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Quaderni di Sociologia 

77 | 2018
Varia

Breve introduzione alla lettura di Bruno Latour


Nicola Manghi

Edizione digitale
URL: http://journals.openedition.org/qds/2064
ISSN: 2421-5848

Editore
Rosenberg & Sellier

Edizione cartacea
Data di pubblicazione: 1 août 2018
Paginazione: 101-106
ISSN: 0033-4952

Notizia bibliografica digitale
Nicola Manghi, « Breve introduzione alla lettura di Bruno Latour », Quaderni di Sociologia [Online], 77 |
2018, online dal 01 mai 2019, consultato il 26 septembre 2019. URL : http://journals.openedition.org/
qds/2064

Quaderni di Sociologia è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale -
Non opere derivate 4.0 Internazionale.
l’intervista

Breve introduzione alla lettura di Bruno Latour

Bruno Latour (1947) è autore impossibile da assegnare stabilmente


a un’appartenenza disciplinare. Sociologo, antropologo, filosofo, egli è
oggi in prima linea nei dibattiti di ecologia politica: la portata teoretica
ed euristica della sua opera va ricercata – questa l’ipotesi che ci ha guidati
nel condurre l’intervista che segue – proprio nella sua indisciplinatezza.
Tale indisciplinatezza non è, si badi, da confondersi con una mancanza di
pertinenza dei suoi contributi; piuttosto, essa segnala la loro pertinenza
simultanea per una serie di campi di studio abitualmente distinti.
La feconda intuizione che soggiace a tutta l’opera di Latour, saldamen-
te ancorata a una serie di studi empirici (Latour, Woolgar, 1979; Latour,
1984; Latour, 1992), può essere riassunta così: l’immagine che si ha della
scienza differisce radicalmente a seconda che la si osservi «in azione», nel
suo farsi, oppure nel momento in cui essa si presenta «pronta per l’uso»,
ovvero come una «scatola nera» che può essere utilizzata senza che se ne
conoscano storia o contenuto (Latour, 1987). Gli scienziati tendono a
presentare ex post il proprio lavoro come un percorso lineare di scoperta
della natura; a osservarli in laboratorio, tuttavia, li si trova alle prese con i
numerosissimi passaggi di traduzione necessari per trasformare un evento
sperimentale nel tassello di una conoscenza cumulabile.
Da qui la necessità di studiare le scienze etnograficamente, secondo
modalità in tutto e per tutto analoghe a quelle impiegate dagli antropo-
logi che si recano presso popolazioni lontane, interessandosi a particolari
cui la sociologia classica non aveva ritenuto di attribuire importanza alcu-
na: «le fonti di finanziamento, il background dei partecipanti, i pattern di
citazioni nella letteratura rilevante, la natura e l’origine della strumenta-
zione, e così via» (Latour, Woolgar, 1986, 278).
Dati questi presupposti, sarebbe facile immaginare Latour come un
relativista. E invece proprio nel relativismo egli ha da sempre identificato
un bersaglio polemico, da cui ha cercato di distinguersi qualificando le
proprie posizioni come «composizioniste» (Latour, 2010); non, dunque,
opponendovi una qualunque forma di supposto realismo, quanto piut-
tosto mostrando come l’opposizione relativismo/realismo sia un modo

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insufficiente di affrontare la questione1. Certo, la scienza costruisce, e non
scopre, il mondo – “fatto”, Latour ci ricorda, è prima di tutto il participio
passato del verbo “fare” (Latour, 1996). Dire ciò, tuttavia, non signifi-
ca negarne la scientificità, quanto invece accettare la sfida di provare a
renderne conto in termini differenti, non garantiti preventivamente dalle
presunte “rotture epistemologiche” che separerebbero la scienza da altre
forme di sapere. Ciò che rende scienza la scienza è da ricercare, allora,
nel modo specifico in cui essa costruisce il proprio sapere, e non in ciò che
la distinguerebbe intrinsecamente, e a priori, da altre modalità di cono-
scenza2.
I primi a essere relativisti, all’occorrenza, sono proprio gli scienziati,
che, se osservati in laboratorio, si mostrano ben consapevoli delle reti
socio-tecniche entro le quali si trovano ad agire – salvo poi fare ammenda
in favore di un solido realismo quando si tratta di descrivere il proprio
lavoro a posteriori. A contraddistinguere la scienza, così, non è, allora,
il suo isolamento dalle reti sociali, quanto la sua sapiente capacità di abi-
tarle, trasformarle, percorrerle. Insomma, non vi sarebbero, da un lato,
le aspirazioni epistemiche degli scienziati e, dall’altro, la loro immersione
in un mondo sociale accessorio – fatto di strumenti, denaro, credenze,
relazioni, etc. Le due dimensioni sarebbero, piuttosto, coestensive: social-
mente 3 la scienza persegue i suoi fini scientifici.
Sulla base di queste considerazioni sociologiche, note sotto la sigla di
Actor-Network Theory (ANT), Latour sviluppa un pensiero di più ampia
portata sulla civiltà occidentale – una vera e propria «antropologia dei
Moderni» (Latour, 1991). Questi ultimi, i Moderni, termine che viene qui
a designare il nome proprio di una popolazione, abiterebbero un mondo
costruito sulla distinzione – «costituzionale», «ontologica», «cosmologi-
ca»: il gergo latouriano è in costante evoluzione – tra “natura” e “società”
(o tra “natura” e “cultura”, se si preferisce). Questa distinzione cardinale
sarebbe, da un lato, a fondamento della scienza moderna, poiché istitu-
irebbe nella “natura” un suo ambito di pertinenza esclusiva; dall’altro,
però, limiterebbe radicalmente il campo d’azione della politica, che si tro-
verebbe ad avere a che fare con un mondo stabilito dalla scienza e dun-
que solo molto limitatamente operabile, e finirebbe reclusa nel compito

1
Cfr. Latour (2012, 479), dove l’autore propone il termine di «relazionismo» per
risolvere l’impasse rappresentata dall’opposizione realismo/relativismo. Sul concetto di
relazionismo, si veda anche il classico Mannheim (1929).
2
Su questo si vedano i lavori di Isabelle Stengers, interlocutrice di lunga data di La-
tour, e in particolare Stengers (1993).
3
Non proprio socialmente, per la verità, se è vero che “società” è una parola cui La-
tour invita a guardare con diffidenza. Per evitare questo equivoco, il sottotitolo di Labora-
tory Life, inizialmente The Social Construction of Scientific Facts, fu modificato, togliendo
l’aggettivo «social», a partire dalla seconda edizione (cfr. Latour, Woolgar, 1986).

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di limitare i danni che la “società” crea quando s’intromette nel lavoro
degli scienziati e pretende di dire la propria sulla “natura” (Latour, 1999).
La via d’uscita da questo orizzonte può essere individuata, seguen-
do Latour, proprio nella sociologia della scienza: l’impertinenza con la
quale la sociologia, scienza della “società”, ha preso a un certo punto a
interessarsi di questioni che si sarebbero tradizionalmente dette di “natu-
ra” – in particolare, con il passaggio dalla sociologia della scienza classica,
di stampo mertoniano, alla più ambiziosa sociologia della conoscenza
scientifica – conduce a una messa in discussione di questa distinzione ca-
pitale4. Affinché lo sguardo socio-antropologico, però, assuma la rilevan-
za – nuovamente: costituzionale, ontologica, cosmologica – che Latour
auspicherebbe, è necessario che lo sguardo stesso modifichi alcuni dei
suoi presupposti. L’obiettivo non può più essere la critica della sedicente
neutralità della scienza in nome della sua presunta socialità (a cui si limi-
tavano, in fondo, David Bloor e i sociologi del “programma forte”), ma
deve piuttosto riconfigurarsi nella descrizione delle pratiche scientifiche
come particolari forme di socialità, di costruzione di reti e di operazioni
istituzionali. Non si tratta di negare l’accesso delle scienze alla “natura”,
per controbattere che l’arbitro delle controversie siano al contrario i fi-
nanziamenti, i legami politici o le influenze culturali – insomma, la “so-
cietà”; quanto invece di partire dal presupposto che la suddetta “natura”
non esista affatto.
Pensare le scienze senza la natura significa pensarle come incessante
avventura, prive di un territorio esclusivo sul quale esse eserciterebbero
una sovranità di volta in volta misurabile, perfettibile, ma in ogni caso
legalmente stabilita. Beninteso, dire che “la natura non esiste” non signi-
fica dire che non esista il mondo: ma l’esistenza – “naturale” – di questo
mondo non sarebbe separabile dai tentativi – “culturali” – di conoscerlo,
che risultano così immediatamente riconfigurati, simultaneamente, anche
come tentativi di costruirlo.
Le stesse considerazioni, chiaramente, debbono essere mantenute va-
lide per l’altro polo della distinzione, vale a dire la “società” – concetto
del quale i sociologi farebbero bene a sbarazzarsi, secondo l’indicazione
latouriana (Latour, 2005). “Natura” e “società”, così, sarebbero entrambe
da pensare come prodotti di una certa modalità di oggettivare il mondo,
piuttosto che come presupposti sui quali fondare la divisione del lavoro
tra scienza e politica che tanto a lungo ha organizzato le modalità secondo
cui la civiltà occidentale si è auto-interpretata.

4
La stessa operazione è stata compiuta, nel campo dell’antropologia, da parte di
Philippe Descola (2005), altro interlocutore di lunga data di Latour, che ha proposto una
«antropologia della natura» – formula creata per essere ascoltata nella sua paradossalità.
Per misurare l’influenza dei lavori di Latour su un certo pensiero antropologico contem-
poraneo si veda Eduardo Viveiros de Castro (2015).

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Questi sviluppi ci proiettano in una dimensione che potrebbe già esse-
re definita “ecologica” – almeno secondo l’impiego latouriano di questo
termine. Per Latour, infatti, l’ecologia non ha tanto a che fare con princìpi
di rispetto dell’ambiente ed eventuali modalità per implementarli politi-
camente, quanto con la sfida a ripensare il ruolo giocato dalle pratiche
scientifiche nella costruzione del mondo comune su basi radicalmente
immanentiste, vale a dire privandosi delle false garanzie che erano offerte
dalla distinzione natura/società. Con le parole dell’autore: «L’ecologia
[…] non è l’irruzione della natura nello spazio pubblico, ma la fine della
“Natura” come concetto in grado di riassumere i nostri rapporti con il
mondo e di pacificarli» (Latour, 2015, 50–51).
Da qui l’interesse sviluppato da Latour, a partire dal libro Politiche
della natura5, nei confronti dell’ipotesi Gaia elaborata da James Lovelock
e Lynn Margulis. Anche Gaia, come quello latouriano, è infatti un mondo
costituito dei tanti tentativi (non-umani ancor prima che umani, in questo
caso) di conoscerlo e abitarlo – senza che tra le due azioni sia possibile
tracciare una netta distinzione. Infatti, erroneamente volgarizzata come
idea secondo cui la terra sarebbe un organismo vivente, l’ipotesi Gaia
postula piuttosto che l’attività della vita partecipa del mantenimento delle
condizioni di esistenza della vita stessa sul pianeta: «gli organismi con-
tribuiscono a meccanismi ricorsivi di auto-regolazione che hanno man-
tenuto l’ambiente della superficie terrestre stabile e abitabile per la vita»
(Lenton, 1998, 439). Le varie forme di vita che abitano/animano il pia-
neta sono, insomma, ambiente le une per le altre, e artefici tutte assieme,
almeno in una qualche misura, delle condizioni di vivibilità della terra.
Così intesa, l’ecologia non necessita di essere aggettivata come “po-
litica”: lo è intrinsecamente. Non c’è vita che non sia convivenza, si po-
trebbe dire6: ogni distinzione tra organismo e ambiente è trattabile, discu-
tibile, negoziata – in una parola, politica. Ogni politica, dunque, è a sua
volta un’ecologia – ha il suo mondo7, insomma, che deve in qualche modo
farsi compatibile con i mondi degli altri, su un piano che, a seconda dei
fenomeni ai quali si guardi e dell’inclinazione dell’osservatore, può essere

5
In Politiche della natura, Gaia viene invocata come incarnazione del «parlamento
delle cose», o «parlamento delle discipline», che Latour aveva precedentemente teorizza-
to (cfr. Latour, 1999, 307); con Face à Gaïa, essa diventa il paradigma politico all’interno
del quale Latour situa i propri contributi. Nel libro più recente, Tracciare la rotta, l’autore
sembra preferire il concetto di «nuovo regime climatico», già introdotto in Face à Gaïa,
ma alcuni articoli pubblicati successivamente tornano a porre Gaia al centro dell’attenzio-
ne dell’autore (cfr. Latour, 2017).
6
Queste riflessioni latouriane si sviluppano in un corpo a corpo con i lavori di Isabelle
Stengers e Donna Haraway, veterane degli studi sociali sulla scienza; si veda, per esempio,
Isabelle Stengers (2009) e Donna Haraway (2016). Per una prospettiva filosofica su questi
temi si veda Emanuele Coccia (2016).
7
I suoi «territori», direbbe l’ultimo Latour (2017).

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visto come una conversazione o come una guerra8. Questa è la Gaia di
Latour, ad un tempo presupposto e prodotto del confronto-scontro tra
i mondi che la compongono, e nome della loro possibile pace (Latour,
2015).
Latour è da considerarsi come uno tra i maggiori promotori delle
scienze sociali nel mondo del pensiero contemporaneo, se è vero che la
sua opera può interamente leggersi come una valorizzazione delle conqui-
ste teoriche della sociologia della conoscenza scientifica9 (Mazanderani,
Latour, 2018). Grazie al lavoro di Latour, questo campo di studi è dive-
nuto, per usare un concetto interno alla disciplina stessa, un «punto di
passaggio obbligato» (Callon, 1984; cfr. Latour, 1987) nel dibattito con-
temporaneo su temi cruciali quali, tra gli altri, il cambiamento climatico,
la agency non-umana e il ruolo politico delle scienze sociali (cfr. de Vries,
2016). Esso custodisce – a patto che abbandoni l’atteggiamento critico
e relativista che l’ha forgiato, per assumere una postura composizioni-
sta – la più elevata intensità politica a disposizione per chi voglia smette-
re di pensarsi moderno, nonché gli strumenti più efficaci per pensare il
mondo di oggi e di domani.
Nicola Manghi
Dipartimento di Culture, Politica e Società
Università di Torino

Riferimenti bibliografici

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Haraway D.J. (2016), Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene,
Durham, Duke University Press.

8
La nozione di «diplomazia», sviluppata da Isabelle Stengers (1997), permette di non
separare alternativamente le due possibilità, mostrando piuttosto come l’una rimanga
sempre possibile come orizzonte, quand’anche remoto, nell’altra. Si veda, su questo, an-
che Latour (2002, 2004).
9
Le etichette utilizzate da Latour per definire il proprio lavoro sono svariate; per
ricordarne alcune: «antropologia della scienza», «filosofia politica della natura», «epi-
stemologia politica». Esse, però, non sono da considerarsi come tappe successive di un
pensiero soggetto a rivisitazioni, quanto piuttosto come una riattivazione ininterrotta,
all’interno di diversi campi disciplinari, dell’evento rappresentato dalla sociologia della
conoscenza scientifica – sempre a patto che essa sappia resistere alla tentazione del rela-
tivismo.

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