura ha infatti esiti spaziali. Sauer: ogni risorsa naturale è una
valutazione culturale. Ci dovrebbe essere un avvicinamento con la geografia sociale per
studiare gli aspetti spaziali dell’organizzazione sociale e della cultura. JAMES DUNCAN (e il
“ripieno” della cultura): attacca la teoria del superorganicismo (Sauer) perché, ricorrere ad
essa per spiegare le aree culturali è reificare (prendere per concreto ciò che è astratto)
l’idea di cultura. L’esito è la sospensione di ogni interrogazione sull’organizzazione sociale,
sul genere di vita, le abitudini e le credenze; significa assegnarle sostanza ed esistenza
indipendenti. La teoria della cultura come entità superorganica appartiene a Kroeber e
Lowie ed è poi ripresa da Sauer. qui la cultura è un’entità superiore, irriducibile alla somma
delle azioni umane e che ha leggi proprie che agiscono sul comportamento degli individui.
Kroeber con la sua tesi di cultura avvia la “stagione” del determinismo culturale
nell’antropologia: la realtà si compone di livelli, il più basso è inorganico, il più alto è
superorganico, sociale o culturale passando per il mediano psicologico e bio-psicologico. I
livelli sono collegati ma appartengono ad ambiti di studio distinti. Egli si interessa al
rapporto dell’uomo con il livello superorganico; questo è impulso e determina l’azione
degli individui. Secondo Duncan vi è una colpa dei geografi che hanno dato per scontati gli
strumenti concettuali. Li hanno sottratti alle considerazioni sulla loro efficacia. Vi sono poi
quelli che hanno continuato a citare Kroeber, Lowie e Sauer senza sentire la necessità di
difendere la propria posizione dagli attacchi al superorganicismo. Sottolinea quindi
l’isolamento teorico della disciplina, che porta ad un comportamento simile nei confronti
della realtà geografica del mondo. Le relazioni sociali e politiche vengono ignorate se si
assume la cultura come modello causale di spiegazione della realtà. Non vi è quindi
necessità di spiegazioni se la cultura è una forza determinante. La cultura è intesa come
sovrastruttura astratta, è un oggetto “ripieno” di valori e norme comuni. Zelinsky, scrive
Duncan, ha dedicato più attenzione al ruolo dei valori culturali e delle configurazioni
culturali nella formazione dei comportamenti: la cultura è un oggetto trascendentale che
agisce secondo le proprie leggi; non può esistere senza corpi e menti ma essa è anche
sovra individuale, dotata di struttura, è autonoma (Zelinsky). Quest’ultimo distingue tra
causa formale e causa efficiente: gli uomini agiscono come causa efficiente, come «agenti»
della cultura. Secondo Duncan, il nodo è quindi: la reificazione della cultura. La
configurazione che descrive Zelinsky si compone di quattro temi o valori: 1- individualismo
estremo; 2- valore dato alla mobilità e allo spostamento; 3- visione meccanicistica del
mondo; 4- perfezionismo. Si applica il principio di omogeneità per proiettare questa visione
sugli individui. (Ci si deve invece chiedere chi decide cos’è un valore culturale e cosa rende
questo nazionale). Zelinsky afferma così l’uguaglianza del carattere culturale della nazione.
Egli ci rimanda alla definizione di Kroeber di cultura come insieme di elementi
condizionanti: ogni gruppo culturale ha un fondo comune di tratti acquisiti inconsciamente.
Egli quindi usa l’azione abituale appresa da un lato, e l’inconscio dall’altro. “In una cultura
complessa vi sono differenti status e ruoli”, afferma Newcomb citando Sauer. secondo la
“teoria del ruolo” il comportamento è determinato dalla posizione degli individui
all’interno della cultura. Perciò bisogna superare la teoria superorganica; la relazione tra
uomo e ambiente deve diventare più centrale nella geografia sociale. DENIS COSGROVE (e
l’inedito materialismo): la sua definizione di geografia è radicale; il rapporto tra marxismo
e geografia dà ad essa la direzione per diventare cultura e “radicale”, qui la politica entra
nel discorso geografico. 1- la cultura è la produzione simbolica con cui l’uomo si appropria
del mondo; 2- genera stili di vita e paesaggi diversi; 3- in occidente la borghesia la traforma
da stile di vita a concetto, è ideologica. Il sapere geografico è per Cosgrove nella teoria
culturale marxista di Williams. Geografia culturale e marxismo iniziano in un punto
comune e puntano sulla storicità del rapporto tra uomo e natura. Price e Lewis criticano i
geografi (Jackson e Duncan), e Cosgrove in particolare, che vogliono sospendere la
tradizione, definendo la nuova dottrina “affrettata” dicendo che “stanno reinventando la
tradizione che volevano rivitalizzare”. La sintesi tra marxismo e geografia culturale
propone una prospettiva geografica all’interno del materialismo storico. Sauer: geografia è
parte della storia culturale considerando l’uomo che trasforma la superficie. Storia e
geografia condividono basi fisiche e climatiche in cui l’uomo vive e procede con i
cambiamenti operati sull’ambiente. L’uomo è umano quando produce i mezzi di
sussistenza (attività sociale e individuale). I rapporti sociali dipendono da condizioni
materiali che determinano la loro produzione. La natura è ambiente per l’uomo, e l’uomo
è essere sociale. Il punto di svolta è portare l’ideologia e il conflitto di classe dentro la
riflessione geografica. Solo due geografi usano questi concetti: Harvey e Rubin. Qui il
significato del paesaggio emerge da un’analisi con concetti marxisti e, all’interno del
paesaggio, le relazioni di produzione declinano le relazioni tra individui e la loro posizione
nello spazio sociale. Nei paesi capitalisti non vi è una considerazione del marxismo come
metodo di ricerca e riflessione. La comprensione non può prescindere dalla dimensione
ideologica e politica, dal contesto materiale e dalle forme di produzione. La tradizione
umanista dà la possibilità di formulare una teoria della cultura come processo di
simbolizzazione (ci si appropria simbolicamente del mondo e simbolicamente lo si
produce). Il paesaggio è quindi la produzione/appropriazione simbolica e passa dalla
mediazione materiale; esprime l’egemonia della classe che può investire il surplus del
profitto. Le formazioni sociali scrivono quindi la storia dello spazio, e la loro storia è di
forme prodotte nel paesaggio attraverso la successione storica dei diversi modi della
produzione; questi sono costituiti simbolicamente, così luogo e paesaggio hanno significati
umani. La geografia culturale ne omette però il contesto. In una società divisa in classi poi,
lo spazio entra nella dimensione simbolica con la produzione culturale: l’ideologia si
appropria di esso e lo riproduce per legittimare la classe dominante. Lo spazio rinforza
l’accettazione di codici culturali della classe dominante. Cosgrove vuole riunire, nel suo
saggio, critica teoria e prassi. Razzismo, femminismo e subcultura giovanile entrano poi nel
dibattito geografico, come forme di resistenza ad élites dominanti. Lo scarto alla tradizione
non avviene in un vuoto tematico o teorico: il paesaggio si è trasformato in una
costruzione culturale sofisticata. Nella recente produzione disciplinare il paesaggio è una
modalità di comporre, strutturare e assegnare significati al mondo esterno. La ricerca si
concentra sulle qualità simboliche del paesaggio, che producono il suo significato sociale.
Esso è una modalità del vedere, ordinata dai principi della prospettiva lineare fiorentina. La
prospettiva è uno degli elementi che ha fatto funzionare il paesaggio ed era linguaggio
della retorica del potere. I geografi iniziano poi a sviluppare la metafora del paesaggio
come “testo” sociale da leggere e decodificare.
Cap 3 – Le origini geografiche: da Ellen Churchill Semple a Carl Sauer
3 dimensioni della costruzione e della comunicazione di ogni sapere: l’ontologia (ciò che
costituisce la realtà), l’epistemologia (in che modo o ordine si arriva a conoscere questa
realtà) e la scienza (la costruzione di questo sapere). Si aggiunge la dimensione
dell’autorità, chi decide quale sia la realtà per la geografia. La “nuova” geografia culturale
si innesta nella crisi del concetto di rappresentazione geografica. La geografia di Sauer
parte da una linea di confine che racconta una cattiva storia: le forme del paesaggio
dipendono dalla cultura, visto che la linea di confine tra Messico e Stati Uniti non segna
discontinuità morfologica e climatica, ma solo culturale; questo segna la differenza tra i
cittadini. Le radici di Sauer sono nella costruzione e nel mantenimento degli imperi, con
l’ideologia della superiorità della civiltà occidentale. Il contesto non prevedeva l’esistenza
di differenze culturali. Livingstone mette in luce il legame tra la teoria evoluzionistica
neolamarckiana, la nascita della geografia come disciplina universitaria e l’impresa
imperiale degli Stati europei. Secondo lui, la geografia di fine ‘800 unisce natura e cultura;
vi è la necessità di tradurre il sapere geografico in una disciplina universitaria, descrivendo
come cambiano le interazioni tra gli uomini e le forme delle società al variare
dell’ambiente. Il linguaggio della scienza legittima l’azione della politica ed è quello del
determinismo ambientale a declinare le colonie acquisite. La complessità riguarda il
funzionamento della “lotta”. Il comportamento culturale è dato dall’ambiente. Esso crea
abitudini culturali che si trasmettono (in linea con i principi del neolamarckismo),
diffondendo così una data cultura. Parlando di determinismo ambientale, in geografia, si fa
riferimento a Ratzel; lo Stato è paragonato da lui ad un organismo che dipende
dall’espansione territoriale. La spinta coloniale delle potenze europee è quindi una
dimostrazione dell’impulso ad espandersi, aspirazione legittima di ogni Stato. Vi è una
scala di valore per stabilire chi ha diritto di espandersi: c’è corrispondenza tra grado di
civiltà, organizzazione politica, grandezza dello spazio vitale. Il determinismo ambientale è
quindi una teoria per legittimare le espansioni dei gruppi d’interesse. Esso offre una
spiegazione alla lotta imperiale per il dominio del mondo. Ma ciò che era valido a fine ‘800
non lo è più nel nuovo secolo. La Semple vuole rendere scientifica la geografia. Nel
rapporto geografico tra uomo e ambiente non c’è spazio per l’iniziativa umana: l’uomo è
solo un prodotto della superficie terrestre, la supremazia di alcuni popoli su altri dipende
solo dalla volontà della Natura. Negli anni venti del ‘900 il mondo è stato scoperto, perciò
non si punta più sulla conquista ma sulla riconfigurazione delle relazioni di potere nelle
terre già acquisite; adesso bisogna gestire l’esistente. I principi della Semple crollano. Dalla
mappatura dello spazio ci si muove verso la descrizione dello spazio relativo e particolare
delle regioni. SAUER: egli riconosce nel particolarismo culturale (teorizzato da Boas) il
principio per la ridefinizione del pensiero geografico e per la traduzione del paesaggio
naturale nel paesaggio culturale. Boas arriva all’antropologia con lo studio della geografia
fisica e umana, formulando il concetto di «area culturale». L’operazione intellettuale era
tenere insieme antropologia sociale e geografia; sostituire l’ambiente con la cultura,
mantenendo però il meccanismo del determinismo. Per Kroeber l’antropologia era una
storia naturale della cultura. Egli descrive e classifica i modelli culturali, secondo il suo
parere la cultura: si compone di modelli, di comportamenti acquisiti e trasmessi, il nocciolo
della cultura è nelle idee di tradizione e nei valori che le si attribuiscono; il sistema culturale
è l’esito dell’agire, ciò che condiziona le azioni. La cultura è una questione collettiva, non
individuale. Ma Kroeber usa il concetto di «area culturale» solo se le aree culturali
coincidono con quelle geografiche. Sauer crede ina geografia che si fa camminando e
lavorando “sul campo”. Egli è attento agli aspetti puramente materiali della cultura.
Bisogna guardare agli aspetti materiali del paesaggio culturale dal momento che esprime il
rapporto tra cultura e natura, e rappresentano i segni delle variazioni culturali dentro lo
spazio. Il lavoro sul campo, l’osservazione e lo scambio tra docenti e studenti è
l’educazione cui Sauer aspira. Dalla prassi ci si rivolge alla teoria; la geografia della Berkeley
School mantiene alcuni punti fermi: la natura storica della geografia, il relativismo
culturale, l’interesse per i modi con cui le culture trasformano il mondo naturale. La cultura
è la forza decisiva per la trasformazione della superficie terrestre. La disciplina si origina e
stabilisce dentro la Morfologia del paesaggio: qui il paesaggio è un’unità geografica
caratterizzata da un’associazione di fatti. Diventa qui sinonimo di “area geografica”. Il
paesaggio è il campo di studio della geografia, è una «sezione di realtà spontaneamente
data». Gli oggetti di un’area o paesaggio sono, secondo Sauer, in relazione tra loro ed è
questa relazione che trasforma il paesaggio in un’unità organica limitata spazialmente. Il
carattere individuale della terra dipende all’unione di essa con la vita. Paesaggio
comprende 3 dimensioni del significato: è assieme un processo, un’associazione di fatti e
un concetto geografico unitario. Bisogna oltrepassare la descrizione dell’esistente, degli
“oggetti”, Sauer promuove un pensiero critico che studia i legami tra questi “oggetti”
presupponendo che la creazione del paesaggio sia frutto di un’associazione di fatti fisici e
culturali. «Il paesaggio geografico è una generalizzazione che si compone dell’osservazione
di singole scene». La scelta dei contenuti di un paesaggio non si definisce a priori, è la
scelta di ciò che è caratteristico, ossia gli elementi che si ripetono con frequenza, che si
organizzano secondo un modello e hanno precise qualità strutturali. Il geografo deve
vedere l’omogeneità. La selezione non avviene secondo criteri filosofici, ma si giustifica
mediante sé stessa. Il paesaggio è un’unità bilaterale: il primo lato è quello dei fatti fisici,
le risorse che l’uomo ha a disposizione in un sito; il secondo lato è quello culturale,
“impressione” concreta del lavoro dell’uomo. La raccolta dei fenomeni e lo studio dei dati,
sono quindi il metodo morfologico della sintesi. La morfologia si fonda su 3 postulati: 1- vi è
un’unità organica, una struttura che ha bisogno di elementi detti “forme”; 2- le forme sono
simili in diverse strutture per l’equivalenza funzionale; 3- le unità funzionali possono essere
collocate in serie. Il primo atto è quindi la repressione di ogni teoria a priori; vi è poi la
sintesi morfologica tra l’unione delle forme in strutture e la comparazione delle strutture.
La morfologia deriva i suoi principi da Goethe: vi sono, per lui, «cose accessibili e
inaccessibili alla conoscenza». L’esito è un sapere descrittivo che si riferisce solo alla
struttura spaziale dei fenomeni. Il geografo deve prima ricostruire l’originario paesaggio
naturale; è la “rappresentazione della morfologia del paesaggio naturale” che si ottiene
conoscendo tutte le sue forme e le collocazioni di esse stabilite dai fattori climatici e
geognostici. L’unica incognita è il fattore pragmatico. Il soggetto è il paesaggio naturale, in
continuo mutamento per mano dell’uomo, ultimo agente di cambiamento. L’area, prima
dell’azione umana, è data da fatti morfologici, è un paesaggio naturale; le azioni dell’uomo
in esso sono il paesaggio culturale. L’uomo ha posto in natura come agente di
modificazione. Il paesaggio naturale si conosce attraverso la totalità delle sue forme,
considerate in relazione tra loro; dietro esse vi sono il tempo e le cause: climatiche e
geognostiche e il fattore x, ossia il pragmatico. Questi fattori conducono al paesaggio
naturale che porta a quello culturale. Esso è l’area geografica nel suo significato finale, le
sue forme sono il lavoro degli uomini; la morfologia si occupa delle “impronte”, segno degli
impulsi sul terreno. Il paesaggio culturale viene da quello naturale per opera di un gruppo
culturale, la cultura è quindi l’agente, il “medium”. Sauer fa riferimento qui alle teorie di
Boas, garantendo il positivismo. Questo comporta stabilire una disciplina “recintata”. Sotto
l’influenza di una cultura che cambia nel tempo, il paesaggio cambia. Ma la forza che
modella la morfologia naturale rimane nella cultura stessa. I principi della disciplina della
Berkeley sono quindi, in conclusione il positivismo e il determinismo anche se questo si
scosta dall’ambientalismo. Attribuire alla cultura i cambiamenti del paesaggio distoglie
però l’attenzione dalla dimensione sociale. Vi è inoltre un pregiudizio morale: l’azione
dell’uomo sull’ambiente è uno sfruttamento distruttivo. Alla morfologia interessa l’origine
di un tratto culturale, non stabilire le dinamiche del cambiamento sociale che l’hanno
generato. Sauer rifiuta «per scelta e per caso» di occuparsi delle aree in rapida
trasformazione, preferendo zone arretrate.
Cap 4 – Le origini culturali e politiche
Il nuovo punto di vista (nella produzione del Centre for Contemporary Cultural Studies di
Birmingham - CCCS): ogni forma di conoscenza teorica è una forma di pratica politica. Per
dare senso alla geografia della Berkeley, Jackson, Duncan e Cosgrove partono dal concetto
di “tattica” di Certeau: è un’azione calcolata che porta l’assenza di un luogo proprio. Una
prima considerazione è nelle mappe di significato di Jackson: le culture sono mappe per
comprendere il mondo. Inoltre, alla CCCS, si occupano del soggetto dentro lo spazio: senso
e forma del fenomeno dipendono dal luogo di osservazione. Per i Cultural Studies, scrive
Grossberg, è la registrazione di pratiche discorsive e alleanze in uno spazio specifico o
milieu. Cometa individua tra le forme degli studi culturali l’Atlante e tra i principi quello
della cartografia. Ma i Cultural Studies raccontano discorsi trasgressivi. Essi sono l’esito
dell’Europa che entra nella posthistoire, in cui vi è un nuovo movimento dopo la Seconda
Guerra Mondiale: la reciprocità dell’azione e dello spostamento. Questa nuova storia
moralizzata è possibile conclusa la conquista e il saccheggio del mondo per mano
dell’Europa. Solo chi ha conquistato e sottomesso il mondo può parlare di Studi Culturali:
essi nascono appunto in Gran Bretagna. Williams, Hoggart e Thompson: come legame tra i
cambiamenti sociali in Gran Bretagna e la nascita dei Cultural Studies vi è la riforma del
sistema educativo. Dopo la guerra il governo: nazionalizza le industrie di base e dei servizi e
democratizza parzialmente il sistema educativo. Vi sono due questioni: riconoscere la
natura eterogenea e multiculturale dell’impero, e la fine della coscienza morale inglese
basata su un rigido sistema di classi, con un elitarismo culturale gerarchico. Quello che si
sta negoziando è l’identità britannica. Williams: non è la coscienza degli uomini che
determina il loro essere, ma è il loro essere sociale a determinare la loro coscienza. Vi è
distanza tra i contenuti culturali dell’insegnamento universitario e la sua esperienza di vita.
Egli rifiuta l’idea di “cultura alta”; la «cultura è ordinaria», con la rappresentazione
culturale dell’identità di una nazione si riproduce il potere di alcune classi su altre. La
“cultura” è un sistema di vita materiale, intellettuale e spirituale. Essa è un modo di vivere
che si esprime con le istituzioni e i comportamenti individuali; è la dimensione nella quale
politica, economia e società si incontrano e scontrano. Ciò che va analizzato è la formula
della cultura, non l’oggetto. Williams stabilisce un’analogia tra analisi della cultura e analisi
della società, rompendo con la tradizione. Egli considera poi il paesaggio. Williams, a
differenza di Sauer, parte dall’eterogeneità: in un’area geografica minore le differenze
sono molte come quella di classe, che struttura spazialmente le forme e gli insediamenti. Il
potere di questa differenza è ribadito in politica dai riferimenti al sindacato e al partito
laburista. La cultura qui è un elemento attivo che si genera nel quotidiano. Williams vuole
conoscere le cause dei cambiamenti culturali. Vi è l’economia come fattore, il tempo e la
storia; Sauer parla dei cambiamenti lentissimi, Williams parla di risposte individuali ai
problemi della classe sociale, che si sommano fino ad arrivare ad una rivoluzione che ha
come esito il moderno stile di vita delle masse. La cultura sta tra le forme di produzione e
le condizioni dell’esistenza sociale. La vita sociale materiale e la coscienza avvengono in
contemporanea. I suoi paesaggi sono dinamici ed eterogenei. Hoggart: la cultura popolare
non va ignorata o esclusa da studi letterari, questi sono mezzi per la comprensione e di
testi e pratiche culturali della working class. Si scosta dalla tradizione considerando come
testi culturali anche ciò che esula dalla scrittura. Alla cultura “alta” si affianca quella
“popolare” e “di massa”. L’esperienza personale diviene un procedimento metodologico
determinante, il punto di partenza di ogni analisi. Egli sottopone a valutazione la
produzione culturale di una classe fino ad ora esclusa. Ciò rende evidente la natura politica
della sua pratica teorica; la politica è legata alla cultura, sono le politiche culturali a
determinare lo stile di vita. Thompson: marxista. Il conflitto tra le varie forme culturali è
determinante. Perciò si interessa ai margini dello spazio sociale, alle forme culturali
sottomesse. Egli insegna storia sociale con i documenti di storia locale, in modo da
trasmettere la coscienza di classe e identità. La cultura di massa ha determinato
l’eliminazione delle forme culturali di resistenza e autonomia della working class. La
cultura, l’esperienza soggettiva, la resistenza sono ciò che forma la coscienza di classe dei
lavoratori, e la cultura è la dimensione dello scontro tra differenti stili di vita. Il conflitto
avviene spesso tra cultura dominante e popolare. Cometa: «l’ispirazione marxista dei
Cultural Studies è il primo processo di emancipazione dal determinismo e dallo scientismo
del marxismo senza rinunciare alla caratterizzazione di classe delle analisi». Hall: segnato
dalla dislocazione spaziale e culturale. Si inizia a riflettere sulla cultura popolare britannica:
mode giovanili, sub-cultura… si legittima una dimensione della cultura prima estromessa.
Nascendo in questo contesto, i Cultural Studies sono intesi come linea teorica che
accompagna il disegno politico della sinistra di una “New Left”. Hall spiega che i temi del
marxismo sono essenziali, ma lavorare su essi significa smontare il modello di
struttura/sovrastruttura con il quale il marxismo voleva spiegare il rapporto tra società,
economia e cultura. Si mette in discussione del marxismo l’eurocentrismo. Hall traduce in
Gran Bretagna la teoria sociale europea più rilevante. Strutturalismo e poststrutturalismo
obbligano a ripensare al soggetto, al funzionamento dell’ideologia, alla logica dei sistemi
culturali, al rapporto tra conoscenza e potere. Sono le rotture che hanno valore, e ve ne
sono almeno due nella storia dei Cultural Studies: 1- il femminismo. Ha comportato la
ridefinizione della riflessione teorica e dei temi. Esso rende implicita la gerarchia
maschilista che governa i discorsi tra studiosi e la resistenza ai loro discorsi. Il punto di vista
femminista sottolinea la natura politica di ogni dimensione personale, dimostrando che la
politica culturale è irriducibile alla sola sfera pubblica. 2- la razza. La riflessione sulle
politiche culturali razziste entra negli Studi Culturali. Queste rotture incontrano la
semiotica e il poststrutturalismo. Si racconta l’autorità di un discorso o di una
rappresentazione, l’eterogeneità dei significati rispetto all’unicità dell’intenzione
dell’autore. Si mette a fuoco il potere che si colloca nella linea del rapporto tra significato e
significante. La questione chiave per Hall è quella della «mondanità» che stabilisce
l’orientamento del progetto politico e intellettuale del Centro. “i testi sono nel mondo, di
conseguenza sono mondani”. Bisogna farsi carico della propria posizione e del contesto in
cui un’opera è prodotta. Said: La critica è una categoria del pensiero che si pone nei
confronti del mondo come politica. Come si costruisce la struttura del sentimento che
consente un dominio politico? Gramsci: analisi sull’egemonia e sulla funzione
dell’intellettuale in società. Lo stato moderno borghese mantiene la stabilità e l’equilibrio
dei rapporti politici ed economici con il consenso dei cittadini. Il consenso si “fabbrica”, e
ciò dipende dagli intellettuali. Essi «organizzano l’egemonia di un gruppo», mantengono il
consenso. L’egemonia culturale sono termini che rendono accettabile il governo di un
gruppo dominante, ma nessuna egemonia soddisfa significati e valori di un’intera società,
vi è la contro egemonia; l’egemonia è perciò una relazione dinamica. Secondo Hall, se è
arbitrario decidere di chiudere e determinare l’ambito della cultura, si può stabilire una
posizione politica che segna il limite. La differenza disciplinare dipende dalla posizione
politica e teorica che si vuole mantenere. E la geografia? Le mappe di Jackson si sono
ampliate e riempite. I tradizionali concetti della geografia – luogo, spazio e paesaggio –
sono analizzati nel significato e nella funzione. Vi è una rifondazione disciplinare. Il
paesaggio: A. è una formazione culturalmente determinata e iscritta nel processo di
sviluppo capitalistico dell’Europa (Cosgrove). B. leggere il paesaggio. Se un’area culturale è
un testo, quali sono i segni che producono il suo significato, quale soggetto scrive, controlla
e mantiene questo significato. La dimensione simbolica del paesaggio è il nuovo campo
d’indagine (Lewis, Daniels, Cosgrove, Duncan). C. il paesaggio diventa quello delle città e ci
si concentra su culture urbane. D. linee femministe (Gillian Rose). Il luogo: è ora una
posizione critica. A. a differenza dello spazio è identitario, relazionale e storico. Vi sono
comuni riferimenti. B. riflette le relazioni di potere e di dominio che regolano lo spazio. C. il
luogo è anche politico. Lo spazio: la svolta culturale è anche spaziale. Lefebvre stabilisce il
legame tra la natura astratta dello spazio e i rapporti di produzione. Lo spazio astratto e
neutro è tradotto in economico. La cultura è spaziale; si costituisce attraverso lo spazio e
come spazio. A. lo spazio diventa quello del sé e dell’altro, dell’interno e dell’esterno, della
resistenza, del potere. B. lo spazio contribuisce alla definizione della razza, del genere; è il
“medium” dell’esclusione e dei margini. C. esso è la matrice del paesaggio.
Cap 5 – Le ragioni dello spazio
Lo spazio diventa centrale. È il supporto metaforico che porta alla definizione di un nuovo
progetto di pensiero, insubordinato al dominio della storia. Lo spazio assume significati
differenti in differenti contesti, e nella teoria sociale critica è una dimensione implicata nei
processi culturali. Esso è un medium attivo nel tracciare limiti e definire identità. La
prospettiva kantiana dello spazio, in cui esso è un medium geometrico estraneo alla
produzione di politiche culturali, è abbandonata. Said: legame tra immaginazione
geografica, letteratura e consenso. L’intenzione è presentare i tre modi di pensare lo spazio
nella produzione geografica. I geografi culturali usano gli strumenti che hanno costruito le
mappe da riscrivere. La pratica cartesiana dell’esclusione, in Kant, si eleva a teoria
conoscitiva universale perché stabilisce il limite di ciò che vale la pena conoscere. «è la
terra della verità e l’oceano dell’illusione, che inganna con false speranze». Nella
rappresentazione cartografica lo spazio agisce sul piano giuridico, nell’appropriazione delle
terre scoperte, e su quello ideologico che mappa corpi e culture. Sono le coordinate
cartografiche a dare valore economico alle posizioni. La geografia è stata militante. La
geografia culturale prende dal poststrutturalismo francese: a Focault si deve la produzione
delle forme moderne di conoscenza, il concetto di «pratica discorsiva» che iscrive le
relazioni sociali con il potere si corpi e attraverso lo spazio. La struttura del funzionamento
dello spazio è lo strumento per il controllo dei corpi. Derrida insegna lo smascheramento,
insistendo sulla funzione della traccia nella scrittura. La differenza tra ciò che appare e
l’apparire è la condizione della traccia, che ha funzione significante. Il pensiero va
svincolato dalle categorie per sperimentare “l’al di qua dei limiti”. Per Lancan lo
smascheramento ha funzione di algoritmo; funzione della logica simbolica, che ordina la
scrittura cartografica. Egli ricorre a questa funzione per smontare il concetto di segno e la
natura della “barra”, linea su cui si è fondata la l’epistemologia della modernità. Il
significato con lui è sostituito dalla simbolizzazione di una legge. Il significante è sempre
indipendente e preesistente al significato. Lefebvre riflette sull’opposizione tra la
trasparenza dello spazio (idealismo) e la sua opacità (materialismo). Jameson individua la
sospensione del confine tra cultura di massa e cultura d’élite, espressione della logica del
capitalismo. Uno degli esiti è la pubblicità, uno più recente è la videocracy. Bisogna
interrogare la struttura e l’ordine della rappresentazione intesa ora come mediazione
sociale che si realizza con processi di significazione; il modello minimale è quello della
relazione tra significante, significato e referente (il mondo). Ogni teoria è politica. 3 discorsi
diversi. GREGORY e l’immaginazione geografica: prima regione. Uno schema di pensiero si
innesta nella visione. Esso opera sugli esseri un ordinamento, una divisione in classi.
Quando la geografia si trasforma in una moderna scienza europea? La risposta di Stoddart
viene dall’incontro con il mondo e dall’assunzione della verità. Vi è in contemporanea il
primo viaggio di Cook nel Pacifico meridionale il cui scopo era l’osservazione del transito di
Venere, ma il mandato segreto era esplorare e cartografare il Pacifico per scoprire la terra
australis incognita. Il lavoro di questi scienziati trasforma la geografia, secondo Stoddart, in
una scienza europea. Banks (incluso nella spedizione) non si limita a piante e animali ma
anche agli uomini. La geografia diventa scienza se incontra la storia naturale. Gregory inizia
una critica a ciò che Stoddart chiama “scienza europea”. La storia naturale trova il suo
luogo nella distanza tra le parole e le cose. Il punto sta nell’avvicinamento tra lo sguardo e
la parola, nell’accento posto da Focault sullo sguardo nella costruzione del sapere
moderno. Si avvicina il linguaggio allo sguardo e le cose alle parole. La storia naturale
procede spazializzandosi. Come va inteso ora il legame tra verità, geografia e storia
naturale di Stoddart? Lo sguardo che traduce e rende chiari gli oggetti della natura è quello
europeo, che si oppone ad una visione diretta. Le annotazioni di Cook sono geo-grafiche
descrivono cioè le terre, e spazializzano l’esperienza del viaggio. Quelle di Banks hanno
invece a che fare con l’astrazione, “addomesticano” le differenze. Non esiste l’idea di
unicità e particolarità. Questa origine naturale della geografia contribuisce alla costituzione
delle scienze umane e dell’uomo come oggetto di studio. Questo, secondo Focault, segna
lo scarto tra l’epoca della rappresentazione e quella dei suoi limiti. Con Banks ora si
definisce l’Europeo in base ai tratti del non-Europeo, così le definizioni sono traduzione di
un linguaggio dal particolare all’universale. La geografia di cui parla Stoddart è
eurocentrica. Gregory porta allo scoperto la dimensione del potere e i discorsi
sull’orientalismo. L’abisso lineare di OLSSON: seconda regione. È la linea che permette la
presa di possesso del mondo. I suoi interrogativi rimandano alle narrazioni di origine e agli
archetipi della nostra cultura. Egli traduce il pensiero cartografico in un oggetto d’arte.
Ordini di missione: rivelare ciò che è famigliare in ciò che non si conosce; trovare i principi
dell’immaginazione e i ruoli della trasformazione ontologica; disegnare una mappa del
Territorio dell’Umano; produrre un atlante di ciò che significa essere umani; critica della
ragione cartografica. Lo scopo è trovare la propria strada e lo si fa con una mappa, un
compasso, un’immagine e una storia. Ci si interroga sulle ragioni della prevedibilità e
dell’obbedienza. Cosa definisce la nostra posizione e direzione nello spazio sociale del
“dato per scontato”? Perciò la posizione coincide con il limite, che sta tra il pensiero e
l’azione, tra il significato e il significante. Olsson ricorre all’immaginazione di Kant per
esplorare i limiti. Ogni carta, secondo Olsson, stabilisce una relazione tra gli elementi
rappresentati e tra essi e le cose al di fuori della carta. Ma l’atto di stabilire una relazione è
prodotto da noi, dalla nostra proiezione. Il problema è il limite, la linea che separa e unisce,
in essa le cose cambiano il loro statuto. Questa linea è astratta in Olsson e la geografia
culturale la cerca nella ricerca pratica, nelle narrazioni dei paesaggi, dei luoghi e dei
soggetti. La conoscenza geografica è la traduzione del mondo in immagine attraverso il
“come se”. Gli oggetti si conformano ai nostri modi di rappresentazione, i modi sono il dato
per scontato (esito della socializzazione che si basa sulla legge che io e noi sono legati dalla
tesi che la mia coscienza e la tua sono uguali). La mappa è un’immagine logica e piena di
potere, indicativa e imperativa. Essa è presenza dell’assenza, ed è proiezione del sé, cioè
della propria cultura. Se l’immaginazione (secondo Kant) ci permette di rappresentare un
oggetto assente, allora ogni carta è immaginazione. SOJA: terza regione. Ci si interroga su
concetti familiari come spazio, paesaggio e luogo; la costruzione dello spazio delle nostre
vite tramite azioni e discorsi porta ad essere consapevoli delle conseguenze politiche e
sociali. Bisogna mantenere l’immaginazione geografica aperta alla ridefinizione dello
spazio. Soja, con il «Terzo Spazio», fa leva sul dato per scontato dello spazio, la dimensione
che la «trialettica della spazialità» rende visibile. Lefebvre vuole dimostrare che lo spazio
non è un medium neutro, ma è l’uso politico della conoscenza. Esso ha un ruolo attivo nel
mantenere i modi di produzione. Con l’espressione “trialettica della spazialità” egli
promuove un pensiero sullo spazio che tiene assieme le tre dimensioni della spazialità
umana (fisica, mentale e sociale). È una teoria “unitaria” dello spazio sociale. Lefebvre
individua 3 aspetti dello spazio sociale: lo spazio percepito, lo spazio concepito e lo spazio
vissuto. Soja si concentra nella spiegazione di essi: lo spazio percepito («primo spazio»)
garantisce la produzione e riproduzione delle forme materiali nello spazio. È il medium
dell’attività sociale ed il suo prodotto è esperienza e comportamento. È percepito, cioè
portato per la descrizione e misurazione. Lo spazio concepito («secondo spazio») è legato
alle relazioni di produzione e all’«ordine» che esse impongono. È uno spazio
concettualizzato che si costituisce controllando la conoscenza, i segni e i codici. Esso
produce un discorso disciplinante. Qui si mette in scena l’ideologia e il potere. Questo
spazio incorpora simbolismi legati alla vita sociale clandestina e sotterranea. È uno spazio
vissuto da chi lo abita e cerca attivamente di trasformarlo. Lo spazio vissuto («terzo
spazio») è il terreno per l’apertura di “controspazi” marginali; esso tiene assieme storicità,
spazialità e socialità. Vi è poi un pensiero sulla critica femminista, postcoloniale e per i
subalterni. Bisogna portare il pensiero verso l’apertura del “limite”. C’è la necessità di
dubitare e ricordare. Il dubbio permette di formulare un pensiero capace di cogliere i
meccanismi dello spazio postmoderno, la memoria rimanda alle eterotropie, il luogo che
permette di resistere alle critiche della teoria postmoderna. Soja: esistono luoghi
postmoderni che fanno da contro-luoghi, cioè che sono in relazione con tutti gli altri, ma
neutralizzano ogni relazione; questo appartiene sia a luoghi ideali (utopie) che a luoghi
reali (eterotropie); queste si colgono con uno sguardo soggettivo, che avvia una riflessione
dello spazio sociale. Il dispositivo: appartiene ad ogni gruppo umano anche se in forme
diverse, cambia in funzione del tempo e della cultura, è legata a porzioni di tempo. La
molteplicità di apparenze è la forma contemporanea dello spazio sociale. L’eterotropia
sospende le distanze e stabilisce legami tra le cose.
Cap 6 – Paesaggi di superficie
Qual è la funzione come pratica e politica culturale del paesaggio come “verbo attivo”?
Nuova tesi: esso è un medium di scambio tra la dimensione umana e quella naturale (privo
di valore in sé, ma riserva di un valore potenziale illimitato), nasconde il suo valore
rendendo convenzionale la sua natura, il paesaggio è una scena naturale mediata dalla
cultura, esso è in ogni cultura. Per i nuovi geografi culturali il paesaggio è una formazione
ideologica e un processo politico ed economico di appropriazione dello spazio. Vi è la
selezione di elementi che rappresentano il mondo in esso. Il paesaggio costruisce l’identità
culturale di un gruppo sociale, con il riconoscimento di valori comuni e costruzioni
culturali. È immaginazione sociale strutturata in luoghi comuni, cioè per tutti. Esso è anche
rapporto dinamico tra dimensione del tempo e dello spazio. I monumenti pubblici
costruiscono il significato collettivo di un luogo (Tour Eiffel – corpo nazionale simbolico). Il
paesaggio della nazione è il “dove” in cui si articola, essendo simbolo dello spazio nazionale
e del tempo nazionale. Alcuni lo vedono come modalità che legittima il capitalismo e il
potere della borghesia. Si passa poi al paesaggio delle colonie, alle categorie di persone,
classi sociali. Arrivando al presente coloniale. In tutti vi è esclusione e ineguaglianza
sociale, data dalla geometria del potere che detta la posizione di ognuno. La geografia del
SACRO CUORE: il paesaggio di Harvey è esemplare: spiega la geografia del potere, assume
lo spazio come pre-giudizio dello svolgimento dei fatti e assume una posizione di inizio.
Ogni paesaggio, secondo lui, per poter funzionare deve cancellare e nascondere le
relazioni sociali che l’hanno prodotto. Strategicamente la Basilica del Sacro Cuore domina
la città dalla collina, essa è visibile da ogni quartiere, ma non può essere vista dal Muro dei
Federati dove furono fucilati i soldati della Comune. Il sito di pellegrinaggio di operai e
socialisti è nascosto a quello della fede cattolica. L’invisibilità è certificata dallo spazio. La
Basilica proietta sulla città il ricordo di qualcosa di eterno, ma cosa? Il culto del Sacro Cuore
nasce nel 1689. Esso ha legame con la monarchia reazionaria e si oppone ai principi della
Rivoluzione Francese. La sconfitta di Sedan nel 1870 con Napoleone III porta alla caduta
dell’Impero. Per contrastare l’assedio di Parigi si proclama che: se Dio salva la città, verrà
costruito un santuario in onore del Sacro Cuore. Pio IX annuncia che il santuario avrà
valore nazionale perché dev’essere nazionale l’ammenda per i crimini nazionali. Essa
sarebbe in grado di riunificare concretamente e simbolicamente. La distruzione materiale
della capitale diventa poi simbolo di distruzione del vecchio ordine, dei principi morali e
della malvagità della Comune. La borghesia parigina nutre ora timore nei confronti
dell’organizzazione e presa di coscienza della classe operaia; essa forza i limiti della
segregazione aderendo alla Prima Internazionale e rompe l’assedio respingendo i Prussiani.
La borghesia ha due nemici: i Prussiani (fronte esterno), e i “rossi” (fronte interno). I
parigini accettarono nel 1871 l’armistizio e si arrivò alle elezioni per l’Assemblea
Costituente. Thiers è il primo presidente della Terza Repubblica. La finanza nazionale, per
dare il prestito che avrebbe coperto le spese dell’indennità di guerra, vuole la sconfitta
della “plebaglia”. I cittadini vengono disarmati e con il generale Lecomte, i soldati
sorvegliano i cannoni. Il generale ordina di fare fuoco, ma i soldati si uniscono alla protesta
e fanno prigionieri i generali Lecomte e Thomas, fucilati poco dopo. La cenere diviene il
simbolo dei peccati della Comune verso la Chiesa. La costruzione della Basilica è un insieme
di relazioni, contestazioni e battaglie. Le linee sono quelle invisibili delle politiche culturali.
Secondo Harvey, inoltre, un paesaggio per essere tale deve trasformarsi in una
rappresentazione di superficie. Lo spazio è politico. La sua lezione conduce all’analisi della
geografia femminista. Questa vede come nei paesaggi culturali l’ideologia lavora nel “dato
per scontato” della posizione della donna nello spazio pubblico maschile. Vi è una strategia
di scivolamento: le donne rappresentano valori e idee altrui. L’immobilità di Mrs.
ANDREWS: secondo Gillian Rose, la geografia umana è “dimezzata”, non contiene
concettualizzazioni del concetto di genere/gender. La geografia femminista si occupa
dell’esclusione, evidente nel linguaggio che si legittima e si definisce universale e neutrale.
Si ricorre al concetto di “donna” come luogo per costruire i significati. La “Natura” è
femminile, e lo spazio naturale è una dimensione da domare; i paesaggi primitivi erano
femminili, andavano sottomessi. La conoscenza si basava sull’opposizione di uomo e
donna: il primo, più forte, si oppone e domina l’altra. La Rose inizia da Cosgrove; si
stabilisce che l’idea di paesaggio non è un oggetto empirico, ma una forma di
rappresentazione, immagine culturale. Il concetto di paesaggio nasce con la prospettiva di
L.B Alberti, nel “Della pittura” vi è una modalità di vedere borghese, che vuole
l’appropriazione della Terra e la sua trasformazione in spazio territoriale. Il punto di vista
della prospettiva lineare è quello del controllo sulla produzione dell’immagine. Cosgrove
rintraccia l’analogia tra vedere e possedere in una dimensione retorica che vuole
l’eliminazione dei contadini e lavoratori nelle rappresentazioni del paesaggio. Esso è
naturalmente dato. Gainsborough. Il quadro è bilanciato da due figure, i proprietari di
tutto ciò che è rappresentato; questo legittima l’atteggiamento di controllo dei due. Viene
celebrato il privilegio dei soggetti: essi possono muoversi liberamente nella loro proprietà.
Non è presente nessuna figura che lavora nei campi e nemmeno che ricorda la produzione:
simbolo delle relazioni sociali stabilite dal capitalismo. Dietro al “dato per scontato” di
essere una coppia, i proprietari hanno differenze di posizioni, e una diversa relazione con il
paesaggio che li circonda. Lui è in piedi con il fucile, pronto a riprendere la caccia; lei è
seduta impassibile nella panchina, quasi a duplicare la forma dell’albero. Lui dà
l’impressione di poter uscire dal campo visivo in qualsiasi momento, lei no è immobile: la
potenzialità del movimento contrasta con l’immobilità. Il ruolo della donna è quello della
riproduzione, e si comprende con il riferimento simbolico ai campi e alle piante. La pittura
di paesaggio rappresenta quindi sia le relazioni tra classi sociali che quelle di genere. La
distinzione è tra chi può osservare e muoversi attivamente nello spazio e chi può solo
immaginare il controllo. Ciò che lega la donna alla panchina è uno sguardo maschile che
vuole il dominio. «Danzando sulle piramidi» il paesaggio imperiale: i temi dipendono dalle
geografie morali che coprono lo spazio politico del mondo. Duncan cerca di fare una
genealogia dei processi culturali, politici ed economici che portano alla costruzione
dell’identità europea attraverso l’opposizione all’identità dell’Altro. Vi è dualismo in ogni
rappresentazione di luoghi e regioni. L’ultima ha due siti: geografico (ciò che si
rappresenta) e ideologico (il punto di vista geografico, culturale, politico e teorico). La
definizione dello sguardo fisso europeo porta all’appropriazione visiva e coloniale del
mondo. Duncan: scrivere la storia e rappresentare la differenza fra storia e cultura sono
processi politici; solo esplorando rappresentazioni che riteniamo false possiamo iniziare ad
interrogarci su quelle che riteniamo vere. Bisogna capire le coordinate che vincolano lo
sguardo contemporaneo e la responsabilità della pratica politica che ha scritto la storia e la
geografia della modernità. La responsabilità è di un paesaggio che ha colonizzato
l’immaginazione globale: quello dell’11 settembre 2001. Bisogna fare i conti con le culture
della violenza politica. Il punto d’inizio è il concetto di geografia immaginaria cioè la
costruzione sull’oriente che permette di tradurre le immaginazioni sulla diversità in alcune
operazioni spaziali che danno questa diversità. Nel moderno le identità si costruiscono
tramite opposizioni ed i confini geografici seguono le linee culturali e sociali. Più si è
distanti e più si è diversi, ma nessuna distanza è assoluta. Ciò che era lontano può
diventare familiare. La geografia immaginaria è “qualcosa in più”; per Gregory essa
produce gli effetti che nomina e lo spazio è un effetto delle pratiche di rappresentazione.
Lo spazio concreto diventa “teatro” che mette in scena la linea di divisione tra finzione e
realtà, presente e futuro. Le architetture e le geografie attivano significati e possibilità per
definire l’Altro come minaccia o antagonista. Questo da privilegio al potere. Il paesaggio di
New York esercita il privilegio di osservare/dominare il mondo. L’orrore dell’attentato ha
perciò azzerato le distanze, rinforzando la violenza delle geografie immaginarie di ogni
paese. Le conseguenze hanno creato paesaggi d’eccezione e buchi neri nello spazio morale.
Cap 7 – Corpi e luoghi
Vi sono due discorsi che comprendono i concetti di corpo e luogo nella geografia culturale:
il primo parte dalla globalizzazione, e guarda lo spazio del capitale; l’altro dagli studi
postcoloniali e dall’osservazione di spazi postcoloniali, e rimanda alla teoria critica che
nasce dal movimento anticoloniale. Entrambi condividono però lo smantellamento delle
forme naturali di relazioni tra individui: spazio sociale e politica culturale. la globalizzazione
è un progetto politico; simile ad essa, risale al 1492 l’internazionalizzazione del commercio,
che ha portato collegamenti spaziali e riorganizzazioni geografiche. Globalizzazione va
inteso come ristrutturazione della produzione capitalistica dello spazio. Questo porta però
tensioni, andando a modificare la vita degli individui. La nuova immaginazione è «icona di
un nuovo genere di conoscenza»; la connessione tra i luoghi è di natura economica. L’uomo
viene riscoperto come strumento analitico. L’uomo è l’unico ente irriducibile e stabile.
L’uomo, il suo corpo, è misura di ogni cosa. Esso è centrale, nel capitalismo, nella
produzione, circolazione e consumo delle merci. È il corpo è luogo di strategie disciplinari e
di quelle di appropriazione. «i processi di accumulazione di uomini e di capitale non sono
separati». Sloterdijk: è l’universo del denaro a stabilire le relazioni. “Belonging” emerge
soprattutto se singoli o gruppi si vedono esclusi da qualche vantaggio. Harvey delinea, dal
punto di vista della teoria del capitale, le due categorie essenziali: corpo e luogo; essi
producono e riproducono lo spazio (geografico) del capitale. Il corpo media tra la
dimensione sociale e quella montale; esso è luogo ed espressione di relazioni ineguali di
potere, è il “medium” di definizione che regola lo spazio secondo i generi. È la “tabula
rasa” sulla quale vengono proiettate le immaginazioni culturali di ogni società. In ogni
corpo si concentrano le costruzioni culturali e politiche. 1- La cultura occidentale moderna
ha dato ai corpi maschili e femminili significati diversi; la donna coincide con il proprio
corpo e con la Natura, l’uomo trascende invece la corporeità. Il corpo delle donne è
diventato luogo delle relazioni di potere. Il concetto di “genere” quindi è una finzione, una
costruzione dello spazio che orienta le relazioni e legittima il controllo politico dei corpi. 2-
Il concetto di luogo viene da “chora” (luogo), segnato dai limiti del nostro pensiero. Esso è
liquidato come “sogno”, ragionamento onirico errante. Bisogna fare i conti con i limiti del
pensare, chora è quindi luogo della politica e politica dei luoghi. Le narrazioni si
intrecciano, i territori si sovrappongono e la scrittura geografica supera i confini. Il
postcoloniale è uno spazio teorico e di azione. Sparke a Newfoundland “mapped bodies e
disembodied maps”: bisogna ricostruire le geografie rivali, reclamare, rinominare, abitare
nuovamente la Terra. Sono due le questioni della geografia di Sparke: la violenza nelle
rappresentazioni del puro spazio nativo e le contestate traduzioni tra spazio e identità
nazionale. La donna subalterna di Sparke ha attraversato due soglie: verso la
colonizzazione, e verso la nazione. Il suo nome è Shawnadithit ed è “l’ultima dei beothics”,
nativi dell’isola prima che diventasse Newfoundland. Essa è il soggetto coloniale rivale che
disegna 4 carte geografiche dove i nativi tracciano i movimenti stagionali; queste mostrano
gli scontri con il sistema coloniale. In esse si riscontra l’immaginazione e la conoscenza
geografica dei Beothuk. I corpi mappati raccontano l’incontro tra colonizzati e
colonizzatori, rappresentando uno spazio in-traduzione. Con «disembodied maps» l’autore
intende la cartografia di Newfoundland la terra diversa da quella dei nativi, e all’assenza
dei corpi. Agli europei è garantito il dis-allontanamento da ciò che si è scoperto. Il
linguaggio dello spazio geometrico presenta l’interno come se fosse stato rilevato, e il
bianco (del mancato rilevamento) come segno di assenza dei nativi. Essi vennero poi
eliminati. Perciò la cartografia di Shawnadithit è una geografia rivale rispetto a quella dei
colonizzatori. La situazione geopolitica postcoloniale è raccontata anche da questa verità.
Lo sterminio dei nativi è un mancato incontro di buone intenzioni finite male. I termini con
cui si descrivono gli indiani sono quelli del nobile selvaggio, del selvaggio civile. Viene
sottolineata la loro propensione al furto di barche e attrezzi per la pesca e la caccia, così,
non comprendendo le loro azioni, li uccidevano. I Beothuk non erano abbastanza diversi
dagli europei, il colonizzatore essendo quasi simile attiva il meccanismo del transfert,
rivendicando il proprio diritto alla terra. Il progetto è fondare una Nuova Europa, e se la
terra è “nuova” i colonizzatori diventano i nativi. Viene fondato poi il «Beothuk Institution»
che si ripropone di educare la Shawnadithit per renderla un informatore nativo. Sono 4 le
mappe che crea, e sono forme sottili con le quali si manipolano gli artefatti della donna. Si
stabilisce l’universalità e la superiorità di un solo punto di vista. L’esproprio coloniale è
legittimato, ma ciò che vuole fare Sparke è collocare le carte della donna nel loro contesto
di produzione e dare una diversa prospettiva. Shawnadithit lavorava nella casa del
magistrato dei pescatori di Twillingate, il suo arrivo qui (come quello della zia, costretta ad
abbandonare il figlio) è segnato dalla violenza. Quando la zia muore di tubercolosi, per
salvarsi, Shawnadithit si reca a Twillingate dove viene imprigionata. Qui, ultima delle sue
genti e malata, diventa cartografa. Le sue carte non raccontano solo movimenti stagionali,
luoghi rituali e la forma degli accampamenti, ma anche le geografie dolorose di corpi e
spostamenti. Per Sparke bisogna richiamare le geografie rivali di chi abitava la New Found
Land, per dar luce alla natura performativa del reticolato cartografico che fissa lo spazio.
Queste mappe sono luoghi di resistenza, come lo sono i corpi. Nello spazio teorico, politico
e poetico del presente corpi e luoghi sono geopolitici. «Corpi sacri», «Black Flag»,
«Campi», «Guerra e Pace»: l’immaginazione geografica viene violata, in termini spaziali e
temporali, nel 2001, riportando la Storia nello spazio mondano del Capitale.
L’isterizzazione è la nuova tecnica di controllo, la sospensione dei diritti è lo strumento per
garantire la sicurezza. Nella geografia culturale entrano temi come: territorio, spazio
d’eccezione, luoghi esclusi dal Diritto. La carta geografica ha valore dimostrativo, con
questo Powell spiega le ragioni della guerra in Iraq. Lo spazio teorico del postcolonialismo
di apre all’eccezione. La geografia di Gregory (nel 2010) si muove fra tre spazi: quello del
nemico “Altro”, quello del Target (astratto), quello “legale-letale” dell’eccezione. Non
siamo nella Post Histoire o nella Post Geography, si lotta ancora per il possesso della terra.
Il movimento (mobility) occupa lo spazio teorico nel dibattito culturale della geografia, in
quello politico e nel quotidiano. Il movimento segna le nostre vite e la produzione di forme
sociali e politiche nello spazio.

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