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Sintesi domande Esame di Geografia (6cfu) - Prof.

Matteo Proto

L’origine della geografia: i principali orientamenti teorici nell’evoluzione del moderno pensiero
geografico
Farinelli afferma che la geografia è la descrizione della Terra; da un punto di vista ontologico, la geografia come disciplina
scientifica riflette l’analisi dei fenomeni che riguardano la vita sociale in relazione alla vita organica e inorganica del pianeta,
secondo diverse scale. Tuttavia, le narrazioni prodotte dalla geografia nel corso dei secoli non sono mai state oggettive e
neutrali, bensì si sono sempre situate nel tempo e nello spazio. Di conseguenza, la geografia può essere intesa come una
forma di conoscenza costruita attorno specifiche metafore geografiche e “modelli del mondo” associate al complesso di
relazioni sociali, politiche ed economiche che caratterizzano la vita umana.

L’origine della geografia è da rintracciare nelle prime riflessioni cosmologiche sul mondo della natura, elaborate allo scopo di
oggettivare e classificare i fenomeni naturali attraverso una descrizione di tipo fisico. All’interno del discorso geografico si
sono sviluppati importanti paradigmi che, nel corso dei secoli, hanno rivoluzionato la disciplina:

Geografia esplorativa (XV e XVI sec.): emerge una nuova consapevolezza nei confronti del mondo naturale che inizia ad
essere visto come qualcosa di oggettivabile e addomesticabile. La Rivoluzione scientifica (spinta dalle scoperte di Galileo e
Copernico) offre nuovi strumenti in grado di permettere una conoscenza sistematica del mondo natura ma è soprattutto con
Cartesio che si pongono le basi per una concezione meccanicistica della natura: egli opera una divisione fondamentale tra il
mondo materiale (rex extensa) e il mondo spirituale (rex cogitas). Lo spazio assume così una connotazione oggettivante,
come qualcosa che esiste al di fuori del soggetto, indagabile attraverso la razionalità del metodo scientifico. Il modello del
diagramma cartesiano è uno dei primi strumenti di classificazione dello spazio utile per misurare il mondo e renderlo
accessibile alla comprensione, attraverso termini matematici e geometrici.

Con l’emergere del pensiero illuminista nel Settecento si rafforza l’idea di una scienza obiettiva in grado di controllare il
mondo naturale e di emanciparlo dalla storia e dalla cultura umana. Nella Critica della ragion pura (1781) Kant fornisce le
basi teoriche per un’indagine scientifica della natura attraverso una conoscenza critica e razionale, basata su precise forme
cognitive che appartengono esclusivamente alla mente umana, come ad esempio i concetti di spazio, tempo e causa. Si
determina così un dualismo che pone il soggetto umano al di sopra della natura. Tuttavia, sarà lo stesso Kant che cercherà di
superare la dicotomia tra mondo naturale e cultura umana.

Alla fine del Settecento emerge la figura di Alexander von Humboldt, scienziato ed esploratore con il quale si assiste ad un
tentativo di superamento della dicotomia mondo naturale e cultura umana. Grazie agli innumerevoli viaggi di ricerca,
Humboldt inizia a maturare l’idea di una scienza come “fisica del mondo” in grado di indagare le relazioni e i legami spaziali
che regolano la vita sulla superficie terrestre. Nel 1807 Humboldt pubblica I quadri della natura, una panoramica sulle
problematiche socio-naturali che va oltre la dimensione puramente oggettiva e classificatoria, per proporre uno studio
geografico che indaga i fenomeni nei loro contesti spaziali e li inserisce in una relazione più ampia, investendo diversi campi
del sapere. Un’altra opera di grande importanza a cui si dedica Humboldt sono i cinque volumi del Cosmo pubblicati dal
1845 che rappresentano la sintesi della “scienza humboldtiana”: Humboldt immagina un equilibrio che governa le forze
naturali, le quali necessitano di essere analizzati nella loro reciproca influenza per stabilire un principio generale allo studio
della natura. Di grande importanza è il concetto di paesaggio, attraverso il quale Humboldt definisce un principio scientifico
per descrivere la natura coniugando un approccio oggettivo a qualcosa che è intrinsecamente soggettivo, partendo dal
presupposto che qualsiasi forma del sapere è per forza di cose soggettiva, in quanto risulta da una visione del mondo
storicamente e socialmente determinata.

Questa analisi si accompagna alla produzione di un sapere che, attraverso la conoscenza della natura, possa determinare una
rivoluzione culturale in grado di facilitare il progresso dei popoli e delle culture. In particolare, la teoria humboldtiana
fornisce all’emergente borghesia europea la possibilità di emanciparsi dal potere dello Stato assoluto. La geografia moderna
nasce come critica politica nei confronti del sapere/potere dell’assolutismo, allo scopo di fondare una nuova conoscenza
depurata dalle implicazioni politiche bensì basata sull’osservazione scientifica dell’ordine naturale. Tuttavia, anche la scienza
humboldtiana nasconde il suo riflesso politico: le metodologie di ricerca e i viaggi di esplorazione si sono rivelati cruciali nel
sostenere e rafforzare la “cultura del viaggio e dell’esplorazione” che, nel corso dell’Ottocento, ha assecondato il progetto
imperialista europeo, favorendo l’appropriazione e la colonizzazione dei territori extraeuropei. La figura di Humboldt è stata
comunque di grande rilievo per lo sviluppo del discorso scientifico europeo.

Un’altra figura di grande rilievo nello sviluppo della geografia moderna è Carl Ritter, al quale si deve l’individuazione di due
componenti fondamentali nello studio della geografia: la descrizione fisica della Terra e l’analisi della Terra come base
dell’esistenza del genere umano. Per quanto il progresso scientifico possa perfezionare la conoscenza del mondo naturale,
Ritter sostiene che di fatto la conoscenza è piuttosto storicamente situata. In questa riflessione, Ritter avanza una forte critica
all’uso della rappresentazione cartografica come strumento metodologico per l’analisi dello spazio a causa del suo eccessivo
valore oggettivante e parziale; per Ritter lo spazio è un’entità relativa che mutua nel corso del tempo e che dipende
fortemente dall’osservatore.

La geografia si impone quindi come sapere relativo e storicamente determinato che riconosce in maniera esplicita la natura
politica di goni forma di conoscenza. Tuttavia, nel secondo Ottocento, questa impostazione verrà superata dall’emergere
positivista che riproporrà una visione oggettivante delle scienze geografiche, funzionale all’uso politico della geografia da
parte dello Stato. Le riflessioni della geografia di Humboldt e Ritter verranno riprese molti decenni dopo dalla svolta critica
della geografia.

Geografia positivista: verso la metà del XIX secolo emergono importanti novità nel panorama scientifico europeo che hanno
un notevole impatto sullo sviluppo del pensiero geografico, tra cui la teoria evoluzionistica elaborata da Charles Darwin. In
questo periodo il positivismo scientifico si impone come paradigma dominante, basato su una prospettiva cosiddetta
“organicista”: le leggi della biologia che regolano la vita vengono applicate a ogni entità organica e inorganica, finendo per
spiegare anche il funzionamento della società. Si assiste così alla ripresa di un’idea di geografia come scienza oggettiva,
fondata su leggi scientifiche razionali che mirano a spiegare la relazione tra gruppi umani e ambiente. Queste riflessioni
maturano durante l’età dell’imperialismo, nel momento in cui viene a consolidarsi il modello dello Stato-nazione europeo:
sia accendono nuove dinamiche di conflitto legate alle politiche di rafforzamento e di espansione del proprio dominio da
parte dei diversi Stati-nazione europei verso l’esterno, in particolare grazie alle nuove scoperte geografiche. La geografia
diviene uno strumento implicito di gestione dello Stato al fine di legittimare il progetto espansionistico e coloniale. In
particolare, la scuola geografica tedesca di stampo evoluzionista cerca nella conoscenza oggettiva della natura, le spiegazioni
che determinano l’esistenza e la selezione delle specie, finendo per proiettare questi modelli sulla società umana, avanzando
una visione del mondo divisa fra popoli dominanti e dominati.

Una figura di grande influenza è quella di Friedrich Ratzel, geografo legato al concetto di determinismo geografico,
approccio che vede nell’ambiente naturale delle forze decisive in grado di condizionare l’azione umana. Per spiegare il
concetto di determinismo geografico, Ratzel elabora la nozione di Lebensraum, spazio vitale, ossia lo spazio della quale
ciascun essere vivente necessita per poter sopravvivere, crescere e prosperare. Nel periodo compreso tra le due guerre
mondiali, il concetto di spazio vitale assume un ruolo decisivo nella riflessione politica-geografica sulla natura dello Stato
nazione, soprattutto in relazione allo spazio vitale del popolo tedesco. Queste analisi geografiche sono state responsabili di
una geografia che ha a lungo promosso, negli anni del Terzo Reich, teorie biologico-razziste sulla razza e il suolo che hanno
avuto drammatiche conseguenze

Geografia possibilista: nei primi anni del XX secolo il determinismo geografico e la geografia di Ratzel vengono messi in
discussione, soprattutto dalla scuola storiografica francese degli Annales, fondata nel 1929 da Lucien Febvre e Marc Bloc.
Febvre conia il concetto di possibilismo, una teoria che riconosce la capacità degli esseri umani di agire nell’ambiente e
trasformarlo sulla base di concezioni sistematiche e oggettive.

La figura più influente del possibilismo geografico è Paul Vidal de la Blache: partendo dal paesaggio, egli elabora il concetto
di genre de vie, genere di vita, una nozione che definisce la maniera nelle quale gli esseri umani modificano l’ambiente
naturale. La riflessione vidaliana è alla base dello sviluppo della cosiddetta geografia regionale: la diffusione di un certo
genere di vita viene associata all’identificazione di regioni come spazi unitari legati a determinati inquadramenti sociali.
Geografia quantitativa: nel secondo dopoguerra si sviluppa un nuovo paradigma di approccio neopositivista e funzionalista
che ripropone la geografia come scienza esatta. Esponente di questa corrente è Walter Christaller con la sua teoria delle
“località centrali”, modello elaborato allo scopo di osservare come si distribuiscono i centri abitati e gli insediamenti umani
secondo un’organizzazione gerarchica legata ai servizi e ai beni che ogni centro è capace di offrire. Christaller propone una
visione geografica basata sulla quantificazione dello spazio utile alla pianificazione e allo sviluppo economico e sociale. Lo
spazio e gli oggetti geografici vengono ridotti a una rappresentazione geometrica che fa rientrare la geografia nell’ambito
delle scienze tecniche e matematiche, allo scopo di definire proprietà e modelli razionali per spiegare il funzionamento del
mondo. Questo paradigma venne utilizzato per fini politici allo scopo di favorire la crescita economica in termini puramente
quantitativi e misurabili.

Geografia radicale: tra la fine degli anni Sessanta e nel corso degli anni Settanta vengono rigettati i modelli quantitativi ed
emerge un nuovo sapere di impostazione umanistica e marxista che promuove una critica radicale dei paradigmi dominanti
destinata a influenzare in maniera decisiva gli studi successivi fino al tempo presente. Una figura di rilievo in questo periodo
è Henri Lefebvre, sociologo marxista che introduce la categoria di spazio come plasmato dalle relazioni umana e che a sua
volta determina l’azione umana.

Cartografia e ragione cartografica


Le carte geografiche costituiscono una modalità di espressione geografica attraverso la quale abbiamo imparato a conoscere
la rappresentazione scientifica del mondo naturale e dello spazio terrestre. L’origine della cartografia si ritrova nell’epoca
preistorica, anticipando di molti secoli l’invenzione della scrittura. Fra le prime rappresentazioni spaziali rinvenute abbiamo
quelle ritrovate a Catal Hayuk in Anatolia (6100 a.C.) e le incisioni rupestri della Val Camonica (2500 a.C.) chiamate
“Roccia dei Campi” che riproducono la mappa di un insediamento preistorico organizzato. La riduzione del mondo alla sua
rappresentazione è un elemento fondamentale dell’origine della cultura umana in quanto tentativo di comprensione del
pianeta.

La prima rappresentazione cartografica razionale coincide con l’affermazione della polis, ovvero del modello democratico
urbano della civiltà greca. Erodoto attribuisce alla carta del filosofo Anassimandro, nota come “Pinax”, il primo tentativo di
rappresentare razionalmente la terra conosciuta secondo principi geometrici e svincolata da riferimenti religiosi, mitologici e
cosmologici. La carta di Anassimandro divenne uno strumento per giustificare le argomentazioni geopolitiche dei greci e
permise la nascita dell’idea di territorio come oggetto di appropriazione e dominazione politico-militare.

A Tolomeo invece si deve l’elaborazione della “Geografia”, un volume composto da testo e carte geografiche che rappresenta
un tentativo di riunire tutto il sapere accumulato fino a quel momento allo scopo di sviluppare un modello del mondo e
dell’universo. Di fondamentale importanza nella Geografia è lo studio della proiezione che consiste in un insieme di tecniche
per ridurre la tridimensionalità del globo terrestre in piano, per trasformarlo in un’immagine a due dimensioni, quella della
carta geografica.

Nel Medioevo la rappresentazione cartografica dell’ecumene (terra abitata) era legata a un’interpretazione simbolico-
religiosa del mondo, costituita da riferimenti al divino, alla fede e ai testi sacri. Nel XII secolo, grazie all’introduzione della
bussola in Europa, vengono sviluppati i primi portolani, cioè carte nautiche che descrivevano i profili costieri, la
localizzazione di porti e le rotte da seguire.

In epoca moderna viene ripresa la riduzione tolemaica della sfericità della Terra su un piano che permette a Brunelleschi e
Alberti di sviluppare la prospettiva lineare nella prima metà del Quattrocento. Dallo studio della prospettiva lineare e
dall’invenzione del cerchio azimutale, uno strumento ottico che serve a computare la dimensione degli angoli, Alberti
elabora la tecnica della triangolazione che permette di calcolare le distanze reali sul territorio per restituirli nella
rappresentazione in maniera proporzionale, secondo una scala prestabilita.

Il perfezionamento dei metodi di rappresentazione grafica permette lo sviluppo di una cartografia funzionale ai viaggi di
esplorazione e colonizzazione del resto del mondo e soprattutto alla costruzione di un nuovo soggetto politico, lo Stato
territoriale moderno. Infatti, su ispirazione della Geografia tolemaica, nasce l’atlante, un insieme ordinato di mappe del
mondo e delle sue parti. Fra i primi esempi di atlante ricordiamo l’Italia di Magini, la quale asseconda la nascita dello Stato
territoriale come soggetto politico-geografico, il cui potere era legato al controllo del territorio e dunque necessitava di
conoscere nel dettaglio il proprio contenuto e i propri confini. Le mappe diventano quindi un modo di descrivere e osservare
il mondo ma soprattutto uno strumento per imporre un determinato ordine del mondo.

Nella seconda metà del Cinquecento Mercatore, stampa diciotto carte nautiche utilizzando un nuovo sistema di proiezione,
utile alla navigazione, il quale diventerà uno dei metodi più diffusi di rappresentazione cartografica. Con la Pace di Vestfalia
(1648), si afferma lo Stato territoriale moderno che si fonda su un’amministrazione del territorio a fini tributari e militari,
favorendo ulteriormente lo sviluppo e la diffusione della cartografia.

Alla fine del Settecento la Francia inizia una grande opera di triangolazione del proprio territorio che porterà alla
pubblicazione della prima carta topografica, la Carta di Francia, un modello di rappresentazione scientifica standardizzato di
una vasta area ottenuto attraverso l’adozione di una scala e di un simbolismo unitario. Il modello francese si diffonde e si
cominciano a tracciare concretamente sulla superficie terrestre dei segmenti lineari, le strade, che serviranno da modello per
le ferrovie e per le autostrade. Questa nuova scrittura della Terra riflette l’idea del progresso dell’età moderna,
particolarmente evidente dalla rivoluzione industriale in poi. Tracciando linee e confini lo Stato afferma la propria presenza,
cerca di creare omogeneità sul suo territorio e di costruire una nuova comune appartenenza territoriale.

A partire dall’età moderna e fino all’epoca contemporanea, il discorso geografico si identifica con la cartografia che
contribuisce in maniera decisiva allo sviluppo politico, economico e culturale degli Stati nazione in Europa. Le carte
geografiche si manifestano come una vera e propria costruzione di una specifica struttura della conoscenza definita da
Farinelli come “ragione cartografica”, un modello del mondo che supera la mera scrittura della Terra per investire molteplici
regioni del sapere e attuare pratiche di controllo cognitivo e materiale sull’esperienza del mondo e sulle categorie che l’uomo
utilizza per attraversarlo.

Il valore politico della carta


Fin dalle sue origini, il sapere geografico non è mai stato un discorso neutrale, bensì ha intrecciato una serie di relazioni con
la politica e con le relazioni di dominio. In particolare, la cartografia si è identificata come espressione di espansione
coloniale, di scoperte geografiche, di propaganda e di guerra. Già in antichità greca, il sapere geometrico-matematico
prodotto dalle cosmografie antiche ha veicolato un modello del mondo destinato a condizionare la nostra percezione del
globo terrestre e tutta la riflessione filosofico-scientifica prodotta dalla cultura occidentale fino all’epoca contemporanea.

I progressi della cartografia e delle innovazioni nelle tecniche di navigazione hanno aperto l’epoca dei grandi viaggi di
esplorazione, culminati a fine Quattrocento con la circumnavigazione dell’Africa e la scoperta dell’America. L’impatto di
questi avvenimenti sulla cultura scientifica europea è considerevole: le scoperte geografiche non significano soltanto la
diffusione della civiltà e della sfera di influenza europea al di fuori del continente, ma sono anche occasione di incontro con
culture diverse che stimolano l’immaginario europeo e l’idea di altrove.

Le cosmografie rinascimentali sono l’esempio della fusione tra il modello cartografico e il sapere accumulato grazie ai
resoconti dei viaggi di esplorazione. Queste cosmografie erano finalizzate alla costruzione di conoscenza di interesse al
potere dominante, allo scopo di estendere il proprio controllo sulle nuove terre conquistate. Non a caso le cosmografie erano
spesso commissionate dalle corti europee. Una figura di grande rilievo è quella del cosmografo Sebastian Munster, primo a
pubblicare una cosmografia in lingua tedesca. La Cosmografia di Munster (1544) include una trattazione monografica delle
diverse regioni del mondo, accompagnate dalla storia dei popoli, dai sistemi di potere, dalla geografia fisica delle montagne e
delle acque, dalla flora e la fauna e da una descrizione delle città più importanti. La cosmografia, basata sulla prospettiva
lineare, diviene quindi un potente strumento politico: chi contempla le immagini si pone da osservatore esterno in gradi di
ragionare sull’ordine del creato e dunque di oggettivare la conoscenza del mondo.

I viaggi di esplorazione non contribuiscono soltanto all’elaborazione delle cosmografie: importanti reperti e manufatti
vengono portati in Europa da navigatori e mercanti. Nascono le prime Wunderkammer, camere delle meraviglie, stanze
create da studiosi o collezionisti, solitamente appartenenti alle classi privilegiate, allo scopo di iniziare un processo di
classificazione sistematica e scientifica degli elementi naturali, organici e inorganici, e delle culture altre. Grazie anche
all’istituzione delle prime accademie scientifiche e al progetto classificatorio di Linneo, l’intero mondo naturale inizia ad
essere descritto attraverso parole e immagini.

Lo spazio geografico, nel tempo, ha assunto un valore mitico-ideologico, in quanto rappresenta implicitamente una
determinata visione del mondo che consente di vedere uno specifico “ordine sociale. Questa concezione ha contribuito a
diffondere una lettura del mondo tipicamente cartografica, che porta a immaginarlo come fosse composto da contenitori
omogenei (regioni, stati, continenti) e a ritenere che questi contenitori siano l’esito spontaneo e naturale dei processi di
antropizzazione dello spazio.

Ci abituiamo a pensare ogni cosa e ogni persona “al proprio posto” secondo il linguaggio cartografico che ci viene imposto. Il
cartografo, che si pone in una posizione esterna rispetto all’oggetto viene reso implicitamente neutrale e innocente, in grado
di poter considerare oggettivamente e scientificamente i fenomeni studiati. Questa “posizione terza” è allo stesso modo
occupata da chi esercita la sovranità, è una posizione prodotta da un tipo di discorso dominante all’interno di uno specifico
contesto culturale e politico. Anche la denominazione degli oggetti rappresentati, come la produzione cartografica, è un atto
che spetta al potere politico: pretendere di nominare in maniera diversa lo spazio significa voler produrre carte su cui
predomina un potere di natura diversa. La denominazione diventa così un formidabile strumento di dominazione (vedi
progetto coloniale della riscrittura cartografica delle terre conquistate).

La presunta scientificità della cartografia non impedisce di emettere giudizi e di costruire progetti: essa inevitabilmente
applica principi di inclusione ed esclusione. La logica cartografica per esistere ha bisogno di un disordine rispetto al quale
possa definirsi: se da una parte il mondo viene rappresentato come spazio geometrico e ordinato, dall’altra, utilizzando
questo spazio come parametro, si procede ad un’opera di normalizzazione, di messa in ordine delle cose (e delle persone, la
quale fornisce alla politica una logica su cui agire. Si parla di spazializzazione della politica attraverso cui si muovono i
confini del bene e del male, del sociale e dell’a-sociale, del normale e dell’a-normale, si costruiscono nazioni e identità
territoriali e si giustificano le guerre. In questa apparente immobilità della rappresentazione cartografica fondata sulla
concezione dello spazio-contenitore giace il gioco politico con le sue regole. Il compito della geografia critica è quello di
liberare l’immaginazione geografica e produrre un mondo che non si lasci ridurre alle geometrie dello spazio cartografico.

Concetto di scala
La nozione di scala è un concetto al centro dello studio della geografia ed è fondamentale per due motivi principali:

- La geografia descrive il mondo attraverso il filtro della scala, per determinare dimensione e confini

- Noi stessi tendiamo a concepire il nostro posto nel mondo e i fatti che ci circondano utilizzando spesso (o meno
consapevolmente) una scala. Gli stessi principi di appartenenza identitaria si sviluppano secondo una gerarchia e si
legittimano attraverso una o più scale.

Secondo Neil Smith in geografia si utilizzano due concetti distinti:

- La scala cartografica (piccola, media e grande): può essere definita come il rapporto tra la grandezza di un oggetto
rappresentato su una carta e la sua reale dimensione sulla superficie della Terra; viene generalmente espressa
secondo un linguaggio matematico. L’entità dei dettagli e la grandezza dell’area coperta dipendono dalla scala
prescelta. Di conseguenza, la scala influenza l’aspetto della carta, determinando in buona parte ciò che viene incluso
ed escluso dalla rappresentazione cartografica. La scala cartografica non rappresenta però una copia del mondo ma
è un vero e proprio progetto sul mondo che ha come scopo quello di trasformare la faccia della Terra secondo un
principio di omogeneità e uniformità territoriale, realizzata attraverso una precisa geo-scrittura. La scrittura della
Terra è alla base di un progetto di costruzione e organizzazione del territorio.

- La scala geografica (globale, nazionale, regionale e locale): concetto che si riferisce alle dimensioni di spazi specifici.
Ad esempio, quando in geografia si parla di cambiamenti su “scala globale” ci si riferisce a trasformazioni che in
teoria avvengono in tutto il mondo; quando invece si analizza una città o un quartiere ci si concentra sulla “scala
locale”. La scala geografica è uno strumento che ci consente di assumere un punto di vista specifico a partire dal
quale possiamo osservare e descrivere un’area delimitata nel suo complesso. Questa nozione è stata oggetto di
numerose critiche. Lo stesso Smith ha messo in luce come la scala non sia un dato di fatto, non esista in natura, ma
sia a tutti gli effetti un prodotto sociale. Smith ha mostrato in particolare come scala globale, nazione o locale non
esistono mai a priori, ma siano piuttosto i prodotti di specifici contesti sociali e storici nei quali esse emergono e si
affermano. Una scala che opera in una società può essere irrilevante in un’altra.

Nonostante lo sforzo di studiare e rappresentare scientificamente il mondo, le carte geografiche, come tutte le altre
rappresentazioni della realtà, sono dei prodotti culturali, sociali e politici. Più che un riflesso del mondo, le carte sono un
riflesso di un insieme di relazioni di potere e del contesto culturale e discorsivo che le ha prodotte. Fin da bambini veniamo
educati a pensare cartograficamente il mondo e a trovarlo più che naturale. L’idea che ci viene inculcata dal sistema
educativo e scolastico è che la carta fornisce un modello accurato e scientifico (perciò vero) del mondo, che consente di
orientarci e trovarvi il nostro posto. L’idea sottesa alla produzione della cartografia scientifica è che il mondo possa essere
ridotto in piano attraverso l’utilizzo della matematica. Tuttavia, non si può pensare realisticamente che gli elementi
rappresentati corrispondano alla realtà. I fatti cartografici che le carte rappresentano sono convenzionali e assumono
significato soltanto in riferimento a uno specifico contesto.

Spazio, luogo e paesaggio


Spazio: il concetto di spazio geografico è alla base della nascita della geografia moderna, la quale si origina come critica al
sapere aristocratico-feudale. La geografia come disciplina moderna rivendicava l’autonomia e la neutralità della scienza
stessa, rifiutando la dimensione politica e la soggettività di tutte le rappresentazioni. Si tratta di una geografia che
identificava l’oggetto nello studio dello spazio della superficie terrestre e delle sue regioni naturali come fossero entità
esistenti prima dello stato indipendentemente da ogni forma di dominio. Tutti i luoghi sono pensati nei loro caratteri fisici e
possono essere rappresentati con il linguaggio geometrico. Lo spazio geografico insegna a leggere il mondo come fosse uno
schema ideale ordinabile secondo leggi e regole, facendo dimenticare che le caratteristiche delle cose del mondo
acquisiscono senso solo all’interno della propria logica. Ciò che chiamiamo spazio geografico è un insieme di operazioni
logiche che la nostra mente compie per dare un ordine agli oggetti che percepiamo sulla superficie della Terra e su cui
operiamo. Tali oggetti esistono indipendentemente da queste operazioni soggettive; eppure, lo spazio geografico viene
assunto come fosse un’entità reale, qualcosa che contiene tutti gli elementi della superficie terrestre e che alimenta il senso
comune.

Luogo: il luogo invece è uno spazio al quale gli esseri umani hanno dato un significato. Il luogo è qualcosa che ha a che fare
con la nostra esperienza quotidiana in quanto rivela uno specifico modo di intendere e di costruire il nostro posto nel
mondo, cosa sappiamo e come lo abitiamo. Il profondo significato che ognuno assegna ai luoghi rivela una relazione con
quello che riconosciamo come lo spazio della nostra esistenza. Per questa ragione, la geografia si dedica al concetto stesso di
luogo e al modo in cui questa concettualizzazione influenza le nostre “geografie di appartenenza” e i nostri giudizi. L’enfasi
riflessiva viene posta sul luogo come costituito incessantemente da una serie di processi politici, sociali e culturali che
orientano determinate pratiche ideologiche, nel senso che tendono a legittimare o a marginalizzare una determinata
struttura sociale rispetto a un’altra. Questa analisi prende in considerazione il rapporto tra luogo e processi d’inclusione ed
esclusione sociale, forme di oppressione o di dominio verso specifiche pratiche spaziali (es. il diritto di una donna di
passeggiare per strada di sera o il diritto di una minoranza di manifestare in piazza).

Il concetto di luogo è sempre stato al centro delle riflessioni geografiche, soprattutto per quanto riguarda “la scienza dei
luoghi” inaugurata nel Novecento da Paul Vidal de la Blach. La geografia di Paul Vidal de la Blache aveva posto al centro
dell’analisi il concetto di genre de vie (genere di vita), inteso come il rapporto singolare e specifico che ciascuna comunità
instaurava con un determinato territorio e che trovava la sua espressione più evidente nel luogo, uno spazio impreciso e
indefinito ma trattato come una sorta di unità di base per la descrizione del territorio e degli elementi culturali.

La geografia umanistica degli anni Settanta si è occupata del concetto di luogo ponendo al centro della propria analisi il
modo in cui gli individui dimostrano attaccamento o esprimono sentimenti e significati nei confronti di particolari luoghi.
L’indagine della geografia umanistica si concentra soprattutto sulla costruzione sociale e sull’esperienza individuale di luoghi
e paesaggi. Con l’opera di Yi-Fu Tuan il luogo viene esplicitamente concettualizzato attraverso l’analisi del soggetto e
dell’esperienza dei luoghi. Tuan spiega che il luogo è investito dalle persone di significati profondi che hanno a che fare con il
loro quotidiano, con i loro affetti e le loro emozioni. Tuan elabora il concetto di sense of place (senso del luogo): il luogo ha
due componenti primarie, spirito e personalità. La personalità è una caratteristica che corrisponde all’umanizzazione del
luogo e che lo rende unico; lo spirito è letteralmente qualcosa che si ritiene dimori in un particolare luogo e che conferisce ad
esso una certa sacralità. Secondo Tuan, ogni luogo è carico di sense of place, ossia un attaccamento emotivo molto forte,
tipico degli esseri umani. Si tratta di una percezione che si basa su ciò che Tuan chiama fields of care (campi emozionali),
spazi per cui si prova affetto, che “parlano” alle persone perché incorporano i sentimenti che gli esseri umani provano per un
luogo in virtù della propria esperienza, al punto che un luogo diventa fonte d’identità. Il luogo è allora una costruzione
sociale in continuo cambiamento; i luoghi non sono spazi statici o stabili bensì sono il risultato di una molteplicità di
interazioni tra esseri umani che negoziano significati. Il luogo è un processo (Doreen Massey) la cui unicità è definita dal
modo in cui diverse identità e storie di gruppi sociali differenti si intrecciano le una con le altre. Massey afferma che i luoghi
devono essere concepiti come “a progressive sense of place”, in quanto aperti alla mobilità di oggetti e persone.

Il concetto di luogo è stato anche al centro del discorso dell’antropologia culturale. Marc Augè definisce “luogo
antropologico” la delimitazione sociale del suolo che organizza la geografia economica, sociale, politica e religiosa di un
gruppo in maniera vincolante. Il luogo antropologico è principio di senso per coloro che lo abitano e principio di
intelligibilità per colui che osserva. Può definirsi come identitario, relazionale e storico, in quanto una comunità si riconosce
e si fa riconoscere in quanto tale, in relazione ad un determinato territorio. Per Augè, uno spazio che non può definirsi in
questa maniera si definisce nonluogo. Secondo l’antropologo, i nonluoghi tipici sono gli aeroporti, gli autogrill, i villaggi
turistici, i campi profughi, tutti quegli spazi che ospitano una popolazione che non li abita.

Paesaggio: l’introduzione del concetto di paesaggio in geografia come concetto scientifico risale all’inizio dell’Ottocento e
coincide con lo sviluppo della geografia humboldtiana. Alexander von Humboldt introduce il concetto del paesaggio come
sguardo alternativo sul mondo dotato di un punto di vista soggettivo, allontanandosi dall’illusione di una presunta
oggettività del mondo. Humboldt integra agli aspetti oggettivi del paesaggio lo sguardo soggettivo dell’uomo studiando
anche le implicazioni simboliche e politiche della natura e del paesaggio geografico.

Tuttavia, dopo l’esperienza della geografia di matrice humboldtiana, la soggettività del paesaggio scompare a causa
dell’affermarsi del paradigma determinista e organicista che tende a trattare il paesaggio come un semplice oggetto di studio
geografico costituito da determinate caratteristiche da osservare con sguardo distaccato e neutrale. Agli inizi del Novecento il
paesaggio è considerato soltanto come un insieme di oggetti posti a descrizione. Un importante studioso dell’oggettività del
concetto di paesaggio è Carl Sauer, il quale sviluppa un’analisi morfologica del paesaggio terrestre scomponendo
quest’ultimo nei suoi elementi e classificandoli attraverso un esame dettagliato. L’analisi di Sauer risulta così una descrizione
sintetica degli elementi più significativi che possono aiutare nell’inquadrare un tipo di paesaggio. Il paesaggio saueriano
viene presentato come qualcosa di statico e le sue componenti come oggetto di classificazione e misurazione attraverso un
procedimento scientifico. Influenti sono gli studi condotti da Renato Biasutti, il quale afferma l’idea di “paesaggio visivo”,
cioè di un paesaggio geografico oggettivo costituito da elementi visibili grazie allo sguardo allenato del geografo. Dalla
concezione determinista di paesaggio geografico nascono le odierne classificazioni in base alla tipologia: paesaggio
mediterraneo, desertico, montano, costiero, collinare, alpino, appenninico (ognuno con le sue caratteristiche).

Nello stesso periodo, in Francia, con l’avvento della scuola degli Annales, nasce l’idea, promossa da Marc Bloch, di uno
spazio geografico storicizzato e legato ad assetti fondiari, rapporti sociali e aspetti climatici. Bloch propone ad esempio la
divisone fra paesaggi a campi aperti e chiusi. Per Bloch dove c’è il paesaggio a campi aperti si può individuare una società
collettivista che trae risorse da spazi comuni e orientata all’autoconsumo mentre dove il paesaggio è a campi chiusi si può
individuare una agricoltura intensiva, privatistica e che produce per mettere prodotti sul mercato. Il paesaggio assume una
connotazione storica legandosi quindi a una concezione dello spazio e del paesaggio che tiene conto dei rapporti sociali e
delle strutture sociali oltre che di fattori giuridici, ambientali ed economici.
Nell’Italia degli anni ‘60 Lucio Gambi sposta lo studio del paesaggio dal visibile all’invisibile, focalizzandosi sui processi
storici e sociali di cui il paesaggio visivo ne è solo il riflesso. Gambi anticipa la geografia inglese degli anni ’80, la quale è
associata a un ritorno del soggetto al centro della comprensione geografica di luoghi e paesaggi, grazie al recupero della
geografia humboldtiana.

Denis Cosgrove è il geografo più noto per il suo lavoro sul paesaggio. Per Cosgrove il paesaggio è un “modo di vedere” sé
stessi, il mondo e le relazioni con esso nato nell’Italia Rinascimentale. Egli associa infatti l’origine di quest’idea allo sviluppo
del capitalismo moderno e dimostra come il paesaggio, assieme alla cartografia, sia stato uno degli strumenti fondamentali
che ha permesso alle classi agiate europee di produrre una teoria spaziale che legittimasse la proprietà terriera e i rapporti di
dominio associati ad essa. Cosgrove ha mostrato come la pittura paesaggistica rinascimentale adottò la tecnica della
prospettiva (teorizzata da Leon Battista Alberti) come mezzo per la rappresentazione realistica del mondo. La prospettiva era
una vera e propria ideologia fondata sull’idea che dipingere il dipingere il paesaggio in modo corretto rispecchiasse il modo
giusto e vero di vederlo. La prospettiva conferiva all’osservatore la padronanza assoluta sullo spazio rappresentato e il
paesaggio dipinto diveniva un mezzo per normalizzare e celebrare esteticamente il controllo sullo spazio e sulla proprietà
delle élite urbane. Il predominio assegnato alla vista e alla visione del paesaggio che ha caratterizzato a lungo gli studi della
geografia è stato criticato per aver trascurato il complesso tema dell’esperienza corporea del paesaggio. L’esperienza del
paesaggio deve considerare anche altri sensi, in quanto tutte le pratiche spaziali contengono un’importante dimensione
multisensoriale che ci guida attraverso il mondo.

Urbanesimo e origine della città


Con urbanesimo si intende il dominio della grande città, caratterizzata dalla concentrazione di strutture e attività industriali,
commerciali, finanziare e amministrative, di reti di trasporti e comunicazioni, attrezzature culturali e ricreative (stampa,
musei, teatri, biblioteche), istituti religiosi e di assistenza, scuole e organizzazioni professionali.

L’urbanizzazione non denota solamente il processo attraverso il quale le persone migrano nelle città e vengono incorporate
in un nuovo sistema di vita, ma si riferisce soprattutto a quell’accentuazione delle caratteristiche del modo di vita che sono
associate alla città. Secondo Mumford la città è il simbolo dell’interazione sociale, il punto di massima concentrazione del
potere e della cultura di una comunità. È il luogo in cui l’esperienza umana è trasformata in simboli, modelli di
comportamento, sistemi d’ordine, è il luogo dove si concentrano i risultati della civiltà.

Già Lefebvre, attraverso l’idea di politicizzazione della dimensione spaziale, comprese come le dinamiche sociopolitiche ed
economiche si riflettessero nella produzione dello spazio urbano, determinando fenomeni di marginalità e segregazione. La
geografia urbana studia i rapporti tra socialità e spazialità partendo dal presupposto che gli esseri umani si manifestano
attraverso pratiche intrinsecamente spaziali, ossia sono costantemente impegnati nell’attività collettiva e individuale del
“produrre spazio”. Attraverso azioni e pensieri, il soggetto umano plasma lo spazio intorno a sé e allo stesso tempo è
condizionato dagli spazi prodotti collettivamente. La geografia assegna priorità alla dimensione spaziale, collocando
qualsiasi relazione sociale o fatto storico alla propria “spazializzazione”, vale a dire esplicare un fenomeno in termini di
relazioni spaziali, simboliche o materiali. Analizzare un fenomeno urbano attraverso un approccio geografico significa
comprendere lo spazio urbano come una costruzione simbolica e materiale dove si sedimentano fattori storici e sociali.

L’origine dell’urbanesimo rappresenta una delle prime manifestazioni della cultura umana e affonda le proprie radici in
tempi remoti, collocandosi in quella fase di grande rivoluzione neolitica che porta all’invenzione dell’agricoltura e della
scrittura (15/10.000 anni fa). Gruppi umani di cacciatori e raccoglitori iniziano a radicarsi sempre di più nei territori,
creando i primi insediamenti stabili e sviluppando i processi di domesticazione delle piante e degli animali. Le capanne dei
cacciatori-raccoglitori vengono sostituite da abitazioni più stabili costruite in terra e fango e le comunità iniziano a
sviluppare nuove tecnologie, come i primi sistemi di irrigazione. Comincia a manifestarsi un’organizzazione sociale più
complessa dal punto di vista politico e religioso ed è in questo contesto che si determina il cosiddetto sinecismo, ovvero
“vivere insieme in una casa”, fondamentale per determinare la nascita dell’urbanesimo nella sua connotazione spaziale. La
nascita di insediamenti stabili e complessi è una condizione fondamentale che porta a maggiore interazione tra esseri umani
che coabitano, divenendo premessa per i successivi processi di civilizzazione e incremento tecnologico.
Antica Grecia: VIII secolo a.C. si sviluppa la civiltà greca e con essa la polis ateniese, la città-stato per antonomasia, che dà
origine a un sistema urbano complesso costituito dalla fusione di villaggi e insediamenti urbani che vengono sottoposti
gerarchicamente a una capitale. Nasce una forma di governo che si riflette in una fitta rete di relazioni con la metropoli, la
città madre, che rappresenta il centro gerarchico di questa rete e si delinea come espressione del potere sullo spazio
territoriale, sulla produzione e sulle relazioni sociali, politiche ed economiche. È in questo contesto che nasce il primo
modello formale di sviluppo urbano, la città ippodamea, dall’architetto Ippodamo da Mileto (V secolo a.C.), ideatore di un
piano razionale di sviluppo urbano basato su uno schema ortogonale dove le strade si incrociano ad angolo retto. L’emergere
della pianificazione urbana coincide con un momento storico nel quale lo studio della rappresentazione è al centro della
riflessione filosofica e artistica: gli studi sulla prospettiva lineare, sulla cartografia e il paesaggio e sulla forma urbana
risentono di un grande interesse nella costruzione di una rappresentazione oggettiva della realtà.

Impero Romano: lo sviluppo urbano pianificato e razionale viene compiuto anche dalla civiltà romana attraverso un sistema
di controllo del territorio chiamato “centuriazione”. Questo schema prevedeva la disposizione di centri abitati concepiti
secondo una rigida maglia ortogonale di derivazione ippodamea, ma anche infrastrutture stradali e appezzamenti agricoli. Il
sistema viene poi applicato in diverse aree d’Europa per poi trovare il suo declino nel medioevo, durante il quale sorge una
nuova tipologia di città, quella feudale.

Medioevo: il feudalesimo dà vita a un frammentato paesaggio di regioni costituite da piccole città che investivano ruoli
diversi come centri ecclesiastici o universitari, roccaforti o centri amministrativi.

La città moderna
Durante l’età moderna vengono ripresi i modelli urbanistici dell’antichità, implementati con gli ideali umanistici dell’epoca,
per sviluppare la cosiddetta città rinascimentale secondo un progetto ordinato e funzionale. Da qui si pongono le basi per
l’urbanistica al fine di organizzare uno spazio attraverso il tracciamento di linee e forme su un piano che va successivamente
attuato con la costruzione di strade e edifici. I primi progetti urbanistici vengono attuati alla fine del Quattrocento: si ritiene
che l’ampliamento della città di Ferrara voluto dal duca estense Ercole I d’Este sia il primo caso di città pianificata moderna,
un fenomeno che conoscerà grande espansione con lo sviluppo del colonialismo e delle città coloniali.

Prima rivoluzione industriale (1760-1840 ca.): la città si modifica sempre più rapidamente. Il cuore dello sviluppo urbano è
la fabbrica attorno alla quale prendono forma i quartieri operai, costruiti al di fuori del perimetro storico della città. Nel
corso del XIX secolo molte città europee subiscono drastici processi di ristrutturazione che portano spesso alla distruzione
del tessuto urbano precedente e a radicali piani di ricostruzione, allo scopo di trasformare la città in funzione delle esigenze,
dei consumi e degli stili di vita delle nuove classi dominanti. Si afferma a tutti gli effetti la modernità urbana, legata a una
serie di processi storici, tra cui il consolidamento dello Stato territoriale moderno e l’emergere di una borghesia capitalistica
che diviene la protagonista nella vita della città moderna. Nelle grandi città europee compaiono nuovi spazi di socialità legate
all’avvento dell’industria; questa trasformazione è resa evidente sotto l’aspetto architettonico, grazie all’utilizzo di materiali
come il ferro, il vetro e il cemento. Questi spazi si distinguono come luoghi preposti a nuove forme di consumo ma anche
come teatro di una nuova socialità, di uno stile di vita legato alla borghesia cittadina. Un esempio sono i Passages di Parigi,
gallerie situate fra blocchi di edifici, protette da una copertura in ferro e in vetro, che ospitano luoghi di aggregazione per la
borghesia e di attrazione per i visitatori. I Passages sono antecedenti a quella che sarà la grande trasformazione di Parigi
nella metropoli per eccellenza, con la distruzione del centro storico medievale e la costruzione dei grandi boulevard. La
ricostruzione di Parigi, attuata per volontà di Napoleone III durante il Secondo Impero (1852-1870), viene affidata a George
Haussmann dal quale, con il nome di haussmanizzazione, si intende il primo grande progetto di distruzione e rifacimento
delle metropoli. La ricostruzione haussamanniana di Parigi determina però un fenomeno di espulsione dal centro delle città
di migliaia di persone, appartenenti alle classi meno privilegiate, le quali sono spinte verso i nuovi quartieri delle banlieue. Si
assiste alla nascita delle grandi periferie destinata ad accogliere gli sfrattati dal centro e i nuovi abitanti della città che
migrano dalle campagne per fornire manodopera nelle fabbriche. Si tratta di quartieri dove le condizioni abitative sono
spesso precarie, dove predominano malessere e povertà, in contrasto con l’immagine sfarzosa dei centri.
In seguito a tensioni e rivolte urbane, i governi sono spinti a individuare soluzioni per risolvere la marginalità e ristabilire la
pace. Nei primi decenni del XX secolo si svolge un dibattito sull’urbanistica e sull’architettura delle città che vede coinvolte
numerose figure di primissimo piano, tra cui Le Corbusier, a cui si deve l’istituzione dei Congressi Internazionali di
Architettura Moderna (CIAM). Nel 1993 i CIAM presentarono la Carta di Atene, il manifesto di nascita del modernismo,
dove si definiscono le regole che orienteranno l’architettura e la pianificazione urbana nei decenni successivi.

Seconda rivoluzione industriale (1856-1878): la nascita del modernismo urbano risente degli ideali della filosofia
positivista, del progresso tecnologico e della produzione seriale implementati dalla seconda rivoluzione industriale. Allo
stesso modo dei macchinari di una fabbrica, la casa e la città moderna si devono sviluppare secondo principi ordinati,
razionali e funzionali, per favorire il progresso sociale e assecondare lo sviluppo economico, con l’idea di poter determinare
la felicità del genere umano. L’architettura deve assecondare la funzione richiesta dall’edificio, senza aggiunte inutili ma
risaltando per le sue forme essenziali. Nel suo insieme, la città va concepita e strutturata in parti distinte e omogenee,
ciascuna con una precisa funzione e ciascuna connessa attraverso reti di comunicazione e di trasporto. In questo consiste il
principio della zonizzazione (o zoning), definito dalla Carta di Atene e divenuto lo strumento fondamentale dell’urbanistica
moderna.

Il modernismo urbanistico e architettonico trova applicazione soprattutto nel Secondo dopoguerra, nella ricostruzione delle
città distrutte dai bombardamenti e nei programmi di crescita urbana ed economica postbellica. I progetti di ricostruzione
delle città avvengono attraverso i cosiddetti clean-sweep planning (Ravetz), termine per indicare quel tipo di ricostruzione
che inizia sradicando ciò che già esiste e prosegue creando successivamente qualcosa di completamente nuovo (come era
avvenuto già con la ricostruzione di Parigi). I nuovi urbanisti e ingegneri elaborano progetti per creare città funzionalmente
migliori di quelle costruite in passato, legittimando la distruzione spesso radicale di interi quartieri, tutto ciò al fine di
assicurare il miglior funzionamento possibile della città-macchina. I quartieri degradati vengono sostituiti da grandi
complessi di abitazioni, scuole, fabbriche e ospedali che seguono un modello standard di pianificazione razionale ed
efficiente che inizia a modificare le città in paesaggi piatti e aridi, con l’intento di promuovere l’uguaglianza, il benessere
sociale e la crescita economica.

Negli Stati Uniti, dove la guerra non aveva causato danni, il clean-sweep planning viene applicato su larga scala grazie agli
incentivi governativi. La soluzione statunitense si basa sulla produzione in serie e su sistemi di edificazione industrializzati e
si fonda sull’idea di poter creare uno spazio urbano razionale ed efficiente concepito attorno all’uso dell’automobile. Lo
sviluppo modernista è infatti inscindibile dalle politiche economiche e dalle tecnologie di produzione che si erano
consolidate negli Stati Uniti già in seguito alla Crisi del ’29, quando Roosevelt inaugurò il New Deal. Dagli anni 30
l’economia americana si riprende grazie a una serie di iniziative di welfare e all’intervento dello Stato. In questo processo di
ristrutturazione capitalista prende avvio il fordismo, quell’insieme di innovazioni nel sistema produttivo che hanno
permesso l’avvento dell’era dei consumi di massa. Il termine fordismo viene reso popolare da Antonio Gramsci negli anni
’30 per indicare uno degli sforzi collettivi più grandi verificatosi nella storia allo scopo di determinare la nascita di una nuova
divisione del lavoro e di una trasformazione delle masse. Il concetto fu teorizzato a seguito dell’inclusione della città e del suo
sistema di trasporti all’interno della produzione capitalistica. Il termine deriva dalle innovazioni nella produzione introdotte
dall’industriale dell’automobile Henry Ford nel 1910 che prevedevano un’organizzazione scientifica del lavoro (il cosiddetto
Taylorismo) attraverso l’introduzione della catena di montaggio, la formazione del personale e la standardizzazione della
produzione, al fine di ridurre notevolmente i tempi e i costi di lavorazione e permettere di realizzare beni di consumo in
serie. Ford introduce meccanismi di welfare aziendale (diritti sindacali, limitazione dell’orario di lavoro, assistenza sociale,
salari adeguati) al fine di garantire ai lavoratori una quantità di tempo e di denaro sufficiente per potere accedere ai consumi
e sostenere la domanda di prodotti, inserendosi così nel sistema capitalistico. L’innovazione fordista non serve solo a
rivoluzionare la produzione dei prodotti industriali (automobile) ma anche a incentivare la nascita di una società dei
consumi di massa e dunque un nuovo meccanismo di accumulazione del capitale che guida l’esplosione urbana degli anni
Cinquanta. Il modo di produzione fordista si diffonde soprattutto nell’Europa occidentale del Secondo dopoguerra, anche
grazie al meccanismo di aiuti e ricostruzione industriale sostenuto dagli Stati Uniti attraverso il Piano Marshall. Grazie al
fordismo, gli Stati Uniti escono dalla Grande Depressione per conoscere un’epoca di straordinaria crescita economica e
aumento del benessere, tutto sostenuto da una massiva urbanizzazione e conseguente esodo rurale (basata sui principi dello
zoning), crescita delle periferie e della suburbanizzazione (spostamento dei residenti urbani dal centro alle periferie),
sostenuta dallo sviluppo accelerato delle reti stradali e autostradali e della motorizzazione individuale. L’automobile serve a
raggiungere i luoghi di lavoro, i nuovi spazi di consumo e di gestione del tempo libero, alimentando l’industria del turismo.

La casa moderna (nella quale Le Corbusier vedeva una macchina per la fabbricazione della felicità umana) diventa il simbolo
della vita urbana rinnovata, abitata da una famiglia borghese mononucleare (diversa dalla famiglia allargata contadina
diffusa nel contesto italiano) e fornita di tutti i beni di consumo durevoli come frigorifero, lavatrice e televisore che
sostengono la produzione della fabbrica fordista.

Tuttavia, questo modello di sviluppo urbano comincia ad andare in crisi già alla fine degli anni Sessanta con le rivolte
studentesche e le istanze riformiste che emergono in relazione alle rivendicazioni delle classi più svantaggiate delle società
occidentali, che inizia con la polemica politica sulle pratiche dell’urbanesimo moderno perpetuate dalle classi dominanti
come strumenti per sostenere il processo di accumulazione possibile attraverso lo sfruttamento della forza lavoro nelle
fabbriche. Si apre una profonda crisi economica determinata dallo shock petrolifero del 1973 e dalla fine degli accordi di
Bretton Woods (patto internazionale stabilito nel 1944 allo scopo di stabilizzare la politica monetaria attraverso la nascita di
organismi internazionali finalizzati al controllo delle politiche monetarie, tra cui il Fondo Monetario Internazionale o FMI).
La fine del fordismo accompagna anche la crisi della città moderna a causa del fallimento dei modelli urbanistici basati sulla
ricerca della standardizzazione delle forme urbane e di un ordine che assicurasse un progresso morale ed economico della
società. Ma in moltissime città del mondo, come New York e Parigi, si evidenzia sempre più il crollo di questo presunto
ordine; nelle metropoli dominano il degrado urbano, la violenza e la delinquenza, soprattutto nei quartieri centrali
abbandonati in seguito ai processi di suburbanizzazione. Dagli anni Sessanta, Parigi aveva istituito un programma di
costruzioni collettive in periferia in risposta all’emergenza abitativa ma questo determinò ulteriormente nuove forme di
marginalità e alienazione. Parigi diventa protagonista della rivoluzione studentesca legata a questioni di disagio sociale, che
si allarga dentro e fuori dall’Europa anche in forma violenta. Emerge come le previsioni del funzionamento della città-
macchina progettata sulla carta dagli urbanisti moderni non fosse conforme al reale comportamento degli individui e dei
gruppi sociali, e come questo abbia prodotto disagio e marginalizzazione, problemi che continueranno ad affliggere molte
metropoli nei decenni successivi.

La città post-moderna
Negli ultimi decenni del XX secolo si assiste a una serie di riflessioni critiche sui modelli di pianificazione urbana dominanti,
a causa di eventi di portata globale che avevano bloccato quei meccanismi di produzione e accumulazione capitalistica. La
fine del fordismo e delle produzioni di massa apre le porte al cosiddetto postmodernismo urbano: emergono nuove forme di
sviluppo architettonico ed estetico della città ma anche nuovi processi di accumulazione che modificano il paesaggio urbano,
in particolare processi di rinnovamento e rivitalizzazione dei centri urbani, attraverso il recupero e la messa in valore del
patrimonio storico (heritage preservation). Queste pratiche progettuali sono l’antitesi dei principi del Movimento Moderno
e si possono riassumere attraverso due concetti:

- Cityscape (modernismo): tipica manifestazione della progettualità modernista e si caratterizza per la linearità degli
spazi urbani, il gigantismo delle strutture, l’ordine razionale che produce paesaggi monotoni come le periferie
cittadine delle aree suburbane. L’estetica è ridotta al minimo se non alla sola funzionalità delle strutture, allo scopo
di concepire degli spazi universali che si possano riprodurre in qualsiasi tempo e luogo. In questo paesaggio
rinnovato dominano l’automobile e le industrie.

- Townscape (postmodernismo): tratto dell’architettura e dell’urbanistica postmoderna che propone il recupero di


una componente estetica nel paesaggio urbano, o anche solo della sua apparenza. C’è un ritorno alla decorazione e
al dettaglio in grado di dare un valore estetico alle strutture indipendentemente dalla loro funzione, il più delle volte
con chiari riferimenti all’esotico e al tradizionale. L’urbanistica moderna celebra la pluralità, la differenza e
l’attenzione all’ambiente per rimediare agli scompensi del modernismo.
I canoni postmoderni spingono verso la rigenerazione urbana, verso il recupero e il miglioramento dell’ambiente cittadino
attraverso il riuso di aree abbandonate e la rivitalizzazione dei quartieri in declino, allo scopo di aumentare il benessere
cittadino ma, soprattutto, per la messa in valore dello spazio urbano da un punto di vista economico e commerciale. In
questo periodo si assiste a una progressiva deindustrializzazione e all’aumento esponenziale dell’economia dei servizi che
diventa il principale mezzo di accumulazione del capitale. Lo sviluppo del settore terziario inizia a modificare notevolmente
la vita urbana: emergono nuovi concetti come imprenditorialità, investimenti, competizione e marketing allo scopo di
valorizzare i terreni e attirare flussi di capitale. Il paesaggio e la percezione del luogo vengono manipolati per renderli
appetibili, trasformando così le città in un marchio da commercializzare, come si fa per i prodotti di consumo. Nasce il
cosiddetto city branding, insieme di tecniche e linguaggi mutati dal marketing pubblicitario. La nuova politica urbana (new
urban policy) si pone l’obiettivo di riattivare l’economia e riorganizzare l’espansione della città attraverso nuove strategie di
pianificazione, costituite da innovazioni dell’urbanistica, come il piano regolatore. Al concetto di government si oppone
quello di governance: rispetto al passato, quando la pianificazione era controllata direttamente da organismi statali,
nazionali o locali, la governance prevede l’intervento di nuovi attori economici, in particolare privati, per la gestione e lo
sviluppo dei quartieri urbani. Si assiste al coinvolgimento (relativo) degli abitanti nei processi decisionali e nella risoluzione
delle problematiche sociali attraverso una serie di meccanismi e tecnologie (dibattiti, incontri, progettualità), al fine di
rafforzare la condivisione tra cittadini e a consolidare l’azione di governo tramite il contenimento dei dissensi.

Gentrificazione: concetto alla base della trasformazione postmodernista della città introdotto per la prima volta da Ruth
Glass nel 1964. Il concetto viene spesso usato in maniera impropria come sinonimo di rigenerazione urbana o per indicare
qualsiasi cambiamento della dimensione urbana. Tuttavia, grazie all’analisi delle scienze sociali, il significato di
gentrificazione risulta più ampio, in quanto prevede un processo di ristrutturazione di porzioni di città già esistenti (es.
quartieri) attraverso il quale le classi lavoratrici, che non sono più in grado di sostenere i costi per vivere in un determinato
quartiere, sono progressivamente allontanate e sostituite (displacement), implicitamente o esplicitamente, dall’afflusso di
residenti dal reddito medio-alto. Il processo di gentrificazione prevede un miglioramento degli edifici dell’arredo urbano,
delle infrastrutture e dei servizi con un conseguente aumento del valore immobiliare e del mercato degli affitti. La
gentrificazione è stata al centro delle teorie che si occupano di processi urbani e che hanno posto attenzione sugli effetti
drammatici che ha prodotto sugli abitanti dei quartieri coinvolti e sul paesaggio delle città.

Sin dalle origini del fenomeno, le politiche pubbliche hanno favorito i processi di gentrificazione proprio per assecondare la
crescita economica delle città e la competizione sul mercato globale. Dal suo emergere verso il 1980 al 2020, la
gentrificazione ha conosciuto cinque ondate di crescita e diffusione. Soprattutto all’inizio del nuovo millennio (quarta
ondata) le città occidentali come Londra e New York sono completamente gentrificate, in particolare quei quartieri che una
volta erano caratterizzati da povertà e marginalità (es. Harlem a New York). Questo periodo ha visto l’emergere di grandi
società immobiliari, una crescente erogazioni di mutui e prestiti e grandi flussi transnazionali di capitali mossi dalle élite
benestanti (i cosiddetti “super ricchi”). Interi quartieri storici e decadenti, abitati dalle classi più povere ed emarginate, sono
stati così trasformati in ambienti eleganti e prestigiosi che ospitano strutture funzionali alle esigenze consumistiche della
classe medio-alta (ristoranti, boutique, gallerie d’arte, caffè, residenze di lusso, locali alla moda). I consumatori di prodotti e
servizi di lusso valutano e definiscono il proprio status, la propria esistenza (habitus di Pierre Bourdieu inteso come una
cornice che definisce le azioni individuali e collettive di una determinata classe sociale), attraverso la spettacolarizzazione, il
consumo, lo stile e la distinzione degli ambienti che frequentano. I luoghi di cultura (musei, gallerie, teatri, locali etnici)
tendono infatti a concentrarsi nelle aree gentrificate allo scopo di costituire un insieme di consumi culturali per la creative
class che ama essere guardata come la protagonista della città.

I processi di gentrificazione hanno portato, inoltre, alla frammentazione del tessuto urbano, proprio allo scopo di
concentrare tutti gli investimenti e i progetti in particolari isole privilegiate, a discapito di una progettazione urbana più
complessa. Un esempio di frammentazione estrema nello sviluppo della città moderna è rappresentato dalle gated
community (comunità recintate), quartieri residenziali a tema, fortemente separati e segregati dal tessuto urbano
circostante. Si tratta di realtà abitative sorte inizialmente negli Stati Uniti attorno al 2000, oggi diffuse in tutto il globo,
costituite da muri e cancelli impenetrabili, con accessi riservati e controllati da sistemi di sorveglianza che impediscono
l’accesso ai non residenti, allo scopo di proteggere determinate classi sociali dal crimine e dalla violenza delle grandi
metropoli. Ciascuna gated community adotta un particolare stile architettonico che rievoca scenari tradizionali, rurali e
bucolici per richiamare a un tempo passato distrutto dalla modernità; all’interno sono presenti servizi dedicati agli abitanti.
L’obiettivo di chi risiede in questi luoghi, oltre alla ricerca del controllo e della sicurezza, è quello di definirsi come classe
privilegiata e di soddisfare determinati consumi dissociandosi dalla realtà socioeconomica della città. Oltre al concetto di
habitus, Pierre Bourdieu elabora anche quello di capitale culturale per designare una fonte di prestigio personale
rappresentata dall’educazione, dalla conoscenza, dallo stile di vita e dal gusto, in contrapposizione ai gusti e agli stili di vita
altrui.

La città globale
La globalizzazione è l’esito di quel lungo processo di espansione dell’orizzonte culturale ed economico europeo e del potere
degli Stati nazionali d’Europa al di fuori del continente, iniziato almeno dall’epoca delle grandi scoperte geografiche e del
colonialismo. Le conseguenze della compressione spazio-temporale associata all’accelerata mondializzazione dell’economia
non hanno impattato solo sul mercato della finanza ma hanno drasticamente mutato anche le attività industriali, grazie ai
processi di deindustrializzazione da parte dei Paesi più ricchi e alla connessa delocalizzazione delle filiere produttive alla
ricerca di manodopera a buon mercato, regole sindacali e tutele meno stringenti, tutele ambientali poco rigide o inesistenti.
Oltre agli attori economici privati, la globalizzazione economica ha beneficiato anche della nascita e del consolidamento di
grandi accordi e reti commerciali transnazionali, che hanno favorito la libera circolazione dei capitali e delle merci fra i
diversi Paesi membri. Al ruolo crescente delle società multinazionali e dei soggetti istituzionali sovranazionali, si è
accompagnato un indebolimento degli Stati nazione e della loro capacità di stabilire gli indirizzi politici ed economici,
nonché di esercitare la sovranità in maniera esclusiva sui propri territori. È altresì evidente che l’azione degli organismi
transnazionali non si esercita al di fuori del territorio degli Stati, ma si esplica all’interno di essi, modificandone la geografia.
Un ruolo determinante, in questi processi economici e sociali, è stato svolto dalla rivoluzione che ha investito la tecnologia
dell’informazione, contribuendo in maniera sostanziale alla ristrutturazione dei processi economici di accumulazione
capitalistica. Si deve al sociologo Castells un’analisi di questo processo e dell’impatto che ha avuto sull’economia e la
socialità umana e che ha portato alla nascita della società in rete. Essa è conseguenza dell’affermarsi di reti globali mediate
dalle tecnologie informatiche e dal conseguente emergere di innumerevoli comunità virtuali, la cui esistenza poggia su
meccanismi informazionali. L’esistenza di una società globale interconnessa e plasmata dall’informazione poggia su
molteplici relazioni a rete, termine con cui non si fa riferimento solo al World Wide Web, ma piuttosto a una maglia di
relazioni che definiscono il funzionamento della società contemporanea e che sono costituite da insieme di connessioni e
nodi. La metafora della rete e dei nodi che Castells usa per definire il funzionamento delle relazioni economiche e sociali del
tempo presente si presta anche a spiegare il ruolo delle città globali: centri urbani in cui si verifica una particolare
concentrazione di attività terziarie e quaternarie di alto livello e che, per le loro funzioni economiche, politiche e culturali,
diventano un riferimento a livello mondiale. Si deve a Sassen, a partire dagli anni ’90, l’utilizzo del termine città globale che
da allora ha assunto un’accezione condivisa a tutti i livelli. Le città globali sono centri urbani importanti a livello mondiale e
costituiscono i nodi di una rete di servizi di alto livello, soprattutto in ambito finanziario, che determinano un sistema di
potere transnazionale. Dunque, le città globali sono la sede dove si concentra quel complesso di organizzazioni e funzioni
che assicurano il controllo sull’economia mondiale: le sedi delle grandi banche d’affari e delle società finanziarie e di
assicurazione, le borse, ma anche i mezzi di comunicazione che permettono di governare quei meccanismi informazionali cui
accennava Castells. Oltre alle città identificata da Sassen (NY, Londra, Tokyo), oggi possiamo annoverare altri nodi urbani
che fanno parte di questa rete, grazie all’espandersi della globalizzazione economica e all’emergere di nuovi centri
protagonisti dell’economia mondiale, come la Cina con Pechino e Shangai. Ancora, Seoul in Corea, Mumbai in India,
Bangkok nel sud-est asiatico; San Paolo e Città del Messico in America Latina; Milano, Francoforte e Amsterdam in Europa.
Negli ultimi decenni, a partire proprio dalle città ai vertici della gerarchia mondiale, si sono sviluppate nuove professionalità
e attività che dominano l’immaginario attuale del mondo del lavoro con una netta differenza sociale rispetto al passato: basti
pensare a quante forme di lavoro sono emerse negli ultimi decenni o a quanto sia cambiato il ruolo sociale di certi impieghi
lavorativi, dall’influencer al rider impiegato nelle consegne a domicilio di cibo e altri beni. Inoltre, la sempre maggiore
rilevanza dei consumi culturali sopra accennata impatta sul lavoro creativo, producendo nuove professionalità di solito ben
retribuite associate all’alta tecnologia, all’amministrazione, all’industria della creatività e del tempo libero. A questo mondo
di nuove professionalità, si contrappone un secondo strato di lavori mal pagati. Questo esercito di lavoratori malpagati è
però necessario alla sopravvivenza delle città globali, tanto quanto il flusso di denaro che le alimenta. Grazie alla loro
immagine vincente, le città globali divengono le principali mete del turismo internazionale e alimentano un’immagine che
contribuisce alla trasformazione delle altre città nel resto del mondo. Negli ultimi decenni questi processi sono stati
accentuati dall’emergere del capitalismo delle piattaforme, legate allo sviluppo di grandi imprese tecnologiche e dalla loro
capacità di controllare una serie di attività produttive attraverso il Web. Il capitalismo delle piattaforme sta modificando lo
spazio urbano dove storicamente si sono concentrati i processi di innovazione. Le politiche pubbliche di governo della città
sono sempre più indirizzate a favorire l’insediamento delle grandi imprese globali che operano nei settori delle nuove
tecnologie e la crescita di attività economiche legate all’innovazione.

La questione ambientale
I concetti di natura e ambiente hanno rivestito un ruolo centrale nel dibattito delle scienze sociali. Il sapere geografico ha
fornito numerose chiavi di lettura e prospettive soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Fino a quel momento era prevalsa
una concezione di natura intesa come entità distinta dall’agire umano, come una complessità fisico-biologica esterna alle
società umane ma allo stesso tempo fondamentale nel condizionarne lo sviluppo. Pertanto, gli studi geografici si
focalizzarono sulle reciproche relazioni che intercorrono tra natura e umanità. Questo approccio di tipo evoluzionistico e
deterministico ha influenzato la geografia positivista e neo-positivista, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Il
determinismo geografico ha quindi evidenziato il ruolo della natura nel condizionare le società umane e nel determinarne i
destini, arrivando spesso a giustificare concetti di supremazia razziale, dominio e subordinazione di certi gruppi sociali su
altri finendo per legittimare le politiche di colonialismo e imperialismo delle potenze europee. Questa prospettiva tendeva ad
indagare l’ambiente terrestre esclusivamente sulla base delle teorie delle scienze naturali, trascurando il ruolo delle
dinamiche storico-sociali nella trasformazione della natura.

A partire dai primi decenni del XX secolo sono emerse diverse riflessioni che evidenziavano il ruolo dei processi storico-
sociali nella riconfigurazione della natura, muovendo critiche al determinismo geografico.

- Lucio Gambi → ha fornito un notevole contributo per superare il determinismo geografico, andando ad evidenziare
il ruolo dell’agire umano sull’ambiente e soprattutto la sua dimensione storica. Gambi sottolinea come i processi
storici influenzino l’ambiente e come i gruppi umani non si debbano studiare come fossero collocati accanto alla
natura ma compresi come parte integrante della sua complessità

Soprattutto dal Secondo dopoguerra in poi la geografia avverte la necessità di approfondire gli studi e le problematiche
sull’ambiente. A partire dagli anni Cinquanta, infatti, si verifica a livello globale una grande accelerazione nelle
trasformazioni dell’ambiente guidate dall’idea del controllo sulla natura attraverso l’interazione tra politica e progresso
scientifico e tecnologico. Questo processo accompagna le politiche di sviluppo e progresso del dopoguerra sia nel mondo
occidentale capitalista che nel blocco socialista e nei Paesi del Terzo Mondo. In questo periodo molti paesi attuano piani
strategici di controllo centralizzato sulla natura e sulle risorse (petrolio, gas, acqua) attraverso cui legittimare e consolidare il
potere politico su scala nazionale e internazionale

- 1954 Piano delle Terre Vergini attuato dall’Unione Sovietica per sfruttare aree incolte nell’Asia centrale

- 1956 Nazionalizzazione del Canale di Suez da parte dell’Egitto di Nasser

- 1961 OPEC Strategie geopolitiche di estrazione e distribuzione del petrolio da parte di paesi come Iran, Iraq e
Arabia Saudita

Nel 1962 la biologa statunitense Rachel Carson propone nel libro Silent Spring una prima riflessione sull’impatto del boom
economico capitalista statunitense sugli equilibri ambientali, in particolare con riferimento all’intensificazione dei processi
di produzione agricola su larga scala e all’utilizzo di pesticidi chimici e DDT sostenute da corporation private al fine di
massimizzare la produttività. Questo contributo si rivela fondamentale per l’emergere dei primi movimenti ambientalisti alla
fine degli anni Sessanta che introducono nel discorso pubblico tematiche legate ai diritti ambientali, alle rivendicazioni di
decolonizzazione e di accesso alla terra sostenute da coevi movimenti sociopolitici africani e sudamericani.

Dal lavoro di Carson iniziano a svilupparsi una serie di riflessioni critiche che vanno ad approfondire il rapporto tra
capitalismo, degradazione ambientale, dominio coloniale, diritto alla terra e risorse. I contributi critici da parte della
geografia e delle scienze sociali insieme a una progressiva presa di coscienza delle problematiche ambientali da parte
dell’opinione pubblica occidentale, per la prima volta pongono l’attenzione sull’influenza della società umana sull’ambiente,
sui meccanismi di crescita economica e sui limiti delle risorse naturali. Tutto ciò viene consolidato grazie all’importante
pubblicazione de I Limiti dello Sviluppo di Meadows nel 1972, il prodotto di una ricerca commissionata dal Club di Roma,
un’associazione internazionale di scienziati, economisti e industriali istituita nel 1968.

Sempre nel 1972 viene formalizzato il primo dibattito istituzionale sul rapporto ambiente-sviluppo nell’ambito della
conferenza ONU su Human Environment che si svolge a Stoccolma. In questo primo evento internazionale sul tema
ambientale vengono affrontate in particolare le problematiche ambientali relative al Sud Globale, come la deforestazione, la
desertificazione e l’accesso all’acqua ed emerge la necessità di promuovere politiche internazionali di gestione delle risorse e
dell’ambiente più in generale. La conferenza di Stoccolma viene considerata il momento chiave per l’inaugurazione di una
prima fase di international environment politics, ovvero una progettualità politica sul tema ambientale a livello
internazionale.

In Italia, il contributo di Laura Conti in Che cos’è l’ecologia pubblicato nel 1977 mette in luce l’importanza dei temi
ecologico-ambientali e in particolare sulla natura politica dell’ecologia. Conti riflette sulle relazioni tra capitale, lavoro e
ambiente evidenziando come le problematiche ecologiche avrebbero dovuto assumere un ruolo centrale nell’ambito delle
lotte di classe e operaie.

Tra gli anni Settanta e Ottanta nel dibattito accademico europeo si delinea un processo di politicizzazione dell’ambiente e di
critica nei confronti del rapporto tra capitalismo e sfruttamento ambientale che porterà alla distinzione tra i concetti di
degrado ambientale e crisi ecologica. La crisi ecologica viene presentata come l’esito del progressivo consolidamento dei
principi di accumulazione capitalistica ed estrazione di risorse naturali. La riflessione critica sul rapporto tra lo sviluppo
capitalista e le problematiche di giustizia sociale e ambientale rappresenta la base dell’emergere, a partire dai primi anni
Ottanta, della geografia radicale d’ispirazione neo-Marxista. Il pensiero geografico riconosce la necessità di sottolineare la
natura politica delle problematiche socio-ambientali a livello globale, come i processi di deforestazione e desertificazione
provocati dagli interventi di corporation multinazionali occidentali orientate all’estrazione di risorse minerarie e alla
monocultura agricola intensiva nei territori dell’America Latina, dell’Asia sud-orientale e in molte regioni dell’Africa.

In The Limits to Capital del 1982 David Harvey sottolinea come la produzione capitalista delle risorse non possa essere
analizzata in modo efficace senza considerare la dimensione socio-naturale e i processi di valorizzazione del capitale. Harvey
avanza questa riflessione concettualizzando la natura come prodotto di processi di produzione capitalista e mettendo in
discussione l’idea stessa di natura come elemento esterno all’influenza delle società umane.

Nel 1984 Neil Smith consolida le riflessioni sulla riconcettualizzazione della natura, sostenendo che la produzione della
natura è contraddistinta dall’insieme di pratiche storiche e geografiche attraverso le quale le società umane producono
l’ambiente. Secondo Smith, per comprendere l’influenza del capitalismo nell’equilibro socio-ambientale è fondamentale
storicizzare le relazioni tra società umane e natura, superando la concezione dualistica che ha a lungo presentato queste
entità come distinte. Smith evidenzia come nel corso dello sviluppo sociale e culturale del mondo occidentale, quella che lui
definisce “ideologia della natura” sia stata concettualizzata sulla base di specifiche visioni e interessi volti a legittimare
logiche di appropriazione, valorizzazione e mercificazione.

L’approccio della geografia critica di quel periodo ha consentito di investigare nel dettaglio le problematiche socio-
ambientali a varie e scale e di costruire così una nuova corrente di pensiero orientata alla definitiva rottura con il
determinismo ambientale, le teorie positiviste e neo-positiviste.
Sviluppo sostenibile
Nella seconda metà degli anni Ottanta si assiste a un cambiamento di prospettiva sostenuto da esperti ed economisti
neoliberisti influenzato dal ruolo assegnato al mercato nella riflessione ambientale. Questo nuovo paradigma prende il nome
di Modernizzazione Ecologica e nasce come teoria socio-economica globale allo scopo di coniugare crescita economica e
preservazione dell’ambiente, sostenere un maggior ruolo del settore privato e del mercato nell’influenzare le politiche
ambientali, riponendo totale fiducia nell’innovazione scientifico-tecnologica al fine di intraprendere uno sviluppo sostenibile
che riduca le esternalità negative, come l’inquinamento atmosferico, sugli equilibri socio-ecologici.

Il paradigma della Modernizzazione Ecologica è determinante per la promozione (da parte delle Nazioni Unite) dello
sviluppo sostenibile come nuovo concetto politico-ambientale. Lo sviluppo sostenibile fa emergere una nuova governance
globale dell’ambiente, cioè un nuovo quadro politico-istituzionale orientato a ridurre la povertà, sostenere la protezione
ambientale e guidare i processi di sviluppo e di policy-making a scala mondiale attraverso l’adozione dei principi di crescita
sostenibile e neoliberalizzazione socioeconomica. Questo nuovo assetto è contraddistinto da una prospettiva transnazionale
nei confronti delle problematiche ambientali e dalla necessità di attuare un approccio integrato nei processi decisionali tra i
governi, le organizzazioni internazionali e i vari soggetti economici privati. Inoltre, vengono riconfigurati i ruoli e le relazioni
di potere tra gli attori economici al fine di orientare la governance verso la riduzione dell’intervento pubblico e la
liberalizzazione; infine, si caratterizza per l’introduzione di meccanismi di mercato nelle politiche.

La Modernizzazione Ecologica, lo sviluppo sostenibile e la nuova governance globale dell’ambiente rappresentano


un’importante svolta sia a livello scientifico che politico nell’interpretazione delle relazioni socio-ambientali e del rapporto
capitalismo-ambiente-sviluppo. Queste teorie sono state messe in discussione da vari ambiti di studio come l’ecological
economics che hanno messo in luce il carattere contradditorio che sta dietro all’idea di una crescita economica senza limiti,
basata sullo sfruttamento delle risorse per assicurare l’accumulazione capitalistica e la volontà di preservazione
dell’ambiente e di tutela dei gruppi sociali.

Alla fine degli anni Ottanta le Nazioni Unite promuovono la creazione di una commissione di studi per delineare il tema, gli
obiettivi da raggiungere e i limiti da abbattere, la World Commission on Environment and Development (Commissione
Brundtland) che pubblica nel 1987 un Rapporto, noto come Our Common Future o Rapporto Brundtland, in cui è
contenuta la prima definizione di sviluppo sostenibile inteso come quel processo di sviluppo grazie al quale i bisogni
dell’attuale generazione sono soddisfatti senza compromettere quelli delle generazioni future. Da ciò derivano i tre principi
chiave della sostenibilità:

- L’integrità dell’ecosistema: un uso sostenibile delle risorse naturali e una gestione controllata del flusso di rifiuti
dell’ambiente

- L’efficienza dell’economia: tanto più è sostenibile, tanto più un’economia sarà efficiente nei termini di un
raggiungimento del massimo profitto minimizzando l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse

- L’equità sociale: valore etico che ha una duplice valenza, come equità intragenerazionale (diritto di tutti i popoli
della Terra a partecipare allo sviluppo e a beneficiarne in uguale misura) ed equità intergenerazionale (diritto delle
generazioni future a usufruire delle stesse risorse disponibili per la generazione presente).

Il Rapporto Brundtland ha anche definito tre criticità che ostacolano l’applicazione dello sviluppo sostenibile:

- La crescita demografica incontrollata dei Paesi a basso reddito

- La dipendenza dai combustibili fossili

- La mancanza di una partnership globale che governi le politiche di sviluppo sostenibile a scala mondiale

Se fino agli anni Cinquanta il concetto di sviluppo si era identificato con la mera espansione politica ed economica
dell’Occidente, da questo momento in poi lo sviluppo viene associato al generale miglioramento qualitativo del tenore di vita
delle popolazioni, secondo parametri relativi alle condizioni sanitarie, l’accesso all’istruzione, l’equità di genere, soprattutto
in seguito all’emergere di manifestazioni di povertà estrema e di criticità geopolitiche. Inizia a delinearsi così anche il tema
dello sviluppo umano. Nel 1990 le Nazioni Unite affidano all’UNDP (United Nations Development Program) la redazione
di un rapporto annuale dal titolo Human Development Report, che descrive lo scenario dello sviluppo globale attraverso la
statistica, in particolare attraverso l’Indice di Sviluppo Umano, un indice creato ad hoc dall’integrazione di altri tre
indicatori, tra cui il Prodotto Interno lordo (PIL), la speranza di vita alla nascita e il tasso di alfabetizzazione e
scolarizzazione primaria. Nel corso degli anni il Rapporto si è arricchito di altri indicatori, tra cui:

- Multidimensional Poverty Index → per esaminare le privazioni cui i poveri sono sottoposti negli ambiti della salute,
dell’istruzione, degli standard di vita

- Indice di Sviluppo di Genere → misura le carenze nello sviluppo femminile relative a salute, educazione, economia,
mostrando in maniera statistica il divario tra donne e uomini nell’accesso allo sviluppo umano

- Gender Inequality Index → misura le disparità tra uomini e donne nell’accesso alla salute riproduttiva, nei processi
decisionali e nell’accesso al mercato del lavoro

Il concetto di sviluppo sostenibile diventa dominante nel dibattito politico internazionale, venendo istituzionalizzato come
discorso mainstream nel 1992 durante il Summit per la Terra di Rio de Janeiro. Nonostante le numerose misure adottate nel
quadro della governance globale dell’ambiente per promuovere la sostenibilità, negli ultimi trent’anni il riscaldamento
globale, le politiche di estrattivismo e di privatizzazione delle risorse sostenute dai governi, multinazionali e attori finanziari,
hanno incrementato le conflittualità socio-ambientali a scala globale. Di conseguenza il programma di uno sviluppo
sostenibile è stato messo in discussione, soprattutto in relazione all’assenza di un’analisi critica sulle radici strutturali della
crisi ambientale, sull’incremento della marginalizzazione e delle diseguaglianze socio-ambientali, sui processi di
neoliberalizzazione dell’ambiente.

Studi sul post-sviluppo (Post-Development Studies): filone che nasce come riflessione critica nei confronti delle pratiche
associate alla nozione di sviluppo. Si concretizza negli anni ’90 quando lo sviluppo sostenibile diventa il paradigma di
sviluppo dominante. La sua posizione si schiera contro lo sviluppo, arrivando a rifiutarlo come prodotto dell’imposizione a
scala globale del modo di vita occidentale e a decostruire i discorsi che lo sostengono e giustificano come modello universale.
Questo approccio raccoglie prospettive diverse, accomunate da alcuni principi tra cui: un atteggiamento fortemente critico
nei confronti della nozione di sviluppo e di ciò che essa ha prodotto, il tentativo esplicito di superare la nozione stessa di
sviluppo anziché individuare forme alternative, la constatazione che le teorie dello sviluppo che si sono susseguite nel tempo
hanno fallito nel trovare soluzioni efficaci, contribuendo anzi ad aggravare le condizioni sociali, politiche ed economiche
globali, in particolare nei Paesi del Sud Globale. Gli studiosi del post-sviluppo affermano che l’idea stessa di sviluppo è
ancora legata alle dinamiche di colonizzazione e al dualismo sviluppo/sottosviluppo che ha caratterizzato la retorica
occidentale. Di conseguenza, qualunque alternativa allo sviluppo deve passare per un processo di decolonizzazione dal
potere mondiale. Lo sviluppo è stato costruito a spese dell’ambiente e dei gruppi umani minoritari, alimentando un sistema
adatto alle classi più privilegiate che vivono nel mondo occidentale. Le azioni post-sviluppiste proposte prevedono la
valorizzazione di pratiche legate alle tradizioni locali e ai movimenti per tutela dei gruppi sociali. Vale la pena menzionare
quella del Buen Vivir, un concetto che si basa sul recupero di saperi propri di alcuni popoli indigeni, prendendo le distanze
dalle idee occidentali di progresso e promuovendo una diversa concezione della vita “buona” e rispettosa della natura.
Questo concetto ha ottenuto riconoscimento istituzionale in alcuni Paesi dell’America Latina diventando un vero e proprio
diritto integrato nelle Costituzioni.

Ecologia politica
Altro ambito che mira a riflettere sulla dimensione politica e sulle asimmetrie di potere che contraddistinguono la crisi
ambientale e climatica globale. Sorge nel quadro delle riflessioni delle scienze sociali di stampo marxista, tra la fine degli
anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, ponendosi il fine di riconcettualizzare le relazioni socio-ambientali e di riflettere
sul rapporto tra capitalismo, gestione dell’ambiente e potere. L’ecologia politica è un ambito multidisciplinare che abbraccia
geografia critica, antropologia, sociologia, storia dell’ambiente ed economia politica. Nello specifico, l’ecologia politica si
concentra sulla critica dei processi di valorizzazione, accumulazione e mercificazione capitalista in relazione a dinamiche di
accesso alle risorse, esclusione e diseguaglianza sociale e sulla necessità di superare i meccanismi di dominazione e
oppressione socio-ambientale di stampo capitalista. L’ecologia politica mira a teorizzare le relazioni tra società e ambiente
allo scopo di decolonizzare il pensiero scientifico dai principi dell’imperialismo e dalla concettualizzazione di civiltà, cultura
e razza, attraverso l’applicazione dei metodi etnografici della ricerca sul campo in contesti dell’Africa centrale e dell’America
Latina. La prospettiva dell’ecologia politica ruota attorno a tre punti chiave:

- Analisi critica delle relazioni di potere

- Ricerca sociale partecipata

- Giustizia socio-ambientale e climatica

Inoltre, l’ecologia politica ha individuato l’esistenza di problematiche ambientali sempre più significative associate a processi
di deforestazione, desertificazione e degradazione dei suoli in relazione alle pratiche di estrattivismo delle risorse. Il punto
centrale dell’ecologia politica è infatti l’analisi dei fenomeni di globalizzazione e neoliberalismo e di come questi abbaino
portato ad un rinnovato sfruttamento dell’ambiente attraverso una forte accelerazione dei processi estrattivi e di
mercificazione delle risorse naturali. Le politiche neoliberali attuate dalle multinazionali hanno portato spesso a ingiustizia,
disuguaglianza ed emarginazione sociale nell’accesso alle risorse, processi che sono sfociati spesso in casi di conflittualità
socio-ambientale.

Conflitto socio-ambientale: rappresenta un tema centrale dell’ecologia politica. Le origini del conflitto ambientale emergono
in relazione alle visioni e agli interessi di differenti attori che promuovono politiche estrattive, progetti infrastrutturali o
dinamiche di trasformazione ambientale. Dalla fine degli anni ’90 si tenta di concettualizzare il conflitto socio-ambientale,
visto come teatro di contesa caratterizzata da controversie e visioni politiche e ideologiche opposte e differenti che implicano
delle forti contraddizioni spesso alla base di processi di marginalizzazione. Il conflitto dev’essere analizzato come processo in
continua evoluzione, contraddistinto dall’evolversi di ruoli, prospettive, rivendicazioni e riconfigurazioni di potere. In Italia,
i casi dei progetti infrastrutturali della TAV e della TAP sono emblematici per comprendere la riconfigurazione di interessi e
i rapporti di potere tra soggetti pubblici, attori privati e movimenti socio-ambientali associati a importanti progettualità di
valorizzazione economica. Le risorse sono spesso al centro di conflittualità, come ad esempio il gas.

Il conflitto e i meccanismi socio-ambientali sono importanti per consolidare determinate posizioni e rafforzare determinati
movimenti socio-ambientali con l’obbiettivo di influenzare le politiche e i progetti. Negli ultimi anni l’ecologia politica si è
concentrata su come nelle città contemporanee la governance urbana si rapporti alla gestione dello spazio. La gestione di
spazi verdi nei centri urbani porta non di rado a conflitti socio-ambientali legati a grandi compagnie immobiliari che tentano
di edificare le zone verdi a fini di lucro, compagnie contro le quali spesso la cittadinanza locale si oppone in difesa di uno
spazio considerato pubblico. In questi conflitti le istituzioni urbane, frequentemente a favore di tali progetti espansivi, si
vedono spesso costrette a cambiare schieramento e ripensare le proprie strategie in seguito alle proteste locali, che si rivelano
quindi mezzo efficace di tutela ambientale. I conflitti socio-ambientali spesso sono finalizzati alla riconfigurazione dei
progetti di gestione degli spazi:

- Attenzione alla città: conflittualità in riferimento allo spazio e alla governance e alla gestione di quello spazio
- Rivendicazione dello spazio pubblico da parte delle comunità risedenti.
- Conflitto e ripoliticizzazione del progetto o suo abbandono.
- Dibattito e spazio politico e riconfigurazione del progetto.

È importante sottolineare come le prospettive della geografia critica e dell’ecologia politica, attraverso teorie metodi e
pratiche eterogenee risultino oggi centrali per proporre nuove prospettive di analisi e di ricerca sul conflitto socio-ambientale
e per riconfigurare pratiche e politiche di governance che favoriscano la giustizia socio-ambientale e climatica. È quindi
essenziale comprendere quali strategie, interessi e dinamiche economiche vanno a determinare tale sfruttamento delle
risorse alla base delle diseguaglianze odierne.
Cambiamento climatico e governance del clima
il cambiamento climatico rappresenta un ambito di studio di grande interesse per la geografia. Le cause dei cambiamenti
climatici (aumento della temperatura, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello medio del mare, fenomeni
atmosferici violenti o inusuali, ecc.) sono da rintracciare nell’aumento della concentrazione di alcuni gas nell’atmosfera (i
cosiddetti gas a effetto serra) derivanti dai diversi processi antropici che hanno caratterizzato lo sviluppo delle economie
moderne degli ultimi secoli. Questi gas a effetto serra (vapore acqueo, anidride carbonica, ossido di azoto, metano e ozono)
sono presenti in quantità minima nell’atmosfera terrestre, ma svolgono un ruolo regolatore fondamentale, trattenendo il
calore del Sole sulla Terra, andando a garantire una temperatura media dell’atmosfera terrestre superiore a quella che si
avrebbe senza la loro presenza. Questo ruolo regolatore ha consentito alla vita sul nostro pianeta di svilupparsi. Tuttavia,
dalla prima rivoluzione industriale, la concentrazione di questi gas è aumentata sempre di più, in particolare quella
dell’anidride carbonica. Il suo aumento è dovuto all’uso dei combustibili fossili oltre che a pratiche di deforestazione e di
degrado ambientale, risultato di un insostenibile sfruttamento delle risorse naturali che produce ricadute in termini di
sicurezza alimentare e reddito sugli individui che dipendono direttamente da queste risorse.

Il degrado ambientale colpisce gli esseri umani (soprattutto i più vulnerabili) in modi diversi e in diversi aspetti sociali,
politici, culturali ed economici. Tra le forme di danno ambientale più grave c’è la deforestazione, che non solo riduce la
capcità dell’ambiente di assorbire l’anidride carbonica, ma è responsabile della dimunizione della biodiversità.

La temperatura media del pianeta è aumentata di circa 1°C dal 1880, con due terzi di tale aumento verificatosi dal 1975 ad
oggi. Da fenomeno naturale che ha consentito la vita sul pianeta, l’effetto serra è divenuto un problema non solo ambientale
ma anche sociale, eocnomico e politico.

Nel 1988 l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha costituito un organismo di ricerca climatica chiamato
Intergovernmental Panel Climate Change (IPCC) che analizza la soglia di guardia dei rischi climatici. Parole chiave:

- Rischio climatico: possibilità che vi siano conseguenze avverse a beni e oggetti, derivanti da eventi connessi con il
clima. Il rischio non è universale nel tempo e nello spazio ma è una variabile che dipende dalla condizione sociale
degli individui, dal contesto naturale e culturale in cui vivono.

- Vulnerabilità: propensione a subire conseguenze negative

- Resilienza: capacità di un gruppo sociale di rispondere a un evento rischioso riorganizzandosi e mantenendo intatte
le proprie funzioni, identità e struttura, mostrando in questo modo una certa propensione all’adattamento e
all’apprendimento attraverso le mutate circostanze.

Questi concetti offrono una prospettiva di analisi della distribuzione dell’impatto e della percezione dei cambiamenti
climatici in quanto enfatizzano le diseguaglianze globali, creando di fatto una distribuzione molto squilibrata di
responsabilità e impatti territoriali: ad esempio, i Paesi del Sud Globale, pur avendo contribuito storicamente in misura
relativamente minore all’emissione di gas serra, saranno probabilmente tra quelli maggiormente compiti dalle conseguenze
dei cambiamenti climatici a causa di un effetto moltiplicatore su cui incide la loro scarsa capacità tecnologica e la minore
disponibilità finanziaria per sostenere il costo della mitigazione e dell’adattamento.

Ciò introduce il tema della (in)giustizia climatica, climate (in)justice, un concetto che consente di analizzare la relazione tra
cambiamenti climatici, risposte neoliberiste e distribuzione degli impatti territoriali e della povertà.

Governance del clima: il riconoscimento dei cambiamenti climatici e dei problemi socio-ambientali da parte delle Nazioni
Unite ha prodotto, a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, una nuova politica globale che ha preso il nome di
governance climatica, il cui sviluppo avviene con la costituzione della Commissione Quadro sui Cambiamenti Climatici
durante la Conferenza di Rio de Janeiro nel 1992. La Commissione giunge alla redazione di una Convenzione (Protocollo di
Kyoto) che viene siglata nella COP3 (Conference of Parties) del 1997 a Kyoto, con l’obiettivo di ridurre entro il 2012 le
emissioni collettive di gas serra del 5% rispetto ai livelli del 1990, al fine di stabilizzare le concentrazioni di gas serra
nell’atmosfera a un livello non pericoloso per il sistema climatico. Il Protocollo di Kyoto entra in vigore solo nel 2005. Le
strategie di attuazione del Protocollo hanno mostrato quanto la governance climatica globale sia influenzata dalle prospettive
neoliberiste di stati che tutelano i propri interessi nazionali e la loro posizione dominante nel commercio globale.

Alla fine del 2015 ha luogo la COP21 di Parigi con l’obiettivo di contenere entro il 2020 l’aumento delle temperature al di
sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali. L’accordo viene ritenuto poco efficace. Tra gli aspetti problematici viene
evidenziato il favoreggiamento degli interessi dei grandi gruppi finanziari globali piuttosto che il benessere del pianeta e delle
popolazioni che lo abitano.

Dalla prima conferenza internazionale, la governance climatica globale si è focalizzata sulla necessità di avviare nuove forme
di adattamento climatico che sul piano pratico non sono facili da applicare in una realtà che deve ancora lottare contro
l’eredità dei modelli di sviluppo del passato.

Antropocene e Capitalocene
In seguito agli accordi internazionali sul clima e al consolidamento delle rivendicazioni per la giustizia ambientale e climatica
da parte dei movimenti ambientalisti, è cresciuta la consapevolezza e la sensibilità a livello del dibattito pubblico, politico e
istituzionale nei confronti della crisi ambientale e climatica. Nello scenario del dibattito scientifico sulle evidenze sempre più
diffuse del cambiamento climatico, nel 2000 il chimico Paul Crutzen e il biologo Eugene Stoermer avanzano il concetto di
Antropocene, una nuova presunta era geologica dominata dall’impatto sulla Terra delle attività umane e contraddistinta dal
rischio di eventi estremi e potenziali catastrofi ambientali e climatiche. L’Antropocene è presentata come una nuova era
geologica successiva all’Olocene (l’epoca geologica in cui ci troviamo ora e che ha avuto inizio circa 11.000 anni fa in seguito
all’ultima glaciazione e alla scomparsa di molti grandi animali) che vede nell’azione dell’Anthropos (l’essere umano) il
principale motore di plasmazione e trasformazione geologica. Nel 2009 l’Unione Internazione delle scienze Geologiche
istituisce l’Anthropocene Working Group al fine di riflettere sulla storia geologica dell’Antropocene e sulle principali
evidenze dei processi di trasformazione ecologica-ambientale, riscaldamento globale, perdita della biodiversità, aumento del
livello dei mari, penetrazione di rifiuti (plastiche) nel substrato terrestre e marino, ecc.

Dalla teorizzazione del concetto sono merse numerose prospettive in merito alla datazione sull’ingresso in questa nuova fase,
prospettive che variano dalla rivoluzione industriale all’inizio del Novecento fino alla grande accelerazione nella
trasformazione della natura a partire dagli anni Cinquanta. Nel corso dei primi decenni del XXI secolo sono emersi
importanti studi da parte della geografia critica che ha evidenziato vari aspetti controversi a partire dall’etimologia stessa del
termine Antropocene. Secondo la geografia critica la responsabilità della crisi ambientale e climatica non può essere
attribuita in modo generico all’Anthropos senza analizzare la complessità delle diseguaglianze sociopolitiche e ambientali a
scala globale, sulle relazioni di potere che stanno all’origine di questa crisi. La critica geografica si focalizza sulla necessità di
riflettere sulla dimensione politica del concetto di Antropocene e su come questa abbia in qualche modo neutralizzato le
responsabilità della crisi e legittimato l’idea di dover convivere con essa e con la possibilità di eventi estremi e catastrofici
come fossero fenomeni naturali del tutto spontanei e non il risultato di una specifica politica economica. Erik Swyngedouw
ha evidenziato come l’Antropocene sia stato adottato come strategia di depoliticizzazione della crisi, di legittimazione degli
interessi e delle visioni della governance ambientale globale e di marginalizzazione delle diseguaglianze socio-ambientali.

Un’ulteriore analisi critica del concetto di Antropocene è stata avanzata negli ultimi anni nel campo dell’ecologia politica, in
particolare dal contributo dello storico dell’ambiente Jason Moore, il quale ha teorizzato il concetto di Capitalocene,
andando a enfatizzare la natura non tanto antropogenica ma capitalogenica della crisi ambientale e climatica. La prospettiva
di Moore sul Capitalocene riprende il concetto di sistema-mondo e l’analisi delle relazioni socio-ambientali di produzione,
dominio e sfruttamento della natura. Secondo Moore il concetto di Capitalocene permette di analizzare il capitalismo come
un’ecologia mondo, ovvero come un sistema globale fatto di interazioni per l’accumulazione di capitale, rapporti asimmetrici
di potere e produzione di leggi di valore al fine di organizzare e produrre diverse “nature”, incentivando sempre di più il
progressivo deterioramento degli equilibri socio-ecologici per giungere alla crisi contemporanea. Pertanto, è necessario
riflettere su come anche i paradigmi contemporanei di economia verde, crescita verde e presunta transizione ecologica
contribuiscano a riprodurre il Capitalocene e le sue dinamiche di produzione socio-ambientale.
La geografia politica: origine della disciplina
La geografia politica nasce alla fine del XIX secolo nel periodo storico in cui nascono gli Stati-nazione europei e il
susseguente orientamento imperialista, come disciplina che serve a descrivere il funzionamento dello stato territoriale
moderno. La geografia politica si occupa di andare a ricercare nello spazio geografico quelle che sono le manifestazioni dei
fenomeni politici e fornisce strumenti che possono agevolare il funzionamento dello stato; infatti, secondo Ratzel la geografia
politica coincide con la geografia dello Stato ed è la scienza che deve indagare i rapporti tra lo spazio geografico e lo stato. La
nascita della geografia politica avviene in concomitanza con l’affermarsi del pensiero positivista, che concepisce la
conoscenza come dipendente dalle teorie delle scienze naturali, ed è in questo contesto che Ratzel lega lo studio della
geografia politica a quelli che sono i principi della geografia che studia tutte le forme viventi, applicando principi vitalistici al
funzionamento della geografia umana e alle sue organizzazioni come lo stato. Lo stato è quindi concepito come un
organismo soggetto ai principi degli esseri viventi, e come tale nasce, cresce, invecchia e poi muore.

Fondamentale nella costruzione dello Stato moderno è stato il ruolo della cartografia. Infatti, nonostante lo sforzo di studiare
e rappresentare scientificamente il mondo, le carte geografiche, come tutte le altre rappresentazioni della realtà, sono dei
prodotti culturali, sociali e politici. I fatti cartografici che esse rappresentano sono tali soltanto in riferimento a uno specifico
contesto, acquisiscono significato soltanto all’interno dei confini di un contesto già esistente, fatto di simboli e
interpretazioni.

Confine, regione e Stato-nazione


Confine, regione e Stato-nazione sono dei concetti fondamentali per gli studi della geografia politica.

Confine: concetto che illustra in maniera efficace il potere della cartografia. All’interno del dibattito della geografia politica
esistono lunghe riflessioni sull’idea di “confine naturale”, cioè sui confini che sono dati in maniera evidente dalla presenza di
fenomeni geografici come bacini fluviali o catene montuose. La materialità di queste presenze fisiche sul territorio è fuori
discussione; tuttavia, ciò che non è ovvio è il significato che attribuiamo a un determinato fenomeno naturale. Ogni oggetto
materiale acquista un significato all’interno di una cornice interpretativa preesistente fatta di affermazioni di principio, di
simboli, di forme di comprensione condivise. Di conseguenza, accettiamo come se fosse assolutamente naturale e normale
l’idea che i confini definiscano e impongano la territorialità e soprattutto che delimitino l’area rispetto alla quale lo Stato
esercita il proprio controllo. È in virtù del potere della carta e della visione del mondo che lo spazio geografico viene
legittimato. In questo modo impariamo a pensarlo in termini di confini e di limiti. Le carte, infatti, sono una tecnologia del
potere e lo stesso processo cartografico rappresenta un atto di controllo sull’immagine del mondo al fine di disciplinarlo e
normalizzarlo. Le carte producono astrazione, uniformità, ripetizione e ripetibilità. Propongono una standardizzazione del
mondo, insegnandoci a vedere il mondo secondo una particolare prospettiva, una prospettiva che richiede un’osservazione
distaccata e scientifica, svilendo tutte le prospettive alternative e trasformandole in spazio altro da conquistare.

Regione: concetto polisemico; può essere intesa come uno spazio di specifica localizzazione che in qualche modo si distingue
da altri spazi, una qualsiasi partizione territoriale con determinate caratteristiche. La regione può essere caratterizzata da un
elemento in particolare (lingua) ma anche da combinazione di più elementi, criteri e parametri (etnico-linguistici, fisici-
naturali, storici, territoriali, economici). Questi elementi conferiscono alla regione una legittimazione politico-
amministrativa e un potere straordinario. Attraverso un processo di naturalizzazione ci appropriamo del concetto di regione
intesa come fosse una sorta di entità naturale, presente sul territorio a priori (e non una costruzione politico-culturale).
Questa appropriazione ci fa accettare la partizione territoriale a cui siamo abituati come la più giusta e ovvia.

Nello studio della regione si sono distinte:

- Regione formale: regione caratterizzata per il suo aspetto, per la sua “forma”. Nel 1752 Philippe Buache usa per la
prima volta l’espressione “regione naturale” per riferirsi alla divisione del proprio Pease attraverso i bacini fluviali.
Nel corso dei secoli il concetto viene ulteriormente sviluppato attraverso la teorizzazione scientifica della superficie
terrestre nelle regioni naturali prodotte dalla configurazione morfologica. La regione inizia ad essere presentata
come unità naturale, come oggetto organico dal quale si plasma la vita umana. Questa concezione organicistica di
regione perdura fino ai primi decenni del Novecento, quando si inizia a prestare attenzione all’azione umana in
conseguenza del progresso tecnologico. Nel 1920 Paul Vidal de la Blache definisce la regione come “genre de vie”,
genere di vita, un’idea che riflette la specificità di ogni forma di organizzazione territoriale che sia propria di una
comunità umana come modo di dare ordine a un determinato ambiente e di produrre un particolare tipo di
paesaggio caratterizzato da un certo grado di uniformità. Vidal arriva a descrivere la regione mediterranea come
unità fisica e climatica caratterizzata da pratiche condivise (es. transumanza) come espressione di una cultura
mediterranea comune. La regione umanizzata di Vidal si differenzia dalla regione naturale dei suoi predecessori per
l’enfasi posta sull’azione umana e la capacità dell’uomo civilizzato di modificare la natura e aumentare le possibilità
di differenziazione regionale. La regione diviene un’efficace metafora in grado di far convergere geografia fisica e
geografia umana ma anche uno strumento per giustificare sul piano scientifico il progetto coloniale europeo sulla
base di una gerarchizzazione del mondo in regioni visibilmente più o meno progredite. Il concetto di paesaggio
presente nella concezione della regione naturale viene ripreso e riformulato da naturale a umanizzato, divenendo la
fisionomia della regione in quanto caratterizzato da fatti territoriali di matrice culturale. La regione naturale e la
regione umanizzata rientrano in una visione idiografica dello spazio, basata cioè sull’omogeneità del paesaggio e su
criteri visibili sul territorio.
- Regione funzionale: tra gli anni Cinquanta e Sessanta, lo sviluppo economico e sociale postbellico produce una
gerarchia di spazi organizzati in cui ciascuna regione esercita una particolare funzione. La regione non viene più
definita da criteri di omogeneità ma da centri di gravità e polarizzazione di queste aree, da zone di transizione, dai
centri di accumulazione di persone e mezzi, dalla fornitura di servizi di vario livello. La regione esiste dunque in
relazione alle funzioni esercitate, da cui la definizione di regione funzionale. I geografi del secondo dopoguerra
puntarono allo studio di una realtà regionale costruita sulla base di relazioni e processi tra regioni funzionali. Inizia
ad emergere una scienza regionale: la regione non è più un contenitore territoriale o un organismo spaziale ma
piuttosto un astratto insieme di relazioni e processi.
- Regione sistemica: concetto elaborato nella prima metà degli anni Ottanta, che si basa su una struttura in
movimento e orientata spontaneamente o volontariamente verso un traguardo. La regione sistemica non contempla
solo le relazioni ma anche i processi, ossia le relazioni nel loro divenire, introducendo così un elemento dinamico
che consente di interpretare la regione in senso diacronico e non sincronico. Questo approccio consente di
analizzare un sistema territoriale non come se fosse isolato dalla realtà che lo circonda ma bensì come parte
integrante di un sistema più grande e in continua relazione con esso.

Il processo di regionalizzazione è insito nei nostri schemi mentali; ci aiuta ad appropriarci non solo di territori ma anche di
una serie di concetti astratti. La naturalizzazione delle rappresentazioni cartografiche ci ha reso vittime inconsapevoli del
cosiddetto determinismo geografico: rappresentare l’ordine territoriale come se fosse determinato da una necessità che è
nella natura delle cose, mentre invece è soltanto nel codice delle nostre rappresentazioni e nei nostri processi cognitivi.

Nelle divisioni regionali della carta ritroviamo ordine e coerenza, uno strumento in grado di organizzare efficacemente la
conoscenza geografica; la scomposizione del territorio in regioni serve ad impadronirci razionalmente di un territorio e a
dominarlo nella sua totalità, in modo a noi intellegibile. Regione deriva da regere, governare, significa esercitare il potere,
ma anche da regio, tracciare linee. Linee e potere sono alla base della logica cartografica. La regione non è pertanto
un’infrastruttura data dal territorio, un contenitore in attesa di essere descritto. Spogliando una regione dalla sua presunta
neutralità, la identifichiamo, la distinguiamo dal territorio circostante conferendole significato, un’identità, a scopi
inerentemente politici. La regione assume un duplice ruolo, da una parte si offre come strumento per la salvaguardia dei
particolarismi e delle specificità locali che si intendono preservare; dall’altra si offre come strumento di controllo sul
territorio da parte del Governo, facendosi garante dell’unità nazionale del Paese. La diversificazione regionale di un Paese
spesso contribuisce a rafforzare l’identità dello stesso, i sentimenti di profondo nazionalismo.

Stato-nazione: appaiono come una sorta di fenomeno naturale, ma essi non sono forme di organizzazione sociali e politiche
spontanee, bensì si tratta di un prodotto storico, esito di una serie particolare di processi sociali e politici. Lo Stato moderno
ha avuto origine nell’Europa del XVII secolo sia come modello geografico ideale di organizzazione della politica, sia come
modello alternativo di organizzazione socioeconomica rispetto a quello imperiale che avevano dominato la configurazione
spaziale della politica europea nei secoli precedenti (entità politico-territoriali indipendenti ex. Sacro Romano Impero,
Papato, città-stato, ducati, vescovati…). La scelta dello Stato come forma ideale di organizzazione politica e morale del
territorio e della popolazione è il risultato di cambiamenti di ordine politico, militare ed economico.

A livello politico, l’idea dello Stato emerge come risposta al bisogno di un modello di controllo del territorio collocata tra il
potere universale degli imperi e delle città-stato e i domini feudali. Prima del XVII, durante la cosiddetta età delle dinastie, la
formazione di coalizioni tra diverse entità politico-territoriali era l’esito della combinazione di guerre o matrimoni. Non a
caso i territori di un singolo sovrano erano spesso separati dal punto di vista spaziale. (es. gli Asburgo, ad un certo punto
della loro lunga storia, detenevano il controllo di territori in Spagna, Italia, Austria, Burgundia, dando vita a un’entità
politica che era l’esatto contrario del moderno Stato nazione europeo). Soltanto alla fine del XVI inizia a delinearsi il
tentativo di tradurre il controllo politico e militare del territorio nella costruzione di entità politiche compatte e contigue, gli
Stati.

La Pace di Vestfalia del 1648 è generalmente riconosciuta come l’evento che ha segnato la nascita ufficiale dello Stato
moderno europeo. Viene riconosciuto il diritto interstatale, ossia il diritto di ciascuno Stato ad esercitare la propria sovranità
sul proprio territorio senza interferenze esterne. Vengono riconosciute in Europa circa 300 unità territoriali sovrane. Lo
Stato si afferma quindi storicamente come la prima forma di organizzazione politica che vanta l’esercizio del proprio potere
in maniera omogenea su un insieme territoriale unificato e segnato da chiari confini. L’affermazione dei primi stati
territoriali è anche l’esito delle guerre di religione che avevano insanguinato a lungo l’Europa durante i periodi della Riforma
e della Controriforma. Lo Stato territoriale si presenta quindi come una possibile soluzione alla mancanza di ordine e
stabilità sullo scenario politico europeo. Lo stato territoriale offre la possibilità di costituire un’unità definita, controllabile e
difendibile militarmente.

L’emergere dello Stato territoriale è strettamente associato al consolidarsi dell’economia capitalista. La sovranità dello Stato
non riguarda solo il dominio territoriale ma richiede anche la disponibilità dei mezzi necessari per assicurare la stessa
sovranità, cioè la capacità di competere dal punto di vista economico con gli Stati rivali. Lo Stato territoriale diviene il
principale soggetto economico sullo scenario internazionale.

L’evoluzione dello Stato territoriale arriva con la Rivoluzione francese (1789) e la Guerra d’indipendenza americana (1975-
1983), eventi che portano alla rivalutazione del principio di sovranità: se in precedenza la sovranità era un attributo del
regnante legittimata da un’investitura di ordine divino, le rivoluzioni cittadine attaccano questa legittimità, decretando il
popolo come unica vera forma di legittimazione della sovranità dello Stato. Un cambiamento importante è segnato
dall’affermazione del principio secondo il quale la funzione dello Stato è innanzitutto quella di assicurare i diritti dei propri
cittadini. Lo Stato così assume un nuovo compito cui tenta di assolvere fornendo servizi di assistenza sociale e proteggendo il
popolo dai sussulti dell’economia. Lo Stato, inoltre, si assume il compito di impedire che si presentino occasioni di frattura o
di collasso dell’ordine sociale. A questo scopo nascono le istituzioni.

Nel corso del XVIII e XIX secolo all’unità politico-amministrativa dello Stato si associa l’ideale della nazione, segnando così
l’inizio dell’era dello Stato-nazione. Il concetto di nazione è diverso da quello di Stato. I veri Stati-nazione sono quegli Stati
nei quali i confini territoriali di un determinato gruppo nazionale coincidono con i confini amministrativi e nei quali la
popolazione è sostanzialmente omogenea al suo interno. Tuttavia, in oltre la metà degli Stati-nazione attuali, il gruppo
nazionale maggioritario rappresenta meno del 75% della popolazione complessiva.

La nazione è da considerarsi come una costruzione sociale e politica caratterizzata da una specifica storia, legata in modo
indelebile allo sviluppo dello Stato moderno e del capitalismo globale. In questo caso, gli studiosi concepiscono le nazioni
come comunità immaginate (Benedict Anderson 1983) fondate sull’invenzione di una tradizione nazionale da parte di
un’élite economicamente, culturalmente e politicamente egemonica. Bisogna sottolineare in che modo sia nata l’idea di
nazione come comunità di appartenenza. Non c’è nulla di scontato nel senso di comunione e di partecipazione collettiva che
caratterizza le comunità nazionali. Ciò che unisce gli Italiani non è la conoscenza reciproca, ma il fatto che pensano sé stessi
come parte di un insieme più grande, un insieme che li contiene e accomuna, la nazione appunto. Questo è il motivo per cui
Anderson definisce le nazioni come “comunità immaginate”, cioè tenute insieme né da parentela né dall’interazione
quotidiana dei loro membri, ma da un immaginario condiviso che consente di pensarle come comunità e come spazio
fondamentale di riferimento.

È da notare come un fattore chiave nell’affermazione della nazione verso la fine del Settecento è dato dal declino in Europa
delle concezioni religiose del mondo. Anderson osserva che, in seguito alle idee illuministe e al trionfo del secolarismo della
Ragione, l’assurdità della salvezza rese necessario l’emergere di una nuova forma di fede. La nazione emerge dunque come
una sorta di religione secolare, dando espressione politica al bisogno umano di continuità rispetto al passato, rendendo la
nazione legittima e naturale. Difatti, tutte le espressioni dell’immaginario collettivo nazionale tendono a trovare ispirazione
nel passato per proiettare i processi di legittimazione della nazione nel presente e nel futuro. Questo bisogno di immaginare
un trascorso comune è un supporto fondamentale nella costruzione dell’ontologia nazionale. La costruzione di una storia
nazionale continua è necessaria per rendere l’immagine della nazione concepita come una comunità unitaria che si muove
lungo il tempo storico omogeneo, congiungendo gli attuali cittadini con i parenti scomparsi.

Un’altra caratteristica che riguarda l’idea id nazione è data dal fatto che questa è immaginata come una comunità
sostanzialmente limitata. Anderson afferma come anche la più grande delle nazioni si definisca sulla base dell’esistenza di un
limite finito, di un confine al di là del quale ci sono altre nazioni. Sebbene gli estremi fautori del nazionalismo sognino
conquiste territoriali ed espansione della propria nazione, nessun nazionalista farebbe coincidere la nazione con l’intera
umanità. L’assenza di altre nazioni farebbe saltare uno dei fondamenti ontologici su cui regge la stessa nozione di nazione,
ossia la differenza con gli altri. Se una nazione coincidesse con il mondo, non avrebbe nulla per definire la propria differenza,
non avrebbe senso.

Ciò che inoltre ha reso la legittimazione degli Stati-nazione dipende da quello che Anderson chiama print capitalism, un
processo reso possibile dall’avvento e dalla diffusione dei moderni mezzi di comunicazione di massa e dalla codificazione
delle lingue nazionali. La diffusione e la standardizzazione delle lingue, combinata con la burocratizzazione dello Stato
(sistema educativo, leva militare, apparato amministrativo statale) consentono il coinvolgimento di tutti i soggetti che
abitano il territorio attorno a un grande e comune progetto di costruzione della nazione. L’adozione di una lingua nazionale è
una delle modalità attraverso cui lo Stato cerca di creare un senso di unità tra le popolazioni. Il richiamo alla nazione è
familiare e diffuso tanto da non essere percepito come tale: basti pensare a tutte quelle allusioni all’Italia che incontriamo
ogni giorno: la I che segna la nostra auto come auto italiana, i quotidiani, i programmi radiofonici sul patrimonio culturale
del Bel Paese, la carta d’identità, il campionato di calcio.

Inoltre, l’identità nazionale è richiamata all’infinito nei discorsi della politica. I rappresentanti delle maggioranze
parlamentari spesso legittimano il proprio potere, e le decisioni che ne derivano, parlando per gli Italiani, dicendo alla tv e
alla radio agli Italiani ciò che gli Italiani stessi vogliono. La politica formale non è l’unico canale attraverso cui l’idea di
nazione viene continuamente sbandierata. La stampa quotidiana e le notizie della tv si rivolgono al proprio pubblico come ai
membri della nazione. Oltre ai richiami diretti all’essere nazione, anche i media sono pieni di parole che riproducono quello
che viene definito “nazionalismo banale” (Billing 1995).

Analisi critica della geografia politica


L’elaborazione di una carta è un processo che si inserisce in una complessa combinazione di espressioni politiche, culturali e
storiche; anche la lettura di una carta, per essere compresa, deve quindi essere collocata in un particolare insieme di
relazioni sociali e di potere.

Nel celebre articolo Deconstructing the map, il geografo Brian Harley analizza con spirito critico il ruolo giocato dalla
cartografia nella modernità, invitando alla decostruzione delle carte e della cartografia stessa. Harley sottolinea la necessità
di mettere in discussione la presunta autonomia della carta come modello di rappresentazione e come modalità privilegiata
di accesso alla realtà. Egli presenta la cartografia come uno strumento tecnico di potere nelle mani del mondo occidentale
utilizzato, a partire dal XVII secolo, con l’obiettivo di produrre un modello relazionale corretto del territorio.
La produzione cartografica si è sempre fondata sulla presunta oggettività e indipendenza dei fatti cartografici e, soprattutto,
sull’osservazione sistematica del metodo scientifico come unica via per raggiungere una verità cartografica.

Harley mette in discussione la scientificità e l’oggettività delle carte come rappresentazioni sempre precise della realtà. Egli
sostiene che tutte le mappe sono il prodotto di un rapporto tra potere e sapere, un modo di imporre un determinato ordine
nel mondo e di esercitare sullo stesso un controllo semantico e materiale. Harley afferma come le carte siano visibilmente
implicate nell’esercizio del potere, come strumenti politici e di regolazione sociale attraverso delle regole non scritte sottese
alla produzione cartografica:

Regola dell’etnocentrismo: si può identificare il contesto storico e sociale nella quale una carta è stata prodotta
semplicemente individuando il centro della carta stessa. Ad esempio, l’adozione convenzionale del meridiano di Greenwich
come meridiano principale era il riflesso dell’egemonia britannica sul mondo; il planisfero ancora oggi più utilizzato è quello
di Mercatore che colloca “naturalmente” l’Europa la centro del mondo.

Regola dell’ordine sociale: codice non scritto che riflette la gerarchia della divisione spaziale del territorio, l’ordine sociale
dominante, e che esalta la struttura di potere egemonica che ha legittimato la stessa rappresentazione cartografica, facendola
apparire come “naturale”. Ad esempio, le regole di misurazione scientifica della realtà sulla carta e le regole della società
nella quale la stessa carta è prodotta si rafforzano a vicenda.

Le carte, quindi, sono un prodotto di un insieme di silenzi cartografici (includono e omettono), riflettendo con chiarezza un
sistema di relazioni di potere e un insieme di progetti politici e ideologici. La produzione e la lettura delle carte sono sempre
implicate nell’esercizio del potere e sono quindi implicitamente “politiche”. Inoltre, afferma Harley, la cartografia ha il potere
di disciplinare il mondo attraverso una sua specifica modalità descrittiva. Le carte producono tutta una serie di effetti sulla
realtà che intendono rappresentare: tendono a normalizzare i territori rappresentati, omettendo importanti differenze, dal
punto di vista simbolico e politico-culturale, che distinguono un luogo da un altro, contribuiscono a produrre un particolare
ordine nel mondo e, infine, a farlo apparire “naturale”, quindi sostanzialmente immutabile.

La geopolitica
La geopolitica può essere intesa come lo studio delle motivazioni geografiche che influenzano l'azione politica; essa nasce
come espressione della cultura politica che ha segnato la grande rivalità tra gli Stati europei, fungendo anche da strumento
formidabile per la costruzione dell’immaginario geografico popolare necessario a giustificare i costi militari e umani che la
competizione tra potenze implicava. Le teorie della geopolitica sono il prodotto di specifiche interpretazioni delle relazioni di
potere tra Stati che tentano di presentare una visione naturalizzante del mondo, cioè presentata come fosse oggettiva e reale:
fare geopolitica significa dunque tentare di imporre come ovvio un determinato ordine nei rapporti internazionali.

La nascita della geopolitica si colloca in un contesto caratterizzato da due processi di cambiamento:

- L’affermazione in Europa dell’ideale di Stato nazione


- La battaglia per affermare la supremazia di una nazione sull’altra in un contesto globale in rapidissimo
cambiamento.

Il termine viene coniato nel 1899 dal politologo svedese Rudolf Kjellen, che intende applicare la geografia politica alle
considerazioni strategiche e agli interessi dei singoli Stati. Egli recupera le idee ratzeliane di lotta per lo spazio e le applica
alle questioni strategiche che si ponevano agli Stati europei all’inizio del nuovo secolo. Ratzel, infatti, sviluppò una
sistematica teoria geografo-politica, legata in particolare alla nozione organica di Lebensraum, lo spazio vitale, che sarà poi
adottato dagli strateghi del Terzo Reich per legittimare lo spazio vitale del popolo tedesco. Sulla base di questa teoria, lo
Stato è concepito alla stregua di un organismo vivente, il quale deve combattere per sopravvivere e conquistare
progressivamente il proprio spazio vitale, spesso a discapito degli stati più piccoli e deboli. La visione geografica di Ratzel si
riflette sulla nascita della geopolitica intesa come sapere geografico applicato in grado di elaborare leggi scientifiche e
produrre conoscenze geostrategiche per spiegare e sostenere le politiche di potenza dei rispettivi Stati.
A partire dalla concezione ratzeliana dello Stato, secondo Kjellen gli Stati più grandi e gli imperi sono destinati a dominare il
nuovo secolo, che si annuncia come l’epoca delle grandi potenze: la rivalità più accentuata di quegli anni è quella che si
instaura tra l’Impero britannico e Germania. Non a caso, la prima grande narrazione geopolitica viene formulata dal
geografo inglese Halford Mackinder, il quale percepisce un imminente declino della potenza politica mondiale britannica e si
prefigge lo scopo di fornire strumenti per arrestare questo declino.

Nel 1904 egli pubblica la mappa intitolata The Natural Seats of Power, con cui produce una cartografia del mondo ripartito
in megaregioni dalle definizioni semplicistiche ma efficaci (es. area perno, mezzaluna interna o marginale, mezzaluna
esterna o insulare). A ciascuna regione è assegnato un ruolo gerarchico e strategico nel determinare i destini della politica
mondiale. La mappa di Mackinder costituisce lo sfondo ideale per la nascita del geopolitico, un uomo che muovendosi sulla
carta, offre la sua visione strategica e schematica del mondo ai politici e al grande pubblico. Nonostante la visione della
politica internazionale proposta da Mackinder fosse semplicistica e imprecisa, il vero impatto delle sue teorie sta nella
legittimazione di una geo-scrittura strategica e nelle sue implicazioni con le relazioni politiche e i rapporti di potere.

Un altro protagonista nella tradizione della geopolitica è Karl Haushofer, un ufficiale dell’esercito nazista che, a seguito di un
risentimento nei confronti delle decisioni prese dal Trattato di Versailles, decide di fornire ai leader politici tedeschi uno
strumento scientifico allo scopo di interpretare le dinamiche politiche, economiche e militari a livello europeo e globale, per
favorire il riemergere della potenza tedesca.

Haushofer giunge alla conclusione che per sopravvivere lo Stato tedesco debba necessariamente riottenere il proprio spazio
vitale, puntando sull’allargamento dei suoi confini orientali. Egli immagina il mondo divisibile in grandi e naturali
contenitori regionali (Pan America, Eurafrika e Pan Russia), organizzando così lo spazio mondiale all’interno di una
determinata gerarchia, cancellando la diversità di luoghi, popoli e persone in una serie di contenitori che saranno l’unica
possibile forma di organizzazione spaziale della politica. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale la geopolitica conosce
una forte battuta d’arresto a causa delle implicazioni nel legittimare le politiche naziste.

Dopo solo un anno dalla fine del conflitto, la geopolitica si impone nuovamente in un nuovo assetto della politica mondiale,
quello della Guerra Fredda. Questa contribuisce all’immaginario geopolitico occidentale, costituito da un mondo diviso in
due grandi blocchi in opposizione tra di loro. Da una parte, gli USA, in cui prende forma il concetto dell’eccezionalismo
americano, del mito capitalista e consumista del sogno americano che presenta gli Stati Uniti come una terra da preservare
dalla povertà e dalla desolazione del comunismo; dall’altra l’URSS, il male comunista dal quale non bisognava lasciarsi
contaminare. Una delle figure più spudorate del discorso geopolitico sulla Guerra Fredda è Kennan, addetto all’ambascita
americana a Mosca che nel 1946 scrive un comunicato a Washington, il Long Telegram, un caposaldo del discorso
geopolitico del momento pubblicato su una rivista americana. Nel comunicato si delinea una visione americana dell’URSS
come potenza caratterizzata dal bisogno costante di espandersi, come risultato di una tradizione tribale derivata dalle steppe
in opposizione alle culture civilizzate. Per questa sua essenza primordiale selvaggia il popolo russo è qualcosa che
storicamente è determinato ad espandersi e gli USA sono costretti a prevenire questa espansione. Kennan pensa in termini
cartografici: immagina il mondo come una carta composta da soggetti, gli Stati nazionali, caratterizzati da una specifica
natura e da un’identità, unica e descrivibile.

L’antagonismo tra i due fronti si fa sempre più forte quando, nel 1946 l’ex primo ministro britannico Churchill annuncia
allarmato che una cortina di ferro sta calando nel cuore dell’Europa: nel suo celebre discorso egli evoca l’emergere di una
divisione sia ideologica sia geografica del mondo, una divisione che spezza in due l’Europa.

Nel 1947 Truman pronuncia un famoso discorso (Dottrina Truman) nel quale delinea la visione dell’amministrazione
americana sull’ordine mondiale emergente: egli utilizza la guerra civile in Grecia per annunciare l’inizio di una battaglia
universale tra la libertà e il totalitarismo, richiamando alla cosiddetta teoria del domino, presentata dal suo segretario di
Stato, Acheson. Alla retorica del domino si affianca il simbolismo dell’infezione, l’idea del comunismo come malattia che
attacca il corpo-mondo (argomento che sarà utilizzato dagli intellettuali americani anche in occasione della guerra del
Vietnam).
Nel corso della Guerra Fredda i media banalizzarono fortemente i discorsi geopolitici per renderli digeribili ad un pubblico il
più vasto possibile, divenendo, come nel caso cinematografico, uno strumento molto importante nella guerra
propagandistica fra le due superpotenze. L’eccessiva banalizzazione però portò spesso la popolazione a situazioni d’isteria e
xenofobia molto forti. Esempi cinematografici di film americani che rappresentarono gli Usa come il “bene” e l’Urss come il
“male” furono i film di James Bond e in generale i film di spionaggio, non a caso molto in voga al tempo. In questi i film i
russi sono spesso rappresentati come malvagi, crudeli e caratterizzati da ambienti e idee totalitariste. Tutte queste visioni
geopolitiche della Guerra Fredda, con le loro eccessive semplificazioni, finirono spesso con l’essere antistoriche e arbitrarie,
raggiungendo conclusioni spesso assurde che sottolineano un tentativo di battaglia tra il bene e il male. La geopolitica,
seppur semplificando gli scenari possa essere uno strumento utile, rischia di far dipendere decisioni molto importanti quali
guerre, economia e altro dall’arbitrio di visoni spesso eccessivamente paranoidi.

Con la fine della Guerra Fredda cominciarono nuove teorie geopolitiche, da una parte al fine di presentare la dissoluzione del
mondo comunista e l’esito del trionfo occidentale, dall’altro per mettere in risalto la mancanza di ordine del mondo post-
Guerra Fredda come una minaccia per la sicurezza globale.

Una delle figure più influenti in questo processo di re-immaginazione geopolitica è Francis Fukuyama, il quale sostiene che
la caduta dell’URSS abbia sancito la fine della storia e che, con la vittoria degli USA, il mondo sarebbe stato finalmente
pronto all’idea di un unico stato mondiale. Proprio in virtù del raggiungimento dello stadio finale dell’evoluzione umana, il
mondo occidentale si può definire post-storico. Fukuyama riconosce anche il bisogno di alcune nazioni di un intervento per
“uscire dalla storia” e per accettare lo stato mondiale. Questa parte della sua teoria fu alla base della legittimazione
dell’intervento americano in scenari come l’Iraq e l’Afghanistan.

Si sviluppa nel corso degli anni ’90 un dibattito articolato, da cui emergono le posizioni che forgiano un progetto geopolitico
in cui gli strateghi statunitensi cercano di immaginare una visione coerente in grado di guidare l’azione diplomatica e
militare degli USA, per giungere a una forma di stabilità sulla base di un presunto Nuovo ordine mondiale.

Altra teoria geopolitica importante dei nostri giorni è quella di Samuel P. Huntington, il quale sostenne che con la fine della
Guerra Fredda fosse divenuto molto più difficile individuare amici e nemici. Huntington immaginò quindi il nuovo scenario
mondiale caratterizzato non da uno scontro tra nazioni ma da uno scontro fra civiltà. La cultura, e non più l’ideologia,
sarebbe diventata per Huntington il discriminante col quale individuare, in un mondo che evidentemente non può esistere
senza conflitti, nemico e amico in uno scontro fra civiltà, culture e religioni. Questa teoria geopolitica di Huntington è alla
base della legittimazione della guerra al terrore e dello scontro fra Occidente e mondo islamico. Nasce il concetto di rogue
state, Stati-canaglia, paesi guidati da regimi inaffidabili e aggressivi, identificabili sulla base di tre fattori, tra cui il loro
appoggio al terrorismo internazionale, la detenzione di armi di distruzione di massa e la minaccia che costituiscono per gli
interessi americani e occidentali nel mondo (Libia, Iran, Iraq, Afghanistan, Nord Corea, ecc).

All’inizio del nuovo Millennio, l’attacco alle Torri Gemelle di NY dell’11 settembre 2001 e la catena di attentati terroristici
che colpiscono molte grandi città europee, provocano reazioni sia nel discorso politico degli USA e degli altri Paesi
occidentali che nel sentimento diffuso della società civile. L’idea di una rete globale del terrorismo di matrice islamica
continua ad alimentare la narrazione su uno scontro di civiltà in atto, riproducendo la retorica sugli Stati canaglia. Ciò è
servito a scatenare nuovi conflitti armati, in nome di una guerra al terrore globale che ha colpito prima l’Afghanistan, poi
l’Iraq, accusati spesso senza prove fondate di rappresentare una minaccia per l’Occidente.

Geografia dell’altrove: massificazione del turismo


Turismo: fenomeno di straordinaria importanza in quanto rappresenta una modalità della nostra esperienza del Moderno. Il
turismo è un’esperienza condivisa, esito delle varie articolazioni del processo di globalizzazione e delle relazioni tra la
globalizzazione e la scala del quotidiano (che invece chiamiamo “locale”): bisogno di avventura, curiosità per l’ignoto, il
desiderio di alterità, fuga dal quotidiano, esonero, idee e impulsi che sono. Il turismo ha a che fare con modelli di consumo,
senso del luogo e immaginazione geografica, soggettività e identità, spaesamento e appartenenza. È un fenomeno nel quale si
palesa la complessità dell’incontro/scontro tra locale e globale.
Gli studi che riguardano il turismo, chiamati Tourism Studies, racchiudono diversi ambiti di ricerca ma prima del 2000 non
era loro riconosciuta piena dignità accademica. Dagli anni 2000 in poi si è assistito a una proliferazione di studi turistici che
si sono raccolti a grandi linee attorno a due filoni principali:

- Management Studies: si occupa di marketing turistico e di vari aspetti della logistica e dell’ospitalità, adotta metodi
statistici di analisi e linguaggio tipico dell’economia aziendale.

- Turismo come fenomeno economico, culturale e sociale: contributi di sociologia, antropologia, storia, economia e
geografia. Quest’ultima studia in particolare le relazioni del turismo con il territorio, con le comunità, con la cultura,
con la politica, con l’ambiente e più in generale con concetti come quelli di identità, soggettività, autenticità, luogo e
paesaggio.

La geografia si occupa anche dell’impatto del turismo sugli spazi nei quali si sviluppa. Il rapporto tra spazio e turismo si
articola attraverso tre principali punti:

- Il turismo nasce ed esiste come movimento, come partenza da un luogo per la visita di un altro luogo, come
fenomeno che si articola e si organizza tra spazi

- Il desiderio e la relativa scelta di fare turismo originano dalla conoscenza di una specifica mappa del mondo che ci
consente di immaginare che esistano luoghi in grado di corrispondere alle nostre aspettative e al nostro bisogno di
viaggiare. Senza questa immaginazione geografica non vi sarebbero né il turismo né il desiderio di praticarlo

- Il turismo trasforma e produce spazi a volte con conseguenze rivoluzionarie per i luoghi e le regioni che vi sono
coinvolti e per chi li abita; la geografia studia non solo le modalità di queste trasformazioni ma anche i modelli che la
pianificazione turistica tende a seguire per lo sviluppo di una destinazione o di una specifica regione (flussi, densità
e distribuzione delle presenze, impatto infrastrutturale…)

Alexander von Humboldt è forse il primo turista ante litteram, un turista che rappresenta un modello destinato a influenzare
il viaggio di massa dei decenni successivi, quello dell’esploratore da diporto. Per Humboldt il viaggio è metodo d’indagine
ma anche piacere della scoperta, arte, forma d’identificazione, capitale culturale. Il geografo-viaggiatore Humboldt inaugura
così un modello comportamentale: il viaggiare per il gusto di farlo diventa progressivamente un modo di essere dell’alta
borghesia europea che, nel frattempo, attraverso il modello dello Stato nazione, eleva il viaggio turistico a pratica politica.

Le esplorazioni e la conoscenza scientifica dei territori da scoprire iniziano a costituire uno straordinario strumento di
appropriazione del mondo. I racconti dei viaggiatori si affiancano alle indagini scientifiche, alla comparsa dell’etnografia e
delle pratiche associate all’emergere dell’antropologia come concezione della cultura moderna e come fonte di una nuova
geografia culturale del mondo. La geografia ha un ruolo importante nell’alimentare l’immaginario e i linguaggi della
letteratura di viaggio e nel fornirli di credibilità scientifica. La grande fase della colonizzazione europea del mondo trova nel
viaggio degli esploratori e degli scienziati uno strumento di legittimazione del proprio dominio militare di gran parte del
pianeta di quei decenni.

Prende forma anche un’altra figura destinata a segnare in maniera indelebile il nostro modo di viaggiare, quella del flaneur.
È una figura borghese che nasce nella Parigi di fine secolo, capitale della modernità ottocentesca, che si caratterizza per il suo
desiderio di vivere la città attraversandola da ospite, per coglierne le atmosfere e il fluire. Il flaneur cammina e visita per il
gusto di farlo, per osservare, senza altro scopo. La pratica di visitare altri Paesi per il gusto dell’esplorazione ludica comincia
a diffondersi tra le élite urbane europee e si sposa con il sempre maggiore interesse da parte del grande pubblico per le
esposizioni universali.

Il consolidamento, nel corso di tutto il Novecento, degli Stati nazione europei contribuisce anche in maniera importante alla
massificazione del turismo e alla cultura del viaggio che lo accompagna. La mappatura dei luoghi sacri alla nazione e delle
sue meraviglie naturali e culturali diventa pratica diffusa in tutti i Paesi europei, a cui fa seguito l’invito alla visita dei luoghi
stessi come esercizio di conferma e legittimazione di quelle specifiche geografie. Il turismo diventa così un progetto politico
guidato da un’ideologia nazionalista che punta a riconoscere selettivamente alcuni simboli chiave dell’identità nazionale e a
escluderne altri. I viaggi internazionali, resi accessibili al grande pubblico, diventano una potentissima pratica di
autoidentificazione, individuale e collettiva. La visita di luoghi lontani diventa un modo per riflettere sulla propria identità,
per trovare il proprio posto nel mondo. Nel corso di tutto il Novecento questi modelli si traducono in un modo di essere, di
consumare, di spendere tempo e denaro per un numero sempre crescente di persone che identificano nel turismo un
bisogno, un desiderio, un modo di essere moderni. La sempre maggiore facilità negli spostamenti nazionali e internazionali
ha aperto e continua ad aprire sempre nuove rotte turistiche, spesso consolidando quelle già esistenti e apportando
cambiamenti significativi nella percezione della distanza tra i luoghi, che si relativizza allorché subentrano fattori come la
disponibilità dei collegamenti (fenomeno delle linee aeree low cost).

Spesso, ad un crescente interesse per la cultura in tutte le sue forme fruibili, si sposa un altrettanto crescente interesse per la
possibilità di praticare turismo associato alla natura e alla sua protezione. Il turismo culturale oggi è segnato da due
approcci: da un lato, un approccio patrimonialista, che predilige la visita di musei, monumenti e ogni altra forma di capitale
culturale catalogabile; dall’altro, il turismo culturale mostra una forte propensione per l’osservazione della vita quotidiana di
comunità che vivono in luoghi lontani. Uno strano senso di nostalgia pervade la retorica che accompagna queste visite, come
se il contatto con i segni del passato e della diversità fosse un modo per rievocare la perdita di un qualcosa, di un passato che
non torna. Anche il turismo associato alla fruizione del patrimonio naturale è spesso accompagnato da una vena di nostalgia
per una natura perduta o in pericolo. Al turismo di massa culturale e naturalistico si sposa l’altra espressione del viaggio
contemporaneo: quella della vacanza ristoratrice, associata al piacere di riposare, spesso in ambienti protetti e specializzati
(spiagge, montagne, campagna)

Il viaggio turistico è diventato anche un modo di produrre soggettività individuali e collettive. L’esperienza turistica è
associata in maniera stretta all’habitus descritto da Pierre Bourdieu, cioè l’accumulazione di capitale sociale, culturale,
economico e simbolico che caratterizza la distribuzione per classi di consumatori tipiche della società tardo moderna. I
luoghi del turismo sono importanti punti di riferimento per il modo in cui ci pensiamo, sono parte attiva nella produzione di
significati e di pratiche a essi associate.

Il turismo è inoltre un elemento chiave della politica territoriale di molte città e regioni in tutto il mondo. Recenti studi
hanno mostrato come grandi e piccole imprese coinvolte nell’offerta turistica siano pronte a fregiarsi della sostenibilità come
di un marchio, anche se spesso si tratta solo di una politica di marketing senza grandi conseguenze nella gestione delle
risorse. Il turismo dev’essere studiato con uno sguardo critico capaci di cogliere la differenza tra il modo in cui l’offerta è
presentata e il suo effettivo impatto sul territorio. Spesso abbiamo assistito a forme di speculazione aggressiva associata alla
presenza del turismo, come il caos della costa spagnola. In tutto il mondo, tratti costieri prima adibiti ad altri usi diventano
preziosi terreni per spiagge turistiche; foreste vengono distrutte; versanti montani vengono convertiti in piste da sci, deserti
in campi da golf. a. Il turismo è diventato una straordinaria posta in gioco per l’economia, la politica e la cultura di molti
Paesi. Qualcuno sostiene che il turismo è oggi la più grande industria del mondo. La geografia del viaggio contemporaneo
conquista e ingloba sempre nuovi territori, producendo immagini, esperienze, pratiche, spazi veri e propri. Se è vero che non
ci sarebbe turismo senza l’immaginazione geografica prodotta dal Moderno, è probabilmente altrettanto vero che non ci
sarebbe modernità, nella forma con cui la conosciamo oggi, senza la presenza penetrante dell’esperienza turistica.

Orientalismo
L’esplorazione coloniale è stata spesso coinvolta col potere politico, portando all’emergere di visioni “scientifiche” e
geografiche profondamente di parte ed eurocentriche. Un esempio che riprende questa narrazione è il concetto di
orientalismo, elaborata dallo studioso palestinese Edward Said. Il concetto di orientalismo consiste nella visione tipicamente
europea dell’Oriente che ha contribuito, in ambito geografico, artistico e culturale, alla formazione di un concetto
intrinsecamente “europeo”, nato per contrasto col resto del mondo.

L’idea che l’Oriente sia un’invenzione dell’Occidente, un prodotto culturale, coinvolge direttamente il discorso sulla
costruzione dell’identità e della differenza. Se l’europeo è visto come razionale e mascolino, l’orientale è stereotipato come
irrazionale, misterioso e sensuale.
Alcuni aspetti dell’analisi di Said sono particolarmente rilevanti per la geografia:

- La costruzione dell’Oriente è stata alimentata sia dalla letteratura di viaggio che dalla documentazione ufficiale
prodotta dai governi e dagli esperti; inoltre, il discorso geografico eurocentrico ha contribuito al successo di questo
processo
- La geografia che ha legittimato questa rappresentazione immaginaria dell’Oriente ha aiutato anche nella costruzione
dell’identità europea, contribuendo a rappresentare l’Occidente come un blocco compatto, definibile, dotato di una
voce unica
- La costruzione di una certa immagine del mondo ha giustificato anche la gestione concreta dei territori descritti da
tale immagine, fornendo la base culturale alla legittimazione del colonialismo e dell’imperialismo.

Le idee di Said entrano nel dibattito geografico soprattutto a partire dai primi anni ’90. La conoscenza geografica ha
rappresentato un asse portante del progetto coloniale e le idee geografiche sono risultate fondamentali per la conquista e il
controllo di nuove terre, alimentandosi anche di immagini e fantasie a proposito del mondo colonizzato: immagini e fantasie
che Orientalism di Said ha contribuito finalmente a decostruire. La geografia postcoloniale ha denunciato la natura storica e
culturale della costruzione geografica dell’Oriente, in quanto costruzione su base binaria dell’Altro. La prospettiva
orientalista ha messo in luce che, in età moderna, la costruzione di una determinata immagine del mondo, fondata su una
cartografia dualistica, ha costituito la base culturale per la legittimazione del colonialismo e dell’imperialismo.

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