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L’esigenza di una nuova scienza unitaria 

dell’uomo e della società

Umberto Melotti

1. Introduzione

Ho  già da tempo espresso  l’esigenza di costruire una nuova scienza unitaria 
dell’uomo e della società che sussuma sia le cosiddette «scienze della natura» (e 
più in particolare le discipline che nella seconda metà del ’900 si sono sviluppate 
sul   tronco   fecondo   della   biologia   neoevoluzionistica,   come   la   genetica   di 
popolazione, l’etologia e la sociobiologia), sia le cosiddette «scienze umane» (fra 
cui   la   storia,   la   psicologia   e   le   discipline   più   propriamente   sociali,   come 
l’etnologia, l’antropologia culturale e la sociologia) ( ). 1

A   distanza   di   oltre  un  quarto   di   secolo   dalle   mie   prime   elaborazioni   in 
argomento,   formulate   nell’ambito   dei  pionieristici  dibattiti   allora   in   corso   fra 
quanti   non   si   rassegnavano   ai   già   più   che   evidenti   limiti   delle   tradizionali 
discipline   accademiche,   vorrei  riprendere   tale   tema,   che  non   mi   par   essere 
divenuto  nel   frattempo   più   popolare,   almeno   fra   i   sociologi   e   gli   antropologi, 
tuttora per lo più affetti da un non lodevole filisteismo disciplinare.
  Ringrazio   pertanto   i   curatori   di   questo   prezioso   numero   degli   «Annali   di 
Sociologia» per l’importante occasione offertami di ripensare tutta la questione e 
di presentare le mie considerazioni a un pubblico diverso e più ampio.

2. La divisione del lavoro scientifico e le sue conseguenza

È un fatto ben noto che il progresso delle scienze ha comportato, soprattutto 
negli ultimi due secoli, una crescente specializzazione, che ha dato vita a nuove 
discipline e poi, al loro interno, a sempre più ristretti ambiti di ricerca senza quasi 
comunicazione reciproca.
Questo processo fa parte dello sviluppo della divisione sociale del lavoro, e più 
in particolare della forma che quest’ultima ha assunto nelle società moderne, al di 

1() Con riferimento al rapporto fra le scienze dell’uomo e della natura, si veda MELOTTI 1979a, 1981, 
l982a, 1982b, 1986a. Con riferimento ai rapporti fra storia e scienze sociali, si veda MELOTTI 1979b, 
1980a, 1984, 1996.

1
là delle loro pur non secondarie differenze. Questa divisione del lavoro si spiega 
non   solo  (e  certo   non  sempre  e  forse   non  tanto)   con  le  esigenze  della  ricerca 
scientifica,   che   ha   anzi   in   parte   ostacolato,   ma   anche   (e   ancor  più)   con   la 
competizione sociale fra i ricercatori. Émile Durkheim, il sociologo che  più ha 
studiato la divisione del lavoro in seno alla società ( ), ha scritto in proposito, con 
2

un’argomentazione di sapore darwiniano del tutto  inconsueta per lui (e forse per 
questo ignorata dai suoi molti commentatori), che «la maggior intensità della lotta, 
derivante dalla crescente condensazione della società, ha reso sempre più difficile 
la   sopravvivenza   degli   individui   che   continuavano   a   consacrarsi   a   compiti 
generali» ( ). 3

Le   conseguenze   negative   della  situazione   non  sono   peraltro   solo   di   ordine 


privato.   La   spinta   all’iperspecializzazione   comporta,   per   restare   a   ciò   che   più 
direttamente ci interessa qui, la tendenza al riduzionismo disciplinare e al relativo 
«imperialismo». Gli studiosi più strettamente legati alla propria specializzazione 
sono infatti portati a guardare ai fatti che studiano, e spesso anche a quelli che 
osservano con senso comune, privilegiando  indebitamente  la prospettiva che ne 
deriva. In altre parole, finiscono per guardare al mondo  sub specie disciplinae  e 
magari pretendono che anche gli altri lo facciano. Ne conseguono più o meno 
marcati riduzionismi biologici, psicologici, culturologici, economici, geografici e 
naturalmente anche sociologici. Per fare un esempio significativo, che concerne 
proprio la sociologia, ricordo che lo stesso Durkheim già sopra citato, formulando 
un canone metodologico che ancora ritualmente si tramanda a quanti si apprestano 
a entrare nei ranghi della disciplina, ebbe ad affermare che «la causa determinante 
di un fatto sociale va ricercata tra i fatti sociali antecedenti», e non già tra gli stati 
della coscienza individuale o in altri elementi di diversa natura ( ). Sono, queste, 4

parole con cui non potrei essere in disaccordo più radicale. Pur riconoscendo che 
nella maggior parte dei casi i fatti sociali dipendono, almeno in prima istanza, da 
altri fatti sociali, e non da fatti biologici o psicologici, ritengo infatti che la ricerca 
scientifica debba essere libera da ogni vincolo metodologico di questo tipo, per 
potersi muovere al di fuori di ogni restrizione aprioristica, dettata da preconcetti o 
pregiudizi disciplinari.
La storia della sociologia dimostra anche,  ad abundantiam,  quanto sia facile 
passare da un atteggiamento riduzionistico al relativo «imperialismo». Mi limito a 
ricordare qui come lo stesso Comte, che di questa disciplina suol essere ancora 
scolasticamente  indicato  come  il  «fondatore»,  pur  avendone  inventato  in  realtà 
soltanto il nome, abbia prospettato la  sociologia come  la scienza  n+1  dedita al 
campo comune delle n scienze. Orbene, anche se il nome di Comte non è più, da 
tempo, fra quelli di moda fra i sociologi, la stessa convinzione traspare ancora 
dall’atteggiamento   di   molti   di   loro,   che,   ritenendosi   «specialisti   del   generale», 

2()DURKHEIM 1893.

3() DURKHEIM 1895 (trad. it. p. 94).

4() DURKHEIM  1895 (trad. ital. p. 106). In questo testo gli specifici riferimenti sono per lo più alla 
psicologia (si veda in particolare p. 103). Con riferimento alla biologia si veda già  DURKHEIM  1888 
(trad. ital. pp. 101­102).

2
come si è detto con una pungente espressione già molti anni fa ( ) e si è ripetuto di 
5

recente senza alcuna ironia ( ), tendono a divenire sin troppo spesso dei mediocri 
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«tuttologi»,   che   giocano   nella   società   un   ruolo   assai   più   ideologico   che   non 
scientifico.
Se   ciò   accade   fra   i  sociologi,   cioè   fra   studiosi   che  per   formazione   e   abito 
professionale   dovrebbero  essere  ben  avvertiti  di   questo   rischio,   non   ci   si   può 
stupire   che   ciò   sia   avvenuto,   e   avvenga,   anche   fra   i   cultori   delle   discipline 
naturalistiche. Così, per ricordare un caso esemplare, che suscitò a suo tempo un 
sin   troppo   esacerbato   dibattito,   Edward   O.   Wilson,   un   biologo   allora 
manifestamente digiuno di epistemologia, storia della scienza e sociologia della 
conoscenza,  nel compiaciuto  tentativo di «far della sociobiologia una specifica 
disciplina» in grado di «cannibalizzare» tutte le altre  ( ), ha compiuto lo stesso 
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errore,   cadendo   in   un  riduzionismo   ancora   più   rozzo  e   in   un   imperialismo 


disciplinare   ancora   più  smaccato.   In  verità   questo  studioso,   che   si   era   in 
precedenza segnalato come un serio e meticoloso osservatore delle società degli 
insetti ( ), ha preteso di trasformare la sociobiologia in una «nuova sintesi», pur 
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dimostrandosi da parte sua, almeno nei  suoi primi  scritti in argomento, del  tutto 


disinformato del dibattito da tempo in corso sulle frontiere fra biologico e sociale, 
naturale e culturale, genetico e ambientale (per dirla con dicotomie tutte peraltro 
largamente   insoddisfacenti)   e,   più   in   generale,   sulla   sfida   che   per   ogni   serio 
studioso   rappresenta   il   grande   sviluppo   delle   conoscenze   in   ambiti   che 
direttamente   non   controlla.   Ma   di   ciò   ho   già   avuto   occasione   di   scrivere 
ampiamente a suo tempo ( ) e non mi ripeterò qui.
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3. L’intuizione di Marx: una scienza unitaria dell’uomo e della natura

Il vero problema, in realtà, è quello non già di fondare una nuova disciplina 
riduzionistica,   dalle   più   o   meno   marcate  pretese  imperialistiche,   bensì  di 
sviluppare, a partire dal gran cumulo di conoscenze di recente acquisizione nei 
diversi campi di ricerca, una nuova scienza unitaria dell’uomo e della società, in 
grado   di   superare   sia   il   tendenziale   riduzionismo   delle   scienze   naturali,   sia   i 
persistenti   limiti  idealistici  delle  tradizionali   scienze  umane   (tuttora   per   lo   più 
affette  da quell’«umanesimo retrogrado» contro cui  si pronunciò a suo tempo  lo 
stesso Braudel) ( ). 10

5() CAVALLI 1972, p. 159.

6() In una delle relazioni introduttive al convegno nazionale dell’Associazione italiana di sociologia 
su «Le professioni sociologiche dall’Università alla società» (Milano, 24­25 novembre 2000).
7() WILSON 1977, p. 22.

8() WILSON 1971.

9() MELOTTI 1979a, 1981, 1982a.

10() Ha scritto  l’eminente studioso francese:  «Una crisi generale travaglia le scienze dell’uomo, 


sopraffatte dai loro stessi progressi, se non altro a causa dell’accumularsi di nuove conoscenze e dalla 
necessità di un lavoro collettivo, la cui organizzazione razionale è ancora da costruire. Direttamente o 

3
Non mi sembra pertanto fuori luogo richiamare l’intuizione del giovane Marx, 
che non solo formulò, forse per primo, l’esigenza di tale scienza unitaria, ma ne 
preconizzò  altresì  il  necessario  sviluppo.   «La   storia   dell’uomo»,   scrisse   con 
icastiche parole, «è una parte reale della storia della natura, della trasformazione 
in   uomo   della   natura.   Le   scienze   naturali  integreranno   quelle   dell’uomo,   così 
come le scienze dell’uomo  integreranno quelle della natura, e vi sarà un’unica 
scienza» ( ). 11

Per Marx tale scienza s’identificava ancora con la storia. Una storia, però, che 
nulla aveva a che vedere per lui  con quella invocata dai filosofi idealisti del suo 
tempo,   né   con  quella   che   i   feticisti   del   «documento   scritto»   avevano 
arbitrariamente   ridotto   a   ricostruzione   delle   vicende   politiche   e   belliche   delle 
cosiddette «civiltà». Una storia, per contro, vista come il luogo del nostro divenire 
biologico, psicologico, economico, sociale e culturale e che – lungi dall’arrestarsi 
sulla soglia della fatal mezzanotte dell’invenzione della scrittura – doveva risalire 
quanto più addietro nel tempo, sino alle nostre sorgenti ancestrali, sino alle stesse 
radici del nostro «essere sociale», ineliminabile presupposto di ogni «coscienza» 
( ).
12

Com’è ben noto, il duplice rapporto  – storicamente determinato e variabile, 
anche in relazione alle situazioni ambientali – fra gli uomini stessi, da un lato, e 
fra gli uomini e il resto della natura, dall’altro, definisce il «modo di produzione»: 
il concetto chiave che consentì a Marx di proporre un’interpretazione radicalmente 
nuova   del   processo   di  sviluppo  delle   società   umane,   a   partire   dalla   stessa 
differenziazione   dell’uomo   dagli   altri   animali.   La   produzione   dei   mezzi   di 
sussistenza, «un progresso che è condizionato dall’organizzazione fisica», segna 
infatti per lui l’inizio del processo di ominazione ed è al tempo stesso «la prima 
azione storica», anzi «la condizione fondamentale di ogni storia, che oggi, come 
millenni addietro, dev’essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per 
mantenere gli uomini in vita» ( ). Più in generale, lo stesso movimento storico, 
13

che vede il succedersi di formazioni sociali diverse, è per Marx, innanzi tutto, un 
«processo di storia naturale» ( ). Proprio per questo la storia umana, al di là della 
14

sua  irriducibile specificità, fa  sempre parte per Marx della storia della natura e 


non può essere trattata scientificamente senza riferimento ad essa.
Analizzando   le   forme   di   organizzazione   sociale,   Marx   richiama   spesso 
l’influenza delle condizioni climatiche, geografiche, fisiche, etc., e delle stesse 
indirettamente, tutte, lo vogliano o no, partecipano dei progressi dei rami più vivaci, eppure restano 
alle   prese  con   un   umanesimo   retrogrado   e  insidioso   che   non   basta  più   a  inquadrarle.   Tutte,  con 
maggiore o minore lucidità, sono alla ricerca della loro collocazione nell’enorme insieme di ricerche 
vecchie e nuove, di cui oggi si comincia a vedere la necessaria convergenza» (BRAUDEL 1958a: 725).
11() MARX 1844 (trad. it. 1963, p. 233).

12() MARX ­ ENGELS 1845, p. 98 (trad. it. p. 103); MARX ­ ENGELS 1845­46, p. 27, 29 (trad. it. pp. 13, 
19). Data la ben nota difformità d’impaginazione delle varie edizioni di questo testo, segnalo che tutte 
le citazioni della traduzione italiana dell’Ideologia tedesca sono tratte dall’edizione pubblicata dagli 
Editori Riuniti nel 1969).
13() MARX ­ ENGELS 1845­46, p. 28 (trad. it. p. 27).

14() MARX 1867, prefazione alla 1ª ed., p. 8 (trad. it. p. 34).

4
«disposizioni   naturali»   delle   diverse   popolazioni.   Quest’influenza   –   egli   lo 
sottolinea   espressamente   –   è   tanto   maggiore   quanto   più   basso   è   il   livello   di 
sviluppo delle forze produttive. Ciò emerge con forza dalla sua trattazione delle 
diverse forme di dissolvimento della comunità primitiva, dell’emergere di varie 
comunità   secondarie   e   della   formazione,   in   particolari   contesti,   del  modo   di 
produzione asiatico ( ). Il suo accento, peraltro, anche in questi passi, cade sempre 
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assai   più   sui   rapporti   di   produzione   che   non   sulla   natura  esterna   e   interna 
all’uomo.   La  «struttura»   della  società  –   cioè,   nella  sua   pregnante   metafora,  la 
«base reale» sulla quale si erge tutto il complesso delle sovrastrutture sociali e alla 
quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale ( ) – non è infatti 16

costituita   per   lui   da   un   dato  naturale   (né,   tanto   meno,   da   un   dato   meramente 
biologico), ma dall’insieme dei rapporti di produzione in presenza. Quel che più 
importa, insomma, non è già ciò che l’uomo  è, ma ciò che l’uomo  fa  (benché il 
suo «fare» dipenda ovviamente anche  dal suo  «essere»). «La storia», infatti, per 
Marx   «altro   non   è   che   l’attività   dell’uomo   che   persegue   i   suoi   fini»   ( )   e  il 
17

rapporto fra uomo e natura risulta sempre mediato da tale sua attività. «La priorità 
della natura esterna rimane ferma», ma «da quando esistono gli uomini, storia 
naturale e storia umana si condizionano reciprocamente». Non  è dunque lecito 
trattarne «come se fossero  due ‘cose’ separate e l’uomo  non avesse sempre di 
fronte a sé una natura storica e una storia naturale» ( ). 18

Questa   concezione,   pur   così   moderna   e   «terrena»,   non   è   peraltro   scevra   di 
suggestioni romantiche. Non raramente negli stessi testi che gettano le basi del 
materialismo storico (e non  solo nelle opere  più giovanili, notoriamente pervase 
da influenze hegeliane) emergono spunti «prometeici» e accenti «faustiani», che 
aprono la strada  all’involuzione  idealistica di quegli  epigoni  che sono  giunti  a 
formulare   la   mitica   concezione   di   un   uomo   che   tutto   può,   perché   privo,   a 
differenza di ogni altro essere vivente, di limiti naturali.
Da   parte   sua,   Marx   sottolineò   sempre   con   forza,   contro   ogni   tentazione 
idealistica vecchia e nuova, che «il primo presupposto di tutta la storia umana è 
l’esistenza   d’individui   umani   viventi»   e   che   «il   primo   dato   da   rilevare   è 
l’organizzazione fisica di questi individui» ( ). Peraltro egli  non sviluppò molto 
19

quest’aspetto  del  suo pensiero, e ciò  non fu forse  un male, dato lo stato delle 


conoscenze  scientifiche del suo  tempo,  specie  per ciò che concerne proprio  la 
biologia (basti qui ricordare il terribile  coacervo rappresentato  dalla  Dialettica  
della natura  di Engels, che pure era stato coautore con Marx di molti dei passi 
sopra   citati   e   ha   lasciato   anche   in   quest’opera   per  troppi  aspetti   infelice   una 
testimonianza del suo ingegno, con intuizioni che anticipano di parecchi decenni 
molte  importanti  scoperte   della   paleoantropologia,   dell’etologia   e   della 
primatologia). Eppure lo scarso interesse di Marx per gli aspetti più propriamente 
15() MARX 1857­58 (su cui si veda MELOTTI 1971).

16() MARX 1859, pp. 8­9 (trad. it. p. 5).

17() MARX ­ ENGELS 1845, p. 98 (trad. it. p. 103).

18() MARX ­ ENGELS 1845­46, p. 26 (trad. it. p. 16).

19() MARX ­ ENGELS 1845­46, p. 20 (trad. it. p. 8). 

5
biologici   e   la   netta   insufficienza   dell’approccio   di   Engels   alle   problematiche 
naturali   hanno   lasciato  nel  marxismo   un   vuoto  teorico   che  i   loro   epigoni   non 
hanno saputo colmare.

4. L’involuzione del marxismo: il Diamat e il marxismo idealistico

Non è il caso di ripercorrere qui a passo a passo la storia dei successivi sviluppi 
del rapporto fra il marxismo e le scienze. Balza agli occhi, peraltro, non solo il 
«ritardo di elaborazione» già da altri rilevato ( ), ma l’arretramento complessivo 
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rispetto alle stesse posizioni di Marx. 
Questo netto regresso è già evidente in Lenin. Questi in effetti oscilla fra una 
vieta   gnoseologia   realistica,   con   concessioni   non   secondarie   al   meccanicismo 
settecentesco, come in Materialismo ed empiriocriticismo (1909) e poi ancora in 
alcuni  scritti   del   tempo   della  NEP  (la   nuova   politica   economica   del   periodo 
immediatamente   post­rivoluzionario),   e   un’accentuazione   eccessiva,   di   sapore 
quasi idealistico, del carattere attivo del rapporto dell’uomo con la natura e del 
motivo della prassi trasformatrice, come nei  Quaderni filosofici  (1914­15), ove è 
diretta la suggestione hegeliana.
Questi   due   opposti   limiti   emergono   anche   nei   marxisti   delle   generazioni 
successive,   sino   a   caratterizzare   due   tendenze   principali:   quella   del   marxismo 
sovietico, che riprende e canonizza le posizioni dell’ultimo Engels, dando corpo al 
Diamat, e quella, più varia, del marxismo occidentale, che, in quasi tutte le sue 
principali correnti, subisce l’influenza dell’idealismo di fondo delle elaborazioni 
prevalenti nei diversi contesti nazionali ( ). 21

Criticare ancora una volta il  Diamat  sarebbe oggi come pugnalare un uomo 


morto.   Diremo   solo   che   questa   incredibile   costruzione  dottrinaria,   a  lungo 
contrabbandata   come   ortodossa   espressione   del   marxismo,   ha   rappresentato   in 
realtà un ritorno a posizioni che non potrebbero essere più lontane da quelle di 
Marx.   Si   tratta   in   effetti   di   una   forma   di   idealismo   metafisico   oggettivo   che, 
presupponendo un mondo governato da leggi universali immutabili, si è posta in 
irriducibile contrasto con le scienze moderne, di cui è stata costretta a ignorare o 
contestare grottescamente le acquisizioni (come nell’esemplare caso Lysenko). 
Più in generale, il marxismo ufficiale dei Paesi dell’Est ha portato agli estremi 
l’ambiguità di fondo del «marxismo volgare» e la sua «doppia verità». Al rozzo 
materialismo meccanicista dei «libri scientifici» e di molti testi divulgativi, si è 
accompagnato   nei   lavori   con   pretese   più   propriamente   «ideologiche»   un 
economicismo grossolano,  caratterizzato da  un pregiudiziale rifiuto non solo di 
ogni   considerazione   di   ordine   biologico,   ma   della   psicoanalisi   e   delle   stesse 
scienze   sociali   (sociologia,   psicologia   sociale,   antropologia   culturale,   etc.), 
genericamente accusate di «fondare concetti e categorie che predispongono a un 

20() BARACCA ­ ROSSI 1976, pp. 13 e 17.

21() ANDERSON 1976.

6
atteggiamento   direttamente   o   indirettamente   apologetico   verso   il   capitalismo 
contemporaneo» ( ). 22

In Occidente invece il marxismo si è sviluppato sotto un segno ben diverso: 
quella contrapposizione fra storia e natura, tipica del pensiero «borghese» d’inizio 
secolo, che portò a un radicale divorzio fra le «scienze dello spirito» e le «scienze 
della   natura»,   col  conseguente   cristallizzarsi   di   «due   culture»   senza   quasi 
comunicazione reciproca ( ). Così le scienze sociali, percepite come un’ambigua 
23

«terza cultura»  ( ), hanno finito per essere relegate in un difficile e spiacevole 
24

ruolo, spesso poco chiaro ai loro stessi cultori.
In   Italia,   in   particolare,   una   versione  lato  sensu  idealistica  del   marxismo   si 
afferma con le elaborazioni di Gramsci, che, nel suo confronto con Croce, subisce 
l’influenza di quest’ultimo, cui si deve una delle più dure negazioni dello stesso 
carattere   conoscitivo   delle   scienze.   Ciò   ha   dato  vita   a   una   peculiare   forma   di 
marxismo retorico­letterario, congruente sia con il ritardo culturale di un Paese 
ancora  per molti aspetti  arretrato, sia con la cultura idealistica  della stragrande 
maggioranza degli intellettuali di sinistra.
Negli altri Paesi europei le premesse del marxismo idealistico risalgono alle 
elaborazioni dei marxisti hegeliani degli anni ’20 (Lukács e, più ancora, Korsch), 
alle   posizioni   della   Scuola   di   Francoforte   e   all’ultimo   Sartre,   cui   si   deve,   fra 
l’altro,  la stolida  asserzione del carattere «unicamente borghese» della scienza, 
che purtroppo ha fatto scuola, e non solo nei caffè di St­Germain.
Al   di   là   delle   differenze   anche   notevoli   fra   le   diverse   scuole,   ciò   che  più 
colpisce   nel  marxismo   occidentale   è   la   diffusa   preoccupazione   di   difendersi 
dall’accusa   di   materialismo.   Ha   scritto   efficacemente  in   tal   senso   Sebastiano 
Timpanaro: «Marxisti gramsciani e togliattiani, marxisti hegeliano­esistenzialisti, 
marxisti   neopositivisteggianti,   freudianeggianti,  strutturaleggianti,  pur   nei 
profondi dissensi che li dividono, sono concordi nel respingere ogni sospetto di 
collusione col materialismo ‘volgare’ o ‘meccanico’; e lo fanno con tanto zelo da 
buttar via, insieme alla volgarità o meccanicità, il materialismo tout court» ( ). 25

Gli esiti di una siffatta posizione teorica possono essere toccati con mano. Mi 
limiterò a ricordare qui, per l’Italia, la tendenza di molti marxisti ad appagarsi di 
frasi   fatte   sull’«onnipotenza   della   prassi»,   che,   sotto   l’enfasi   apparentemente 
«rivoluzionaria»,  contrabbandano  la  vecchia concezione idealistica  di un uomo 
privo di naturalità e intessuto soltanto di cultura e di storia ( ). 26

In   realtà,   la   polemica   storicista   contro   «l’uomo   in   generale»,   che   ha 


caratterizzato  tanta  parte  del  marxismo  italiano,  è sacrosanta,  finché si  rivolge 

22() ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL’URSS 1958.

23() SNOW 1959.

24() LEPENIES 1985.

25() TIMPANARO 1970; 2ª ed. p. 1.

26() Tale tendenza era talmente spinta da meritare una stigmatizzazione persino in una relazione a 
un  prudente convegno su «Uomo, natura e società» organizzato nel 1972 dall’Istituto Gramsci (cfr. 
ALOISI 1974). Posizioni del genere sono tuttora dominanti nel pur ridimensionato marxismo italiano e 
continuano a influenzare pesantemente la sociologia italiana anche d’indiretta ispirazione marxista.

7
contro   tutte   quelle   concezioni   che   ipostatizzano   a   dato   naturale   immutabile   le 
forme   storiche   dell’organizzazione   sociale   (divisione   gerarchica   del   lavoro, 
famiglia, classi, proprietà privata, Stato), ma diventa irrazionale, se trascorre nella 
negazione idealistica di ciò che Marx stesso ebbe a definire, come abbiamo  già 
visto,   «il   primo   dato   da   rilevare»:   l’organizzazione   fisica   degli   uomini   e   il 
rapporto che  ne consegue  tra loro e il resto della natura. «L’uomo come essere 
biologico,  dotato  di una certa (non  illimitata)  adattabilità  all’ambiente esterno, 
dotato di certi impulsi all’attività e al raggiungimento della felicità, soggetto a 
vecchiezza e a morte»,  ha  scritto  ancora in  proposito  il lucido  osservatore già 
sopra citato, «non è una costruzione astratta e non è nemmeno un nostro antenato 
preistorico, una specie di pitecantropo ormai superato dall’uomo storico­sociale, 
ma esiste tuttora, in ciascuno di noi, e probabilmente esisterà anche in futuro» ( ). 27

Peraltro anche nel marxismo italiano non sono mancate delle voci più critiche, 
ancorché   minoritarie  ( ).  Basti   qui   citare   quanto   ha   scritto   a   proposito 
28

dell’etologia uno dei più autorevoli dissenzienti: «Il marxismo dovrebbe avere per 
una lettura critica di questa scienza lo stesso interesse che Marx ed Engels ebbero 
per   la   teoria   evoluzionistica   di   Darwin   [...].   L’atteggiamento   dei   marxisti   nei 
riguardi degli sviluppi della scienza non dovrebbe essere quello di una critica solo 
ideologica   e   dall’esterno,   ma   quello   di   entrare   nel   merito,   sia   per   additare   le 
conseguenze negative derivanti sul piano scientifico da certi assunti ideologici ed 
epistemologici, e quindi per contrastarne più efficacemente le interpretazioni e le 
applicazioni di tipo reazionario, sia per appropriarsi delle nuove teorie e dei nuovi 
risultati, dato che per il marxismo la scienza non è riducibile a mera ideologia» 
( ).
29

5. L’altro versante. Il biologismo dell’ideologia borghese: socialdarwinismo, 
etologia, sociobiologia

Alla   prevalente   diffidenza   degli   ambienti   marxisti   per   l’etologia   e   la 


sociobiologia si è contrapposto il ritorno di un rozzo  accostamento  biologistico 
nell’ideologia borghese. Ciò è avvenuto prima in Germania e in Inghilterra con 
l’etologia, poi negli Stati Uniti e in Francia con la sociobiologia. In quest’ultimo 
Paese, anzi, la sociobiologia è diventata da tempo uno dei cavalli di battaglia della 
«nuova destra», che non ha mancato di cogliere l’occasione per adornare di orpelli 
«scientifici» i  propri  radicati  pregiudizi. Anche in Italia è accaduto qualcosa del 
genere,  anche  se  in  tono  minore,  dato  il  già  ricordato  prevalente  orientamento 
retorico­letterario della cultura del Paese ( ). 30

27() TIMPANARO 1970; 2ª ed. pp. 21­22.

28() Fra quelle più apprezzabili, anche per la data in cui sono state formulate, ricordo CONTI 1971, 
ALOISI 1972, 1978, MISITI 1973, BERLINGUER 1978.
29() MISITI 1973, p. 3.

30() Fra gli autori italiani va peraltro segnalato il caso  di Gianfranco  Miglio, già preside della 


Facoltà   di   Scienze   politiche   dell’Università   Cattolica   di   Milano   e   poi   senatore   della   Lega  Nord. 

8
Sin   dalle   sue   origini   l’ideologia   borghese   ha   utilizzato   la   biologia   per 
naturalizzare   i   rapporti   sociali,   cioè   per   destoricizzarli   e   presentarli   come 
tendenzialmente «immutabili», se non eterni. Basterebbe ricordare in proposito la 
vicenda   esemplare   del   socialdarwinismo,  che   fu,   fra   ’800   e   ’900,   una   delle 
correnti dominanti nell’ambito delle scienze sociali. Quell’uso del darwinismo fu 
l’esatto contrario di quello di Marx e di Engels, che vi videro non già lo strumento 
per un maldestro tentativo di naturalizzare la società, bensì la dimostrazione della 
storicità della stessa natura ( ). 31

Eppure non si può proprio dire che il socialdarwinismo abbia costituito un vero 
rovesciamento delle posizioni di Darwin, perché già in questi ne compaiono non 
pochi assunti, tra le righe e talora anche esplicitamente, come espressione dei suoi 
limiti   «borghesi».   Ma   ciò   che   in   Darwin   resta,   tutto   sommato,   un   marginale 
cedimento,   che  non   ne   infirma   lo   straordinario   apporto   scientifico,   nel 
socialdarwinismo diventa l’elemento fondante di una costruzione prevalentemente 
ideologica ( ). 32

Il problema da discutere qui è se  la componente ideologica  sia predominante 


anche  nell’etologia  moderna  e  nella sociobiologia  o,  comunque, ne  infici  ogni 
valore scientifico. Io credo di no, per i motivi che ho già da tempo estesamente 
spiegato ( ),  e penso pertanto che l’etichetta di «nuovo socialdarwinismo» loro 
33

polemicamente  applicata  da  alcuni  studiosi  ( )  sia decisamente   fuorviante.  Ma 


34

proprio per questo è indispensabile sceverare il grano dal loglio, per evitare i due 
opposti rischi di prender per buono ciò che buono non è e di buttar via il bambino 
con l’acqua sporca, che pure nel caso specifico non è poca. In ogni caso gioverà 
ricordare che, come diceva Gramsci, anche se la scienza non si presenta mai come 
nuda   elaborazione   obiettiva,   ma   appare   sempre   rivestita   da   un’ideologia,  «un 
gruppo sociale può appropriarsi della scienza di un altro gruppo, senza accettarne 
l’ideologia» ( ). 35

Troppi etologi e troppi zoologi, seguiti in qualche caso anche dagli antropologi 
biosociali   e   dai   sociobiologi,   hanno   ceduto   alla   suggestione   di   un   fuorviante 
riduzionismo biologistico, che li ha indotti a formulare teorie grottesche e banali, 
ma non per questo meno  pericolose,  basate su  un uso scorretto dei documenti 

Miglio  ha fatto  tradurre,  in una collana  dell’editore Giuffrè,  da lui diretta,  le principali  opere di 


Robert   Ardrey,   un  brillante  divulgatore   scientifico   statunitense   dagli   orientamenti   schiettamente 
reazionari. Peraltro la più nota opera di Ardrey (la peggiore, per le sue implicazioni etico­politiche) 
era già stata tradotta da un editore italiano ostentatamente di sinistra come Feltrinelli. 
31() Cfr., in particolare, ENGELS 1859.

32() Ciò non vuol dire, naturalmente, che il socialdarwinismo non abbia dato anche importanti 
contributi scientifici (cito, in particolare, le elaborazioni di Sumner) e che nel suo ambito non si 
ritrovino   anche   posizioni  etico­politiche   ben   diverse   da   quelle   predominanti   (basti   citare   quelle 
dell’anarchico Kropotkin, fautore dell’importanza evolutiva dell’aiuto reciproco e della solidarietà).
33() Si veda, in particolare, MELOTTI 1979a, 1981, 1982a, 1982c, 1983. 

34() Si veda, in particolare, BIGNAMI et al. 1977.

35()  ANTONIO  GRAMSCI,  1971,  p.   66   (il   passo,   intitolato   dai   curatori   «La   scienza   e   le   ideologie 
‘scientifiche’», è tratto dai Quaderni del carcere, scritti tra il 1929 e il 1935, e più specificamente dal 
18° quaderno).

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disponibili sul mondo animale. Basti dire che molti di loro, per questa via, sono 
giunti a predicare l’insopprimibilità della violenza, attribuita a una non meglio 
precisata   aggressività   naturale   dell’uomo,   a   sua   volta   semplicisticamente 
presentata come un istinto incoercibile, ereditato da una natura feroce e grondante 
di sangue; l’ineliminabilità della guerra, senza della quale, secondo le parole di 
Ardrey, «l’Homo sapiens  finirebbe sulla soglia oscura dalla quale raramente  una 
specie fa ritorno»; l’inevitabilità della divisione degli uomini in ruoli di comando 
e   di   ubbidienza   o   addirittura   in   classi   sociali   diverse,   dal   momento   che   «la 
tendenza   a   costituire   gerarchie   dipenderebbe   da   istinti   animali   del   pari 
caratteristici   del   babbuino,   della   taccola,   del   pesce   persico   e   dell’uomo»;   la 
«naturalità» della distinzione dei popoli in stati e nazioni e dei relativi sentimenti 
(campanilismo,   patriottismo,   nazionalismo,   etc.),   dato   che   le   loro   radici 
«affonderebbero saldamente nella territorialità sociale di quasi tutti i primati con 
noi imparentati»; il «carattere biologico» o comunque «naturale» della condizione 
d’inferiorità della donna,  rilevabile in moltissime società  umane; e,  last but  not  
least, l’impossibilità di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione (di cui 
ignorano o dimenticano l’origine storica estremamente recente, almeno sul metro 
dei processi evolutivi), dal momento che «la tendenza umana al possesso» sarebbe 
«la semplice espressione di un istinto animale molte centinaia di volte più antico 
della specie umana» ( ). 36

Se affermazioni di tal fatta si ritrovassero soltanto in divulgatori di bassa lega, 
non   varrebbe  neppure  la  pena  di  dar  loro  una  risposta.  Poiché,  però,  analoghi 
spunti   abbondano   anche   negli   scritti   degli   etologi   e   dei   sociobiologi   più 
qualificati, gioverà chiarire espressamente l’errore metodologico e la distorsione 
ideologica che sottendono a simili assunti.
In questa letteratura, assai insidiosa per il suo aspetto «scientifico», l’uomo è 
trattato   solo   per   la   sua   pretesa   e   non   meglio   specificata   «natura»,   in   una 
prospettiva che lo riduce più o meno consapevolmente a un «semplice fenomeno 
biologico»,   come   ha   scritto   uno   dei  suoi   primi   e   più   noti   esponenti  ( ),  37

dimenticandone   le   altre   dimensioni,   pur   valorizzate   dalla   sua   attuale 


organizzazione, in cui, per  dirla con  Marx, «prevale l’elemento sociale, prodotto 
storicamente» ( ). 38

Corrispettivamente i problemi delle società umane sono impostati in termini di 
mera   espressione   istintuale,   prescindendo   dagli   elementi   strutturali   e 
sovrastrutturali   di  diverso   ordine   (il   rapporto  storicamente   condizionato   con  la 
natura,   le   relazioni   economico­sociali,   le   componenti   psicologiche   e   culturali, 
etc.),  nel quadro di una  generale  tendenza  a sostituire l’analisi delle  situazioni 
effettive  con   azzardate   analogie   coi   comportamenti   sociali   degli   animali   delle 
specie più diverse. Così, ad esempio, anche uno studioso per altri versi attento e 
sensibile   come   Lorenz,   che   ha   dedicato   una   vita   a   individuare   con   pazienza 
certosina gli affascinanti meccanismi della vita sociale di molte specie animali, 
36() Per queste citazioni si veda ARDREY 1961; cfr. anche CARRIGHAR 1965.

37() MORRIS, 1967.

38() MARX 1857, p. 637; trad. it. p. 195.

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non   esita   a   chiudere   parecchi   suoi   libri   con   considerazioni   di   disarmante 
superficialità   sulle   società   umane,   che   richiederebbero   almeno   altrettanta 
attenzione.
In   verità  Lorenz,  così   come  molti  altri   etologi   e  sociobiologi,   dimostra  una 
conoscenza men che mediocre delle società umane, che non ha mai fatto oggetto 
di   osservazione   sistematica,   né   ha   studiato   in   modo   adeguato   attraverso   la 
letteratura.  Non sorprende,  pertanto, che  discettando  su   di  loro  grazie  alle sue 
conoscenze delle taccole, delle anatre e dei cani o, al più, dei rapporti intercorrenti 
fra qualche sua parente e le donne di servizio o fra i docenti universitari (che pure 
sono una bella fauna), sia incorso in clamorosi infortuni. Così, ad esempio, nella 
conclusione del suo famoso libro sull’aggressività, formulando «alla maniera degli 
antichi saggi greci» i suoi consigli pratici per scongiurare i pericoli della guerra, 
suggerisce di «sfogare l’aggressività su oggetti sostitutivi», di rilassare la pulsione 
relativa   con   la   «sublimazione»,   di   sviluppare   forme   ritualizzate   di   lotta   e   di 
competizione sociale, come lo sport e le gare spaziali, di incrementare il numero 
delle   identificazioni   attraverso   un   aumento   della   cultura   della   gioventù   e   di 
affratellare i partiti e le nazioni attraverso l’arte, che pertanto dovrebbe «restare al 
di fuori  della politica»,  e la scienza,  che, come quella, «rappresenta  un valore 
indiscutibile» ( ). Come si vede, questo studioso che ha saputo studiare con tanta 
39

cura le società animali, riesce a trattare il problema della pace e della guerra senza 
dire   una   sola   parola   sullo   sfruttamento,   sui   rapporti   fra   le   classi   sociali,   sulle 
sperequazioni   esistenti   all’interno   del   sistema   internazionale,   ove   una   piccola 
parte della popolazione del mondo controlla le risorse, i capitali e le conoscenze 
scientifiche e tecniche, condannando ogni anno allo sterminio per fame, con le sue 
scelte, molte decine di milioni di uomini ( ). 40

Allo stesso modo Wilson, che ha studiato con esemplare impegno le società 
degli   insetti   e   che,   per   scrivere   la   sua   monumentale  Sociobiologia  (1975),   ha 
vagliato per anni la sterminata letteratura esistente sulla vita sociale degli animali, 
nell’ultimo capitolo di quel libro, espressamente dedicato all’uomo, così come nel 
suo successivo saggio  Sulla natura umana  (1978),  si è lasciato andare a sonore 
asserzioni   che   dimostrano   tutta   la   sovrana   superficialità   con   la   quale   egli   ha 
ritenuto di poter trattare la pur complessa problematica delle società umane. Non 
farò degli esempi, per brevità. Ma non posso non ricordare come quasi tutte le sue 
osservazioni   in   tema   di   sessualità   umana,   territorialismo,   tendenza   a   costituire 
gerarchie,   diversificazione   delle   culture,   origini   e   sviluppi   delle   più   disparate 
espressioni   della  vita   sociale   (linguaggio,   morale,  religione,   arte,   musica,   etc.) 
lascino l’impressione complessiva dell’occasionalità e della banalità. L’approccio, 
se non è caotico, è dilettantesco. È francamente penoso veder scoprire a quasi 
cent’anni dalla morte di Marx, tanto per dirne una, che esistono le classi sociali, 
che   esse   sono   in   «competizione»   e   che   i   loro   scontri   costituiscono  un  fattore 
importante del mutamento sociale ( ). 41

39() LORENZ 1963.

40() MELOTTI, 1966.

41() WILSON, 1975.

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Come giudicare tutto ciò? Certo nel caso di Wilson, così come in quello di 
Lorenz e di tanti altri etologi e sociobiologi, opera la deformazione professionale 
dello specialista. Vi è, però, anche qualche cosa di più: l’alienazione del lavoro 
scientifico   nell’attuale   società,   che   impedisce,   o   per   lo   meno   ostacola,   un 
approccio metodologicamente corretto, oltre che umano, ai problemi dell’uomo 
( ).
42

L’insensibilità per le complesse mediazioni sociali, psicologiche e culturali che 
caratterizzano il comportamento umano esprime d’altra parte la tendenza, comune 
a tutta l’ideologia borghese, a naturalizzare i rapporti sociali, per presentare la 
società esistente non già per quello che è (una formazione storica, fondata, al pari 
di tutte le altre, su rapporti di produzione transitori, destinati a cedere il passo, 
prima   o   poi,   a   una   diversa   organizzazione   delle   relazioni   sociali),   ma   come 
l’espressione  di tendenze  naturali immutabili, perché radicate  in   situazioni  che 
trascendono la stessa condizione umana. La funzione ideologica di una siffatta 
rappresentazione è ben chiara. Dietro l’atteggiamento di superiore saggezza di chi 
sentenzia   scetticamente   sull’impossibilità   di   modificare   il   destino   dell’uomo, 
segnato una volta per tutte da un «dato» genetico che rappresenta il portato di 
cento milioni di anni di evoluzione del suo ordine zoologico, si nasconde molto 
spesso   una   ben   miserabile   realtà:   il   filisteismo   del   piccolo­borghese,   incapace 
persino  d’immaginare   un’organizzazione  sociale   diversa   da   quella   in   cui   si   è 
ritagliato,   al   prezzo   della   rinuncia   a   una   più   compiuta   realizzazione   delle   sue 
potenzialità umane, la sua nicchia ecologica.
A queste teorie non si può rispondere, come hanno fatto per decenni i marxisti 
idealisti, col facile, ma generico assunto delle enormi differenze esistenti fra gli 
uomini   e   gli   altri   animali.   In   realtà   una   corretta   risposta   presuppone   una 
concezione non riduttiva (né in senso biologistico, né in senso idealistico) dello 
sviluppo storico, che è un processo a un tempo naturale e sociale.
Questi due aspetti, in inscindibile dialettica, configurano in realtà per l’uomo 
l’esigenza sia di un progressivo affrancamento (per quanto possibile) dai limiti che 
gli derivano dalle sue origini animali, sia di un’emancipazione dai vincoli posti 
dal   livello  di   sviluppo   delle   forze   produttive   e   dal   carattere   dei   rapporti   di 
produzione e delle relazioni sociali in presenza. La liberazione dell’uomo nella 
storia non è infatti un processo a quo, che parta da un’«essenza umana» già data 
ab   aeterno,  come   sembrano   ritenere   gli   idealisti   di   ogni   stampo,   propensi   a 
credere per questo (come diceva il Croce sulle orme del Vico) che la storia, al di là 
delle sue «traversie», sia sempre, per definizione, «storia della libertà». Essa è 
invece, come dovremmo  avere ormai  capito, un processo  ad quem,  conflittuale, 
dialettico, contraddittorio e certo non garantito nei suoi esiti.

6. Verso   una   scienze   unitaria   dell’uomo   e   della   società:   un   orientamento 


transdisciplinare e dialettico

42() Cfr. DI SIENA 1969.

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Ciò premesso, si può meglio intendere la proposta di una nuova scienza unitaria 
dell’uomo   e   della   società:   una   scienza   che   integri   e   superi   a   un   tempo   le 
tradizionali scienze umane e sociali (sociologia, psicologia, antropologia culturale, 
etc.)   e   le   scienze   «naturali»   affermatesi   nel   corso   degli   ultimi   decenni 
(antropologia   fisica,   paleoantropologia,   ecologia,   paleoecologia,   primatologia, 
etologia,   sociobiologia).  Questo   è   infatti   il   solo   modo   per   poter  utilizzare 
correttamente l’immenso patrimonio di nuove conoscenze presente in tutti questi 
campi. 
Mi limito a qualche esempio. Per quanto concerne la paleoantropologia, ricordo 
le grandi scoperte fossili dell’Africa orientale, legate al nome dei Leakey e di altri 
studiosi, che hanno permesso di retrodatare di molti  milioni  di anni la presenza 
dell’uomo sulla Terra. Per la primatologia segnalo le acquisizioni di eccezionale 
interesse dovute alle prime grandi ricerche in ambiente naturale. Anche al grande 
pubblico   sono   ormai   noti   i   nomi   di   George   B.   SchaIler,  Jane   Goodall,  Diane 
Fossey e Biruté Galdikas, cui si devono i primi affascinanti reportages sulla vita in 
natura dei grandi antropoidi, i primati infra­umani più simili all’uomo.  Ma sono 
soltanto la punta di un iceberg e gli specialisti ricordano, accanto a loro, decine di 
altri studiosi, autori di contributi non meno importanti. Per quanto riguarda poi 
l’ecologia  e  la  paleoecologia,   scienze   da  noi  non   soltanto  ancora  neglette,  ma 
insipientemente irrise (uno dei più noti e diffusi settimanali italiani ha incluso la 
seconda fra le «materie inutili»  insegnate nelle nostre università!), richiamo la 
copiosa messe di studi  cui si deve  un’idea più precisa degli intricati rapporti fra 
componenti   genetiche   e   componenti   ambientali  nella   filogenesi  del 
comportamento umano.
Come   si   vede,   l’esigenza   di   una   nuova   scienza   unitaria   dell’uomo   e   della 
società emerge dalla stessa ricerca, e non solo da quella che si svolge sui confini 
fra  le  discipline, come si potrebbe pensare, ma anche da quella che si presenta, 
almeno in prima istanza, come bene interna ad esse. Portato della ricerca, questa 
esigenza non  ha niente a che vedere – gioverà sottolinearlo esplicitamente, per 
evitare   i   malintesi   –   con   le   astratte   elaborazioni   sistematiche   di   Comte   e   di 
Spencer  e  neanche  con  quelle  di Hegel e  di  Engels,  recentemente   riemerse  in 
alcuni ambienti. La nuova scienza unitaria di cui abbiamo bisogno non è infatti né 
la  scientia   altior  di   Comte,   né   un   anacronistico   aggiornamento   dell’hegeliana 
«enciclopedia delle scienze», né, tanto meno, un ennesimo discorso ideologico sul 
loro metodo e sulla loro funzione, o sulla loro crisi, o sulla pur necessaria «unità 
del   sapere».   È   invece   un   modo   nuovo   di   concepire   il   lavoro   scientifico   e   di 
svolgerlo   in   concreto,   rifiutando   ogni   servitù   derivante   dall’attuale   tipo   di 
divisione   del   lavoro,   che   trova   la   sua   giustificazione   non   già   nelle   esigenze 
intrinseche   alla   ricerca   scientifica,   ma   nei   meccanismi   che   presiedono   alla 
riproduzione delle strutture sociali esistenti, difesi e consolidati da miti e da riti 
che tendono a incanalare ogni forma di consapevolezza umana in  ambiti tanto 
ristretti da impedire agli stessi scienziati più insigni di capire davvero qualcosa del 
mondo in cui vivono (i casi di Lorenz e di Wilson sono esemplari). In effetti, se 
tanti scienziati en miettes, così come tanti «filosofi» estraniati, si limitano oggi a 

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studiare il mondo senza provare alcuna esigenza di cambiarlo, è anche perché in 
fondo non lo hanno affatto capito.
Per contro, la nuova scienza unitaria di cui abbiamo bisogno è un’attività libera 
e disalienata, che promuova la piena consapevolezza  individuale  e collettiva, a 
partire   dal   continuo   confronto   fra   i   diversi   ambiti   di   ricerca   specialistica   e   le 
problematiche   complessive,   sempre   presenti  in   virtù   di  una   pratica   sociale 
tendenzialmente   orientata   allo   stesso   superamento   della   divisione   del   lavoro: 
quella orizzontale, che porta all’iperspecializzazione, e quella verticale, che fonda 
le  classi   e  le  gerarchie.  Certo,  la  realizzazione  completa   di  una  nuova  scienza 
siffatta sarà possibile solo con la rifondazione comunitaria del lavoro scientifico, 
che presuppone a sua volta il superamento  dell’attuale forma di organizzazione 
sociale. Ma già oggi essa può cominciare, come impegno personale che prefigura 
l’avvenire.
Da quanto ho qui detto emergono indirettamente i motivi della mia posizione 
nettamente   critica   non   solo   verso   l’etologia   di   Lorenz,   ma   anche   verso   la 
sociobiologia di  Wilson. Alienato  prodotto di una società alienata, nel momento 
stesso in cui si presenta come la «nuova sintesi», usurpando un ruolo che non può 
essere   il   suo,  questa   sociobiologia   rischia   infatti  di   configurarsi  come   la 
continuazione   di   un  vecchio   imbroglio.  In   verità,   per   sviluppare   quella   nuova 
scienza unitaria dell’uomo e della  società di cui  abbiamo bisogno, è  necessaria 
un’impostazione ben diversa, dall’orientamento transdisciplinare e dialettico.
Quest’espressione   non   deve   spaventare   nessuno.   Con   essa,   in   realtà,   non 
intendo infatti proporre niente di diverso dal modo in cui etologia e sociobiologia 
sono già state recepite in Italia sin dagli inizi, almeno dagli studiosi più avvertiti 
( ). Più in generale, si potrebbe anzi addirittura parlare di una «via italiana alla 
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sociobiologia»,   caratterizzata   dalla   piena   consapevolezza   delle   complesse 


mediazioni di ordine ambientale e storico: ecologiche, economiche, psicologiche, 
sociali, culturali, etc. Occorre peraltro un approfondimento metodologico, per il 
quale potrebbe risultare paradossalmente assai utile anche una rivisitazione critica 
delle ormai semi­dimenticate elaborazioni della nostra filosofia idealistica.
Mi riferisco, in particolare, alla «dialettica dei distinti», frutto maturo di quella 
tradizione.  Ebbene,   si  tratta  di  rimetterla  «sui  piedi»,  applicandola  non   già  ad 
astratte   «categorie   dello   spirito»,   ma   alle   effettive  dimensioni   dell’uomo, 
considerato   nella   sua   terrestre   realtà   di   essere   al   tempo   stesso   biologico, 
economico, sociale, culturale, etc. Ciò rappresenta altresì una valida alternativa 
alle   mostruose   costruzioni  teoriche  dello   struttural­marxismo   francese,   che   ha 
43() Cito, per tutti, i lavori di Luciano Gallino, Sergio Manghi e Marco Ingrosso (fra cui GALLINO 
1980a, 1980b, 1986, 1987,  MANGHI,  INGROSSO, 1979,  MANGHI,  PARISI, 1986,  MANGHI, 1984).  Ricordo 
anche   qualche   mio   contributo,  teorico   e  applicativo  (fra  cui  MELOTTI  1977,  1979a,   1980b,  1982a, 
1982b, 1982c, 1984, 1985a, 1985b, 1986a, 1986b, 1986c, 1987, 1993). Più carente da questo punto di 
vista si è rivelato invece l’accostamento di Sabino Acquaviva (si veda ACQUAVIVA 1982, 1983), peraltro 
non meritevole delle pesanti ironie riservategli da Franco Ferrarotti, il primo sociologo italiano in 
cattedra. Questi, pur avendo criticato fra i primi il prevalente carattere retorico­letterario della cultura 
italiana e pur riconoscendo contestualmente i «grandi meriti» dell‘etologia e della sociobiologia, a 
proposito delle impostazioni del «mercuriale sociologo patavino» ebbe a parlare ingenerosamente di 
una «sociologia da scimpanzé» (FERRAROTTI 1981­82).

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fatto anche da noi  i peggiori danni  con la sua pretesa d’identificare, nell’ambito 
delle formazioni sociali, diversi «livelli», coincidenti di fatto coi riservati dominii 
delle vecchie discipline.
Al   contrario   della   tradizionale   «interdisciplinarità»   ritualmente   invocata   nei 
congressi accademici (che si limita a istituire un rapporto «diplomatico» fra  le 
discipline,   di  cui   riconosce  e   ribadisce   l’«autonomia»),   l’accostamento 
transdisciplinare   e   dialettico   qui   caldeggiato   riposa   sulla   piena   consapevolezza 
dell’esaurimento   della   funzione   storica  di   queste   ultime,  che   in   realtà   ormai 
sopravvivono a sé stesse soltanto in virtù di una «finzione giuridica» dagli scopi 
pratici spesso tutt’altro che cristallini.
Quest’acquisita coscienza della «morte delle discipline» non vuol dire peraltro 
che la ricerca scientifica debba essere «indisciplinata». Ma la sua disciplina deve 
rispondere   soltanto   alle   sue   esigenze   intrinseche,   senza   pagare   il   pedaggio   a 
esterni canoni «metodologici» che limitino la libertà di trascorrere le tradizionali 
frontiere. Concludo pertanto parafrasando, ad auspicio del cambiamento, le parole 
che   salutavano   un   tempo   la   scomparsa   di   un   sovrano   e   l’avvento   del   suo 
successore: «Le discipline accademiche sono morte, viva la ricerca scientifica!».

7. Storia e sociologia

Come   ho   già   sottolineato,   l’uomo  non  ha   però   soltanto  una   dimensione 
«naturale».   Ha   anche  una   dimensione   «storica»,  e  di  straordinario  rilievo.   La 
tensione transdisciplinare del sociologo non può quindi ignorare la storia. Risulta 
pertanto  opportuno aggiungere qualche parola sui pur discussi rapporti fra storia 
e sociologia.
Va innanzi tutto ricordato che il termine «storia» assume in italiano, così come 
in  molte  altre  lingue,   un   duplice significato. Secondo   la distinzione  hegeliana, 
ripresa   e  valorizzata   dal  Croce,  questo   termine   può  infatti   indicare  sia   la 
storiografia, cioè l’historia rerum gestarum, intesa come l’attività specifica di un 
particolare studioso delle vicende umane (il cosiddetto «storico», appunto), sia le 
res gestae,  cioè le stesse vicende umane nel loro svolgimento nel tempo e nello 
spazio. Dal primo punto di vista il rapporto fra storia e sociologia concerne due 
discipline scientifiche; dal secondo concerne invece la sociologia e uno dei suoi 
privilegiati   (ma   non   incontroversi)   campi  d’indagine.  Nonostante   le   inevitabili 
interferenze, è utile tener distinte le due prospettive.
Storia e sociologia hanno in comune lo studio delle vicende umane, ma il loro 
modo di affrontarlo è decisamente diverso. A ciascuna sottende infatti una logica 
specifica,   al   di   là  delle  pur   notevoli   differenze   d’impostazione   e   di   metodo 
rilevabili al loro interno fra le diverse scuole.
La   storia   tende   a   ricostruire   lo   svolgersi   delle   vicende   umane   nella   loro 
individualità. Essa si occupa, tipicamente, di eventi, cioè di fatti cronotopicamente 
determinati,  colti  nella  loro   irripetibile  unicità,  senza  alcuna   ricerca  di  astratte 
«legalità». Essa mira, infatti, a ricostruire e a spiegare anche fenomeni che, per la 
loro   accidentalità   e   il   loro   azzardo,   non   consentono   margini   di   previsione.   Si 

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tratta,   insomma,   secondo   la   classica   dizione   del   Windelband   (1894),   di   una 
scienza  idiografica  (dal greco  i dioj  =  particolare, proprio di uno e di nessun 
altro),   cui   presiede   una  logica   individualizzante.  La   sociologia   tende   invece   a 
cogliere   nelle   vicende   umane  tipi,   regole,   tendenze,   costanti,   uniformità, 
persistenze,   successioni,   covariazioni,   sequenze.   Si   tratta,   per   dirla   ancora   col 
Windelband, di una scienza nomotetica (dal greco no moj = legge), cui presiede 
una logica generalizzante. La sociologia è infatti una scienza di leggi, benché nel 
suo caso il termine «legge» non abbia mai implicato una connotazione di rigorosa 
necessità, che del resto ha poi perduto anche nell’ambito delle scienze della natura 
( ).
44

Come tale, la  sociologia si occupa, in via di principio, di fatti ben diversi da 
quelli di cui si occupa la storia. Studia, in effetti, non già eventi, nel senso sopra 
precisato, bensì  istituzioni, cioè fatti a ripetizione che  consentono un  margine di 
previsione. Da ciò il motto di Auguste Comte: «Savoir pour prévoir, prévoir pour  
pouvoir». Chiari esempi di «eventi» sono (senza scomodare il naso di Cleopatra e 
le   sue   proverbiali   conseguenze)  le   grandi   individualità   cosmico­storiche,   per 
esempio Cesare e Napoleone, mentre esempi di «istituzioni» sono il «cesarismo» e 
il «bonapartismo», cioè due tipi di potere personale che è possibile identificare in 
base   a   categorie   costruite  astraendo   determinate   caratteristiche   dalle  effettive 
esperienze storiche. Altri esempi di «eventi» (di ordine diverso, giacché implicano 
non   già,   come   nel   primo   caso,   dei   concetti   storici   «assoluti»,   costituiti   da 
individualità   determinate,   di   per   sé   distinte   da   qualsiasi   altra,   ma   dei   concetti 
storici «relativi», che presuppongono una concettualizzazione individualizzante da 
parte   dello   studioso)   sono,   ad   esempio,   la   rivoluzione   inglese,   la   rivoluzione 
americana, la rivoluzione francese, la rivoluzione russa, la rivoluzione cinese e la 
rivoluzione   cubana.   Il   corrispettivo   esempio   di   istituzioni   è   il   fenomeno 
rivoluzione, che  il sociologo può studiare per rilevarne le costanti: cause, effetti, 
processi,  conseguenze,  etc., come ho fatto io stesso a suo  tempo e come hanno 
fatto molti altri studiosi prima e dopo di me ( ). 45

Questa   distinzione   fra   storia   e   sociologia   ha,   ovviamente,   un   carattere 


eminentemente orientativo e non comporta affatto una necessaria frattura nella 
concreta   attività   di   ricerca.   Nelle   opere   degli   storici,   in   effetti,   si   rintracciano 
facilmente dei momenti generalizzanti, che ineriscono logicamente alla sociologia, 
così come nelle opere dei sociologi affiorano dei momenti individualizzanti, che 
ineriscono  logicamente   alla   storia.   Fra   storia   e   sociologia   vi   è   in   effetti   una 
naturale complementarità, e c’è solo da dispiacersi che l’inevitabile limitatezza 
delle   capacità   umane   (aggravata,   peraltro,   dalla   vigente   divisione   sociale   del 
lavoro)   impedisca  di   solito   a   uno   studioso   di   essere   al   tempo   stesso   storico   e 
sociologo. Ciò frustra l’aspirazione a una forma di conoscenza totale, che è insita 
tanto nella storia quanto nella sociologia, «le sole scienze globali suscettibili di 
estendere la loro curiosità a ogni aspetto della vita sociale» ( ). 46

44() Cfr. PENNATI, 1961, p. 19.

45() Cfr. MELOTTI, 1965 e relativa bibliografia.

46() BRAUDEL, 1958b, vol. 1, p. 88.

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La complementarità di storia e sociologia deriva dalla loro stessa natura. Da un 
lato,   la   sociologia,   appunto   perché   mira   a   cogliere   nelle   vicende   umane   tipi, 
regole, tendenze, etc., non risolve in sé, né può risolvere, tutta la  vasta  gamma 
delle possibilità umane testimoniate dalla storia, che possono invece essere messe 
a   fuoco   dal   tipo   di   sapere   proprio   di   quest’ultima.   Dall’altro   lato,   neppur   si 
potrebbe   scrivere   la   storia   prescindendo   da   certi   concetti   generali,   il   cui 
chiarimento  compete  logicamente alla sociologia o, più in generale, alle scienze 
sociali.   Basti   pensare,   per   fare   qualche   esempio,   a   concetti   solo   in   apparenza 
intuitivi,   come   «classi»,   «potere»,   «ideologia»,   «élites»,   «burocrazia», 
«dispotismo»,   «totalitarismo»,   «democrazia»,   etc.,   cui   generazioni   di   sociologi 
hanno   dedicato   ormai   classici   studi.   Peraltro   il   sociologo   deve   saper  anche 
cogliere   il   senso   che   tali   termini   hanno   assunto   nelle   diverse   età,  per   evitare 
possibili abbagli. Da questo punto di vista la sociologia si configura non tanto 
come   la   metodologia   della   storia  (per   riprendere   la   definizione   crociana   della 
filosofia), quanto come la sua stessa coscienza critica, mentre la storia costituisce 
per la sociologia la prima e imprescindibile condizione della sua criticità.
Esistono tuttavia modi ben diversi di scrivere la storia. A un estremo troviamo 
la  storia  événementielle,  che   quasi   d’altro   non   si   preoccupa   (almeno 
consapevolmente) se non di elencare gli eventi, senza mirare a individuarne cause 
e significato. All’altro estremo vi è una storia che ama invece misurarsi con i dati 
strutturali e non prescinde  dai confronti  fra situazioni diverse. Il primo tipo di 
storia tende a ridursi alla cronaca, mentre il secondo  sfuma impercettibilmente 
nella sociologia, con cui può a volte addirittura confondersi (come è avvenuto per 
certi ben noti contributi di storia sociale, storia economica, storia delle istituzioni, 
storia delle idee, storia comparata, etc.).
Del  primo   tipo   di storia  qui  non  ci  occuperemo   oltre.  Ancorché  sopravviva 
allegramente   a   sé   stesso   nelle   accademie   di   mezzo   mondo,   la   sua   critica   può 
ormai   ritenersi   conclusa.   Già   Voltaire,   del   resto,   ebbe   a   chiedersi   a  che   mai 
potesse servire una storia che non ha nient’altro da dire fuor che a un re barbaro ne 
successe un altro ( ). 47

Col secondo tipo di  storia il dialogo è invece  più che mai aperto. Fra questi 


interlocutori vanno ricordati, in particolare, quelli che fanno capo alla scuola delle 
«Annales» (la rivista francese  che è apparsa  per anni col significativo sottotitolo 
«économies,   sociétés,   civilisations»)  e   gli   esponenti   di   certe   correnti   della 
storiografia   d’orientamento   marxista   e/o   strutturalista,   giunte   a   parlare   di   una 
«storia delle strutture», al di là – o, per meglio dire, al di qua – della storia degli 
eventi. Ma  anche  altri  storici,  soprattutto  tedeschi e  inglesi,  si  sono   dimostrati 
all’altezza   dei   tempi.   Fra   questi  ultimi   ricordo  in   particolare   Edward   H.   Carr, 
l’autore  della   ben   nota   storia   della   rivoluzione  bolscevica,   che,   in   un   piccolo, 
prezioso volume, si è apertamente pronunciato a favore di una storia caratterizzata 
dal continuo confronto fra i fatti del presente e i fatti del passato e quindi, per dirla 
con  lui, «sempre  più  sociologica». «Apprendere dalla  storia», ha  scritto, «non è 
mai un processo unilaterale. Imparare a intendere il presente alla luce del passato 

47() VOLTAIRE, 1756.

17
significa anche imparare a intendere il passato alla luce del presente. La funzione 
della storia è quella di promuovere una più profonda comprensione del passato e 
del presente alla luce delle loro reciproche interrelazioni» ( ). 48

Come   si   vede,   per  definire   il   compito   della   storia   Carr   utilizza   il   termine 
«comprensione»,  che  rimanda   a  quel  verstehen  con   cui   Max   Weber  ebbe   a 
descrivere lo scopo comune del lavoro degli storici e dei sociologi, al di là delle 
differenze  più o meno  marcate  che  concernono  invece il loro  specifico tipo di 
«spiegazione». Ciò non è casuale. Anche un altro illustre storico, Marc Bloch, uno 
dei   fondatori   delle   «Annales»,   aveva   sintetizzato  allo   stesso   modo   la   funzione 
della   storia.   «Una   parola»,  ebbe  a  scrivere,  «domina   e  illumina   i  nostri   studi: 
comprendere»   ( ).  Affermazione  che  anche  uno   dei   nostri   storici 
49

epistemologicamente più avvertiti, Giorgio Borsa, ha sottoscritto con convinzione, 
riportandola in epigrafe alle sue riflessioni sulla sua disciplina ( ). 50

La   storia   sembra   pertanto   destinata   a  divenire  sempre  di  meno   in   futuro   – 


ammesso e non concesso che lo sia mai stata davvero in passato – «il racconto di 
un  idiota,  pieno  di  rumore  e  di  furia,  che  non  significa  nulla»,  come  riteneva 
Shakespeare   o,   almeno,   un   suo   famoso   personaggio.   Corrispettivamente   si 
stempera, almeno nei fatti, quella contrapposizione fra  lo  storico e  il  sociologo, 
che,   con   un’immagine   di   Bacone,  raffigurava  il   primo   come   la   formica   che 
accumula pazientemente i materiali e il secondo come l’ape che sugge il nettare e 
lo trasforma in dolcissimo miele ( ). In realtà, di fronte all’ormai agguerritissima 
51

schiera dei nuovi storici, aperti agli apporti metodologici e sostantivi delle scienze 
sociali,   il   sociologo   rischia   di   perdere   la   sua   primogenitura,   se   non   saprà 
rinnovarsi a sua volta, ritornando con una maggior consapevolezza critica a ciò 
che rese già così alta la tradizione classica della sua disciplina.

8. Il futuro ha un cuore antico, ovvero rinnovarsi nella tradizione

Per «tradizione classica» intendo, in particolare, il retaggio di Marx, Durkheim 
e   Max   Weber,   i   tre   autori   cui   risale   il   merito   di   aver   definito   le   coordinate 
fondamentali delle scienze sociali moderne. Marx, in cui si è riconosciuto ormai 
da   tempo   un   precursore   legittimo   della   sociologia,   se   non   addirittura   «il   più 
grande   e   il   meno   dogmatico   di   tutti   i   suoi   fondatori»   ( ),   ha   scritto   di   non 
52

riconoscere altra scienza che la storia e, più in particolare, di ritenere prive di ogni 
valore le categorie teoriche che non risultino storicamente fondate ( ). Durkheim,  53

che per le sue ricerche empiriche è stato indicato come il padre della «sociologia 

48() CARR 1961 (trad. ital. pp. 73­74).

49() BLOCH 1949, p. 72.

50() BORSA 1980.

51() PENNATI 1961, p. 163.

52() GURVITCH 1963, vol. 2, pp. 220.

53() MARX ­ ENGELS 1845­46.

18
scientifica» ( ) e per il complesso delle sue opere viene considerato da molti come 
54

il vero fondatore della sociologia ( ), ha individuato nella storia il locus specifico 
55

per la costruzione della scienza della società. E Max Weber, che forse più di ogni 
altro ha contribuito allo sviluppo di una  coscienza epistemologica  nelle scienze 
sociali, ha mostrato, tanto nei suoi scritti metodologici quanto nei suoi contributi 
sostantivi, come la sociologia riceva in prevalenza il suo materiale dalla storia.
Questa tradizione non si è spenta e non sarebbe certo difficile indicarne dei 
continuatori anche insigni, da Wittfogel a Elias, da Bendix a Moore ( ). Eppure,  56

soprattutto   a   partire   dagli   anni   ’30,   ha   preso   sempre   più   piede,   dapprima   in 
America   e   poi   anche   nelle   varie   periferie   dell’impero,   una   sociologia 
caratterizzata da orientamenti astrattamente formalisti nella teoria e ingenuamente 
empiristi   nella   ricerca.   Ciò   ha   portato   di   fatto   a  una  svalutazione   della  storia. 
Come ha denunciato C. Wright Mills, il sociologo americano  che già sul finire 
degli   anni   ’50  insorse  vigorosamente  contro   queste   tendenze,   l’identificazione 
della ricerca sociologica con la pratica quasi rituale di determinate tecniche ha 
finito per condizionare  la stessa scelta dell’oggetto d’indagine,  circoscrivendola 
sin troppo  spesso a questioni  di  assai limitata  rilevanza. D’altra parte la Grande 
Teorizzazione   di   stampo   parsonsiano,   a   lungo   egemone   in   ambito   accademico 
(anche in Europa), si è rivelata manifestamente inficiata dalla scelta iniziale di un 
livello di astrazione così generale da non consentire alcuna discesa «dalle supreme 
generalità ai contesti storici e strutturali dei problemi».  Tutte queste scuole, per 
dirla col Mills, «rappresentano una rinuncia alla scienza sociale classica attraverso 
una   sedicente   super­elaborazione   del  metodo  e   della  teoria»,   in   apparenza 
motivata da una ricerca di rigore formale, ma in realtà dovuta «alla mancanza di 
solidi nessi coi problemi sostanziali» ( ). 57

Si tratta, dunque, di un «goffo sforzo di ponderosità senza importanza» ( ), che,  58

per  vender   fumo,   utilizzava   un   gergo   esoterico,   applicando,   come   aveva   già 
rilevato  qualche   anno   prima  il   giovanissimo  Ferrarotti,   un   linguaggio   da  fisici 
nucleari a cose che avrebbe potuto capire benissimo anche un bambino ( ). Nel  59

loro insieme, «ignoranza della storia e della filosofia, empirismo ristretto senza 
orizzonti  più  vasti,   interesse   concentrato   sulle   tecniche   e   totale   insensibilità 
nell’uso del linguaggio» determinavano, per dirla con le dure, ma puntuali parole 

54() MADGE 1962, p. 51.

55() BAECHLER 1984, p. 14. 

56() Del primo autore ricordo soprattutto  Wirtschaft und Gesellschaft Chinas  (WITTFOGEL,  1931), 


mentre   assai   meno   storicamente   fondati   appaiono   altri   suoi   contributi,   fra   cui   il   noto   studio   sul 
dispotismo orientale (Oriental Despotism. A comparative study of total power, Yale University Press, 
New Haven, Conn., 1956; trad. it.  Il dispotismo orientale, Vallecchi, Firenze, 1968, 2 voll.; 2ª ed. 
Sugarco, Milano, 1980).  Degli altri tre autori citati  vanno nella direzione segnalata  tutte le  opere 
principali.
57() MILLS 1959 (trad. ital. pp. 28, 43, 82).

58() MILLS 1959 (trad. ital. p. 36).

59() FERRAROTTI 1955, p. 21.

19
di un altro studioso americano, una sorta di «imbarbarimento intellettuale» ( ), da  60

cui, per la verità, la sociologia non è stata più capace di uscire del tutto. Da ciò la 
sua «crisi», prima preconizzata ( ) e poi denunciata da molti, ma troppo spesso 
61

attribuita, per cecità, piaggeria o spirito corporativo, a fattori assai meno rilevanti.
Attualissimo risulta pertanto il monito formulato da Mills a conclusione della 
sua   serrata   analisi:   «Per   assolvere   i   loro   compiti   e,   già   prima,   per   formularli 
correttamente, gli scienziati sociali devono usare il materiale della storia [...]. Non 
vi è sociologia degna di tal nome che non sia sociologia storica» ( ). 62

Ciò è stato ben compreso anche da chi, come il già citato Ferrarotti, ha voluto 
sostenere,   forse   per   ribadirne   l’autonomia   accademica,   a   quel   tempo   in   Italia 
ancora in discussione, che «la sociologia, come scienza del vivente, è totalmente, 
quasi con violenza, immersa nel presente» e che il suo oggetto sarebbe caratteriz­
zato «dalla sua contemporaneità, dal fatto di essere materia ancora calda e fluida, 
materia presente» ( ). A queste affermazioni, in sé tutt’altro che convincenti, egli 
63

ha infatti apposto, citando un altro studioso, un’importantissima precisazione: che 
il presente, per il sociologo, «non è un ineffabile punctus temporis o un’aoristica 
contrazione della cronologia», ma «è, invece, il momento storico nel quale vivono 
i contemporanei, con tutta la ricca gamma di differenze e di varietà di sviluppo 
che la storia ha indotto fra i vari Paesi del mondo e tra le varie parti di uno stesso 
Paese; è quell’arco di tempo, dai confini estremamente mobili, di cui gli storici di 
mestiere diffidano di scrivere già la storia, non solo perché mancano i documenti 
indispensabili, ma anche e soprattutto perché avvertono che si tratta di un processo 
ancora in pieno svolgimento e del quale essi stessi sono attori e partecipi» ( ). 64

A queste parole c’è poco da aggiungere. La conoscenza storica è necessaria alla 
comprensione dell’attualità. Non si può sperare di coglierne il senso dimenticando 
che il presente esiste soltanto come una fuggevole transizione fra il passato e il 
futuro.   Non   si   può   individuare   ciò   che   è   obiettivamente   importante   in   una 
determinata situazione senza esaminare i processi che lo hanno reso tale. Non si 
possono mettere in luce le caratteristiche delle stesse strutture dimenticando che 
esse si sono costituite nel tempo, in rapporto a determinate esigenze storiche, e 
che nel tempo si sono trasformate e continuano a trasformarsi. In una parola, non è 
possibile   analizzare   i   problemi   dell’uomo   in   società   prescindendo   dalla   storia. 
Non stupisce pertanto che il Berger, nel suo già citato volumetto, abbia potuto 
affermare   che,   fra   tutti   gli   studiosi   che   il   sociologo   può   incontrare   nel   suo 
cammino (l’etnologo, lo psicologo, l’economista, il politologo, etc.), quello con 
cui   è   destinato   a   percorrere   più   spesso   un   pezzo   di   strada   in   comune   e   che 
maggiormente può arricchire il suo viaggio scientifico sia proprio lo storico.
Tutto ciò indica che fra storia e sociologia devono esistere frontiere aperte. Del 
resto, se per far opera di storico è necessaria la capacità di vivere e far rivivere il 
60() BERGER 1963 (trad. ital. pp. 21, 123).

61() GOULDNER 1970.

62() MILLS 1959 (trad. ital. p. 36).

63() FERRAROTTI 1961, p. 291.

64() GALASSO 1960, p. 110.

20
passato nella sua perenne contemporaneità ( ), fare sociologia implica la speculare 
65

capacità di comprendere «il presente come storia» ( ). 66

Canone  fondamentale   di   una   sociologia   che   voglia   essere   critica,   storica   e 


strutturale a un tempo, nella scia della tradizione classica, è la «specificità storica» 
( ). Questo canone è stato elaborato da Marx, nella sua critica del nucleo astorico 
67

e antistorico dell’ideologia borghese. La sua  formulazione esplicita risale  però a 


Karl Korsch ( ), che ha individuato proprio nell’esemplare attenzione di Marx per 
68

tale specificità  uno degli elementi  che rendono le  sue elaborazioni  così  vive e 


attuali rispetto a quelle degli altri pur grandi fondatori della sociologia.
È  stato  C.   Wright   Mills  a  valorizzare   tale   canone   nell’ambito  delle   scienze 
sociali,  sottolineando  che senza il senso della specificità storica non è possibile 
comprendere alcuna società ( ). L’utilizzazione più significativa di tale principio, 
69

purtroppo   dimenticato   da   molti   sociologi   occidentali   anche   di   formazione 


marxista, s’incontra però oggi, e pour cause, in alcuni studiosi del Terzo Mondo. 
Fra questi ricordo, in particolare, Anouar Abdel­Malek, che lo ha descritto come 
l’imprescindibile condizione per uno studio critico del processo di sviluppo delle 
società umane nella fase di transizione al terzo millennio ( ). 70

Per   illustrare   ciò   che   s’intende   con   tale   espressione  converrà  partire   da   un 
chiarimento preliminare. La «società», intesa come unitario complesso di tutti gli 
individui   umani   esistiti   ed   esistenti,   è   un   mero   concetto   ideologico,   cui   non 
corrisponde,  neanche  nell’attuale fase  di  pervasiva e accelerata globalizzazione, 
alcuna   realtà.   Ciò   che   la  storia  conosce  è   una   serie   di   formazioni   sociali, 
determinate nel tempo e nello spazio, disgiunte o articolate fra loro, ciascuna delle 
quali presenta una fisionomia propria e il carattere comune della transitorietà. Una 
sociologia   che   non   intenda   ridursi   a   ideologia   deve   assumere   come   proprio 
oggetto d’indagine queste formazioni sociali, individuarne le peculiari strutture e 
analizzare con riferimento ad esse, e più in particolare ai rapporti di produzione 
che le caratterizzano, il complesso degli altri rapporti sociali.  Infatti «in  tutte le 
forme di società»,  come  ha  scritto  efficacemente  Marx,  «vi  è una  determinata 
produzione che decide del rango e dell’influenza di tutte le altre e i cui rapporti 
decidono quindi del rango e dell’influenza di tutti gli altri. È una luce generale che 
si   effonde   su   tutti   gli   altri   colori,   modificandoli   nella   loro   particolarità.   È 
un’atmosfera   particolare   che   determina   il   peso   specifico   di   tutto   quanto   essa 
avvolge» ( ). 71

A ben guardare, la «specificità storica» costituisce però  solo una particolare 
declinazione  del  principale  orientamento  che  il marxismo ha lasciato in eredità 

65() Secondo la ben nota intuizione del Croce (si veda, in particolare, Croce 1917).

66() LUKÁCS 1923, SWEEZY 1959, MILLS, 1959.

67() MELOTTI 1971, 1979b, 1980b, 1984, 1996.

68() KORSCH 1936.

69() MILLS 1959 (trad. ital. p. 160).

70() ABDEL­MALEK 1972 (trad. ital. p. 339).

71() MARX 1857, p. 637; trad. it. p. 195.

21
alle   scienze   sociali:   il   materialismo   storico.   Non  mi   soffermerò  tuttavia   su 
quest’ultimo,  che devo  dare per  conosciuto  (benché  spesso  lo si  conosca  assai 
male),  limitandomi   a   ribadirne  tutta  la   fecondità,   quando   sia   utilizzato 
criticamente,  cioè   come  un   «canone»  euristico,  per   riprendere   la   pregnante 
definizione  che già fu  del Croce ( ), e non come una teoria generale o, peggio, 
72

come   una   filosofia  della  storia,   cosa   contro  cui   lo  stesso  Marx   non  mancò   di 
mettere in guardia ( ).73

Fra   le   nozioni   che   una   sociologia   critica,   storica   e   strutturale   dovrebbe 


valorizzare ve ne è anche un’altra che riveste una grande importanza: quella della 
profondità del campo storico, un’espressione con cui convenzionalmente si indica 
la necessità di tener sempre in debito conto la «dimensione diacronica» e, più in 
particolare, lo «spessore storico» di determinate situazioni.
Anche questa nozione è stata valorizzata soprattutto da certi studiosi di cultura 
non europea, che non hanno nascosto il proprio disagio e il proprio disappunto di 
fronte   all’evidente   povertà  teorica   di   una  certa   sociologia   occidentale, 
narcisisticamente centrata sul suo  solo  mondo. Eppure, a ben guardare, più che 
d’innovare, anche in questo campo si tratta di recuperare quanto era già presente 
almeno   in   embrione   nella   tradizione   classica,   di   esplicitarlo   sino   a   farne   una 
fondamentale   acquisizione  teorica  e   di   generalizzarlo,   per   poterlo   estendere 
criticamente allo studio delle società  extraeuropee, in cui tale consapevolezza  è 
resa  ancor   più  necessaria   dalla  profonda   differenza   di   storia   e   di   civiltà. 
Fondamentale, in proposito, è la lezione del Marx che ha trattato del modo di 
produzione asiatico e del Weber che ha analizzato l’etica economica delle grandi 
religioni mondiali.
La nozione di profondità del campo storico ci ricorda che le formazioni sociali 
hanno un passato e che questo tende a influenzare il loro presente e anche il loro 
futuro; ci ricorda che le strutture hanno non solo delle «funzioni», ma anche una 
«storia»; ci ricorda che la realtà attuale costituisce un momento di un processo in 
divenire   che  comincia   ben  addietro   nel   tempo   e   può   essere   adeguatamente 
compreso solo a partire dalle sue radici.
Lo studioso  che più ha insistito  su tale nozione è stato  il già citato  Anouar 
Abdel­Malek ( ), autore di un mirabile affresco dell’attuale realtà del suo Paese, 
74

l’Egitto,  l’unica nazione al mondo  con sette  millenni di storia:  un passato  che, 


come ha dimostrato, tuttora grava sul suo presente e lo condiziona ( ). Ma ciò che 
75

vale per l’Egitto vale per l’Iran, l’India, la Cina, il Vietnam e le altre antichissime 
nazioni   da   poco   entrate   nell’ambigua   «modernità»   di   cui   sogliono   parlare   i 
sociologi occidentali. E vale anche, in maggior o minor misura, per tutti gli altri 
Paesi che, nel corso della loro storia, hanno conosciuto strutture sociali, culture e 
civiltà irriducibili a quelle dell’Occidente. Fra questi vi è il Brasile, il più grande 
72() CROCE 1899.

73() Si veda, in particolare, MARX 1877. Sul materialismo storico come canone metodologico per la 
sociologia si veda MELOTTI 1971, 1975, 1979b e 1980a.
74() ABDEL­MALEK 1972.

75() ABDEL­MALEK 1962.

22
Paese dell’America Latina, il Giappone, il terzo Paese industriale del mondo, e la 
Russia, erede dell’Unione Sovietica, il Paese che ha fronteggiato per mezzo secolo 
l’Occidente,  alla  testa  di  un  blocco  politico,  economico,   ideologico   e  militare, 
attraverso crisi che hanno più volte comportato il rischio di un conflitto  globale 
suscettibile di distruggere l’intero pianeta e di lasciarlo irrimediabilmente muto e 
ostile alla vita.
Oggi per lo studioso non c’è sfida più grande di quella posta dai problemi della 
pace e dello sviluppo, della sopravvivenza e della liberazione dei popoli. Orbene, 
questi sono problemi che non possono essere affrontati senza una vera prospettiva 
storica   e  senza   la   consapevolezza   critica  che   solo   può  derivare  da  una   nuova 
scienza unitaria dell’uomo e della società.  Proprio per  questo  la costruzione di 
quest’ultima risulta non solo auspicabile per i motivi scientifici sopra illustrati, ma 
addirittura necessaria per ragioni vitali.
Un   discorso   così   impegnativo   non   può   peraltro   concludersi   qui,   ma   andrà 
ripreso e approfondito col contributo di tutti gli studiosi interessati a questo tema 
di fondo.

23
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