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L’alienazione

«Dobbiamo comprendere la connessione essenziale che corre tra la proprietà privata, l’avidità di denaro, la separazione tra lavoro,
capitale e proprietà fondiaria, tra scambio e concorrenza, tra valorizzazione e svalorizzazione dell’uomo, tra monopolio e
concorrenza, ecc., la connessione di tutto questo processo di estraniazione col sistema monetario. Non trasferiamoci, come fa
l’economista quando vuol dare una spiegazione, in uno stato originario fantastico. Un tale stato originario non spiega nulla. Non fa
che rinviare il problema in una lontananza grigia e nebulosa. Presuppone in forma di fatto, di accadimento, ciò che deve dedurre,
cioè il rapporto necessario tra due fatti, per esempio tra la divisione del lavoro e lo scambio. Allo stesso modo la teologia spiega
l’origine del male col peccato originale, cioè presuppone come un fatto, in forma storica, ciò che deve spiegare. Noi partiamo da un
fatto dell’economia politica, da un fatto presente. L’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce,
quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la
quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo
delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione
in cui produce in generale le merci. Questo fatto non esprime altro che questo: l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del
lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del
lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del denaro. La realizzazione del lavoro è la
sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento dell’operaio,
l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione. [...]
Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l’operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo
lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto più l’operaio si consuma
nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e
tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto
meno egli ne ritiene in se stesso. L’operaio ripone la sua vita nell’oggetto; ma d’ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma
all’oggetto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più l’operaio è privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo
lavoro, non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto più piccolo è egli stesso. L’alienazione dell’operaio
nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di
lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato
all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea […] Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e un potere estraneo gli
sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro estraneo all’operaio. Se la sua attività è per lui un
tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui. Non già gli dèi, non la natura, ma soltanto
l’uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell’uomo. Si ripensi ancora alla tesi sopra esposta, che il rapporto
dell’uomo con se stesso è per lui un rapporto oggettivo e reale soltanto attraverso il rapporto che egli ha con gli altri uomini. Se
quindi egli sta in rapporto al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato come in rapporto ad un oggetto estraneo, ostile,
potente, indipendente da lui, sta in rapporto ad esso in modo che padrone di questo oggetto è un altro uomo, a lui estraneo, ostile,
potente e indipendente da lui. Se si riferisce alla sua propria attività come a una attività non libera, si riferisce a essa come
un’attività che è al servizio e sotto il dominio, la coercizione e il giogo di una altro uomo. [...] Dunque, col lavoro estraniato, alienato,
l’operaio pone in essere il rapporto di un uomo che è estraneo e al di fuori del lavoro, con questo stesso lavoro. Il rapporto
dell’operaio col lavoro pone in essere il rapporto del capitalista – o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro – col
lavoro. La proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità
che si stabilisce tra l’operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall’altro. La proprietà privata si ricava quindi mediante l’analisi del
concetto del lavoro alienato, cioè dell’uomo alienato, del lavoro estraniato, della vita estraniata, dell’uomo estraniato». (K.
Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844)

Il modo di produzione capitalistico non è naturale, checché ne dicano gli economisti


«Gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle
naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch'essi
pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione
emana da Dio. Così di storia ce n'è stata, ma non ce n'è più. (Marx, Miseria della filosofia, 1847)
Sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione
«Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente
formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla
loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.
L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva
una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione
della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che
determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro
sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i
rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi
rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale.
Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si
studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche
della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose,
artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come
non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla
coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il
conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si
siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima
che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone
se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo
quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione
asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione
economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale;
antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli
individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per
la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana». (Karl
Marx, Per la critica dell’economia politica: Prefazione, 1859)

Valore e feticismo della merce


«L'economia politica ha certo analizzato, sia pure incompletamente il valore e la grandezza di valore, ed ha scoperto il contenuto
nascosto in queste forme. Ma non ha mai posto neppure il problema del perché quel contenuto assuma quella forma, e dunque del
perché il lavoro rappresenti se stesso nel valore, e la misura del lavoro mediante la sua durata temporale rappresenti se stessa
nella grandezza di valore del prodotto del lavoro. Queste formule portano segnata in fronte la loro appartenenza a una formazione
sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini, e l'uomo non padroneggia ancora il processo produttivo: ed
esse valgono per la sua coscienza borghese come necessità naturale, ovvia quanto il lavoro produttivo stesso. Le forme
preborghesi dell'organismo sociale di produzione vengono quindi trattate dall'economia politica press'a poco come le religioni
precristiane sono trattate dai padri della Chiesa. La noiosa e insipida contesa sulla funzione della natura nella formazione del
valore di scambio dimostra, fra le altre cose, fino a che punto una parte degli economisti sia ingannata dal feticismo inerente al
mondo delle merci ossia dalla parvenza oggettiva delle determinazioni sociali del lavoro. Poiché il valore di scambio è una
determinata maniera sociale di esprimere il lavoro applicato alle cose, non può contenere più elementi naturali di quanti ne
contenga per esempio il corso dei cambi». (Marx-Engels, Il Capitale, 1867, Libro I, cap. I: La merce)

Dalla merce al valore


«Uno dei difetti principali dell'economia politica classica è che non le è mai riuscito di scoprire, partendo dall'analisi della merce e
più specificamente del valore della merce, quella forma del valore che ne fa, appunto, un valore di scambio. Proprio nei suoi
migliori rappresentanti, quali A. Smith e il Ricardo, essa tratta la forma di valore come qualcosa di assolutamente indifferente, o
d'esterno alla natura della merce stessa. La ragione non sta soltanto nel fatto che l'analisi della grandezza di valore assorbe
completamente la loro attenzione; è più profonda. La forma di valore del prodotto del lavoro è la forma più astratta, ma anche più
generale del modo borghese di produzione, la quale per ciò viene caratterizzata come forma particolare di produzione sociale, e
così viene insieme caratterizzata storicamente. Quindi ritenendola erroneamente la eterna forma naturale della produzione sociale,
si trascura necessariamente anche ciò che è l'elemento specifico della forma di valore e quindi della forma di merce e, negli
ulteriori sviluppi, della forma di denaro, della forma di capitale, ecc». (Marx-Engels, Il Capitale, 1867, Libro I, cap. I: La merce)

Libero scambio tra proprietari di equivalenti: ciò che occulta il modo di produzione capitalistico
«La sfera della circolazione, ossia dello scambio di merci, entro i cui limiti si muovono la compera e la vendita della forza-lavoro,
era in realtà un vero Eden dei diritti innati dell'uomo. Quivi regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham.
Libertà! Poiché compratore e venditore d'una merce, per esempio della forza-lavoro, sono determinati solo dalla loro libera
volontà. Stipulano il loro contratto come libere persone,giuridicamente pari. Il contratto è il risultato finale nel quale le loro volontà si
danno una espressione giuridica comune. Eguaglianza! Poiché essi entrano in rapporto reciproco soltanto come possessori di
merci, e scambiano equivalente per equivalente. Proprietà! Poiché ognuno dispone soltanto del proprio. Bentham! Poiché ognuno
dei due ha a che fare solo con se stesso. L'unico potere che li mette l'uno accanto all'altro e che li mette in rapporto è quello
del proprio utile, del loro vantaggio particolare, dei loro interessi privati. E appunto perché così ognuno si muove solo per sé e
nessuno si muove per l'altro, tutti portano a compimento, per una armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici d'una
provvidenza onniscaltra, solo l'opera del loro reciproco vantaggio, dell’utile comune, dell'interesse generale. Nel separarci da
questa sfera della circolazione semplice, ossia dello scambio di merci, donde il liberoscambista vulgaris prende a prestito
concezioni, concetti e norme per il suo giudizio sulla società del capitale e del lavoro salariato, la fisionomia delle nostre dramatis
personae sembra già cambiarsi in qualche cosa. L'antico possessore del denaro va avanti come capitalista, il possessore di forza-
lavoro lo segue come suo lavoratore; l'uno sorridente con aria d'importanza e tutto affaccendato, l'altro timido, restio, come
qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la...conciatura». (Karl Marx, Il
Capitale, 1867, Libro I, cap. IV: Trasformazione del denaro in capitale)

L’accumulazione originaria: da produttori a salariati senza mezzi di produzione


«Abbiamo visto come il denaro viene trasformato in capitale, come col capitale si fa il plusvalore, e come dal plusvalore si trae più
capitale. Ma l’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore, e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, e questa
presuppone a sua volta la presenza di masse di capitale e di forza-lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci.
Tutto questo movimento sembra dunque aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo
un’accumulazione «originaria» («previous accurnulation» in A. Smith) precedente l’accumulazione capitalistica: una accumulazione
che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico. […] I metodi dell’accumulazione originaria sono
tutto quel che si vuole fuorché idillici. Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e
di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni
che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte, e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una
parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-
lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di
lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della
gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi,
senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il
rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro.
Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente.
Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione dalla proprietà delle
proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra
trasforma i produttori diretti in operai salariati. Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di
separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare “originario” perché costituisce la preistoria del capitale e del
modo di produzione d esso corrispondente. La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica
della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella. Il produttore immediato, l’operaio, ha potuto
disporre della sua persona soltanto dopo aver cessato di essere legato alla gleba e di essere servo di un’altra persona o infeudato
ad essa. Per divenire libero venditore di forza-lavoro, che porta la sua merce ovunque essa trovi un mercato, l’operaio ha dovuto
inoltre sottrarsi al dominio delle corporazioni, ai loro ordinamenti sugli apprendisti e sui garzoni e all’impaccio delle loro prescrizioni
per il lavoro. Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione
dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neo
affrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie
per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai è scritta negli annali
dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco. I capitalisti industriali, questi nuovi potentati, hanno dovuto per parte loro non solo
soppiantare i maestri artigiani delle corporazioni, ma anche i signori feudali possessori delle fonti di ricchezza. Da questo lato
l’ascesa dei capitalisti si presenta come frutto di una lotta vittoriosa tanto contro il potere feudale e contro i suoi rivoltanti privilegi,
quanto contro le corporazioni e contro i vincoli posti da queste al libero sviluppo della produzione e al libero sfruttamento dell’uomo
da parte dell’uomo. Tuttavia, i cavalieri dell’industria riuscirono a soppiantare i cavalieri della spada soltanto sfruttando avvenimenti
dei quali erano del tutto innocenti. Essi si sono affermati con mezzi altrettanto volgari di quelli usati un tempo dal liberto romano per
farsi signore del proprio patrono. Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato quanto il capitalista, è stata
la servitù del lavoratore. La sua continuazione è consistita in un cambiamento di forma di tale asservimento, nella trasformazione
dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico. Per comprenderne il corso non abbiamo affatto bisogno di rifarci molto
indietro. Benché i primi inizi della produzione capitalistica si incontrino sporadicamente fin dai secoli XIV e XV in alcune città del
Mediterraneo, l’era capitalistica data solo dal secolo XVI. Dov’essa entra in scena, l’abolizione della servitù della gleba è da lungo
tempo compiuta e già da parecchio tempo va impallidendo quella che è la gloria del Medioevo, l’esistenza cioè di città sovrane. […]
L’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. La
sua storia ha sfumature diverse nei vari paesi e percorre fasi diverse in successioni diverse e in epoche storiche diverse». (K.
Marx, Il Capitale, 1867, Libro I, cap. XXIV: La cosiddetta accumulazione originaria)

Il capitalista: da proprietario dei mezzi di produzione e “direttore d’orchestra” a puro rentier


«Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di
capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono
l’interesse ed il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice
salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato del lavoro è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro),
questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà
che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa
funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto,
l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di
plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai
produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino
all’ultimo giornaliero. Nelle società per azioni la funzione è separata dalla proprietà del capitale e per conseguenza anche il lavoro
è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di produzione e dal plusvalore. Questo risultato del massimo sviluppo della
produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ri-trasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non
più però come proprietà privata di singoli produttori, ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà sociale
immediata. E inoltre è momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni che nel processo di riproduzione sono
ancora connesse con la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali». (Marx-Engels, Il
Capitale, 1867, Libro III, cap. XXVII: La funzione del credito nella produzione capitalistica)

Opposto a Hegel, eppure scolaro di Hegel


«Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l'opposto.
Per Hegel il processo del pensiero, che egli, sotto il nome di Idea, trasforma addirittura in soggetto indipendente, è il demiurgo del
reale, mentre il reale non è che il fenomeno esterno del pensiero; per me, viceversa, l'elemento ideale non è altro che l'elemento
materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini. […] Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent'anni
fa, quando era ancora la moda del giorno. Ma proprio mentre elaboravo il primo volume del Capitale i molesti, presuntuosi e
mediocri epigoni che dominano nella Germania cólta si compiacevano di trattare Hegel come ai tempi di Lessing il bravo Moses
Mendelssohn trattava Spinoza: come un “cane morto”. Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore e
ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, con il modo di esprimersi che gli è peculiare. La mistificazione alla
quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e
consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire
il nocciolo razionale entro il guscio mistico». (K. Marx, Il Capitale, Poscritto alla seconda edizione, 1873)

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