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Sintesi: Spazio e politica (Minca e Bialasiewicz)

Introduzione: Nel 2004, Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa americana, rispose riguardo alle torture
contro gli Iracheni effettuate dagli americani, definendole “Un- American”. I livelli di riflessione che
propone questa performance geopolitica mediatica sono: 1) il fatto che esiste un insieme di comportamenti
definibili come americani, descrivibili e segnati da confini, legato al concetto di nazione = geografia
“normale”; 2) esiste una dimensione globale della spazializzazione della politica = immaginario positivo del
ruolo della nazione americana nel mondo; 3) esiste una scena biopolitica = nuda vita e principio di
eccezione, disumanizzazione. Lo spazio della politica ha allora una scala globale (grandi visioni
geopolitiche), nazionale (istanze identitarie e relazioni tra territorio e politica) e locale (più flessibile), ma
opera sempre su un congelamento della realtà. Le scale non definiscono solo l’esito delle interpretazioni,
ma producono anche il contesto preso in considerazione. La geografia classica cerca di conferire allo Stato e
ai suoi elementi oggettività e scientificità. Questo non è un libro di geografia politica, ma critica, e si
riferisce al mondo interno, alla totalità dei fatti, occupandosi dei rapporti tra spazio e politica e dei
dispositivi materiali, discorsivi e metaforici che regolano il potere in questa dialettica. Si approfondirà la tesi
secondo cui la nazione è un mito, un’invenzione che ha contribuito a immaginare un livello ideale di
rapporti tra comunità (nazione) e spazio (stato), con l’effetto speciale della certezza del rappresentare
(Farinelli) o della metafisica della rappresentazione (Mitchell). Il libro indaga quindi l’apparato cognitivo e
tutto il nostro immaginario politico, con l’obiettivo di depotenziare la personalizzazione della politica e dello
spazio, mentre la spazializzazione della politica pervade tutta l’immaginazione geografica. Lo farà attraverso
episodi chiave del quotidiano, evitando la politica italiana per non sfociare negli spazi canonici della politica
nazionale, ma citando esempi concreti. Le performance citate, infatti, si collocano sempre in un contesto
che presuppone linguaggi e visioni del mondo. Lo scopo è mettere a nudo queste geometrie. Impossibile è,
infine, pensare agli autori come traduttori neutrali di idee e di interpretazioni, mito ormai cancellato: la
soggettività, la posizione politica e la biografia sono tratti essenziali (es. entrambi vittima di diaspore). La
geografia (che è sempre politica) ha contribuito a creare gabbie politiche della modernità, che possono
essere smantellate attraverso la stessa disciplina.

PARTE 1: SPAZIO, POTERE, SAPERE


1. GEOGRAFIA, MODERNITA’ E RAGIONE CARTOGRAFICA, La geografia non spiega solo dove le cose siano,
ma decide che cosa le cose sono
- Le carte di Colin Powell: Nel 2003, Colin Powell, segretario di Stato Americano, fece una diretta in
mondovisione per spiegare le ragioni dell’attacco all’Iraq. Tra queste, c’era l’esistenza di armi di distruzione
di massa qui prodotte e nascoste. Come documenti usò la registrazione di una conversazione tra militari
iracheni, foto aeree e carte (rivelatesi inattendibili). Le radici del discorso sono in un substrato culturale che
dà per scontate alcune pre comprensioni, tra cui il primato della visualizzazione/lettura cartografica della
realtà. Le foto aeree sembrano carte topografiche, con segni che mostrano/fanno immaginare i dati, il
raggio d’azione dei missili o l’organigramma de potere iracheno. Fa da sottofondo una fiducia nel potere
rappresentativo, comunicativo e persuasivo della carta: per questo Powell sceglie di usare una logica che ha
attraversato l’intera modernità. Lo stesso era accaduto per la retorica della guerra del terrore dopo l’11/09:
per spiegare l’attacco di uno stato nazione ad un altro, bisogna usare i dispositivi che hanno prodotto lo
stato nazione stesso. La logica cartografica è l’unica che ha prodotto lo stato e l’unica attraverso cui
possiamo descrivere la partizione del mondo e le tensioni presenti. Il nemico diviene così individuabile e
cartografabile. Il discorso mostra poi la passione per la spettacolarizzazione e la personalizzazione della
geopolitica, acuita dalla comunicazione oggi planetaria, situata in un contesto virtuale e caratterizzata da
una performance, con protagonisti dalla grande efficacia comunicativa (= Villepen, ministro degli esteri
francesi, mostratosi come politico aristocratico e colto. La sua figura non sarebbe esistita senza la
performance di Powell, a cui si oppone). Nonostante la trasformazione del mondo in un globo pieno di
satelliti, la carta mantiene un grande potere persuasivo e rimane uno strumento retorico potente. Questo
perché lo spazio è in realtà una categoria politica e la politica non può esistere senza determinazione
spaziale. La cartografia si sostituisce al mondo, cancella i luoghi e li trasforma in spazi e i politici relegano le
responsabilità allo spazio geografico, appiattendo il mondo per renderlo misurabile, rendendolo
un’astrazione per controllarlo cognitivamente (= Geografia borghese/moderna per F. Farinelli).
- Geografia e modernità: La geografia è la scrittura, spesso geometrica, della Terra o “La descrizione della
superficie terrestre entro i limiti del campo di studi”, che dà sicurezza agli uomini, spesso sinonimo di
consolazione offerta dal potere in cambio della sottomissione. La geografia è infatti compromessa col
potere, e, anzi, emanata dallo stesso. Se ricerca alternative diviene colpevole di sottrarsi all’ordine. Le cose
vengono presentate come sicuramente vere, la visione necessariamente parziale diviene assoluta e
oggettiva, togliendo alle descrizioni il loro significato ideologico. L’obiettivo è convincere la gente che non
c’è niente da cercare, mentre la geografia rimane un sapere strategico: la disciplina identifica, normalizza e
naturalizza lo spazio terrestre e lo rende materiale del potere. La teoria della ragione cartografica riflette
l’idea di Heidegger secondo cui la scienza si costituisce soltanto se la verità viene trasformata in certezza da
rappresentare. L’immagine del mondo è la carta geografica, che, disumana, diviene il modello per la
costruzione materiale e per la costituzione ontologica del mondo stesso. La conoscenza cartografica e la
logica delle carte intrattengono, quindi, stretti rapporti con il potere. Per Farinelli, il modello spaziale
topografico nasce con il positivismo e segna la fine della funzione critica della geografia: l’obiettivo era
ottenere una geografia pura, apolitica, ma, nel’700 l’obiettivo era distruggere lo stato assoluto aristocratico
feudale per fondare il mondo borghese. Il progetto di formare uno stato borghese nazionale tedesco e una
sovranità borghese superstatale era quindi, in realtà, esclusivamente politico. La riduzione del mondo in
spazio nasce con i portolani e l’astrolabio, mentre l’idea moderna di spazio si deve agli architetti
rinascimentali che diedero una sola immagine geometrica del mondo. Per Dematteis, invece, la geografia
borghese nacque come compromesso tra visione del mondo e interessi della nuova classe rispetto al
governo da sovvertire. Le rivoluzioni dell’epoca portarono a una continuità dei modi di governo e quindi a
una continuità teorica e metodologica delle rappresentazioni geografiche. Rendere il metodo metrico-
cartografico qualcosa di naturale e neutrale per opporsi a quelli precedenti, è lo steso modo con cui il
potere oggi tende a conservarsi. La geografia finge di lavorare oltre lo stato, indipendentemente da ogni
forma di dominio, mentre, in realtà, afferma il mito della nazione come corpo, dello Stato come
contenitore. Tutta la Terra viene presentata come qualcosa dotato di proprietà generali sempre uguali,
rappresentabili attraverso l’equivalenza geometrica, mentre il territorio diviene oggetto di appropriazione,
dominazione, strategie. Stabilire uguaglianza tra ordine naturale e ordine politico ci abitua a pensare che le
forme di potere siano naturali. Il mondo diviene uno schema che dovrebbe aver senso solo all’interno della
logica della disciplina e che invece ci presenta il reale come se fosse ordinabile secondo regole e leggi,
anche se non è mai stato interamente conosciuto.
- L’effetto speciale dello spazio geografico: Il fatto che ci sia silenzio rispetto al problema dell’esistenza
effettiva dello spazio geografico, permette di comprendere il carattere ideologico della nuova geografia. Lo
spazio geografico è, in realtà, un insieme di operazioni logiche che la nostra mente compie per ordinare gli
oggetti, anche se si dimentica che questi esistono indipendentemente da queste operazioni. Lo spazio viene
assunto come se fosse un’entità reale, un contenitore di oggetti. Lo spazio così inteso diviene una visione
del mondo che porta a un modo di intenderlo mitico- ideologico. L’altro effetto speciale consiste nel far
apparire come proprietà delle cose ciò che riguarda invece la loro organizzazione sociale. Ciò rende
naturale il linguaggio geografico popolare positivista, fondamento culturale che ci convince che la realtà è
quella che è. Questa fiducia contribuisce ad alimentare una lettura cartografica del mondo, organizzato per
contenitori, come se fossero l’esito naturale dell’antropizzazione. Anche la comunità diviene qualcosa di
essenziale, definibile per caratteristiche, come se il mondo fosse una griglia di tasselli omogenei, congelati.
Da qui, anche il territorio assume una sua identità (= censimento, gli individui diventano cifra statistica, ma
gli esiti vengono avvertiti come lo specchio della società). Tutto ciò conferisce un ruolo a colui che guarda
da una posizione esterna/dall’alto, che coglie l’insieme oggettivamente e con distacco, facendo parte di una
dimensione a-spaziale che gli consente di disegnare i confini e le linee. I dispositivi geografici
presuppongono la corrispondenza univoca tra gli oggetti e il loro nome: la denominazione è una
falsificazione perché è un atto che spetta al potere e corrisponde quindi alla dominazione, senza lasciare
spazio ad interpretazioni o alternative. I territori intrecciano relazioni puramente geometriche su cui si
emettono giudizi e si costruiscono progetti: implicitamente si disegna una mappa della differenza,
dell’inclusione e dell’esclusione. Qualsiasi identità, in realtà, si basa sempre sulla descrizione e
delimitazione da parte di chi sta fuori, di chi non è. L’esplicitazione della spazializzazione necessaria alla
politica sarebbe un evento traumatico e rivoluzionario, perché costringerebbe a ripensare tutte le categorie
politiche.
- Il trucco dell’esperto e la spazializzazione della politica: L’esperto di geopolitica è una figura che viene
chiamata per commentare eventi perché si ritiene che abbia gli strumenti per farlo (es. RAI per guerra in
Iraq). L’uso della carta è un punto di partenza necessario per ogni commento, perché appare come un
metodo di analisi oggettivo. Tutto in realtà è parte di una performance cartografica più grande e,
nonostante lo spazio chiuso, pulito e distaccato della carta, gli esiti sono esterni (es. iniziare una guerra).
Per questo, spesso, gli uomini importanti hanno una carta alle spalle, simbolo di retorica e concretezza. Il
rapporto tra spazio e politica cela nella diversità e nell’ubiquità delle sue espressioni il segreto della sua
performatività e invisibilità. Lo spazio geografico, prodotto della logica cartografica, diviene il vero terreno
materiale in cui si realizza la politica: la misura e ciò che viene misurato coincidono, ed essa diviene
costitutiva della politica stessa, che è sempre associata allo spazio (per Foucault è la “societé disciplinaire”).
La geografia ci porta a ragionare per identità e differenze, in termini dualistici, ritenendo l’appartenenza
territoriale qualcosa di univoco e rappresentabile (le stesse tecniche furono adottate dall’America contro
l’URSS nella Guerra Fredda o dalla Germania Nazista). Si instaura una relazione tra disegno e misura militare
dello spazio (es. la spazializzazione della pericolosità dell’Iraq la rende reale, credibile, logica e l’attacco
all’Iraq diviene un passaggio naturale all’interno dello stesso processo). Non esiste, però, ordine senza un
disordine rispetto al quale esso possa definirsi: la cartografia espelle il rumore di fondo delle pratiche
sociali, ma non potrebbe sopravvivere senza, perché l’esigenza di ordinare verrebbe meno. In altre parole,
volendo rendere il mondo uno spazio geometrico ordinato, si constata la presenza di disordine. Lo spazio
geografico perciò fornisce alla politica una logica interna e normalizza il processo continuamente,
mostrando l’efficacia materiale e costruendo uno spazio dell’imperfezione/eccezione nel quale l’ordine
deve arrivare. Il terzo livello è quello a-spaziale, dove chi gestisce il potere può cambiare le regole e la
misura del mondo. Nell’apparente immobilità, quindi, c’è sempre colui che può uscire ed entrare per
spostare le linee e divenire misura stessa.(TRE LIVELLI: 1) cartografia 2) ciò che non vi è incluso = disordine
3) ciò che dà e cambia la misura).

2. LA CARTA E IL SOGNO, Lo spettatore della carta diviene un paralizzato, un avvelenato, in preda a una
rappresentazione/ illusione ottica, priva di umanità
Alle elementari, guardare le carte significava trovare uno spazio simbolico “altro” con il desiderio di uno
spazio oltre la carta, che permetteva di prefigurare una realtà evocata da colori e linee. L’associazione
dell’immagine a una realtà materiale appariva assolutamente naturale.
- Il discorso cartografico: La logica cartografica possiede una certa performatività: dovrebbe essere una
descrizione parziale, un modello, una delle possibili scritture, invece le rappresentazioni geografiche
rivelano tanto della realtà quanto dei soggetti che le producono. La carta dovrebbe essere l’espressione di
un sistema scientifico, una rappresentazione empirica della realtà, invece si tratta di un riflesso di un
insieme di relazioni di potere e di un contesto culturale e discorsivo. Il fatto che il rapporto tra realtà e carta
risulti come un’ovvietà significa che abbiamo imparato a considerare la modalità naturale sin dalle prime
lezioni di geografia, in cui uno degli obiettivi pedagogici è pensare cartograficamente lo spazio e vedere il
contesto- mondo/imparare a immaginare grazie alla carta, strumento educativo. L’idea è che essa sia un
modello accurato e scientifico, vero, del mondo e i bambini devono avere l’abilità di relazionare i segni con
la realtà che rappresentano. Carta e geografia, a lungo, sono state concepite come la stessa cosa: la carta è
lo strumento, il linguaggio, la misura. La geografia critica ha, però, l’obiettivo di liberare l’immaginazione
geografica da questo abbraccio mortale. Nel Medioevo le rappresentazioni cartografiche erano copie del
mondo permeate da interpretazioni filosofiche e religiose, ritratto del territorio, ma anche,
consapevolmente, autoritratto della cultura. Per Heidegger, dalla modernità, il mondo è, invece, ridotto
all’immagine ed è la copia della carta (Farinelli). De la Blache, nel 1913, sentì, infatti, il bisogno di definire la
carta come uno strumento di precisione, esatto, una rappresentazione senza ideologia, un modello
razionale corretto, vero, dove gli oggetti sono reali, oggettivi, indipendentemente dall’opera cartografica,
ignorando il fatto che esistano carte diverse degli stessi oggetti territoriali. Le carte rappresentano gli
oggetti rimpiccioliti con simboli, la realtà viene avvertita come riducibile a un piano, traducibile in un
linguaggio scientifico attraverso la matematica, l’osservazione e la misurazione. Secondo Dematteis,
l’ordine geo-grafico della carta è un sistema di coordinate estraneo alle cose, puramente convenzionale, e
la carta non ci dice nulla: assegna posizioni e stabilisce a priori relazioni metriche tra gli oggetti. Noi
pensiamo tali proprietà convenzionali, geometriche e tipologiche, come proprie degli oggetti rappresentati.
Originariamente, le carte erano strumenti tecnici concepiti secondo una logica geometrica legata alla
razionalità interna della carta stessa, ma con la geografia scientifica, quelle proprietà diventano quelle degli
oggetti reali. Da strumento operativo diviene prodotto scientifico, con l’obiettivo finale implicito di
realizzare una rappresentazione identica alla realtà, in scala 1:1, che potrebbe diventare il mondo. Infatti, si
fa spesso riferimento al fatto che le carte diventino “migliori” man mano esse risultino più precise (fino al
remote sensing delle immagini satellitari). Nonostante il progresso, tutte le carte moderne sono state
valutate sulla base di standard scientifici di obiettività, accuratezza e veridicità, mentre quelle esterne erano
inferiori, arretrate, manipolate o propagandistiche, come se esistesse un unico modo corretto e oggettivo di
cartografare. Tutti i linguaggi acquisiscono un significato all’interno di un contesto già esistente di
affermazioni, simboli, forme di comprensione e interpretazione della realtà. Anche la lettura della carta è
possibile per delle condizioni culturali e storiche e per le relazioni di potere esistenti: è necessaria la pre-
conoscenza del lettore della combinazione di segni e simboli. Per esempio, nel Medioevo si usavano figure
allegoriche e religiose, così come le carte variano se sono rivolte ai bambini: tutte le carte sono prodotti
culturali, sociali e politici, e la loro funzione e analisi non possono essere astratte dal sistema sociale,
discorsivo e spazio temporale che le ha prodotte.
- La decostruzione della carta: L’analisi dei rapporti tra spazio e politica ha sempre fatto uso di carte in
modo acritico, come se fossero specchio della realtà. La logica geometrica induce a pensare al territorio
secondo le logiche dello spazio geografico, come se fosse un contenitore neutrale di cose, tra cui la politica.
Si tratta quindi di strumenti formidabili per, per esempio, la costruzione dello stato nazione moderno. Brian
Harley, dagli anni ’80 (con Farinelli in Italia), apre la decostruzione delle carte: nell’articolo “Deconstructing
the Map” mette in discussione la presunta autonomia della carta come modello di rappresentazione e
come modalità privilegiato di accesso alla realtà, definendolo uno strumento tecnico di potere di natura
positivista. Mette in discussione la scientificità delle carte e la fiducia nel progresso lineare: le carte sono
testi retorici e il messaggio è contestualizzato rispetto a un certo pubblico. Ogni carta è uno strumento
propositivo con una certa visione e una certa proposta culturale soggettiva. Le carte sono, in alcuni casi,
visibilmente implicate col potere secondo due regole: la regola dell’etnocentrismo (es. Meridiano di
Greenwich per egemonia britannica, planisfero centrato in Europa) e la regola dell’ordine sociale, in cui gli
elementi sono gerarchizzati e la divisione spaziale riflette l’ordine sociale perché le due categorie si
rafforzino vicendevolmente (es. il luogo del re è più importante). Così facendo, la carta incorpora le
disuguaglianze e le discriminazioni, legittimandole, specie nei silenzi cartografici (es. carte turistiche senza
edilizia popolare o township abitate da neri). L’uso esplicito delle carte per il potere fa parte dell’effetto
speciale dell’adozione della logica cartografica per leggere il mondo e avviene quando ci sono carte che
offrono visioni distorte della realtà. Talvolta, però, abbiamo anche forme di potere interne e implicite: il
mondo viene disciplinato attraverso la modalità descrittiva della carta che normalizza la complessa varietà
dei territori, giustifica il disconoscimento delle differenze, contribuisce a produrre l’ordine, facendolo
apparire naturale e immutabile (es. confini naturali -> la materialità e la naturalità di una montagna
acquisisce un significato attribuitogli da una cornice interpretativa pre-esistente. E’ in virtù del potere della
carta che impariamo a pensare in termini di confini e limiti di spazio geografico). Secondo Harley, il potere
interno dipende dalla maniera in cui vengono compilate le carte, dall’insieme di regole stabilite per crearle,
dalle gerarchie degli elementi, dagli stili retorici usati. Gli effetti sono estesi oltre la cartografia e il mondo
viene disciplinato, normalizzato, mentre tutti sono prigionieri di una griglia spaziale. Il mondo viene
colonizzato dallo spazio geografico e il rumore di fondo della vita viene cancellato, standardizzato, mentre
un’astrazione diviene lo specchio della realtà. La prospettiva richiede, infine, un’osservazione distaccata e
scientifica che svilisce tutte le prospettive alternative (= “altro” da conquistare). La logica cartografica ha
preparato il terreno alla spazializzazione della politica che scrive e riscrive i confini, che crea differenze in
modo mimetizzato, perché un linguaggio viene ormai scambiato per il mondo stesso.

3. DISCORSO, POLITICA E GEOGRAFIA, scambiare il modello per la realtà = mangiare il menù


- Lo spazio della politica: Il concetto di politica è determinato dal rispettivo contesto socio culturale e dalle
tradizionali concettualizzazioni della politica. In geografia c’è una distinzione tra politica e analisi
geografica, come se quest’ultima fosse neutrale: la geografia spiega e comprende ciò su cui la politica deve
decidere e quest’ultima è ideale quando si basa su informazioni neutrali, ma tale livello di presunzione, che
presuppone esista un modo corretto, è un chiaro gesto politico (il fatto che lo scienziato debba dare
informazioni necessarie per decidere ha una storia lunga che va oltre la geografia). L’assunto è che si tratti
di sfere distinte, quando la geografia politica si basa sempre su spazi istituzionali e su elementi dello Stato.
L’inclinazione è quella di confermare la natura ovvia e spontanea dei processi economici e politici esistenti,
assecondando la visione della politica basata sul senso comune. Con politica formale si intende quella delle
istituzioni pubbliche e delle loro strategie: essa appare come una sfera separata dai cittadini che
partecipano in maniera limitata e subiscono i diritti e i doveri decisi dal sistema. Ciò nonostante, essa non
viene concepita come parte della quotidianità, ma come dominio separato, come una sfera che influenza il
resto dall’alto. La politica informale, invece, è quella che si trova ovunque, in tutte le relazioni sociali. La sua
separazione dalla formale crea, però, una gerarchia tra quella politica vera e quella minore e, avvertendole
come distinte, entrambe appaiono separate dal quotidiano. Tutta la politica riguarda l’esercizio del potere
che pervade anche la vita quotidiana: la falsa divisione tra formale e informale è un accorgimento retorico.
Foucault (“Societé disciplinaire) ritiene che nelle società passate e tradizionali il potere era visibile
attraverso simboli, mentre in quelle capitaliste moderne esso si sia mimetizzato: prima la disciplina era
imposta con forme pubbliche e spettacolari, oggi, nella societé disciplinaire, abbiamo una sorveglianza
panottica, che pervade tutti gli aspetti della vita, con istituzioni che irreggimentano l’organizzazione spazio
temporale a tal punto che le pratiche di controllo, le classificazioni che servono per ordinare, invadono
completamente la sfera privata. I codici vengono interiorizzati a tal punto che, inconsapevolmente, ci auto
discipliniamo. Il potere non è qualcosa esercitato dall’alto da una persona, ma è un fluido silenzioso che
penetra ovunque, ma che non vediamo per il beneficio dell’ovvietà, per il senso comune che ne è pervaso
(visione capillare). Se si vuole studiare la politica, quindi, bisogna considerare tutto (vita sociale,
interazione, dalla piccola scala fino all’arena internazionale).
- Potere/sapere: Tutte le pratiche e le relazioni sono composte da elementi materiali (tangibili, visibili) e
discorsivi (linguaggio, idee, ciò che assegna significato al mondo materiale). In realtà tale distinzione è un
artificio retorico, perché tali pratiche (tra cui quelle geografiche) non possono esistere indipendentemente
le une dalle altre. Secondo Foucault, il significato non dovrebbe essere visto come qualcosa di trasparente,
ovvio e naturale, ma come qualcosa di diverso a seconda di ogni contesto, modalità, insieme preesistente
di affermazioni di principio, simboli e interpretazioni, quadro interpretativo/comunicativo (= discorso).
Driver è stato il primo ad applicare la teoria del potere all’ambito geografico, basandosi sui meccanismi di
spazializzazione. Foucault rifiuta le teorie e le ricostruzioni storiche basate su grandi astrazioni e preferisce
indagare il particolare, in più ritiene che l’organizzazione dello spazio sia una strategia per il controllo della
vita sociale, politica ed economica nei diversi contesti. Questo inaugura la nuova stagione della geografia
critica/svolta post-strutturalista, alla cui base, per Farinelli, sta “il problema della conoscenza” e la
dimensione politica. Alla base stanno ricerche basate sull’analisi testuale e discorsiva e quelle che indagano
i rapporti tra conoscenza e potere. Entrambi gli ambiti si preoccupano del ruolo politico della
rappresentazione geografica e del rapporto tra ricercatore e ricercato, con un atteggiamento critico verso il
sapere “innocente” dei discorsi geografici convenzionali. Un altro problema è quello della traducibilità delle
alterità, ovvero della decisione del punto di vista dal quale si costruiscono le rappresentazioni: è
coincidente con l’oggetto? Dal punto di vista etico, si può parlare per l’altro? Secondo Duncan e Ley, nella
teoria mimetica della rappresentazione, ritengono che si debbano abbandonare quelle rappresentazioni
che pretendono di assurgere a validità universale. Marcus e Fisher, invece, compirono un attacco più
generale alla certezza del rappresentare, basata sul pensiero illuminista, in cui tutti si ritengono traduttori
perfetti e trasparenti. Si contesta il fatto che la realtà, poi, possa coincidere con le rappresentazioni che
costruiamo di essa, mentre essa è già “vestita” del nostro sistema. Il mondo viene visto come un regime di
certezze, con fondamento nella metafisica della rappresentazione/certezza del rappresentare, con
fondamento sulla teoria della ragione cartografica. La visione del mondo, così, si basa su gerarchie e rigide
dicotomie che ingabbiano l’altro e noi stessi. Si rende naturale ciò che invece è culturale e storico (= per
Barthes a un mito che converte la storia in natura). Serve, perciò, interrogarsi e valutare la genealogia, il
funzionamento di ogni discorso, esplicitare la posizione di chi immagina e pone categorie e classificazioni,
per metterne in luce il punto di vista e l’autorità. Barnes e Duncan, in “Writing Worlds”, ritengono che la
scrittura per troppo tempo non abbia costituito un problema per il discorso geografico: i geografi ritengono
di poter scrivere la Terra, anziché scrivere della Terra. “I pezzi del mondo non sono già pronti con le
etichette, ma quella che viene offerta è sempre e solo una delle finestre possibili sul mondo”. Per Clifford,
deve tornare a esistere una Terra che si muove, senza luoghi privilegiati. Si problematizzano i testi come
riscritture di aspetti della vita sociale, come pratiche di significazione, dove il significato dipende da una
rosa di possibili interpretazioni offerte dai lettori che, però, non sono liberi, ma soggetti di comunità testuali
che li inchiodano, e i discorsi, vere strutture, cornici interpretative che servono per conoscere, comunicare,
ma anche per limitare. Il discorso è un confine entro il quale un insieme di pratiche e idee è considerato
naturale: sono convenzioni originate da un certo contesto e che, per questo, variano e sono parziali,
nonostante ci sia la pretesa che una certa formazione discorsiva sia più stabile rispetto ad altri discorsi (Es.
discorsi egemonici supportati dalla maggior parte della gente).
- Spazio/identità: Foucault studia i discorsi e la loro associazione con le istituzioni che porta a legittimare
quelle che propongono come verità. Il potere risiede nella base materiale delle pratiche e delle istituzioni
che spesso si richiamano al senso comune, a ciò che diamo per scontato. La conoscenza è effettivo potere
e, perciò, Foucault ne studia la natura politica. Critica, poi, la visione dualistica del mondo imposta dalla
versione cartografica del pensiero moderno: essa crea il mito dell’identità che, come una gabbia, si basa su
inclusione ed esclusione/definizione dell’Altro/ normalità e a-normalità. Il popolo viene visto come un
insieme per tre fattori: 1) i concetti vengono spazializzati e associati a luoghi per renderli concreti e far
apparire il mondo diviso e statico. Ciò normalizza i caratteri identitari facendo sentire tutti abitanti di tasselli
(es. censimenti = codificazione estrema); 2) L’idea diffusa è che esista prima un’identità e poi tutto ciò che è
diverso da essa; 3) L’idea che esista un ricercatore esterno ed oggettivo che giudica e stabilisce delle verità,
che sa come nascondere la sua posizione e come affermarsi in quanto neutrale. Il mondo passa da
complesso a insieme di identità locali semplici. Es. le geografe femministe studiarono la divisione per generi
della società e del potere, realtà da cui anche la dimensione individuale rimaneva intrappolata. Es. la
geografia postcoloniale ha indagato la natura storica e culturale della costruzione geografica dell’Oriente,
rappresentato come un’insieme compatto). Said, fondatore dell’Orientalism, ritiene che l’Oriente sia
un’invenzione dell’Occidente e che serva all’identità europea per rafforzarsi nella costruzione di un’alterità.
Questo porta a ritenere alcune caratteristiche convenzionali, espressione del modo di concepire il diverso,
come naturali. Ciò è stato possibile per: 1) La letteratura di viaggio, i governi, i discorsi geografici e le visioni
geopolitiche eurocentriche; 2) Una geografia che ha inchiodato anche l’identità europea come qualcosa di
monolitico; 3) L’interpretazione che l’europeo sia maschio, positivista, razionale e l’orientale sia
disordinato, sensuale e femminile; 4) Una visione del mondo che ha giustificato anche la gestione concreta
dei suoi territori (es. colonialismo e imperialismo). Driver, in “Geography’s empire: histories of geographical
knowledge” ritiene che la conoscenza geografica sia stata l’asse portante del progetto coloniale,
alimentandosi di immagini e fantasie. A Said, però, spesso gli si contesta l’incapacità di fornire una proposta
alternativa e di perpetuare una visione essenzialista scontrandosi con l’Occidente intero. Il problema
dell’identità rimane il tema centrale del dibattito geografico critico (politics of identity): il concetto è legato
alla posizione di chi l’ha costruito, mentre il mito dell’esistenza di uno spazio neutrale non fa altro che
mascherare il fatto che in realtà tale concetto sia prodotto socialmente e in costante mutamento. La
definizione è quindi parziale e plurima perché dipende da un sistema di relazioni: diviene arbitraria, come
una chiusura/congelamento della realtà. Sarebbe più corretto intendere, quindi, l’identità come un
processo.

4. GEOPOLITICA CRITICA
- Sapere critico e geo-politica: La critical geopolitics è la rilettura angloamericana post-strutturalista della
geopolitica, nata negli anni ’90, che pone al centro il problema della conoscenza, basandosi su Foucault e
Derrida. Il suo obiettivo è quello di decostruire gli assunti di base, sovvertire le pratiche della politica
convenzionale ponendo in evidenza i silenzi, le costruzioni, per ottenere vie alternative, sfidando le nozioni
di “esperto” e di “pratica” politica. Al centro sta il rigetto della divisione per blocchi del mondo, l’attacco
alla lettura maschilista ed eurocentrica, la denuncia del tentativo di nascondere la discrezionalità e la
parzialità delle varie visioni, la critica alla pretesa di collocare il geopolitico in posizione distaccata dal
mondo, la convinzione che l’identità si basi su un’alterità spazializzato, l’interesse per l’archeologia del
sapere geopolitico e l’esplicitazione della sua natura politica. Tutte le “geografie della politica mondiale”
sono prodotte culturalmente e sostenute politicamente dai discorsi e dalle rappresentazioni degli statisti.
Studiare la dimensione politica serve per svelare la dimensione politica delle espressioni geografiche della
politica. Alla base stanno i codici/copioni degli intellettuali di Stato, per i quali serve un attento esame dei
contesti e delle relazioni. Il “discorso” prodotto è in realtà una specifica lettura di una situazione, che porta
con sé luoghi comuni, sviluppandosi da un centro/elite. Tutte le narrazioni e rappresentazioni geografiche
sono forme di specificazione della realtà politica, con un effetto politico. O’Tuathail, in “Geography is about
power” sostiene che la geografia sia soggetta ad assestamenti e sia sempre un’espressione della relazione
tra potere e sapere, emanazione di una rete. Lo studioso parla di geopower (= geografia usata come
insieme di tecnologie di potere) dove le rappresentazioni geografiche sono sempre un atto di potere,
un’imposizione di un ordine, di un’identità, di una modalità di comprensione che viene presentato come
l’unico reale possibile. Determinando un sé e un altro, si originano conflitti tra modi diversi di immaginare il
mondo. Serve comprendere il modo in cui si scrivono le mappe della politica globale/ geo- scrivono il
mondo e i regimi di verità. Creare una tale cornice significa creare un campo di classificazioni e gerarchie. I
testi di geopolitica producono sistemi di relazioni tra spazio, potere e sapere che rendono cose reali,
indiscutibili, date per scontato. La geografica critica si occupa della problematizzazioni di queste realtà,
della loro messa in discussione, documentando le strategie utilizzate per produrre le mappe della global
politics per mettere in crisi il funzionamento di tali mappe. Alla base, c’è la popular geopolitics, cioè i luoghi
comuni quotidiani, di carattere divulgativo, dati dai media, dagli esercizi retorici dello Stato, e le tecniche (di
visualizzazione, come le carte, le descrizioni, le rilevazioni e le statistiche). Importante è comprendere il
ruolo che la geografia ha giocato nella costituzione degli stati nazione, realtà che informa tutto
l’immaginario fino alla microfisica del potere.
- La geopolitica come performance: Gli stati nazionali vengono presentati come l’unica e la sola cornice
possibile, naturale. Agnew ritiene che il ruolo irriflesso che viene assegnato allo stato nazione e i miti sui
quali si basa sono la forma più potente di geopower. Sono nati l’identità nazionale, i confini, uno spazio
unitario interno, un passato comune, tutti frutti del nation building: lo spazio nazione, il tempo nazione, la
comunità immaginata dentro a uno spazio geometrico. Tutto ciò offre il supporto ideologico e la
giustificazione politica alla riproduzione di quelle geometrie. Una delle espressioni più esplicite è nelle
rilevazioni cartografiche e negli atlanti nazionali, vere scatole amministrative che servono per stabilire il
dentro e il fuori, per forgiare un senso di appartenenza. Bahbha ritiene che questo serva per celare l’ansia
prodotta dal pluralismo dello spazio moderno della nazione, trasformando la differenziazione in
omogeneità/tradizione. La geopolitica deve, allora, testimoniare l’esistenza della pluralità. Campbell ritiene
che gli Stati sono costituiti dalle loro performance rispetto a un esterno, in opposizione al quale si
definiscono. C’è un continuo tentativo di costruire ciò che è straniero. La geopolitica come performance
deve prendere in considerazione i confini materiali come esito di una serie di pratiche di elaborazione
concettuale, e occuparsi della traduzione dei luoghi in spazio e della cartografia dei significati che consente
agli Stati di esistere. Con interdigitazione si intendono quelle pratiche attraverso cui si ottengono le
spazializzazioni dei concetti di identità. La geopolitica, poi, si occupa di quella culturale: le pratiche e le
rappresentazioni diffuse trasversalmente tra tutti i livelli sociali come ampio fenomeno sociale e culturale
fatto di costruzioni quotidiane pervadenti che saturano la nostra vita. Ci sono, quindi sia momenti
ufficialmente riconosciuti (es. discorsi dei leader) che però non sarebbero possibili senza lo sviluppo
capillare di pratiche nella vita quotidiana dei cittadini. La geopolitica critica è una forma di geopolitica di per
sé che vuole mettere in discussione e a nudo l’objectivist perspectivism e disturbare il vecchio trucco della
geopolitica tradizionale. L’obiettivo è abbattere quella normalità attraverso cui finiamo per autocensurarci e
adattarci alle geometre micidiali delle sue cartografie.

PARTE 2: STATO, NAZIONE E SPAZIO GEOGRAFICO:


5. GEOGRAFIA, STATO, NAZIONE Passare un confine è come oltrepassare una linea magica, invisibile, la
cui trasgressione poteva portare persino alla morte (es. Muro di Berlino): un passaggio di frontiera è un
momento di verità, in cui si deve provare la propria identità e esistenza come cittadino, mentre si è nelle
mani della guardia e si viene convertiti in dato puro
- Spazio geografico e stato territoriale: Lo spazio geografico è un prodotto dello stato nazione.
Quest’ultimo è l’esito della spazializzazione della politica attraverso la griglia dello spazio geografico. La
carta è il dispositivo di riduzione del mondo, mentre lo stato si afferma come modello spaziale ideale per
l’organizzazione della politica e dell’economia, nascondendo il contenuto ideologico. Secondo Taylor e Flint
gli stati sono parte di un mondo che diamo per scontato, che percepiamo come caratteristiche fisiche del
territorio, quando lo stato nazionale non è mai stato né necessario, né spontaneo, ma prodotto storico,
nato dal XVII come modello geografico ideale della politica e alternativo di organizzazione socio-economica.
Lo stato territoriale è un prodotto europeo del sistema capitalistico borghese sorto tra il XV e il XVII, a cui è
conseguito un ripensamento in chiave evoluzionista dei popoli. Tale trasformazione è stata più rapida là
dove le città- stato erano meno potenti. L’Europa Medievale era molto diversa, decentrata a livello politico,
cuore della cristianità occidentale con poco potere secolare. Il Sacro Romano Impero, invece, riguardava
una parte limitata di territorio. A questo livello di pretese universalistiche (Papato e Impero per un virtuale
spazio politico europeo), si aggiungeva quello delle geografie poliedriche, con un’infinità di forme di
autorità politiche autonome (1500 entità politico- territoriali). Infine, esisteva un livello intermedio dato da
altre connessioni politiche. La scelta dello stato fu determinata dalla rivoluzione nell’organizzazione militare
e dal capitalismo, che richiedevano una nuova geografia del potere. Sino alla metà del ‘700, la geografia
ufficiale e il discorso geografico politico rimasero separati: le nuove esigenze militari, economiche e di
mobilità erano espressione di un progetto politico non confuso con esso, tanto che i geografi erano del re.
Quando si impone la borghesia, l’ideologia e la geografia si confondono: si impone una visione che voleva
far apparire coincidenti realtà per ordine politico, proprio perché di voleva una separazione tra i contenuti
tecnici e ideologici. Al contempo, non verrà chiesto di tener conto di questa separazione, di spiegare le
ragioni per cui l’ordine territoriale viene rappresentato in un certo modo, conforme all’ordine socio-
politico, ma verrà chiesto di considerare l’ordine territoriale come qualcosa di naturale, come se non fosse
importante indagare oltre.
- Lo stato come contenitore di potere: Taylor ritiene che lo stato fosse inizialmente un contenitore di
potere (warring state) a cui poi si è sostituito il welfare state. Il concetto di stato- contenitore comporta
l’idea che esista una forma compiuta, con omogeneità interno, con un confine netto rispetto all’esterno. Ciò
comporta sovranità sui cittadini e la forma stato come l’unica desiderabile e possibile di organizzazione. Si
trattava di un modello intermedio tra Papato/impero e città stato, nato a seguito dell’età delle dinastie,
dove esistevano entità politico-territoriale esito di matrimoni o guerre, estese su frammenti disarticolati
(es. d’Asburgo). Dalla fine del XVI si sente il bisogno di realtà compatte e contigue, omogenee con confini
chiari, in cui la sovranità, legalmente demarcata, era ovunque uguale (non come nell’impero, con un centro
da cui si irradiava diminuendo di intensità con le distanze). Nasce una concezione binaria di geografia, dove
l’interno è contrapposto all’esterno. L’origine storica avviene con il trattato di Westfalia del 1648, ma
esistevano già prima forme di accorpamento territoriale. La natura territoriale del potere, dove questo è
sancito per diritto sul proprio territorio e popolo e dove gli altri non possono interferire, resta, comunque
un avvento recente (nell’Europa Medievale rimaneva gerarchico). I primi stati territoriali sono stati esito di
guerre di religione (Riforma e controriforma), quando, ormai, si voleva una soluzione alla mancanza di
ordine, stabilità e sicurezza. Per Taylor e Flint, invece, la loro nascita coincide con il diventare obsolete delle
mura con la nascita delle armi da fuoco. Servivano nuove risorse finanziarie e un certo peso demografico
per proteggersi e organizzare le nuove tecnologie militari: avere un’interezza di cui sfruttare le risorse era il
principale obiettivo. Per questo sorsero monarchie assolute, nuove burocrazie, sistemi fiscali, grandi
eserciti: tutte modalità necessarie per disciplinare la popolazione e sfruttarne le risorse.
- Lo stato come contenitore economico: Lo stato nasce anche come contenitore economico per la rivalità
commerciale (mercantilismo). Diviene il principale soggetto economico (es. Olanda primo che nasce come
coalizione di città che volevano arricchirsi, esempio di ragione di stato alternativo). L’obiettivo è controllare
la produzione e l’accumulazione di ricchezza per dominare la fetta più grande del nuovo mercato globale a
discapito degli altri (es. espansione coloniale e imperiale). La geografia e la cartografia nascono proprio per
queste nuove concezioni. L’impianto geometrico della carta serve per difendere, ingrandire, modellare lo
stato attraverso un controllo reticolare. La misura riduce la complessità e i nuovi modelli di gestione
territoriale si traducono nel territorio stesso. Ciò guida le decisioni operative. Il problema è che la geografia
dimentica di essere un discorso sulla funzione politica del territorio e si spaccia per riproduzione scientifica:
il territorio si fa carta e diviene il vero terreno della politica, diventando l’unico spazio possibile, naturale,
dove i luoghi si separano dalle persone che li vivono. Infine, il pianeta viene immaginato come diviso in
tasselli, dove questa partizione è l’unica possibile. La conversione geometrica del mondo offre una
piattaforma ideologica per giustificare l’esistenza degli stati: lo spazio metrico diviene operatore capace di
assicurare il controllo politico. L’ordine spaziale risulta normale e la visione europea del pianeta viene
universalizzata.
- Lo stato come contenitore culturale e sociale: Con la rivoluzione francese ed americana il popolo diviene
la vera forma di legittimazione della sovranità dello stato. La legittimità dello stato, allora, deve essere
continuamente rappresentata assicurandosi il completo controllo del territorio e una lealtà da parte dei
sudditi. La gouvernementalité cambia: si basa ora sulla leva militare e sulla rete di istituzioni e sull’apparato
ideologico che forma il nazionalismo, capace di legare in modo indissolubile il popolo, che diviene patria, e
lo spazio, che diviene identità e luogo di appartenenza, attaccamento, lealtà (Bloody fiction: finzione scritta
nel sangue, naturale corrispondenza tra popolo e spazio storico). La legittimità dell’autorità statale impone
sui cittadini nuovi diritti e doveri e lo stato si tramuta in guardiano, tutore, che ha l’obbligo morale di offrire
assistenza, ordine, protezione dai problemi economici (= welfare state). Per impedire una frattura e un
collasso dell’ordine sociale nasce il sistema giudiziario e il monopolio dell’uso della violenza: si protegge
non solo dai nemici esterni, ma anche da quelli interni che vengono eliminati o contenuti. Lo stato presenta
una fluida fusione di dimensioni (economica, politica, sociale..) che penetra tutti gli ambiti della vita. Infine,
gli stati sono oggetto di una vera e propria personalizzazione (es. geografia regionale francese dove i luoghi
e le regioni sono organismi), mentre la cultura è solo un modo diverso di fare politica.

6. L’INVENZIONE DELLA NAZIONE, Il geocampo, la dimensione territoriale della nazione, tutti i suoi
attributi, sono frutto di un processo politico e culturale storicamente determinato
L’ideale di azione è recente, così come lo stato nazione come invenzione spaziale. Il nazionalismo è ciò che
l’ha reso così potente: l’idea di nazione è infatti penetrata a fondo nelle nostre pratiche discorsive, tanto
che lo usiamo anche nei termini antitetici alla stessa (es. transnazionale). Vediamo, infatti, la politica
internazionale sempre attraverso lenti nazionali. La nationess, per Smith, è data da: 1) il mondo è un
mosaico di nazioni; 2) l’ordine mondiale dipende da un sistema di stati nazione indipendenti; 3) esse sono
aggregazioni sociali naturali spontanee; 4) all’interno vi è un’omogeneità culturale e comuni antenati; 5)
serve uno stato sovrano per esprimere l’unicità culturale di ognuna; 6) esiste un diritto inalienabile al
proprio territorio/patria; 7) ogni individuo deve appartenere a una nazione; 8) la prima forma di lealtà è
verso la propria nazione. In realtà, non esiste una definizione di nazione universalmente valida (si basa su
lingua, religione, categorie sociali, confini, spazi sociali?). L’ambito è confuso e ambiguo e l’utilizzo del
termine quasi universale lo rende significante di tutto e niente. I due principali errori sono: a) usare nazione
come sinonimo di stato, mentre uno stato territoriale è il risultato di un processo storico e politico che, nel
XVIII si è unito all’ideale di unità politico-amministrativo. Il termine corretto è stato-nazione che, però,
viene abbreviato, facendo perdere il valore della differenza tra i due. I veri stati nazione sarebbero quelli i
cui confini territoriali coincidono con quelli amministrativi e nei quali la popolazione è omogenea (es.
Islanda). In realtà, in oltre la metà di quelli contemporanei, il gruppo nazionale maggioritario coincide con il
75% della popolazione; b) spesso si applica il termine nazionale a processi e strutture statali (es. Nazioni
Unite, Relazioni Internazionali, Nazionalizzazione). Oltre a generare confusione, contribuisce a sedimentare
la convinzione che i due termini siano interscambiabili, convergenti e che quindi lo stato nazione sia un
esito naturale, non risultato di un processo storico, geografico e politico.
- La nazione discreta: Il nazionalismo si fonda su due scuole. Quella primordialista crede che l’appartenenza
a una nazione sia innata, propria della natura umana. L’attaccamento è naturale, determinato da delle
radici, da immediata vicinanza, connessioni di parentela, comunità religiose, lingua, pratiche sociali,
coesione interna. Tutte queste sono caratteristiche date/ givens della condizione umana, di natura,
addirittura, genetica o biologica, basata sulla discendenza. In realtà, ben pochi gruppi hanno un’origine
comune: piuttosto, si basano su un credo condiviso di una comune discendenza. Secondo Connon, esiste
un’essenza di una nazione basata su un legame di tipo psicologico che unisce un popolo. L’attaccamento
diviene così “beyond reason”, essenziale, un credo profondo. Nonostante i diversi ceppi genetici, ma è ciò
che le persone percepiscono ad influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti. Si tratta di un’auto
definizione e non ha bisogno di accordarsi con dati dimostrabili, perché è una conoscenza sensoriale, a
priori, morale (Es. discorsi di Mao Zedong alla Cina e di Hitler alla Germania Nazista: entrambi volevano
generare una vibrazione psicologica che riposa su un senso intuitivo di consanguineità, come se il popolo
fosse la progenie incontaminata di un’epoca lontana e mitica). Questo giustifica il successo dei movimenti
nazionalisti e il collasso del comunismo in Europa Centrale e Orientale nei Balcani (es. di Gorbaciov e
Balcani, dove il patriottismo non era paragonabile alla forza del precedente nazionalismo). Gli studiosi di
questa scuola svalutano le argomentazioni razionali o l’idea che lo stato sia l’invenzione di elite, frutto di
politica ed economia, ma credono nella profondità emozionale, nel bisogno di identificazione. La nazione
diviene l’unica cornice per il mantenimento di un ordine mondiale, poiché è l’unico strumento che soddisfa
i bisogni di radicamento, appagamento culturale, sicurezza e fratellanza. Ciò si unisce alla memoria, al mito,
alla sfera simbolica del gruppo etnico che viene avvertito come unico e irripetibile.
- L’invenzione della nazione: L’approccio costruttivista, invece (Hobsbawm e Anderson) crede che la
nazione sia una costruzione sociale e politica determinata dalla storia. Ciò è connesso al capitalismo
moderno e alla presenza di comunità immaginate fondate sull’invenzione di una tradizione da parte di
un’elite. Rifiuta, quindi, un legame nazionale di tipo naturale e contesta l’esistenza di qualsiasi criterio
oggettivo legato alla formazione dell’identità nazionale. Mettono in discussione il fatto che la nazione sia
l’espressione di un bisogno innato, in quanto prodotto piuttosto recente. Piuttosto, la nazione è nata dal
bisogno di soddisfare le esigenze dello stato territoriale moderno. Secondo Gellner, il nazionalismo è la
conseguenza di una nuova forma di organizzazione sociale, basata su trasformazioni sociali, politiche ed
economiche che hanno reso la nazione e il nazionalismo necessari: nel momento in cui le condizioni sociali
permettono che esista una cultura alta, standardizzata, omogenea, promossa a livello centrale che
coinvolge l’intera popolazione, finisce per rappresentare l’unica unità di riferimento. Il nazionalismo, quindi,
viene prima della nazione. Dopo le rivoluzioni, la nazione diviene dei cittadini, la cui sovranità collettiva
doveva realizzarsi in uno stato (es. da Dichiarazione dei Diritti Francese: Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella Nazione). Ciò, però, non implicava alcuna logica tra il riconoscimento della sovranità
dei membri cittadini e l’identificazione di una nazione sulla base di considerazioni etniche, linguistiche o di
altra natura. Le rivoluzioni, infatti, erano su base volontaristica. Per i nazionalisti la creazione di entità
politiche per contenere la nazione derivava dall’esistenza precedente di una comunità distinta dagli altri,
mentre secondo la prospettiva rivoluzionario-democratica il concetto centrale era il riconoscimento della
sovranità del popolo attraverso lo stato, il quale, rispetto al resto dell’umanità, costituiva una nazione. Per
quanto riguarda lo stato come contenitore economico, infine, vediamo che esso diveniva protettore egli
interessi economici della sua popolazione, dando regole contrattuali per il rispetto della proprietà. Con il
liberismo del XIX, va a diffondersi l’idea che il successo economico sia per gli stati sufficientemente grandi.
Lo stato nazione era visto come la forma di società umana più evoluta e i movimenti nazionali erano per
l’unificazione e l’espansione nazionale. Le piccole nazioni non potevano avere un futuro indipendente,
mentre l’eterogeneità era accettata: si mostrava ad esse, quindi, come avrebbero potuto guadagnare dalla
loro annessione a uno stato più grande. Alla base, c’erano considerazioni razionali, mentre il sentire
soggettivo del popolo era ignorato. Il principio di nazionalità era diverso dal nazionalismo successivo: non
era importante, per esempio, che gli italiani sentissero il Risorgimento. Il nazionalismo nasce dopo per
l’adozione a-politica di una teoria dello spazio geografico da parte dello stato borghese e il bisogno di
coprire la dimensione geometrica dello stato con valori e passioni che consentissero alla société
disciplinaire di funzionare, apparendo naturale.

7. COMUNITA’ IMMAGINATE, Il mondo è troppo diversificato per l’antropologia nazionalista: non si trova
una risposta al perché le persone che parlano la stessa lingua dovrebbero apprezzare l’idea di essere
sotto lo stesso Governo
- Immaginare la nazione: Con la frase di D’Azeglio: “Fatta l’Italia facciamo gli Italiani”, capiamo che c’è una
netta separazione tra progetto nazionale e sentire popolare, pura astrazione. Non c’è niente di scontato nel
senso di comunione che caratterizza le comunità nazionali: ciò che unisce le persone non è la conoscenza
reciproca, ma il pensare se stessi come parte di uno stesso insieme più grande (= Comunità immaginate,
per Anderson) (es. assistere a una partita dell’Italia ai mondiali). E’ erroneo focalizzare la nostra attenzione
sulla falsità e sulla natura politica di costruzione di un’appartenenza nazionale, in quanto tutte le nazioni di
per sé sono artefatti culturali. Piuttosto, devono essere distinte rispetto allo stile adottato per immaginarle.
Facendo riferimento al contesto storico, un fattore chiave per l’affermazione della nazione è dato dalla
disintegrazione delle visioni universaliste delle comunità religiose. Con l’illuminismo nasce, però, un nuovo
oscurantismo, una nuova fede che converte la fatalità in continuità, la contingenza in significato. Questo
cambiamento ha introdotto nuovi modi di interpretare i rapporti di continuità e di simultaneità nelle
società umane: Anderson ritiene che la nazione sorga come una religione secolare, espressione politica del
bisogno umano di continuità rispetto a un passato immemorabile, con un futuro senza limiti (“Giano
Moderno” per Naim). Il trascorso comune giustifica le pretese territoriali e costruisce l’ontologia nazionale
che fornisce l’evidenza indimostrabile di continuità e di comunanza a livello secolare. La comunità diviene
compatta lungo il tempo storico e congiunge tutti i cittadini con i loro avi scomparsi. Nel medioevo, per
Benjamin, c’era invece un tempo messianico, dove passato e futuro erano dimensioni simultanee. Oggi
questo è sostituito dall’idea di un tempo vuoto, omogeneo, misurabile e quantificabile con strumenti
razionali come l’orologio e il calendario (illusione del tempo = orologio come territorio = carta). Questi sono
i pilastri della nuova teoria della conoscenza, basata sulla misura e sullo stato moderno borghese. Si
aggiunge a ciò l’idea di una comunità limitata: nessuna coincide con l’umanità, perché farebbe perdere di
valore l’idea stessa di nazione. In più, si ha una forma di controllo e possesso diversa da quelle precedenti:
non c’era mai stata la concezione di un controllo uniforme che si esercita su tutti i soggetti in egual modo.
La continuità temporale è affiancata da quella spaziale. Nasce un discorso condiviso di appartenenza e
identità, delimitato ma rappresentato in tutta l’interezza del territorio (Per Johnson: “relazione di
compresenza” tra i soggetti). Anderson definisce, infine, l’importanza del print capitalism/ capitalismo a
stampa, della comunicazione di massa, delle lingue nazionali, della burocratizzazione, del sistema
educativo, della leva militare, dell’apparato amministrativo per un unico progetto di costruzione della
nazione.
- Lingua e nazione: La lingua della carta stampata divenne: 1) terreno comune di scambio e di
comunicazione, al di sotto del latino (tempo universale) e al disopra delle lingue vernacolari parlate. Le
persone divennero così consapevoli dell’esistenza di altri appartenenti a uno stesso campo linguistico; 2) un
modo per garantire fissità alla lingua, costruendo un’immagine di antichità e per assicurare un senso di
continuità temporale, con il libro stampato come oggetto permanente; 3) alcune parlate si elevarono a
lingua stampata diventando lingue del potere. Questo contribuì a una nuova geografia di centri e periferie:
il dialetto della metropoli divenne lingua nazionale, le altre vennero ignorate. La lingua spesso non viene
considerata come la vera essenza di ciò che distingue un popolo dall’altro (nonostante es. di slavi che
chiamano nemici i tedeschi = muti). Eppure le barriere comunicative sono quel fattore che separa entità e
nazioni in termini semi artificiali: alcune lingue nazionali sono completamente inventate, altre scelte, tutto
l’opposto del pilastro primordiale a cui credono i nazionalisti. Si tratta, per Billing, di una invented
permanencies/ costanza storica inventata. E’ piuttosto il nazionalismo a essere all’origine delle lingue. La
stessa idea di lingua è recente: nel medioevo il latino era quella della scrittura, mentre le lingue vernacolari
non erano grammatiche, ma lo divennero solo con il nazionalismo e l’emergere della disciplina della
grammatica (sorta insieme all’economia e alla medicina, tutte materie utili per l’ascesa e il consolidamento
dello stato moderno e delle istituzioni che ne conferiscono uniformità). Nella Francia medioevale, per
esempio, l’idioma di ogni comunità era distinto e man mano che ci si allontanava da casa crescevano i
problemi di comunicazione, con rari salti di senso, ma con un continuum linguistico- comunicativo. Non
c’era un punto preciso o un confine linguistico: è il modo moderno di concepire le lingue che ha sentito il
bisogno di marcarli. Le lingue nazionali sono progetti di geografia politica: ciò che contava è che una
minoranza avesse abbastanza peso politico per imporre la propria lingua sugli altri come ufficiale (es. al
momento dell’unità d’Italia parlava l’italiano il 2,5% di italiani). Una parte pretende di parlare per l’intera
nazione e di rappresentare l’essenza nazionale. Il consolidamento di una lingua ufficiale, però, è alle spese
di una molteplicità di altre lingue dette “delle minoranze” (es. nei “Diritti dell’uomo e del cittadino” usando
la lingua francese, si marginalizzano implicitamente i Bretoni e gli Occitani). Anche la differenziazione tra
lingue e dialetti è una questione politica, perché non esistono criteri ovvi per distinguerli. La stessa
classificazione delle lingue è l’esito delle politiche avvenute nel corso della storia. Di nuovo, è il potere a
produrre e legittimare determinate rappresentazioni geografiche, e lo fa grazie alla sua invisibilità, la sua
capacità di apparire ovvio e naturale.

8. NAZIONALISMO BANALE E SPAZIALZZAZIONE DELLA MEMORIA, Durante i Mondiali del 2002, il


quotidiano “La Repubblica” regalò a tutti un cd con l’inno d’Italia, con una biografia di Mameli e
un’interpretazione contemporanea del testo. Si trattava della costruzione di una performance di
appartenenza nazionale, detta “nazionalismo banale”
- Nazionalismo banale: Facciamo riferimento ai rituali nazionali presenti nella quotidianità, come un
“cerimoniale di massa” (es. lettura del quotidiano mattutina: tutti vengono coinvolti simultaneamente
come una immensa comunità interpretativa virtuale). Secondo Biling, è un modo per assicurare che
nessuno di noi si dimentichi di far parte di una nazione: egli è critico nei confronti di chi considera il
nazionalismo come qualcosa di estremista, esotico, che “riaffiora” ogni tanto. Ritiene, piuttosto, che si tratti
di un fenomeno sottovalutato che segue la logica del business as usual. Le infiammate nazionaliste non
sono umori temporanei, ma fenomeni pervadenti e incisivi anche nelle democrazie occidentali. Appaiono
intermittenti perché sono rese possibili dal sottofondo ideologico sempre presente (Es. Bush durante la
Guerra del Golfo). Ogni giorno i luoghi vengono riprodotti come nazioni e i cittadini come appartenenti a
una nazionalità specifica in modo banale, ovvio, naturale, normale, familiare. Il nazionalismo è una realtà
endemica. Il richiamo alla nazione è così ovvio da passare inosservato (es. bandiera esposta sugli edifici
pubblici, “bandiere non sbandierate” che si trovano dappertutto, la I nelle targhe italiane, i programmi
radiofonici sul patrimonio del Bel Paese, il dominio .IT). Tutto questo è presente anche nei discorsi politici
che si rivolgono “alla nazione”, parlando per “gli italiani”, come se avessero il titolo per rappresentare
l’intera comunità, dando per scontato che nessuno possa dubitarne. E’ un fenomeno tipico sia della destra
che della sinistra. Un altro esempio sono dei piccoli termini/richiami alla madrepatria (Es. “noi”, “qui”,
“Questo paese”, “Gli italiani”, “Il paese”, “Il presidente del Consiglio”.. l’articolo determinativo o il fatto che
si dia per scontato che si parli dell’Italia sono sbandieramenti), presentando l’Italia come centro necessario
e naturale dello spettatore, il suo contenitore spontaneo, in opposizione a chi non è noi (Es. “la nostra
politica/economia”). L’idea di nazione è gestita in modo da essere sempre presente e invisibile, perché
costruita come il contesto.
- La spazializzazione della memoria: Un altro sbandieramento è l’esistenza di un patrimonio storico e
culturale nazionale, quando nessuno saprebbe mapparlo o quantificarlo. L’arbitrio con il quale un oggetto
può essere incluso dal patrimonio consente a chi decide di mappare lo spazio della memoria e del sentire
comune di una nazione, conferendogli un potere enorme (Es. inventare tradizioni, ricostruzioni storiche,
legittimazioni dell’esistente). Per questo esiste persino un Ministero per i Beni e le Attività culturali, quando
l’ambito è così impreciso e inafferrabile: perché serve a riprodurre una serie di narrative in virtù di una
interpretazione/celebrazione/continuità/legame con le radici profonde. Si tratta di un nuovo effetto della
spazializzazione della politica. L’invenzione della tradizione è un’imposizione di una serie di ricostruzioni del
passato, una specie di albero storico che affonda le radici in eventi fondativi. Le storie nazionali servono per
presentare l’unità nazionale come qualcosa di scontato, esito di un processo, unica forma possibile di
organizzazione. Essa diviene legittimata e appare naturale, spiegazione causale di una progressione
temporale. Le storie diventano concatenamenti causali che conducono in maniera lineare al presente e
spiegano il presente stesso. La continuità serve: 1) per contribuire ad affermare il primato di quella
comunità nazionale rispetto allo spazio nazionale (= diritto originario di appartenenza al territorio); 2) per
incorporare l’”ethos modernista” che pensa lo sviluppo sociale in termini progressivi ed evoluzionisti.
Avvertiamo il presente come un’eredità ininterrotta, il culmine di tutti i risultati, con la persistenza di valori
eterni. Anche le narrative spaziali creano un legame tra popolo e il suo spazio, rafforzandolo a livello di
significazione simbolica: essa si concretizza nel territorio nazionale, con un’attivazione simbolica di siti,
luoghi della memoria che diventano patrimonio storico e penetrano l’immaginario collettivo, costituendone
la geografia della memoria e dell’appartenenza. Si crea un vero e proprio habitat, perché il pensiero politico
si fonde con la natura. Nascono relazioni di copresenza tra la nazione passata e presente e il paesaggio
diviene testo sociale e trasmette norme sociali e principi di identità, celebrando la bellezza. Diviene una
realtà semiotica concreta e visibile invece di un’idea platonica o di una mera astrazione mentale. Solo alcuni
paesaggi diventano “spazi poetici” realmente significativi, con l’imposizione di un singolo “way of seeing”
nazionale. Vengono scelti quelli che forniscono conferma materiale e visibile della veridicità della versione
ufficiale del passato e diventano spazi simbolici reinterpretati secondo una specifica visione di passato. Lo
storico Nora li definisce “lieux de memoire” (in opposizione con i “milieux” = veri spazi del quotidiano),
prodotti di una precise elite politica e culturale. Solo alcuni specifici paesaggi locali vengono eletti allo
status di paesaggio rappresentativo della nazione, cancellando gli altri per ottenere omogeneità e una
memoria precisa rispetto alla quale tutti i membri sono costretti a collocarsi. La storia viene concepita come
un capitale da usare per la creazione del futuro, venendo trasformata in cornice della rimembranza
socialmente condivisa/griglia interpretativa che impone un ordine nel presente e nel passato. Di nuovo, gli
storici di stato sono quelli ad avere uno strumento di controllo che, in passato, ha già portato a esiti
totalitari (es. riscrittura della storia serba di Milosevic). A fianco a questa operazione, si opera il social
forgetting (= dimenticanza di una parte di passato/ presente) per l’affermazione di una narrativa ufficiale
che si fonda sulla delegittimazione di altre fonti di legittimità e sulla cancellazione dell’Altro. In realtà,
queste narrative non sono mai un progetto compiuto e consolidato e la sacralizzazione dell’ideale dello
stato nazione non è mai totale: infatti, non avviene mai senza contestazioni, barriere e ostacoli. Ci sono altri
passati che lottano per emergere o sopravvivere (= unruly interpretations) che mediano e reinterpretano la
visione dello stato per evitare un’egemonia totale. Esiste ancora polivocalità e, per questo, la cartografia ha
bisogno di una continua spazializzazione con un’incessante serie di performance alle scale più diverse.

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