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Introduzione: Nel 2004, Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa americana, rispose riguardo alle torture
contro gli Iracheni effettuate dagli americani, definendole “Un- American”. I livelli di riflessione che
propone questa performance geopolitica mediatica sono: 1) il fatto che esiste un insieme di comportamenti
definibili come americani, descrivibili e segnati da confini, legato al concetto di nazione = geografia
“normale”; 2) esiste una dimensione globale della spazializzazione della politica = immaginario positivo del
ruolo della nazione americana nel mondo; 3) esiste una scena biopolitica = nuda vita e principio di
eccezione, disumanizzazione. Lo spazio della politica ha allora una scala globale (grandi visioni
geopolitiche), nazionale (istanze identitarie e relazioni tra territorio e politica) e locale (più flessibile), ma
opera sempre su un congelamento della realtà. Le scale non definiscono solo l’esito delle interpretazioni,
ma producono anche il contesto preso in considerazione. La geografia classica cerca di conferire allo Stato e
ai suoi elementi oggettività e scientificità. Questo non è un libro di geografia politica, ma critica, e si
riferisce al mondo interno, alla totalità dei fatti, occupandosi dei rapporti tra spazio e politica e dei
dispositivi materiali, discorsivi e metaforici che regolano il potere in questa dialettica. Si approfondirà la tesi
secondo cui la nazione è un mito, un’invenzione che ha contribuito a immaginare un livello ideale di
rapporti tra comunità (nazione) e spazio (stato), con l’effetto speciale della certezza del rappresentare
(Farinelli) o della metafisica della rappresentazione (Mitchell). Il libro indaga quindi l’apparato cognitivo e
tutto il nostro immaginario politico, con l’obiettivo di depotenziare la personalizzazione della politica e dello
spazio, mentre la spazializzazione della politica pervade tutta l’immaginazione geografica. Lo farà attraverso
episodi chiave del quotidiano, evitando la politica italiana per non sfociare negli spazi canonici della politica
nazionale, ma citando esempi concreti. Le performance citate, infatti, si collocano sempre in un contesto
che presuppone linguaggi e visioni del mondo. Lo scopo è mettere a nudo queste geometrie. Impossibile è,
infine, pensare agli autori come traduttori neutrali di idee e di interpretazioni, mito ormai cancellato: la
soggettività, la posizione politica e la biografia sono tratti essenziali (es. entrambi vittima di diaspore). La
geografia (che è sempre politica) ha contribuito a creare gabbie politiche della modernità, che possono
essere smantellate attraverso la stessa disciplina.
2. LA CARTA E IL SOGNO, Lo spettatore della carta diviene un paralizzato, un avvelenato, in preda a una
rappresentazione/ illusione ottica, priva di umanità
Alle elementari, guardare le carte significava trovare uno spazio simbolico “altro” con il desiderio di uno
spazio oltre la carta, che permetteva di prefigurare una realtà evocata da colori e linee. L’associazione
dell’immagine a una realtà materiale appariva assolutamente naturale.
- Il discorso cartografico: La logica cartografica possiede una certa performatività: dovrebbe essere una
descrizione parziale, un modello, una delle possibili scritture, invece le rappresentazioni geografiche
rivelano tanto della realtà quanto dei soggetti che le producono. La carta dovrebbe essere l’espressione di
un sistema scientifico, una rappresentazione empirica della realtà, invece si tratta di un riflesso di un
insieme di relazioni di potere e di un contesto culturale e discorsivo. Il fatto che il rapporto tra realtà e carta
risulti come un’ovvietà significa che abbiamo imparato a considerare la modalità naturale sin dalle prime
lezioni di geografia, in cui uno degli obiettivi pedagogici è pensare cartograficamente lo spazio e vedere il
contesto- mondo/imparare a immaginare grazie alla carta, strumento educativo. L’idea è che essa sia un
modello accurato e scientifico, vero, del mondo e i bambini devono avere l’abilità di relazionare i segni con
la realtà che rappresentano. Carta e geografia, a lungo, sono state concepite come la stessa cosa: la carta è
lo strumento, il linguaggio, la misura. La geografia critica ha, però, l’obiettivo di liberare l’immaginazione
geografica da questo abbraccio mortale. Nel Medioevo le rappresentazioni cartografiche erano copie del
mondo permeate da interpretazioni filosofiche e religiose, ritratto del territorio, ma anche,
consapevolmente, autoritratto della cultura. Per Heidegger, dalla modernità, il mondo è, invece, ridotto
all’immagine ed è la copia della carta (Farinelli). De la Blache, nel 1913, sentì, infatti, il bisogno di definire la
carta come uno strumento di precisione, esatto, una rappresentazione senza ideologia, un modello
razionale corretto, vero, dove gli oggetti sono reali, oggettivi, indipendentemente dall’opera cartografica,
ignorando il fatto che esistano carte diverse degli stessi oggetti territoriali. Le carte rappresentano gli
oggetti rimpiccioliti con simboli, la realtà viene avvertita come riducibile a un piano, traducibile in un
linguaggio scientifico attraverso la matematica, l’osservazione e la misurazione. Secondo Dematteis,
l’ordine geo-grafico della carta è un sistema di coordinate estraneo alle cose, puramente convenzionale, e
la carta non ci dice nulla: assegna posizioni e stabilisce a priori relazioni metriche tra gli oggetti. Noi
pensiamo tali proprietà convenzionali, geometriche e tipologiche, come proprie degli oggetti rappresentati.
Originariamente, le carte erano strumenti tecnici concepiti secondo una logica geometrica legata alla
razionalità interna della carta stessa, ma con la geografia scientifica, quelle proprietà diventano quelle degli
oggetti reali. Da strumento operativo diviene prodotto scientifico, con l’obiettivo finale implicito di
realizzare una rappresentazione identica alla realtà, in scala 1:1, che potrebbe diventare il mondo. Infatti, si
fa spesso riferimento al fatto che le carte diventino “migliori” man mano esse risultino più precise (fino al
remote sensing delle immagini satellitari). Nonostante il progresso, tutte le carte moderne sono state
valutate sulla base di standard scientifici di obiettività, accuratezza e veridicità, mentre quelle esterne erano
inferiori, arretrate, manipolate o propagandistiche, come se esistesse un unico modo corretto e oggettivo di
cartografare. Tutti i linguaggi acquisiscono un significato all’interno di un contesto già esistente di
affermazioni, simboli, forme di comprensione e interpretazione della realtà. Anche la lettura della carta è
possibile per delle condizioni culturali e storiche e per le relazioni di potere esistenti: è necessaria la pre-
conoscenza del lettore della combinazione di segni e simboli. Per esempio, nel Medioevo si usavano figure
allegoriche e religiose, così come le carte variano se sono rivolte ai bambini: tutte le carte sono prodotti
culturali, sociali e politici, e la loro funzione e analisi non possono essere astratte dal sistema sociale,
discorsivo e spazio temporale che le ha prodotte.
- La decostruzione della carta: L’analisi dei rapporti tra spazio e politica ha sempre fatto uso di carte in
modo acritico, come se fossero specchio della realtà. La logica geometrica induce a pensare al territorio
secondo le logiche dello spazio geografico, come se fosse un contenitore neutrale di cose, tra cui la politica.
Si tratta quindi di strumenti formidabili per, per esempio, la costruzione dello stato nazione moderno. Brian
Harley, dagli anni ’80 (con Farinelli in Italia), apre la decostruzione delle carte: nell’articolo “Deconstructing
the Map” mette in discussione la presunta autonomia della carta come modello di rappresentazione e
come modalità privilegiato di accesso alla realtà, definendolo uno strumento tecnico di potere di natura
positivista. Mette in discussione la scientificità delle carte e la fiducia nel progresso lineare: le carte sono
testi retorici e il messaggio è contestualizzato rispetto a un certo pubblico. Ogni carta è uno strumento
propositivo con una certa visione e una certa proposta culturale soggettiva. Le carte sono, in alcuni casi,
visibilmente implicate col potere secondo due regole: la regola dell’etnocentrismo (es. Meridiano di
Greenwich per egemonia britannica, planisfero centrato in Europa) e la regola dell’ordine sociale, in cui gli
elementi sono gerarchizzati e la divisione spaziale riflette l’ordine sociale perché le due categorie si
rafforzino vicendevolmente (es. il luogo del re è più importante). Così facendo, la carta incorpora le
disuguaglianze e le discriminazioni, legittimandole, specie nei silenzi cartografici (es. carte turistiche senza
edilizia popolare o township abitate da neri). L’uso esplicito delle carte per il potere fa parte dell’effetto
speciale dell’adozione della logica cartografica per leggere il mondo e avviene quando ci sono carte che
offrono visioni distorte della realtà. Talvolta, però, abbiamo anche forme di potere interne e implicite: il
mondo viene disciplinato attraverso la modalità descrittiva della carta che normalizza la complessa varietà
dei territori, giustifica il disconoscimento delle differenze, contribuisce a produrre l’ordine, facendolo
apparire naturale e immutabile (es. confini naturali -> la materialità e la naturalità di una montagna
acquisisce un significato attribuitogli da una cornice interpretativa pre-esistente. E’ in virtù del potere della
carta che impariamo a pensare in termini di confini e limiti di spazio geografico). Secondo Harley, il potere
interno dipende dalla maniera in cui vengono compilate le carte, dall’insieme di regole stabilite per crearle,
dalle gerarchie degli elementi, dagli stili retorici usati. Gli effetti sono estesi oltre la cartografia e il mondo
viene disciplinato, normalizzato, mentre tutti sono prigionieri di una griglia spaziale. Il mondo viene
colonizzato dallo spazio geografico e il rumore di fondo della vita viene cancellato, standardizzato, mentre
un’astrazione diviene lo specchio della realtà. La prospettiva richiede, infine, un’osservazione distaccata e
scientifica che svilisce tutte le prospettive alternative (= “altro” da conquistare). La logica cartografica ha
preparato il terreno alla spazializzazione della politica che scrive e riscrive i confini, che crea differenze in
modo mimetizzato, perché un linguaggio viene ormai scambiato per il mondo stesso.
4. GEOPOLITICA CRITICA
- Sapere critico e geo-politica: La critical geopolitics è la rilettura angloamericana post-strutturalista della
geopolitica, nata negli anni ’90, che pone al centro il problema della conoscenza, basandosi su Foucault e
Derrida. Il suo obiettivo è quello di decostruire gli assunti di base, sovvertire le pratiche della politica
convenzionale ponendo in evidenza i silenzi, le costruzioni, per ottenere vie alternative, sfidando le nozioni
di “esperto” e di “pratica” politica. Al centro sta il rigetto della divisione per blocchi del mondo, l’attacco
alla lettura maschilista ed eurocentrica, la denuncia del tentativo di nascondere la discrezionalità e la
parzialità delle varie visioni, la critica alla pretesa di collocare il geopolitico in posizione distaccata dal
mondo, la convinzione che l’identità si basi su un’alterità spazializzato, l’interesse per l’archeologia del
sapere geopolitico e l’esplicitazione della sua natura politica. Tutte le “geografie della politica mondiale”
sono prodotte culturalmente e sostenute politicamente dai discorsi e dalle rappresentazioni degli statisti.
Studiare la dimensione politica serve per svelare la dimensione politica delle espressioni geografiche della
politica. Alla base stanno i codici/copioni degli intellettuali di Stato, per i quali serve un attento esame dei
contesti e delle relazioni. Il “discorso” prodotto è in realtà una specifica lettura di una situazione, che porta
con sé luoghi comuni, sviluppandosi da un centro/elite. Tutte le narrazioni e rappresentazioni geografiche
sono forme di specificazione della realtà politica, con un effetto politico. O’Tuathail, in “Geography is about
power” sostiene che la geografia sia soggetta ad assestamenti e sia sempre un’espressione della relazione
tra potere e sapere, emanazione di una rete. Lo studioso parla di geopower (= geografia usata come
insieme di tecnologie di potere) dove le rappresentazioni geografiche sono sempre un atto di potere,
un’imposizione di un ordine, di un’identità, di una modalità di comprensione che viene presentato come
l’unico reale possibile. Determinando un sé e un altro, si originano conflitti tra modi diversi di immaginare il
mondo. Serve comprendere il modo in cui si scrivono le mappe della politica globale/ geo- scrivono il
mondo e i regimi di verità. Creare una tale cornice significa creare un campo di classificazioni e gerarchie. I
testi di geopolitica producono sistemi di relazioni tra spazio, potere e sapere che rendono cose reali,
indiscutibili, date per scontato. La geografica critica si occupa della problematizzazioni di queste realtà,
della loro messa in discussione, documentando le strategie utilizzate per produrre le mappe della global
politics per mettere in crisi il funzionamento di tali mappe. Alla base, c’è la popular geopolitics, cioè i luoghi
comuni quotidiani, di carattere divulgativo, dati dai media, dagli esercizi retorici dello Stato, e le tecniche (di
visualizzazione, come le carte, le descrizioni, le rilevazioni e le statistiche). Importante è comprendere il
ruolo che la geografia ha giocato nella costituzione degli stati nazione, realtà che informa tutto
l’immaginario fino alla microfisica del potere.
- La geopolitica come performance: Gli stati nazionali vengono presentati come l’unica e la sola cornice
possibile, naturale. Agnew ritiene che il ruolo irriflesso che viene assegnato allo stato nazione e i miti sui
quali si basa sono la forma più potente di geopower. Sono nati l’identità nazionale, i confini, uno spazio
unitario interno, un passato comune, tutti frutti del nation building: lo spazio nazione, il tempo nazione, la
comunità immaginata dentro a uno spazio geometrico. Tutto ciò offre il supporto ideologico e la
giustificazione politica alla riproduzione di quelle geometrie. Una delle espressioni più esplicite è nelle
rilevazioni cartografiche e negli atlanti nazionali, vere scatole amministrative che servono per stabilire il
dentro e il fuori, per forgiare un senso di appartenenza. Bahbha ritiene che questo serva per celare l’ansia
prodotta dal pluralismo dello spazio moderno della nazione, trasformando la differenziazione in
omogeneità/tradizione. La geopolitica deve, allora, testimoniare l’esistenza della pluralità. Campbell ritiene
che gli Stati sono costituiti dalle loro performance rispetto a un esterno, in opposizione al quale si
definiscono. C’è un continuo tentativo di costruire ciò che è straniero. La geopolitica come performance
deve prendere in considerazione i confini materiali come esito di una serie di pratiche di elaborazione
concettuale, e occuparsi della traduzione dei luoghi in spazio e della cartografia dei significati che consente
agli Stati di esistere. Con interdigitazione si intendono quelle pratiche attraverso cui si ottengono le
spazializzazioni dei concetti di identità. La geopolitica, poi, si occupa di quella culturale: le pratiche e le
rappresentazioni diffuse trasversalmente tra tutti i livelli sociali come ampio fenomeno sociale e culturale
fatto di costruzioni quotidiane pervadenti che saturano la nostra vita. Ci sono, quindi sia momenti
ufficialmente riconosciuti (es. discorsi dei leader) che però non sarebbero possibili senza lo sviluppo
capillare di pratiche nella vita quotidiana dei cittadini. La geopolitica critica è una forma di geopolitica di per
sé che vuole mettere in discussione e a nudo l’objectivist perspectivism e disturbare il vecchio trucco della
geopolitica tradizionale. L’obiettivo è abbattere quella normalità attraverso cui finiamo per autocensurarci e
adattarci alle geometre micidiali delle sue cartografie.
6. L’INVENZIONE DELLA NAZIONE, Il geocampo, la dimensione territoriale della nazione, tutti i suoi
attributi, sono frutto di un processo politico e culturale storicamente determinato
L’ideale di azione è recente, così come lo stato nazione come invenzione spaziale. Il nazionalismo è ciò che
l’ha reso così potente: l’idea di nazione è infatti penetrata a fondo nelle nostre pratiche discorsive, tanto
che lo usiamo anche nei termini antitetici alla stessa (es. transnazionale). Vediamo, infatti, la politica
internazionale sempre attraverso lenti nazionali. La nationess, per Smith, è data da: 1) il mondo è un
mosaico di nazioni; 2) l’ordine mondiale dipende da un sistema di stati nazione indipendenti; 3) esse sono
aggregazioni sociali naturali spontanee; 4) all’interno vi è un’omogeneità culturale e comuni antenati; 5)
serve uno stato sovrano per esprimere l’unicità culturale di ognuna; 6) esiste un diritto inalienabile al
proprio territorio/patria; 7) ogni individuo deve appartenere a una nazione; 8) la prima forma di lealtà è
verso la propria nazione. In realtà, non esiste una definizione di nazione universalmente valida (si basa su
lingua, religione, categorie sociali, confini, spazi sociali?). L’ambito è confuso e ambiguo e l’utilizzo del
termine quasi universale lo rende significante di tutto e niente. I due principali errori sono: a) usare nazione
come sinonimo di stato, mentre uno stato territoriale è il risultato di un processo storico e politico che, nel
XVIII si è unito all’ideale di unità politico-amministrativo. Il termine corretto è stato-nazione che, però,
viene abbreviato, facendo perdere il valore della differenza tra i due. I veri stati nazione sarebbero quelli i
cui confini territoriali coincidono con quelli amministrativi e nei quali la popolazione è omogenea (es.
Islanda). In realtà, in oltre la metà di quelli contemporanei, il gruppo nazionale maggioritario coincide con il
75% della popolazione; b) spesso si applica il termine nazionale a processi e strutture statali (es. Nazioni
Unite, Relazioni Internazionali, Nazionalizzazione). Oltre a generare confusione, contribuisce a sedimentare
la convinzione che i due termini siano interscambiabili, convergenti e che quindi lo stato nazione sia un
esito naturale, non risultato di un processo storico, geografico e politico.
- La nazione discreta: Il nazionalismo si fonda su due scuole. Quella primordialista crede che l’appartenenza
a una nazione sia innata, propria della natura umana. L’attaccamento è naturale, determinato da delle
radici, da immediata vicinanza, connessioni di parentela, comunità religiose, lingua, pratiche sociali,
coesione interna. Tutte queste sono caratteristiche date/ givens della condizione umana, di natura,
addirittura, genetica o biologica, basata sulla discendenza. In realtà, ben pochi gruppi hanno un’origine
comune: piuttosto, si basano su un credo condiviso di una comune discendenza. Secondo Connon, esiste
un’essenza di una nazione basata su un legame di tipo psicologico che unisce un popolo. L’attaccamento
diviene così “beyond reason”, essenziale, un credo profondo. Nonostante i diversi ceppi genetici, ma è ciò
che le persone percepiscono ad influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti. Si tratta di un’auto
definizione e non ha bisogno di accordarsi con dati dimostrabili, perché è una conoscenza sensoriale, a
priori, morale (Es. discorsi di Mao Zedong alla Cina e di Hitler alla Germania Nazista: entrambi volevano
generare una vibrazione psicologica che riposa su un senso intuitivo di consanguineità, come se il popolo
fosse la progenie incontaminata di un’epoca lontana e mitica). Questo giustifica il successo dei movimenti
nazionalisti e il collasso del comunismo in Europa Centrale e Orientale nei Balcani (es. di Gorbaciov e
Balcani, dove il patriottismo non era paragonabile alla forza del precedente nazionalismo). Gli studiosi di
questa scuola svalutano le argomentazioni razionali o l’idea che lo stato sia l’invenzione di elite, frutto di
politica ed economia, ma credono nella profondità emozionale, nel bisogno di identificazione. La nazione
diviene l’unica cornice per il mantenimento di un ordine mondiale, poiché è l’unico strumento che soddisfa
i bisogni di radicamento, appagamento culturale, sicurezza e fratellanza. Ciò si unisce alla memoria, al mito,
alla sfera simbolica del gruppo etnico che viene avvertito come unico e irripetibile.
- L’invenzione della nazione: L’approccio costruttivista, invece (Hobsbawm e Anderson) crede che la
nazione sia una costruzione sociale e politica determinata dalla storia. Ciò è connesso al capitalismo
moderno e alla presenza di comunità immaginate fondate sull’invenzione di una tradizione da parte di
un’elite. Rifiuta, quindi, un legame nazionale di tipo naturale e contesta l’esistenza di qualsiasi criterio
oggettivo legato alla formazione dell’identità nazionale. Mettono in discussione il fatto che la nazione sia
l’espressione di un bisogno innato, in quanto prodotto piuttosto recente. Piuttosto, la nazione è nata dal
bisogno di soddisfare le esigenze dello stato territoriale moderno. Secondo Gellner, il nazionalismo è la
conseguenza di una nuova forma di organizzazione sociale, basata su trasformazioni sociali, politiche ed
economiche che hanno reso la nazione e il nazionalismo necessari: nel momento in cui le condizioni sociali
permettono che esista una cultura alta, standardizzata, omogenea, promossa a livello centrale che
coinvolge l’intera popolazione, finisce per rappresentare l’unica unità di riferimento. Il nazionalismo, quindi,
viene prima della nazione. Dopo le rivoluzioni, la nazione diviene dei cittadini, la cui sovranità collettiva
doveva realizzarsi in uno stato (es. da Dichiarazione dei Diritti Francese: Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella Nazione). Ciò, però, non implicava alcuna logica tra il riconoscimento della sovranità
dei membri cittadini e l’identificazione di una nazione sulla base di considerazioni etniche, linguistiche o di
altra natura. Le rivoluzioni, infatti, erano su base volontaristica. Per i nazionalisti la creazione di entità
politiche per contenere la nazione derivava dall’esistenza precedente di una comunità distinta dagli altri,
mentre secondo la prospettiva rivoluzionario-democratica il concetto centrale era il riconoscimento della
sovranità del popolo attraverso lo stato, il quale, rispetto al resto dell’umanità, costituiva una nazione. Per
quanto riguarda lo stato come contenitore economico, infine, vediamo che esso diveniva protettore egli
interessi economici della sua popolazione, dando regole contrattuali per il rispetto della proprietà. Con il
liberismo del XIX, va a diffondersi l’idea che il successo economico sia per gli stati sufficientemente grandi.
Lo stato nazione era visto come la forma di società umana più evoluta e i movimenti nazionali erano per
l’unificazione e l’espansione nazionale. Le piccole nazioni non potevano avere un futuro indipendente,
mentre l’eterogeneità era accettata: si mostrava ad esse, quindi, come avrebbero potuto guadagnare dalla
loro annessione a uno stato più grande. Alla base, c’erano considerazioni razionali, mentre il sentire
soggettivo del popolo era ignorato. Il principio di nazionalità era diverso dal nazionalismo successivo: non
era importante, per esempio, che gli italiani sentissero il Risorgimento. Il nazionalismo nasce dopo per
l’adozione a-politica di una teoria dello spazio geografico da parte dello stato borghese e il bisogno di
coprire la dimensione geometrica dello stato con valori e passioni che consentissero alla société
disciplinaire di funzionare, apparendo naturale.
7. COMUNITA’ IMMAGINATE, Il mondo è troppo diversificato per l’antropologia nazionalista: non si trova
una risposta al perché le persone che parlano la stessa lingua dovrebbero apprezzare l’idea di essere
sotto lo stesso Governo
- Immaginare la nazione: Con la frase di D’Azeglio: “Fatta l’Italia facciamo gli Italiani”, capiamo che c’è una
netta separazione tra progetto nazionale e sentire popolare, pura astrazione. Non c’è niente di scontato nel
senso di comunione che caratterizza le comunità nazionali: ciò che unisce le persone non è la conoscenza
reciproca, ma il pensare se stessi come parte di uno stesso insieme più grande (= Comunità immaginate,
per Anderson) (es. assistere a una partita dell’Italia ai mondiali). E’ erroneo focalizzare la nostra attenzione
sulla falsità e sulla natura politica di costruzione di un’appartenenza nazionale, in quanto tutte le nazioni di
per sé sono artefatti culturali. Piuttosto, devono essere distinte rispetto allo stile adottato per immaginarle.
Facendo riferimento al contesto storico, un fattore chiave per l’affermazione della nazione è dato dalla
disintegrazione delle visioni universaliste delle comunità religiose. Con l’illuminismo nasce, però, un nuovo
oscurantismo, una nuova fede che converte la fatalità in continuità, la contingenza in significato. Questo
cambiamento ha introdotto nuovi modi di interpretare i rapporti di continuità e di simultaneità nelle
società umane: Anderson ritiene che la nazione sorga come una religione secolare, espressione politica del
bisogno umano di continuità rispetto a un passato immemorabile, con un futuro senza limiti (“Giano
Moderno” per Naim). Il trascorso comune giustifica le pretese territoriali e costruisce l’ontologia nazionale
che fornisce l’evidenza indimostrabile di continuità e di comunanza a livello secolare. La comunità diviene
compatta lungo il tempo storico e congiunge tutti i cittadini con i loro avi scomparsi. Nel medioevo, per
Benjamin, c’era invece un tempo messianico, dove passato e futuro erano dimensioni simultanee. Oggi
questo è sostituito dall’idea di un tempo vuoto, omogeneo, misurabile e quantificabile con strumenti
razionali come l’orologio e il calendario (illusione del tempo = orologio come territorio = carta). Questi sono
i pilastri della nuova teoria della conoscenza, basata sulla misura e sullo stato moderno borghese. Si
aggiunge a ciò l’idea di una comunità limitata: nessuna coincide con l’umanità, perché farebbe perdere di
valore l’idea stessa di nazione. In più, si ha una forma di controllo e possesso diversa da quelle precedenti:
non c’era mai stata la concezione di un controllo uniforme che si esercita su tutti i soggetti in egual modo.
La continuità temporale è affiancata da quella spaziale. Nasce un discorso condiviso di appartenenza e
identità, delimitato ma rappresentato in tutta l’interezza del territorio (Per Johnson: “relazione di
compresenza” tra i soggetti). Anderson definisce, infine, l’importanza del print capitalism/ capitalismo a
stampa, della comunicazione di massa, delle lingue nazionali, della burocratizzazione, del sistema
educativo, della leva militare, dell’apparato amministrativo per un unico progetto di costruzione della
nazione.
- Lingua e nazione: La lingua della carta stampata divenne: 1) terreno comune di scambio e di
comunicazione, al di sotto del latino (tempo universale) e al disopra delle lingue vernacolari parlate. Le
persone divennero così consapevoli dell’esistenza di altri appartenenti a uno stesso campo linguistico; 2) un
modo per garantire fissità alla lingua, costruendo un’immagine di antichità e per assicurare un senso di
continuità temporale, con il libro stampato come oggetto permanente; 3) alcune parlate si elevarono a
lingua stampata diventando lingue del potere. Questo contribuì a una nuova geografia di centri e periferie:
il dialetto della metropoli divenne lingua nazionale, le altre vennero ignorate. La lingua spesso non viene
considerata come la vera essenza di ciò che distingue un popolo dall’altro (nonostante es. di slavi che
chiamano nemici i tedeschi = muti). Eppure le barriere comunicative sono quel fattore che separa entità e
nazioni in termini semi artificiali: alcune lingue nazionali sono completamente inventate, altre scelte, tutto
l’opposto del pilastro primordiale a cui credono i nazionalisti. Si tratta, per Billing, di una invented
permanencies/ costanza storica inventata. E’ piuttosto il nazionalismo a essere all’origine delle lingue. La
stessa idea di lingua è recente: nel medioevo il latino era quella della scrittura, mentre le lingue vernacolari
non erano grammatiche, ma lo divennero solo con il nazionalismo e l’emergere della disciplina della
grammatica (sorta insieme all’economia e alla medicina, tutte materie utili per l’ascesa e il consolidamento
dello stato moderno e delle istituzioni che ne conferiscono uniformità). Nella Francia medioevale, per
esempio, l’idioma di ogni comunità era distinto e man mano che ci si allontanava da casa crescevano i
problemi di comunicazione, con rari salti di senso, ma con un continuum linguistico- comunicativo. Non
c’era un punto preciso o un confine linguistico: è il modo moderno di concepire le lingue che ha sentito il
bisogno di marcarli. Le lingue nazionali sono progetti di geografia politica: ciò che contava è che una
minoranza avesse abbastanza peso politico per imporre la propria lingua sugli altri come ufficiale (es. al
momento dell’unità d’Italia parlava l’italiano il 2,5% di italiani). Una parte pretende di parlare per l’intera
nazione e di rappresentare l’essenza nazionale. Il consolidamento di una lingua ufficiale, però, è alle spese
di una molteplicità di altre lingue dette “delle minoranze” (es. nei “Diritti dell’uomo e del cittadino” usando
la lingua francese, si marginalizzano implicitamente i Bretoni e gli Occitani). Anche la differenziazione tra
lingue e dialetti è una questione politica, perché non esistono criteri ovvi per distinguerli. La stessa
classificazione delle lingue è l’esito delle politiche avvenute nel corso della storia. Di nuovo, è il potere a
produrre e legittimare determinate rappresentazioni geografiche, e lo fa grazie alla sua invisibilità, la sua
capacità di apparire ovvio e naturale.