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dell’uomo e della società
Umberto Melotti
1. Introduzione
Ho già da tempo espresso l’esigenza di costruire una nuova scienza unitaria
dell’uomo e della società che sussuma sia le cosiddette «scienze della natura» (e
più in particolare le discipline che nella seconda metà del ’900 si sono sviluppate
sul tronco fecondo della biologia neoevoluzionistica, come la genetica di
popolazione, l’etologia e la sociobiologia), sia le cosiddette «scienze umane» (fra
cui la storia, la psicologia e le discipline più propriamente sociali, come
l’etnologia, l’antropologia culturale e la sociologia) ( ). 1
A distanza di oltre un quarto di secolo dalle mie prime elaborazioni in
argomento, formulate nell’ambito dei pionieristici dibattiti allora in corso fra
quanti non si rassegnavano ai già più che evidenti limiti delle tradizionali
discipline accademiche, vorrei riprendere tale tema, che non mi par essere
divenuto nel frattempo più popolare, almeno fra i sociologi e gli antropologi,
tuttora per lo più affetti da un non lodevole filisteismo disciplinare.
Ringrazio pertanto i curatori di questo prezioso numero degli «Annali di
Sociologia» per l’importante occasione offertami di ripensare tutta la questione e
di presentare le mie considerazioni a un pubblico diverso e più ampio.
2. La divisione del lavoro scientifico e le sue conseguenza
È un fatto ben noto che il progresso delle scienze ha comportato, soprattutto
negli ultimi due secoli, una crescente specializzazione, che ha dato vita a nuove
discipline e poi, al loro interno, a sempre più ristretti ambiti di ricerca senza quasi
comunicazione reciproca.
Questo processo fa parte dello sviluppo della divisione sociale del lavoro, e più
in particolare della forma che quest’ultima ha assunto nelle società moderne, al di
1() Con riferimento al rapporto fra le scienze dell’uomo e della natura, si veda MELOTTI 1979a, 1981,
l982a, 1982b, 1986a. Con riferimento ai rapporti fra storia e scienze sociali, si veda MELOTTI 1979b,
1980a, 1984, 1996.
1
là delle loro pur non secondarie differenze. Questa divisione del lavoro si spiega
non solo (e certo non sempre e forse non tanto) con le esigenze della ricerca
scientifica, che ha anzi in parte ostacolato, ma anche (e ancor più) con la
competizione sociale fra i ricercatori. Émile Durkheim, il sociologo che più ha
studiato la divisione del lavoro in seno alla società ( ), ha scritto in proposito, con
2
un’argomentazione di sapore darwiniano del tutto inconsueta per lui (e forse per
questo ignorata dai suoi molti commentatori), che «la maggior intensità della lotta,
derivante dalla crescente condensazione della società, ha reso sempre più difficile
la sopravvivenza degli individui che continuavano a consacrarsi a compiti
generali» ( ). 3
parole con cui non potrei essere in disaccordo più radicale. Pur riconoscendo che
nella maggior parte dei casi i fatti sociali dipendono, almeno in prima istanza, da
altri fatti sociali, e non da fatti biologici o psicologici, ritengo infatti che la ricerca
scientifica debba essere libera da ogni vincolo metodologico di questo tipo, per
potersi muovere al di fuori di ogni restrizione aprioristica, dettata da preconcetti o
pregiudizi disciplinari.
La storia della sociologia dimostra anche, ad abundantiam, quanto sia facile
passare da un atteggiamento riduzionistico al relativo «imperialismo». Mi limito a
ricordare qui come lo stesso Comte, che di questa disciplina suol essere ancora
scolasticamente indicato come il «fondatore», pur avendone inventato in realtà
soltanto il nome, abbia prospettato la sociologia come la scienza n+1 dedita al
campo comune delle n scienze. Orbene, anche se il nome di Comte non è più, da
tempo, fra quelli di moda fra i sociologi, la stessa convinzione traspare ancora
dall’atteggiamento di molti di loro, che, ritenendosi «specialisti del generale»,
2()DURKHEIM 1893.
3() DURKHEIM 1895 (trad. it. p. 94).
4() DURKHEIM 1895 (trad. ital. p. 106). In questo testo gli specifici riferimenti sono per lo più alla
psicologia (si veda in particolare p. 103). Con riferimento alla biologia si veda già DURKHEIM 1888
(trad. ital. pp. 101102).
2
come si è detto con una pungente espressione già molti anni fa ( ) e si è ripetuto di
5
recente senza alcuna ironia ( ), tendono a divenire sin troppo spesso dei mediocri
6
«tuttologi», che giocano nella società un ruolo assai più ideologico che non
scientifico.
Se ciò accade fra i sociologi, cioè fra studiosi che per formazione e abito
professionale dovrebbero essere ben avvertiti di questo rischio, non ci si può
stupire che ciò sia avvenuto, e avvenga, anche fra i cultori delle discipline
naturalistiche. Così, per ricordare un caso esemplare, che suscitò a suo tempo un
sin troppo esacerbato dibattito, Edward O. Wilson, un biologo allora
manifestamente digiuno di epistemologia, storia della scienza e sociologia della
conoscenza, nel compiaciuto tentativo di «far della sociobiologia una specifica
disciplina» in grado di «cannibalizzare» tutte le altre ( ), ha compiuto lo stesso
7
3. L’intuizione di Marx: una scienza unitaria dell’uomo e della natura
Il vero problema, in realtà, è quello non già di fondare una nuova disciplina
riduzionistica, dalle più o meno marcate pretese imperialistiche, bensì di
sviluppare, a partire dal gran cumulo di conoscenze di recente acquisizione nei
diversi campi di ricerca, una nuova scienza unitaria dell’uomo e della società, in
grado di superare sia il tendenziale riduzionismo delle scienze naturali, sia i
persistenti limiti idealistici delle tradizionali scienze umane (tuttora per lo più
affette da quell’«umanesimo retrogrado» contro cui si pronunciò a suo tempo lo
stesso Braudel) ( ). 10
5() CAVALLI 1972, p. 159.
6() In una delle relazioni introduttive al convegno nazionale dell’Associazione italiana di sociologia
su «Le professioni sociologiche dall’Università alla società» (Milano, 2425 novembre 2000).
7() WILSON 1977, p. 22.
8() WILSON 1971.
9() MELOTTI 1979a, 1981, 1982a.
3
Non mi sembra pertanto fuori luogo richiamare l’intuizione del giovane Marx,
che non solo formulò, forse per primo, l’esigenza di tale scienza unitaria, ma ne
preconizzò altresì il necessario sviluppo. «La storia dell’uomo», scrisse con
icastiche parole, «è una parte reale della storia della natura, della trasformazione
in uomo della natura. Le scienze naturali integreranno quelle dell’uomo, così
come le scienze dell’uomo integreranno quelle della natura, e vi sarà un’unica
scienza» ( ). 11
Per Marx tale scienza s’identificava ancora con la storia. Una storia, però, che
nulla aveva a che vedere per lui con quella invocata dai filosofi idealisti del suo
tempo, né con quella che i feticisti del «documento scritto» avevano
arbitrariamente ridotto a ricostruzione delle vicende politiche e belliche delle
cosiddette «civiltà». Una storia, per contro, vista come il luogo del nostro divenire
biologico, psicologico, economico, sociale e culturale e che – lungi dall’arrestarsi
sulla soglia della fatal mezzanotte dell’invenzione della scrittura – doveva risalire
quanto più addietro nel tempo, sino alle nostre sorgenti ancestrali, sino alle stesse
radici del nostro «essere sociale», ineliminabile presupposto di ogni «coscienza»
( ).
12
Com’è ben noto, il duplice rapporto – storicamente determinato e variabile,
anche in relazione alle situazioni ambientali – fra gli uomini stessi, da un lato, e
fra gli uomini e il resto della natura, dall’altro, definisce il «modo di produzione»:
il concetto chiave che consentì a Marx di proporre un’interpretazione radicalmente
nuova del processo di sviluppo delle società umane, a partire dalla stessa
differenziazione dell’uomo dagli altri animali. La produzione dei mezzi di
sussistenza, «un progresso che è condizionato dall’organizzazione fisica», segna
infatti per lui l’inizio del processo di ominazione ed è al tempo stesso «la prima
azione storica», anzi «la condizione fondamentale di ogni storia, che oggi, come
millenni addietro, dev’essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per
mantenere gli uomini in vita» ( ). Più in generale, lo stesso movimento storico,
13
che vede il succedersi di formazioni sociali diverse, è per Marx, innanzi tutto, un
«processo di storia naturale» ( ). Proprio per questo la storia umana, al di là della
14
12() MARX ENGELS 1845, p. 98 (trad. it. p. 103); MARX ENGELS 184546, p. 27, 29 (trad. it. pp. 13,
19). Data la ben nota difformità d’impaginazione delle varie edizioni di questo testo, segnalo che tutte
le citazioni della traduzione italiana dell’Ideologia tedesca sono tratte dall’edizione pubblicata dagli
Editori Riuniti nel 1969).
13() MARX ENGELS 184546, p. 28 (trad. it. p. 27).
14() MARX 1867, prefazione alla 1ª ed., p. 8 (trad. it. p. 34).
4
«disposizioni naturali» delle diverse popolazioni. Quest’influenza – egli lo
sottolinea espressamente – è tanto maggiore quanto più basso è il livello di
sviluppo delle forze produttive. Ciò emerge con forza dalla sua trattazione delle
diverse forme di dissolvimento della comunità primitiva, dell’emergere di varie
comunità secondarie e della formazione, in particolari contesti, del modo di
produzione asiatico ( ). Il suo accento, peraltro, anche in questi passi, cade sempre
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assai più sui rapporti di produzione che non sulla natura esterna e interna
all’uomo. La «struttura» della società – cioè, nella sua pregnante metafora, la
«base reale» sulla quale si erge tutto il complesso delle sovrastrutture sociali e alla
quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale ( ) – non è infatti 16
costituita per lui da un dato naturale (né, tanto meno, da un dato meramente
biologico), ma dall’insieme dei rapporti di produzione in presenza. Quel che più
importa, insomma, non è già ciò che l’uomo è, ma ciò che l’uomo fa (benché il
suo «fare» dipenda ovviamente anche dal suo «essere»). «La storia», infatti, per
Marx «altro non è che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini» ( ) e il
17
rapporto fra uomo e natura risulta sempre mediato da tale sua attività. «La priorità
della natura esterna rimane ferma», ma «da quando esistono gli uomini, storia
naturale e storia umana si condizionano reciprocamente». Non è dunque lecito
trattarne «come se fossero due ‘cose’ separate e l’uomo non avesse sempre di
fronte a sé una natura storica e una storia naturale» ( ). 18
Questa concezione, pur così moderna e «terrena», non è peraltro scevra di
suggestioni romantiche. Non raramente negli stessi testi che gettano le basi del
materialismo storico (e non solo nelle opere più giovanili, notoriamente pervase
da influenze hegeliane) emergono spunti «prometeici» e accenti «faustiani», che
aprono la strada all’involuzione idealistica di quegli epigoni che sono giunti a
formulare la mitica concezione di un uomo che tutto può, perché privo, a
differenza di ogni altro essere vivente, di limiti naturali.
Da parte sua, Marx sottolineò sempre con forza, contro ogni tentazione
idealistica vecchia e nuova, che «il primo presupposto di tutta la storia umana è
l’esistenza d’individui umani viventi» e che «il primo dato da rilevare è
l’organizzazione fisica di questi individui» ( ). Peraltro egli non sviluppò molto
19
16() MARX 1859, pp. 89 (trad. it. p. 5).
17() MARX ENGELS 1845, p. 98 (trad. it. p. 103).
18() MARX ENGELS 184546, p. 26 (trad. it. p. 16).
19() MARX ENGELS 184546, p. 20 (trad. it. p. 8).
5
biologici e la netta insufficienza dell’approccio di Engels alle problematiche
naturali hanno lasciato nel marxismo un vuoto teorico che i loro epigoni non
hanno saputo colmare.
4. L’involuzione del marxismo: il Diamat e il marxismo idealistico
Non è il caso di ripercorrere qui a passo a passo la storia dei successivi sviluppi
del rapporto fra il marxismo e le scienze. Balza agli occhi, peraltro, non solo il
«ritardo di elaborazione» già da altri rilevato ( ), ma l’arretramento complessivo
20
rispetto alle stesse posizioni di Marx.
Questo netto regresso è già evidente in Lenin. Questi in effetti oscilla fra una
vieta gnoseologia realistica, con concessioni non secondarie al meccanicismo
settecentesco, come in Materialismo ed empiriocriticismo (1909) e poi ancora in
alcuni scritti del tempo della NEP (la nuova politica economica del periodo
immediatamente postrivoluzionario), e un’accentuazione eccessiva, di sapore
quasi idealistico, del carattere attivo del rapporto dell’uomo con la natura e del
motivo della prassi trasformatrice, come nei Quaderni filosofici (191415), ove è
diretta la suggestione hegeliana.
Questi due opposti limiti emergono anche nei marxisti delle generazioni
successive, sino a caratterizzare due tendenze principali: quella del marxismo
sovietico, che riprende e canonizza le posizioni dell’ultimo Engels, dando corpo al
Diamat, e quella, più varia, del marxismo occidentale, che, in quasi tutte le sue
principali correnti, subisce l’influenza dell’idealismo di fondo delle elaborazioni
prevalenti nei diversi contesti nazionali ( ). 21
20() BARACCA ROSSI 1976, pp. 13 e 17.
21() ANDERSON 1976.
6
atteggiamento direttamente o indirettamente apologetico verso il capitalismo
contemporaneo» ( ). 22
In Occidente invece il marxismo si è sviluppato sotto un segno ben diverso:
quella contrapposizione fra storia e natura, tipica del pensiero «borghese» d’inizio
secolo, che portò a un radicale divorzio fra le «scienze dello spirito» e le «scienze
della natura», col conseguente cristallizzarsi di «due culture» senza quasi
comunicazione reciproca ( ). Così le scienze sociali, percepite come un’ambigua
23
«terza cultura» ( ), hanno finito per essere relegate in un difficile e spiacevole
24
ruolo, spesso poco chiaro ai loro stessi cultori.
In Italia, in particolare, una versione lato sensu idealistica del marxismo si
afferma con le elaborazioni di Gramsci, che, nel suo confronto con Croce, subisce
l’influenza di quest’ultimo, cui si deve una delle più dure negazioni dello stesso
carattere conoscitivo delle scienze. Ciò ha dato vita a una peculiare forma di
marxismo retoricoletterario, congruente sia con il ritardo culturale di un Paese
ancora per molti aspetti arretrato, sia con la cultura idealistica della stragrande
maggioranza degli intellettuali di sinistra.
Negli altri Paesi europei le premesse del marxismo idealistico risalgono alle
elaborazioni dei marxisti hegeliani degli anni ’20 (Lukács e, più ancora, Korsch),
alle posizioni della Scuola di Francoforte e all’ultimo Sartre, cui si deve, fra
l’altro, la stolida asserzione del carattere «unicamente borghese» della scienza,
che purtroppo ha fatto scuola, e non solo nei caffè di StGermain.
Al di là delle differenze anche notevoli fra le diverse scuole, ciò che più
colpisce nel marxismo occidentale è la diffusa preoccupazione di difendersi
dall’accusa di materialismo. Ha scritto efficacemente in tal senso Sebastiano
Timpanaro: «Marxisti gramsciani e togliattiani, marxisti hegelianoesistenzialisti,
marxisti neopositivisteggianti, freudianeggianti, strutturaleggianti, pur nei
profondi dissensi che li dividono, sono concordi nel respingere ogni sospetto di
collusione col materialismo ‘volgare’ o ‘meccanico’; e lo fanno con tanto zelo da
buttar via, insieme alla volgarità o meccanicità, il materialismo tout court» ( ). 25
Gli esiti di una siffatta posizione teorica possono essere toccati con mano. Mi
limiterò a ricordare qui, per l’Italia, la tendenza di molti marxisti ad appagarsi di
frasi fatte sull’«onnipotenza della prassi», che, sotto l’enfasi apparentemente
«rivoluzionaria», contrabbandano la vecchia concezione idealistica di un uomo
privo di naturalità e intessuto soltanto di cultura e di storia ( ). 26
22() ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL’URSS 1958.
23() SNOW 1959.
24() LEPENIES 1985.
25() TIMPANARO 1970; 2ª ed. p. 1.
26() Tale tendenza era talmente spinta da meritare una stigmatizzazione persino in una relazione a
un prudente convegno su «Uomo, natura e società» organizzato nel 1972 dall’Istituto Gramsci (cfr.
ALOISI 1974). Posizioni del genere sono tuttora dominanti nel pur ridimensionato marxismo italiano e
continuano a influenzare pesantemente la sociologia italiana anche d’indiretta ispirazione marxista.
7
contro tutte quelle concezioni che ipostatizzano a dato naturale immutabile le
forme storiche dell’organizzazione sociale (divisione gerarchica del lavoro,
famiglia, classi, proprietà privata, Stato), ma diventa irrazionale, se trascorre nella
negazione idealistica di ciò che Marx stesso ebbe a definire, come abbiamo già
visto, «il primo dato da rilevare»: l’organizzazione fisica degli uomini e il
rapporto che ne consegue tra loro e il resto della natura. «L’uomo come essere
biologico, dotato di una certa (non illimitata) adattabilità all’ambiente esterno,
dotato di certi impulsi all’attività e al raggiungimento della felicità, soggetto a
vecchiezza e a morte», ha scritto ancora in proposito il lucido osservatore già
sopra citato, «non è una costruzione astratta e non è nemmeno un nostro antenato
preistorico, una specie di pitecantropo ormai superato dall’uomo storicosociale,
ma esiste tuttora, in ciascuno di noi, e probabilmente esisterà anche in futuro» ( ). 27
Peraltro anche nel marxismo italiano non sono mancate delle voci più critiche,
ancorché minoritarie ( ). Basti qui citare quanto ha scritto a proposito
28
dell’etologia uno dei più autorevoli dissenzienti: «Il marxismo dovrebbe avere per
una lettura critica di questa scienza lo stesso interesse che Marx ed Engels ebbero
per la teoria evoluzionistica di Darwin [...]. L’atteggiamento dei marxisti nei
riguardi degli sviluppi della scienza non dovrebbe essere quello di una critica solo
ideologica e dall’esterno, ma quello di entrare nel merito, sia per additare le
conseguenze negative derivanti sul piano scientifico da certi assunti ideologici ed
epistemologici, e quindi per contrastarne più efficacemente le interpretazioni e le
applicazioni di tipo reazionario, sia per appropriarsi delle nuove teorie e dei nuovi
risultati, dato che per il marxismo la scienza non è riducibile a mera ideologia»
( ).
29
5. L’altro versante. Il biologismo dell’ideologia borghese: socialdarwinismo,
etologia, sociobiologia
27() TIMPANARO 1970; 2ª ed. pp. 2122.
28() Fra quelle più apprezzabili, anche per la data in cui sono state formulate, ricordo CONTI 1971,
ALOISI 1972, 1978, MISITI 1973, BERLINGUER 1978.
29() MISITI 1973, p. 3.
8
Sin dalle sue origini l’ideologia borghese ha utilizzato la biologia per
naturalizzare i rapporti sociali, cioè per destoricizzarli e presentarli come
tendenzialmente «immutabili», se non eterni. Basterebbe ricordare in proposito la
vicenda esemplare del socialdarwinismo, che fu, fra ’800 e ’900, una delle
correnti dominanti nell’ambito delle scienze sociali. Quell’uso del darwinismo fu
l’esatto contrario di quello di Marx e di Engels, che vi videro non già lo strumento
per un maldestro tentativo di naturalizzare la società, bensì la dimostrazione della
storicità della stessa natura ( ). 31
Eppure non si può proprio dire che il socialdarwinismo abbia costituito un vero
rovesciamento delle posizioni di Darwin, perché già in questi ne compaiono non
pochi assunti, tra le righe e talora anche esplicitamente, come espressione dei suoi
limiti «borghesi». Ma ciò che in Darwin resta, tutto sommato, un marginale
cedimento, che non ne infirma lo straordinario apporto scientifico, nel
socialdarwinismo diventa l’elemento fondante di una costruzione prevalentemente
ideologica ( ). 32
proprio per questo è indispensabile sceverare il grano dal loglio, per evitare i due
opposti rischi di prender per buono ciò che buono non è e di buttar via il bambino
con l’acqua sporca, che pure nel caso specifico non è poca. In ogni caso gioverà
ricordare che, come diceva Gramsci, anche se la scienza non si presenta mai come
nuda elaborazione obiettiva, ma appare sempre rivestita da un’ideologia, «un
gruppo sociale può appropriarsi della scienza di un altro gruppo, senza accettarne
l’ideologia» ( ). 35
Troppi etologi e troppi zoologi, seguiti in qualche caso anche dagli antropologi
biosociali e dai sociobiologi, hanno ceduto alla suggestione di un fuorviante
riduzionismo biologistico, che li ha indotti a formulare teorie grottesche e banali,
ma non per questo meno pericolose, basate su un uso scorretto dei documenti
32() Ciò non vuol dire, naturalmente, che il socialdarwinismo non abbia dato anche importanti
contributi scientifici (cito, in particolare, le elaborazioni di Sumner) e che nel suo ambito non si
ritrovino anche posizioni eticopolitiche ben diverse da quelle predominanti (basti citare quelle
dell’anarchico Kropotkin, fautore dell’importanza evolutiva dell’aiuto reciproco e della solidarietà).
33() Si veda, in particolare, MELOTTI 1979a, 1981, 1982a, 1982c, 1983.
34() Si veda, in particolare, BIGNAMI et al. 1977.
35() ANTONIO GRAMSCI, 1971, p. 66 (il passo, intitolato dai curatori «La scienza e le ideologie
‘scientifiche’», è tratto dai Quaderni del carcere, scritti tra il 1929 e il 1935, e più specificamente dal
18° quaderno).
9
disponibili sul mondo animale. Basti dire che molti di loro, per questa via, sono
giunti a predicare l’insopprimibilità della violenza, attribuita a una non meglio
precisata aggressività naturale dell’uomo, a sua volta semplicisticamente
presentata come un istinto incoercibile, ereditato da una natura feroce e grondante
di sangue; l’ineliminabilità della guerra, senza della quale, secondo le parole di
Ardrey, «l’Homo sapiens finirebbe sulla soglia oscura dalla quale raramente una
specie fa ritorno»; l’inevitabilità della divisione degli uomini in ruoli di comando
e di ubbidienza o addirittura in classi sociali diverse, dal momento che «la
tendenza a costituire gerarchie dipenderebbe da istinti animali del pari
caratteristici del babbuino, della taccola, del pesce persico e dell’uomo»; la
«naturalità» della distinzione dei popoli in stati e nazioni e dei relativi sentimenti
(campanilismo, patriottismo, nazionalismo, etc.), dato che le loro radici
«affonderebbero saldamente nella territorialità sociale di quasi tutti i primati con
noi imparentati»; il «carattere biologico» o comunque «naturale» della condizione
d’inferiorità della donna, rilevabile in moltissime società umane; e, last but not
least, l’impossibilità di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione (di cui
ignorano o dimenticano l’origine storica estremamente recente, almeno sul metro
dei processi evolutivi), dal momento che «la tendenza umana al possesso» sarebbe
«la semplice espressione di un istinto animale molte centinaia di volte più antico
della specie umana» ( ). 36
Se affermazioni di tal fatta si ritrovassero soltanto in divulgatori di bassa lega,
non varrebbe neppure la pena di dar loro una risposta. Poiché, però, analoghi
spunti abbondano anche negli scritti degli etologi e dei sociobiologi più
qualificati, gioverà chiarire espressamente l’errore metodologico e la distorsione
ideologica che sottendono a simili assunti.
In questa letteratura, assai insidiosa per il suo aspetto «scientifico», l’uomo è
trattato solo per la sua pretesa e non meglio specificata «natura», in una
prospettiva che lo riduce più o meno consapevolmente a un «semplice fenomeno
biologico», come ha scritto uno dei suoi primi e più noti esponenti ( ), 37
Corrispettivamente i problemi delle società umane sono impostati in termini di
mera espressione istintuale, prescindendo dagli elementi strutturali e
sovrastrutturali di diverso ordine (il rapporto storicamente condizionato con la
natura, le relazioni economicosociali, le componenti psicologiche e culturali,
etc.), nel quadro di una generale tendenza a sostituire l’analisi delle situazioni
effettive con azzardate analogie coi comportamenti sociali degli animali delle
specie più diverse. Così, ad esempio, anche uno studioso per altri versi attento e
sensibile come Lorenz, che ha dedicato una vita a individuare con pazienza
certosina gli affascinanti meccanismi della vita sociale di molte specie animali,
36() Per queste citazioni si veda ARDREY 1961; cfr. anche CARRIGHAR 1965.
37() MORRIS, 1967.
38() MARX 1857, p. 637; trad. it. p. 195.
10
non esita a chiudere parecchi suoi libri con considerazioni di disarmante
superficialità sulle società umane, che richiederebbero almeno altrettanta
attenzione.
In verità Lorenz, così come molti altri etologi e sociobiologi, dimostra una
conoscenza men che mediocre delle società umane, che non ha mai fatto oggetto
di osservazione sistematica, né ha studiato in modo adeguato attraverso la
letteratura. Non sorprende, pertanto, che discettando su di loro grazie alle sue
conoscenze delle taccole, delle anatre e dei cani o, al più, dei rapporti intercorrenti
fra qualche sua parente e le donne di servizio o fra i docenti universitari (che pure
sono una bella fauna), sia incorso in clamorosi infortuni. Così, ad esempio, nella
conclusione del suo famoso libro sull’aggressività, formulando «alla maniera degli
antichi saggi greci» i suoi consigli pratici per scongiurare i pericoli della guerra,
suggerisce di «sfogare l’aggressività su oggetti sostitutivi», di rilassare la pulsione
relativa con la «sublimazione», di sviluppare forme ritualizzate di lotta e di
competizione sociale, come lo sport e le gare spaziali, di incrementare il numero
delle identificazioni attraverso un aumento della cultura della gioventù e di
affratellare i partiti e le nazioni attraverso l’arte, che pertanto dovrebbe «restare al
di fuori della politica», e la scienza, che, come quella, «rappresenta un valore
indiscutibile» ( ). Come si vede, questo studioso che ha saputo studiare con tanta
39
cura le società animali, riesce a trattare il problema della pace e della guerra senza
dire una sola parola sullo sfruttamento, sui rapporti fra le classi sociali, sulle
sperequazioni esistenti all’interno del sistema internazionale, ove una piccola
parte della popolazione del mondo controlla le risorse, i capitali e le conoscenze
scientifiche e tecniche, condannando ogni anno allo sterminio per fame, con le sue
scelte, molte decine di milioni di uomini ( ). 40
Allo stesso modo Wilson, che ha studiato con esemplare impegno le società
degli insetti e che, per scrivere la sua monumentale Sociobiologia (1975), ha
vagliato per anni la sterminata letteratura esistente sulla vita sociale degli animali,
nell’ultimo capitolo di quel libro, espressamente dedicato all’uomo, così come nel
suo successivo saggio Sulla natura umana (1978), si è lasciato andare a sonore
asserzioni che dimostrano tutta la sovrana superficialità con la quale egli ha
ritenuto di poter trattare la pur complessa problematica delle società umane. Non
farò degli esempi, per brevità. Ma non posso non ricordare come quasi tutte le sue
osservazioni in tema di sessualità umana, territorialismo, tendenza a costituire
gerarchie, diversificazione delle culture, origini e sviluppi delle più disparate
espressioni della vita sociale (linguaggio, morale, religione, arte, musica, etc.)
lascino l’impressione complessiva dell’occasionalità e della banalità. L’approccio,
se non è caotico, è dilettantesco. È francamente penoso veder scoprire a quasi
cent’anni dalla morte di Marx, tanto per dirne una, che esistono le classi sociali,
che esse sono in «competizione» e che i loro scontri costituiscono un fattore
importante del mutamento sociale ( ). 41
39() LORENZ 1963.
40() MELOTTI, 1966.
41() WILSON, 1975.
11
Come giudicare tutto ciò? Certo nel caso di Wilson, così come in quello di
Lorenz e di tanti altri etologi e sociobiologi, opera la deformazione professionale
dello specialista. Vi è, però, anche qualche cosa di più: l’alienazione del lavoro
scientifico nell’attuale società, che impedisce, o per lo meno ostacola, un
approccio metodologicamente corretto, oltre che umano, ai problemi dell’uomo
( ).
42
L’insensibilità per le complesse mediazioni sociali, psicologiche e culturali che
caratterizzano il comportamento umano esprime d’altra parte la tendenza, comune
a tutta l’ideologia borghese, a naturalizzare i rapporti sociali, per presentare la
società esistente non già per quello che è (una formazione storica, fondata, al pari
di tutte le altre, su rapporti di produzione transitori, destinati a cedere il passo,
prima o poi, a una diversa organizzazione delle relazioni sociali), ma come
l’espressione di tendenze naturali immutabili, perché radicate in situazioni che
trascendono la stessa condizione umana. La funzione ideologica di una siffatta
rappresentazione è ben chiara. Dietro l’atteggiamento di superiore saggezza di chi
sentenzia scetticamente sull’impossibilità di modificare il destino dell’uomo,
segnato una volta per tutte da un «dato» genetico che rappresenta il portato di
cento milioni di anni di evoluzione del suo ordine zoologico, si nasconde molto
spesso una ben miserabile realtà: il filisteismo del piccoloborghese, incapace
persino d’immaginare un’organizzazione sociale diversa da quella in cui si è
ritagliato, al prezzo della rinuncia a una più compiuta realizzazione delle sue
potenzialità umane, la sua nicchia ecologica.
A queste teorie non si può rispondere, come hanno fatto per decenni i marxisti
idealisti, col facile, ma generico assunto delle enormi differenze esistenti fra gli
uomini e gli altri animali. In realtà una corretta risposta presuppone una
concezione non riduttiva (né in senso biologistico, né in senso idealistico) dello
sviluppo storico, che è un processo a un tempo naturale e sociale.
Questi due aspetti, in inscindibile dialettica, configurano in realtà per l’uomo
l’esigenza sia di un progressivo affrancamento (per quanto possibile) dai limiti che
gli derivano dalle sue origini animali, sia di un’emancipazione dai vincoli posti
dal livello di sviluppo delle forze produttive e dal carattere dei rapporti di
produzione e delle relazioni sociali in presenza. La liberazione dell’uomo nella
storia non è infatti un processo a quo, che parta da un’«essenza umana» già data
ab aeterno, come sembrano ritenere gli idealisti di ogni stampo, propensi a
credere per questo (come diceva il Croce sulle orme del Vico) che la storia, al di là
delle sue «traversie», sia sempre, per definizione, «storia della libertà». Essa è
invece, come dovremmo avere ormai capito, un processo ad quem, conflittuale,
dialettico, contraddittorio e certo non garantito nei suoi esiti.
42() Cfr. DI SIENA 1969.
12
Ciò premesso, si può meglio intendere la proposta di una nuova scienza unitaria
dell’uomo e della società: una scienza che integri e superi a un tempo le
tradizionali scienze umane e sociali (sociologia, psicologia, antropologia culturale,
etc.) e le scienze «naturali» affermatesi nel corso degli ultimi decenni
(antropologia fisica, paleoantropologia, ecologia, paleoecologia, primatologia,
etologia, sociobiologia). Questo è infatti il solo modo per poter utilizzare
correttamente l’immenso patrimonio di nuove conoscenze presente in tutti questi
campi.
Mi limito a qualche esempio. Per quanto concerne la paleoantropologia, ricordo
le grandi scoperte fossili dell’Africa orientale, legate al nome dei Leakey e di altri
studiosi, che hanno permesso di retrodatare di molti milioni di anni la presenza
dell’uomo sulla Terra. Per la primatologia segnalo le acquisizioni di eccezionale
interesse dovute alle prime grandi ricerche in ambiente naturale. Anche al grande
pubblico sono ormai noti i nomi di George B. SchaIler, Jane Goodall, Diane
Fossey e Biruté Galdikas, cui si devono i primi affascinanti reportages sulla vita in
natura dei grandi antropoidi, i primati infraumani più simili all’uomo. Ma sono
soltanto la punta di un iceberg e gli specialisti ricordano, accanto a loro, decine di
altri studiosi, autori di contributi non meno importanti. Per quanto riguarda poi
l’ecologia e la paleoecologia, scienze da noi non soltanto ancora neglette, ma
insipientemente irrise (uno dei più noti e diffusi settimanali italiani ha incluso la
seconda fra le «materie inutili» insegnate nelle nostre università!), richiamo la
copiosa messe di studi cui si deve un’idea più precisa degli intricati rapporti fra
componenti genetiche e componenti ambientali nella filogenesi del
comportamento umano.
Come si vede, l’esigenza di una nuova scienza unitaria dell’uomo e della
società emerge dalla stessa ricerca, e non solo da quella che si svolge sui confini
fra le discipline, come si potrebbe pensare, ma anche da quella che si presenta,
almeno in prima istanza, come bene interna ad esse. Portato della ricerca, questa
esigenza non ha niente a che vedere – gioverà sottolinearlo esplicitamente, per
evitare i malintesi – con le astratte elaborazioni sistematiche di Comte e di
Spencer e neanche con quelle di Hegel e di Engels, recentemente riemerse in
alcuni ambienti. La nuova scienza unitaria di cui abbiamo bisogno non è infatti né
la scientia altior di Comte, né un anacronistico aggiornamento dell’hegeliana
«enciclopedia delle scienze», né, tanto meno, un ennesimo discorso ideologico sul
loro metodo e sulla loro funzione, o sulla loro crisi, o sulla pur necessaria «unità
del sapere». È invece un modo nuovo di concepire il lavoro scientifico e di
svolgerlo in concreto, rifiutando ogni servitù derivante dall’attuale tipo di
divisione del lavoro, che trova la sua giustificazione non già nelle esigenze
intrinseche alla ricerca scientifica, ma nei meccanismi che presiedono alla
riproduzione delle strutture sociali esistenti, difesi e consolidati da miti e da riti
che tendono a incanalare ogni forma di consapevolezza umana in ambiti tanto
ristretti da impedire agli stessi scienziati più insigni di capire davvero qualcosa del
mondo in cui vivono (i casi di Lorenz e di Wilson sono esemplari). In effetti, se
tanti scienziati en miettes, così come tanti «filosofi» estraniati, si limitano oggi a
13
studiare il mondo senza provare alcuna esigenza di cambiarlo, è anche perché in
fondo non lo hanno affatto capito.
Per contro, la nuova scienza unitaria di cui abbiamo bisogno è un’attività libera
e disalienata, che promuova la piena consapevolezza individuale e collettiva, a
partire dal continuo confronto fra i diversi ambiti di ricerca specialistica e le
problematiche complessive, sempre presenti in virtù di una pratica sociale
tendenzialmente orientata allo stesso superamento della divisione del lavoro:
quella orizzontale, che porta all’iperspecializzazione, e quella verticale, che fonda
le classi e le gerarchie. Certo, la realizzazione completa di una nuova scienza
siffatta sarà possibile solo con la rifondazione comunitaria del lavoro scientifico,
che presuppone a sua volta il superamento dell’attuale forma di organizzazione
sociale. Ma già oggi essa può cominciare, come impegno personale che prefigura
l’avvenire.
Da quanto ho qui detto emergono indirettamente i motivi della mia posizione
nettamente critica non solo verso l’etologia di Lorenz, ma anche verso la
sociobiologia di Wilson. Alienato prodotto di una società alienata, nel momento
stesso in cui si presenta come la «nuova sintesi», usurpando un ruolo che non può
essere il suo, questa sociobiologia rischia infatti di configurarsi come la
continuazione di un vecchio imbroglio. In verità, per sviluppare quella nuova
scienza unitaria dell’uomo e della società di cui abbiamo bisogno, è necessaria
un’impostazione ben diversa, dall’orientamento transdisciplinare e dialettico.
Quest’espressione non deve spaventare nessuno. Con essa, in realtà, non
intendo infatti proporre niente di diverso dal modo in cui etologia e sociobiologia
sono già state recepite in Italia sin dagli inizi, almeno dagli studiosi più avvertiti
( ). Più in generale, si potrebbe anzi addirittura parlare di una «via italiana alla
43
14
fatto anche da noi i peggiori danni con la sua pretesa d’identificare, nell’ambito
delle formazioni sociali, diversi «livelli», coincidenti di fatto coi riservati dominii
delle vecchie discipline.
Al contrario della tradizionale «interdisciplinarità» ritualmente invocata nei
congressi accademici (che si limita a istituire un rapporto «diplomatico» fra le
discipline, di cui riconosce e ribadisce l’«autonomia»), l’accostamento
transdisciplinare e dialettico qui caldeggiato riposa sulla piena consapevolezza
dell’esaurimento della funzione storica di queste ultime, che in realtà ormai
sopravvivono a sé stesse soltanto in virtù di una «finzione giuridica» dagli scopi
pratici spesso tutt’altro che cristallini.
Quest’acquisita coscienza della «morte delle discipline» non vuol dire peraltro
che la ricerca scientifica debba essere «indisciplinata». Ma la sua disciplina deve
rispondere soltanto alle sue esigenze intrinseche, senza pagare il pedaggio a
esterni canoni «metodologici» che limitino la libertà di trascorrere le tradizionali
frontiere. Concludo pertanto parafrasando, ad auspicio del cambiamento, le parole
che salutavano un tempo la scomparsa di un sovrano e l’avvento del suo
successore: «Le discipline accademiche sono morte, viva la ricerca scientifica!».
7. Storia e sociologia
Come ho già sottolineato, l’uomo non ha però soltanto una dimensione
«naturale». Ha anche una dimensione «storica», e di straordinario rilievo. La
tensione transdisciplinare del sociologo non può quindi ignorare la storia. Risulta
pertanto opportuno aggiungere qualche parola sui pur discussi rapporti fra storia
e sociologia.
Va innanzi tutto ricordato che il termine «storia» assume in italiano, così come
in molte altre lingue, un duplice significato. Secondo la distinzione hegeliana,
ripresa e valorizzata dal Croce, questo termine può infatti indicare sia la
storiografia, cioè l’historia rerum gestarum, intesa come l’attività specifica di un
particolare studioso delle vicende umane (il cosiddetto «storico», appunto), sia le
res gestae, cioè le stesse vicende umane nel loro svolgimento nel tempo e nello
spazio. Dal primo punto di vista il rapporto fra storia e sociologia concerne due
discipline scientifiche; dal secondo concerne invece la sociologia e uno dei suoi
privilegiati (ma non incontroversi) campi d’indagine. Nonostante le inevitabili
interferenze, è utile tener distinte le due prospettive.
Storia e sociologia hanno in comune lo studio delle vicende umane, ma il loro
modo di affrontarlo è decisamente diverso. A ciascuna sottende infatti una logica
specifica, al di là delle pur notevoli differenze d’impostazione e di metodo
rilevabili al loro interno fra le diverse scuole.
La storia tende a ricostruire lo svolgersi delle vicende umane nella loro
individualità. Essa si occupa, tipicamente, di eventi, cioè di fatti cronotopicamente
determinati, colti nella loro irripetibile unicità, senza alcuna ricerca di astratte
«legalità». Essa mira, infatti, a ricostruire e a spiegare anche fenomeni che, per la
loro accidentalità e il loro azzardo, non consentono margini di previsione. Si
15
tratta, insomma, secondo la classica dizione del Windelband (1894), di una
scienza idiografica (dal greco i dioj = particolare, proprio di uno e di nessun
altro), cui presiede una logica individualizzante. La sociologia tende invece a
cogliere nelle vicende umane tipi, regole, tendenze, costanti, uniformità,
persistenze, successioni, covariazioni, sequenze. Si tratta, per dirla ancora col
Windelband, di una scienza nomotetica (dal greco no moj = legge), cui presiede
una logica generalizzante. La sociologia è infatti una scienza di leggi, benché nel
suo caso il termine «legge» non abbia mai implicato una connotazione di rigorosa
necessità, che del resto ha poi perduto anche nell’ambito delle scienze della natura
( ).
44
Come tale, la sociologia si occupa, in via di principio, di fatti ben diversi da
quelli di cui si occupa la storia. Studia, in effetti, non già eventi, nel senso sopra
precisato, bensì istituzioni, cioè fatti a ripetizione che consentono un margine di
previsione. Da ciò il motto di Auguste Comte: «Savoir pour prévoir, prévoir pour
pouvoir». Chiari esempi di «eventi» sono (senza scomodare il naso di Cleopatra e
le sue proverbiali conseguenze) le grandi individualità cosmicostoriche, per
esempio Cesare e Napoleone, mentre esempi di «istituzioni» sono il «cesarismo» e
il «bonapartismo», cioè due tipi di potere personale che è possibile identificare in
base a categorie costruite astraendo determinate caratteristiche dalle effettive
esperienze storiche. Altri esempi di «eventi» (di ordine diverso, giacché implicano
non già, come nel primo caso, dei concetti storici «assoluti», costituiti da
individualità determinate, di per sé distinte da qualsiasi altra, ma dei concetti
storici «relativi», che presuppongono una concettualizzazione individualizzante da
parte dello studioso) sono, ad esempio, la rivoluzione inglese, la rivoluzione
americana, la rivoluzione francese, la rivoluzione russa, la rivoluzione cinese e la
rivoluzione cubana. Il corrispettivo esempio di istituzioni è il fenomeno
rivoluzione, che il sociologo può studiare per rilevarne le costanti: cause, effetti,
processi, conseguenze, etc., come ho fatto io stesso a suo tempo e come hanno
fatto molti altri studiosi prima e dopo di me ( ). 45
44() Cfr. PENNATI, 1961, p. 19.
45() Cfr. MELOTTI, 1965 e relativa bibliografia.
46() BRAUDEL, 1958b, vol. 1, p. 88.
16
La complementarità di storia e sociologia deriva dalla loro stessa natura. Da un
lato, la sociologia, appunto perché mira a cogliere nelle vicende umane tipi,
regole, tendenze, etc., non risolve in sé, né può risolvere, tutta la vasta gamma
delle possibilità umane testimoniate dalla storia, che possono invece essere messe
a fuoco dal tipo di sapere proprio di quest’ultima. Dall’altro lato, neppur si
potrebbe scrivere la storia prescindendo da certi concetti generali, il cui
chiarimento compete logicamente alla sociologia o, più in generale, alle scienze
sociali. Basti pensare, per fare qualche esempio, a concetti solo in apparenza
intuitivi, come «classi», «potere», «ideologia», «élites», «burocrazia»,
«dispotismo», «totalitarismo», «democrazia», etc., cui generazioni di sociologi
hanno dedicato ormai classici studi. Peraltro il sociologo deve saper anche
cogliere il senso che tali termini hanno assunto nelle diverse età, per evitare
possibili abbagli. Da questo punto di vista la sociologia si configura non tanto
come la metodologia della storia (per riprendere la definizione crociana della
filosofia), quanto come la sua stessa coscienza critica, mentre la storia costituisce
per la sociologia la prima e imprescindibile condizione della sua criticità.
Esistono tuttavia modi ben diversi di scrivere la storia. A un estremo troviamo
la storia événementielle, che quasi d’altro non si preoccupa (almeno
consapevolmente) se non di elencare gli eventi, senza mirare a individuarne cause
e significato. All’altro estremo vi è una storia che ama invece misurarsi con i dati
strutturali e non prescinde dai confronti fra situazioni diverse. Il primo tipo di
storia tende a ridursi alla cronaca, mentre il secondo sfuma impercettibilmente
nella sociologia, con cui può a volte addirittura confondersi (come è avvenuto per
certi ben noti contributi di storia sociale, storia economica, storia delle istituzioni,
storia delle idee, storia comparata, etc.).
Del primo tipo di storia qui non ci occuperemo oltre. Ancorché sopravviva
allegramente a sé stesso nelle accademie di mezzo mondo, la sua critica può
ormai ritenersi conclusa. Già Voltaire, del resto, ebbe a chiedersi a che mai
potesse servire una storia che non ha nient’altro da dire fuor che a un re barbaro ne
successe un altro ( ). 47
47() VOLTAIRE, 1756.
17
significa anche imparare a intendere il passato alla luce del presente. La funzione
della storia è quella di promuovere una più profonda comprensione del passato e
del presente alla luce delle loro reciproche interrelazioni» ( ). 48
Come si vede, per definire il compito della storia Carr utilizza il termine
«comprensione», che rimanda a quel verstehen con cui Max Weber ebbe a
descrivere lo scopo comune del lavoro degli storici e dei sociologi, al di là delle
differenze più o meno marcate che concernono invece il loro specifico tipo di
«spiegazione». Ciò non è casuale. Anche un altro illustre storico, Marc Bloch, uno
dei fondatori delle «Annales», aveva sintetizzato allo stesso modo la funzione
della storia. «Una parola», ebbe a scrivere, «domina e illumina i nostri studi:
comprendere» ( ). Affermazione che anche uno dei nostri storici
49
epistemologicamente più avvertiti, Giorgio Borsa, ha sottoscritto con convinzione,
riportandola in epigrafe alle sue riflessioni sulla sua disciplina ( ). 50
schiera dei nuovi storici, aperti agli apporti metodologici e sostantivi delle scienze
sociali, il sociologo rischia di perdere la sua primogenitura, se non saprà
rinnovarsi a sua volta, ritornando con una maggior consapevolezza critica a ciò
che rese già così alta la tradizione classica della sua disciplina.
8. Il futuro ha un cuore antico, ovvero rinnovarsi nella tradizione
Per «tradizione classica» intendo, in particolare, il retaggio di Marx, Durkheim
e Max Weber, i tre autori cui risale il merito di aver definito le coordinate
fondamentali delle scienze sociali moderne. Marx, in cui si è riconosciuto ormai
da tempo un precursore legittimo della sociologia, se non addirittura «il più
grande e il meno dogmatico di tutti i suoi fondatori» ( ), ha scritto di non
52
riconoscere altra scienza che la storia e, più in particolare, di ritenere prive di ogni
valore le categorie teoriche che non risultino storicamente fondate ( ). Durkheim, 53
che per le sue ricerche empiriche è stato indicato come il padre della «sociologia
48() CARR 1961 (trad. ital. pp. 7374).
49() BLOCH 1949, p. 72.
50() BORSA 1980.
51() PENNATI 1961, p. 163.
52() GURVITCH 1963, vol. 2, pp. 220.
53() MARX ENGELS 184546.
18
scientifica» ( ) e per il complesso delle sue opere viene considerato da molti come
54
il vero fondatore della sociologia ( ), ha individuato nella storia il locus specifico
55
per la costruzione della scienza della società. E Max Weber, che forse più di ogni
altro ha contribuito allo sviluppo di una coscienza epistemologica nelle scienze
sociali, ha mostrato, tanto nei suoi scritti metodologici quanto nei suoi contributi
sostantivi, come la sociologia riceva in prevalenza il suo materiale dalla storia.
Questa tradizione non si è spenta e non sarebbe certo difficile indicarne dei
continuatori anche insigni, da Wittfogel a Elias, da Bendix a Moore ( ). Eppure, 56
soprattutto a partire dagli anni ’30, ha preso sempre più piede, dapprima in
America e poi anche nelle varie periferie dell’impero, una sociologia
caratterizzata da orientamenti astrattamente formalisti nella teoria e ingenuamente
empiristi nella ricerca. Ciò ha portato di fatto a una svalutazione della storia.
Come ha denunciato C. Wright Mills, il sociologo americano che già sul finire
degli anni ’50 insorse vigorosamente contro queste tendenze, l’identificazione
della ricerca sociologica con la pratica quasi rituale di determinate tecniche ha
finito per condizionare la stessa scelta dell’oggetto d’indagine, circoscrivendola
sin troppo spesso a questioni di assai limitata rilevanza. D’altra parte la Grande
Teorizzazione di stampo parsonsiano, a lungo egemone in ambito accademico
(anche in Europa), si è rivelata manifestamente inficiata dalla scelta iniziale di un
livello di astrazione così generale da non consentire alcuna discesa «dalle supreme
generalità ai contesti storici e strutturali dei problemi». Tutte queste scuole, per
dirla col Mills, «rappresentano una rinuncia alla scienza sociale classica attraverso
una sedicente superelaborazione del metodo e della teoria», in apparenza
motivata da una ricerca di rigore formale, ma in realtà dovuta «alla mancanza di
solidi nessi coi problemi sostanziali» ( ). 57
Si tratta, dunque, di un «goffo sforzo di ponderosità senza importanza» ( ), che, 58
per vender fumo, utilizzava un gergo esoterico, applicando, come aveva già
rilevato qualche anno prima il giovanissimo Ferrarotti, un linguaggio da fisici
nucleari a cose che avrebbe potuto capire benissimo anche un bambino ( ). Nel 59
loro insieme, «ignoranza della storia e della filosofia, empirismo ristretto senza
orizzonti più vasti, interesse concentrato sulle tecniche e totale insensibilità
nell’uso del linguaggio» determinavano, per dirla con le dure, ma puntuali parole
54() MADGE 1962, p. 51.
55() BAECHLER 1984, p. 14.
58() MILLS 1959 (trad. ital. p. 36).
59() FERRAROTTI 1955, p. 21.
19
di un altro studioso americano, una sorta di «imbarbarimento intellettuale» ( ), da 60
cui, per la verità, la sociologia non è stata più capace di uscire del tutto. Da ciò la
sua «crisi», prima preconizzata ( ) e poi denunciata da molti, ma troppo spesso
61
attribuita, per cecità, piaggeria o spirito corporativo, a fattori assai meno rilevanti.
Attualissimo risulta pertanto il monito formulato da Mills a conclusione della
sua serrata analisi: «Per assolvere i loro compiti e, già prima, per formularli
correttamente, gli scienziati sociali devono usare il materiale della storia [...]. Non
vi è sociologia degna di tal nome che non sia sociologia storica» ( ). 62
Ciò è stato ben compreso anche da chi, come il già citato Ferrarotti, ha voluto
sostenere, forse per ribadirne l’autonomia accademica, a quel tempo in Italia
ancora in discussione, che «la sociologia, come scienza del vivente, è totalmente,
quasi con violenza, immersa nel presente» e che il suo oggetto sarebbe caratteriz
zato «dalla sua contemporaneità, dal fatto di essere materia ancora calda e fluida,
materia presente» ( ). A queste affermazioni, in sé tutt’altro che convincenti, egli
63
ha infatti apposto, citando un altro studioso, un’importantissima precisazione: che
il presente, per il sociologo, «non è un ineffabile punctus temporis o un’aoristica
contrazione della cronologia», ma «è, invece, il momento storico nel quale vivono
i contemporanei, con tutta la ricca gamma di differenze e di varietà di sviluppo
che la storia ha indotto fra i vari Paesi del mondo e tra le varie parti di uno stesso
Paese; è quell’arco di tempo, dai confini estremamente mobili, di cui gli storici di
mestiere diffidano di scrivere già la storia, non solo perché mancano i documenti
indispensabili, ma anche e soprattutto perché avvertono che si tratta di un processo
ancora in pieno svolgimento e del quale essi stessi sono attori e partecipi» ( ). 64
A queste parole c’è poco da aggiungere. La conoscenza storica è necessaria alla
comprensione dell’attualità. Non si può sperare di coglierne il senso dimenticando
che il presente esiste soltanto come una fuggevole transizione fra il passato e il
futuro. Non si può individuare ciò che è obiettivamente importante in una
determinata situazione senza esaminare i processi che lo hanno reso tale. Non si
possono mettere in luce le caratteristiche delle stesse strutture dimenticando che
esse si sono costituite nel tempo, in rapporto a determinate esigenze storiche, e
che nel tempo si sono trasformate e continuano a trasformarsi. In una parola, non è
possibile analizzare i problemi dell’uomo in società prescindendo dalla storia.
Non stupisce pertanto che il Berger, nel suo già citato volumetto, abbia potuto
affermare che, fra tutti gli studiosi che il sociologo può incontrare nel suo
cammino (l’etnologo, lo psicologo, l’economista, il politologo, etc.), quello con
cui è destinato a percorrere più spesso un pezzo di strada in comune e che
maggiormente può arricchire il suo viaggio scientifico sia proprio lo storico.
Tutto ciò indica che fra storia e sociologia devono esistere frontiere aperte. Del
resto, se per far opera di storico è necessaria la capacità di vivere e far rivivere il
60() BERGER 1963 (trad. ital. pp. 21, 123).
61() GOULDNER 1970.
62() MILLS 1959 (trad. ital. p. 36).
63() FERRAROTTI 1961, p. 291.
64() GALASSO 1960, p. 110.
20
passato nella sua perenne contemporaneità ( ), fare sociologia implica la speculare
65
capacità di comprendere «il presente come storia» ( ). 66
Per illustrare ciò che s’intende con tale espressione converrà partire da un
chiarimento preliminare. La «società», intesa come unitario complesso di tutti gli
individui umani esistiti ed esistenti, è un mero concetto ideologico, cui non
corrisponde, neanche nell’attuale fase di pervasiva e accelerata globalizzazione,
alcuna realtà. Ciò che la storia conosce è una serie di formazioni sociali,
determinate nel tempo e nello spazio, disgiunte o articolate fra loro, ciascuna delle
quali presenta una fisionomia propria e il carattere comune della transitorietà. Una
sociologia che non intenda ridursi a ideologia deve assumere come proprio
oggetto d’indagine queste formazioni sociali, individuarne le peculiari strutture e
analizzare con riferimento ad esse, e più in particolare ai rapporti di produzione
che le caratterizzano, il complesso degli altri rapporti sociali. Infatti «in tutte le
forme di società», come ha scritto efficacemente Marx, «vi è una determinata
produzione che decide del rango e dell’influenza di tutte le altre e i cui rapporti
decidono quindi del rango e dell’influenza di tutti gli altri. È una luce generale che
si effonde su tutti gli altri colori, modificandoli nella loro particolarità. È
un’atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutto quanto essa
avvolge» ( ). 71
A ben guardare, la «specificità storica» costituisce però solo una particolare
declinazione del principale orientamento che il marxismo ha lasciato in eredità
65() Secondo la ben nota intuizione del Croce (si veda, in particolare, Croce 1917).
66() LUKÁCS 1923, SWEEZY 1959, MILLS, 1959.
67() MELOTTI 1971, 1979b, 1980b, 1984, 1996.
68() KORSCH 1936.
69() MILLS 1959 (trad. ital. p. 160).
70() ABDELMALEK 1972 (trad. ital. p. 339).
71() MARX 1857, p. 637; trad. it. p. 195.
21
alle scienze sociali: il materialismo storico. Non mi soffermerò tuttavia su
quest’ultimo, che devo dare per conosciuto (benché spesso lo si conosca assai
male), limitandomi a ribadirne tutta la fecondità, quando sia utilizzato
criticamente, cioè come un «canone» euristico, per riprendere la pregnante
definizione che già fu del Croce ( ), e non come una teoria generale o, peggio,
72
come una filosofia della storia, cosa contro cui lo stesso Marx non mancò di
mettere in guardia ( ).73
vale per l’Egitto vale per l’Iran, l’India, la Cina, il Vietnam e le altre antichissime
nazioni da poco entrate nell’ambigua «modernità» di cui sogliono parlare i
sociologi occidentali. E vale anche, in maggior o minor misura, per tutti gli altri
Paesi che, nel corso della loro storia, hanno conosciuto strutture sociali, culture e
civiltà irriducibili a quelle dell’Occidente. Fra questi vi è il Brasile, il più grande
72() CROCE 1899.
73() Si veda, in particolare, MARX 1877. Sul materialismo storico come canone metodologico per la
sociologia si veda MELOTTI 1971, 1975, 1979b e 1980a.
74() ABDELMALEK 1972.
75() ABDELMALEK 1962.
22
Paese dell’America Latina, il Giappone, il terzo Paese industriale del mondo, e la
Russia, erede dell’Unione Sovietica, il Paese che ha fronteggiato per mezzo secolo
l’Occidente, alla testa di un blocco politico, economico, ideologico e militare,
attraverso crisi che hanno più volte comportato il rischio di un conflitto globale
suscettibile di distruggere l’intero pianeta e di lasciarlo irrimediabilmente muto e
ostile alla vita.
Oggi per lo studioso non c’è sfida più grande di quella posta dai problemi della
pace e dello sviluppo, della sopravvivenza e della liberazione dei popoli. Orbene,
questi sono problemi che non possono essere affrontati senza una vera prospettiva
storica e senza la consapevolezza critica che solo può derivare da una nuova
scienza unitaria dell’uomo e della società. Proprio per questo la costruzione di
quest’ultima risulta non solo auspicabile per i motivi scientifici sopra illustrati, ma
addirittura necessaria per ragioni vitali.
Un discorso così impegnativo non può peraltro concludersi qui, ma andrà
ripreso e approfondito col contributo di tutti gli studiosi interessati a questo tema
di fondo.
23
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