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| 2018
Varia
l’intervista

Breve introduzione alla lettura di


Bruno Latour
Nicola Manghi
p. 101-106
https://doi.org/10.4000/qds.2064

Testo integrale
Bruno Latour (1947) è autore impossibile da assegnare stabilmente a un’appartenenza disciplinare. Sociologo,
antropologo, filosofo, egli è oggi in prima linea nei dibattiti di ecologia politica: la portata teoretica ed euristica della
sua opera va ricercata – questa l’ipotesi che ci ha guidati nel condurre l’intervista che segue – proprio nella
sua  indisciplinatezza. Tale indisciplinatezza non è, si badi, da confondersi con una mancanza di pertinenza dei suoi
contributi; piuttosto, essa segnala la loro pertinenza simultanea per una serie di campi di studio abitualmente distinti.
La feconda intuizione che soggiace a tutta l’opera di Latour, saldamente ancorata a una serie di studi empirici
(Latour, Woolgar, 1979; Latour, 1984; Latour, 1992), può essere riassunta così: l’immagine che si ha della scienza
differisce radicalmente a seconda che la si osservi «in azione», nel suo farsi, oppure nel momento in cui essa si
presenta «pronta per l’uso», ovvero come una «scatola nera» che può essere utilizzata senza che se ne conoscano storia
o contenuto (Latour, 1987). Gli scienziati tendono a presentare ex post il proprio lavoro come un percorso lineare di
scoperta della natura; a osservarli in laboratorio, tuttavia, li si trova alle prese con i numerosissimi passaggi di
traduzione necessari per trasformare un evento sperimentale nel tassello di una conoscenza cumulabile.
Da qui la necessità di studiare le scienze etnograficamente, secondo modalità in tutto e per tutto analoghe a quelle
impiegate dagli antropologi che si recano presso popolazioni lontane, interessandosi a particolari cui la sociologia
classica non aveva ritenuto di attribuire importanza alcuna: «le fonti di finanziamento, il background dei partecipanti, i
pattern di citazioni nella letteratura rilevante, la natura e l’origine della strumentazione, e così via» (Latour, Woolgar,
1986, 278).
Dati questi presupposti, sarebbe facile immaginare Latour come un relativista. E invece proprio nel relativismo egli
ha da sempre identificato un bersaglio polemico, da cui ha cercato di distinguersi qualificando le proprie posizioni
come «composizioniste» (Latour, 2010); non, dunque, opponendovi una qualunque forma di supposto realismo,
quanto piuttosto mostrando come l’opposizione relativismo/realismo sia un modo insufficiente di affrontare la
questione1. Certo, la scienza costruisce, e non scopre, il mondo – “fatto”, Latour ci ricorda, è prima di tutto il participio
passato del verbo “fare” (Latour, 1996). Dire ciò, tuttavia, non significa negarne la scientificità, quanto invece accettare
la sfida di provare a renderne conto in termini differenti, non garantiti  preventivamente  dalle presunte “rotture
epistemologiche” che separerebbero la scienza da altre forme di sapere. Ciò che rende scienza la scienza è da ricercare,
allora, nel modo specifico in cui essa costruisce il proprio sapere, e non in ciò che la distinguerebbe intrinsecamente, e
a priori, da altre modalità di cono-scenza2.
I primi a essere relativisti, all’occorrenza, sono proprio gli scienziati, che, se osservati in laboratorio, si mostrano ben
consapevoli delle reti socio-tecniche entro le quali si trovano ad agire – salvo poi fare ammenda in favore di un solido
realismo quando si tratta di descrivere il proprio lavoro a posteriori. A contraddistinguere la scienza, così, non è, allora,
il suo isolamento dalle reti sociali, quanto la sua sapiente capacità di abitarle, trasformarle, percorrerle. Insomma, non
vi sarebbero, da un lato, le aspirazioni epistemiche degli scienziati e, dall’altro, la loro immersione in un mondo sociale
accessorio – fatto di strumenti, denaro, credenze, relazioni, etc. Le due dimensioni sarebbero, piuttosto,
coestensive: socialmente 3 la scienza persegue i suoi fini scientifici.
Sulla base di queste considerazioni sociologiche, note sotto la sigla di Actor-Network Theory (ANT), Latour sviluppa
un pensiero di più ampia portata sulla civiltà occidentale – una vera e propria «antropologia dei Moderni» (Latour,
1991). Questi ultimi, i Moderni, termine che viene qui a designare il nome proprio di una popolazione, abiterebbero un
mondo costruito sulla distinzione – «costituzionale», «ontologica», «cosmologica»: il gergo latouriano è in costante
evoluzione – tra “natura” e “società” (o tra “natura” e “cultura”, se si preferisce). Questa distinzione cardinale sarebbe,
da un lato, a fondamento della scienza moderna, poiché istituirebbe nella “natura” un suo ambito di pertinenza
esclusiva; dall’altro, però, limiterebbe radicalmente il campo d’azione della politica, che si troverebbe ad avere a che
fare con un mondo stabilito dalla scienza e dunque solo molto limitatamente operabile, e finirebbe reclusa nel compito
di limitare i danni che la “società” crea quando s’intromette nel lavoro degli scienziati e pretende di dire la propria sulla
“natura” (Latour, 1999).
La via d’uscita da questo orizzonte può essere individuata, seguendo Latour, proprio nella sociologia della scienza:
l’impertinenza con la quale la sociologia, scienza della “società”, ha preso a un certo punto a interessarsi di questioni
che si sarebbero tradizionalmente dette di “natura” – in particolare, con il passaggio dalla sociologia della scienza
classica, di stampo mertoniano, alla più ambiziosa sociologia della conoscenza scientifica – conduce a una messa in
discussione di questa distinzione capitale4. Affinché lo sguardo socio-antropologico, però, assuma la rilevanza –
nuovamente: costituzionale, ontologica, cosmologica – che Latour auspicherebbe, è necessario che lo sguardo stesso
modifichi alcuni dei suoi presupposti. L’obiettivo non può più essere la critica della sedicente neutralità della scienza in
nome della sua presunta socialità (a cui si limitavano, in fondo, David Bloor e i sociologi del “programma forte”), ma
deve piuttosto riconfigurarsi nella descrizione delle pratiche scientifiche come particolari forme di socialità, di
costruzione di reti e di operazioni istituzionali. Non si tratta di negare l’accesso delle scienze alla “natura”, per
controbattere che l’arbitro delle controversie siano al contrario i finanziamenti, i legami politici o le influenze culturali
– insomma, la “società”; quanto invece di partire dal presupposto che la suddetta “natura” non esista affatto.
Pensare le scienze senza la natura significa pensarle come incessante avventura, prive di un territorio esclusivo sul
quale esse eserciterebbero una sovranità di volta in volta misurabile, perfettibile, ma in ogni caso legalmente stabilita.
Beninteso, dire che “la natura non esiste” non significa dire che non esista il mondo: ma l’esistenza – “naturale” – di
questo mondo non sarebbe separabile dai tentativi – “culturali” – di conoscerlo, che risultano così immediatamente
riconfigurati, simultaneamente, anche come tentativi di costruirlo.
Le stesse considerazioni, chiaramente, debbono essere mantenute valide per l’altro polo della distinzione, vale a dire
la “società” – concetto del quale i sociologi farebbero bene a sbarazzarsi, secondo l’indicazione latouriana (Latour,
2005). “Natura” e “società”, così, sarebbero entrambe da pensare come prodotti di una certa modalità di oggettivare il
mondo, piuttosto che come presupposti sui quali fondare la divisione del lavoro tra scienza e politica che tanto a lungo
ha organizzato le modalità secondo cui la civiltà occidentale si è auto-interpretata.
Questi sviluppi ci proiettano in una dimensione che potrebbe già essere definita “ecologica” – almeno secondo
l’impiego latouriano di questo termine. Per Latour, infatti, l’ecologia non ha tanto a che fare con princìpi di rispetto
dell’ambiente ed eventuali modalità per implementarli politicamente, quanto con la sfida a ripensare il ruolo giocato
dalle pratiche scientifiche nella costruzione del mondo comune su basi radicalmente immanentiste, vale a dire
privandosi delle false garanzie che erano offerte dalla distinzione natura/società. Con le parole dell’autore: «L’ecologia
[…] non è l’irruzione della natura nello spazio pubblico, ma la fine della “Natura” come concetto in grado di riassumere
i nostri rapporti con il mondo e di pacificarli» (Latour, 2015, 50–51).
Da qui l’interesse sviluppato da Latour, a partire dal libro  Politiche della natura5, nei confronti dell’ipotesi Gaia
elaborata da James Lovelock e Lynn Margulis. Anche Gaia, come quello latouriano, è infatti un mondo costituito dei
tanti tentativi (non-umani ancor prima che umani, in questo caso) di conoscerlo e abitarlo – senza che tra le due azioni
sia possibile tracciare una netta distinzione. Infatti, erroneamente volgarizzata come idea secondo cui la terra sarebbe
un organismo vivente, l’ipotesi Gaia postula piuttosto che l’attività della vita partecipa del mantenimento delle
condizioni di esistenza della vita stessa sul pianeta: «gli organismi contribuiscono a meccanismi ricorsivi di auto-
regolazione che hanno mantenuto l’ambiente della superficie terrestre stabile e abitabile per la vita» (Lenton, 1998,
439). Le varie forme di vita che abitano/animano il pianeta sono, insomma, ambiente le une per le altre, e artefici tutte
assieme, almeno in una qualche misura, delle condizioni di vivibilità della terra.
Così intesa, l’ecologia non necessita di essere aggettivata come “politica”: lo è intrinsecamente. Non c’è vita che non
sia convivenza, si potrebbe dire6: ogni distinzione tra organismo e ambiente è trattabile, discutibile, negoziata – in una
parola,  politica. Ogni politica, dunque,  è  a sua volta  un’ecologia – ha il suo mondo7, insomma, che deve in qualche
modo farsi compatibile con i mondi degli altri, su un piano che, a seconda dei fenomeni ai quali si guardi e
dell’inclinazione dell’osservatore, può essere visto come una conversazione o come una guerra8. Questa è la Gaia di
Latour, ad un tempo presupposto e prodotto del confronto-scontro tra i mondi che la compongono, e nome della loro
possibile pace (Latour, 2015).
Latour è da considerarsi come uno tra i maggiori promotori delle scienze sociali nel mondo del pensiero
contemporaneo, se è vero che la sua opera può interamente leggersi come una valorizzazione delle conquiste teoriche
della sociologia della conoscenza scientifica9 (Mazanderani, Latour, 2018). Grazie al lavoro di Latour, questo campo di
studi è divenuto, per usare un concetto interno alla disciplina stessa, un «punto di passaggio obbligato» (Callon, 1984;
cfr. Latour, 1987) nel dibattito contemporaneo su temi cruciali quali, tra gli altri, il cambiamento climatico,
la  agency  non-umana e il ruolo politico delle scienze sociali (cfr. de Vries, 2016). Esso custodisce – a patto che
abbandoni l’atteggiamento critico e relativista che l’ha forgiato, per assumere una postura composizionista – la più
elevata intensità politica a disposizione per chi voglia smettere di pensarsi moderno, nonché gli strumenti più efficaci
per pensare il mondo di oggi e di domani.

Bibliografia
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Note
1 Cfr. Latour (2012, 479), dove l’autore propone il termine di «relazionismo» per risolvere l’impasse rappresentata dall’opposizione
realismo/relativismo. Sul concetto di relazionismo, si veda anche il classico Mannheim (1929).
2 Su questo si vedano i lavori di Isabelle Stengers, interlocutrice di lunga data di Latour, e in particolare Stengers (1993).
3 Non proprio socialmente, per la verità, se è vero che “società” è una parola cui Latour invita a guardare con diffidenza. Per evitare
questo equivoco, il sottotitolo di Laboratory Life, inizialmente The Social Construction of Scientific Facts, fu modificato, togliendo
l’aggettivo «social», a partire dalla seconda edizione (cfr. Latour, Woolgar, 1986).
4  La stessa operazione è stata compiuta, nel campo dell’antropologia, da parte di Philippe Descola (2005), altro interlocutore di
lunga data di Latour, che ha proposto una «antropologia della natura» – formula creata per essere ascoltata nella sua paradossalità.
Per misurare l’influenza dei lavori di Latour su un certo pensiero antropologico contemporaneo si veda Eduardo Viveiros de Castro
(2015).
5 In Politiche della natura, Gaia viene invocata come incarnazione del «parlamento delle cose», o «parlamento delle discipline», che
Latour aveva precedentemente teorizzato (cfr. Latour, 1999, 307); con Face à Gaïa, essa diventa il paradigma politico all’interno del
quale Latour situa i propri contributi. Nel libro più recente,  Tracciare la rotta, l’autore sembra preferire il concetto di «nuovo
regime climatico», già introdotto in  Face à Gaïa, ma alcuni articoli pubblicati successivamente tornano a porre Gaia al centro
dell’attenzione dell’autore (cfr. Latour, 2017).
6 Queste riflessioni latouriane si sviluppano in un corpo a corpo con i lavori di Isabelle Stengers e Donna Haraway, veterane degli
studi sociali sulla scienza; si veda, per esempio, Isabelle Stengers (2009) e Donna Haraway (2016). Per una prospettiva filosofica su
questi temi si veda Emanuele Coccia (2016).
7 I suoi «territori», direbbe l’ultimo Latour (2017).
8 La nozione di «diplomazia», sviluppata da Isabelle Stengers (1997), permette di non separare alternativamente le due possibilità,
mostrando piuttosto come l’una rimanga sempre possibile come orizzonte, quand’anche remoto, nell’altra. Si veda, su questo, anche
Latour (2002, 2004).
9 Le etichette utilizzate da Latour per definire il proprio lavoro sono svariate; per ricordarne alcune: «antropologia della scienza»,
«filosofia politica della natura», «epistemologia politica». Esse, però, non sono da considerarsi come tappe successive di un pensiero
soggetto a rivisitazioni, quanto piuttosto come una riattivazione ininterrotta, all’interno di diversi campi disciplinari, dell’evento
rappresentato dalla sociologia della conoscenza scientifica – sempre a patto che essa sappia resistere alla tentazione del relativismo.

Per citare questo articolo


Notizia bibliografica
Nicola Manghi, «Breve introduzione alla lettura di Bruno Latour», Quaderni di Sociologia, 77 | 2018, 101-106.

Notizia bibliografica digitale


Nicola Manghi, «Breve introduzione alla lettura di Bruno Latour», Quaderni di Sociologia [Online], 77 | 2018, online dal 01 mai 2019,
consultato il 25 mai 2023. URL: http://journals.openedition.org/qds/2064; DOI: https://doi.org/10.4000/qds.2064

Autore
Nicola Manghi
Dipartimento di Culture, Politica e Società, Università di Torino

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Intervista a Bruno Latour [Testo integrale]
Interview with Bruno Latour
Apparso in Quaderni di Sociologia, 77 | 2018

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