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inclusive
1 - Genealogia del pensiero inclusivo in geografia
La geografia ha tentato di dar conto, nei secoli, del progetto umano di abitare la terra, aperto e mai concluso.
Come si pone di fronte alle “geografie disuguali”? Cosa ha prodotto e produce la ricerca su queste problematiche,
e come si trasferisce tutto ciò nell’educazione? Se ci soffermiamo sulla ricerca, a un primo sguardo l’interrogazione
sulle “geografie disuguali” non appare tra le preoccupazioni maggiori della disciplina. Ma questa sarebbe una
risposta troppo leggera: esiste una filiera significativa molto sensibile alle problematiche della diseguaglianza dei
territori; una filiera minoritaria, ma neppure tanto sotterranea, che marca la disciplina fin dal suo consolidamento
istituzionale a cavallo del ‘900 e, dopo l’eclisse dell’età dei nazionalismi e totalitarismi novecenteschi nel Vecchio
Continente, trova sviluppi plurimi dopo il secondo dopoguerra, per un impulso congiunto dalle Americhe e
l’Europa.
Proviamo a tracciare una mappa di questa tradizione di ricerca, evocando come “antefatto” l’importante battaglia
epistemologica giocatasi al tempo dell’“istituzionalizzazione disciplinare” e facendo qualche cenno essenziale alle
ramificazioni che si richiamano a tale “antefatto”. Recupereremo la traccia di due “fabbriche” del pensiero
geografico che hanno sviluppato punti di vista originali e forti sulle identità inclusive, con l’avvertenza che si tratta di
un primo tentativo di ricognizione di una tradizione di ricerca troppo spesso considerata più per il suo contenuto
ideologico‐politico che per la sua portata scientifico‐analitica. Non che le fabbriche del pensiero inclusivo rifiutino il
proprio patrimonio etico e le proprie fonti d’ispirazione ideologica; esse ne rivendicano, anzi, il valore politico e
ideale, e questa rivendicazione costituisce il ferro di lancia per consolidare il processo di legittimazione sociale
della disciplina, ritenuto peraltro troppo debole da questa tradizione di ricerca. Resta tuttavia il fatto che la critica
stenta a riconoscere un genuino valore epistemico alle ricerche in parola, impoverendo il processo di legittimazione
scientifica della Geografia.
È una questione importante che vedremo riemergere più volte. Investe centralmente il tema della problematica
quale matrice autentica di innovazione conoscitiva (Raffestin, 1976), immaginazione scientifica e costruzione
sociale della realtà. Non è un caso che nella vicenda qui esaminata i due tipi di processo -uno di legittimazione
scientifica e l’altro di legittimazione sociale- s’intreccino in più modi nell’esperienza di diversi protagonisti
dell’edificazione di una geografia dell’inclusione.
A cominciare da W. Bunge, il più radicale innovatore nell’esplorazione territoriale delle disuguaglianze, ritenuto da
autorevoli studiosi il fondatore della geografia quantitativa. Alla luce di un’analisi per lungo tempo dominante, che
oggi appare uno stereotipo avente più un valore storicocritico che di solidità interpretativa, ciò può apparire
sorprendente, ma solo in parte e se si resta in superficie. Bunge ha coltivato un’esigenza di legittimazione sociale
tramite il processo di legittimazione scientifica della disciplina. Per alcuni quest’ultima si è rivelata inadeguata, per
lui si è rivelata insufficiente e addirittura controproducente dal punto di vista dell’impegno in direzione di una
territorialità inclusiva; a qualcuno, infine, è apparsa perfino congrua. In ogni caso la legittimazione scientifica è
stata un potente fattore di coscientizzazione. Per quella via, infatti, si è costruita la consapevolezza che la partita si
giocava sul piano della legittimazione sociale, e quindi della problematizzazione, e non su quello di una credibilità
scientifica, per altro affidata a metodi quantitativi che, guidati da informazioni raccolte in funzione di interessi
egemonici, finiscono per rafforzarne le ragioni. Sul modello di Bunge, seppure perlopiù indipendentemente da lui,
questa è stata l’esperienza di studiosi come D. Harvey o G. Dematteis.