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In Marx, e questo significato prevale oggi nel linguaggio filosofico, l’alienazione significa
“espropriazione”, aggiungendovi un’idea di schiavitù. Così, quando diciamo che il lavoro è uno
strumento di alienazione nell’economia capitalista, ciò significa che il lavoratore viene
spossessato del frutto del suo lavoro: non realizza un oggetto che gli apparterrà o che avrà
orgoglio di mostrare . Per questo stesso fatto egli viene spossessato di se stesso come creatore;
nel sistema di produzione che lo impiega, non è più che una forza lavoro, cioè qualcosa che può
essere comprato sul mercato. Poiché il lavoratore non ha altro per vivere se non la sua forza
lavoro, è schiavo di questa condizione di espropriazione.
Nessuno costringe il lavoratore a vendere la sua forza lavoro. Egli è il proprietario della sua forza
lavorativa e ha gli stessi diritti di chi possiede i mezzi di produzione. E, tuttavia, alienando
semplicemente il suo tempo per un lavoro particolare (come operaio agricolo, rider, commesso al
supermercato, ecc.) egli diventa in tal modo uno schiavo completo del mercato del lavoro, poichè
la forza produttiva da lui venduta è l'unica cosa che egli possiede, e che deve cedere alle
condizioni del mercato, per poter esistere.
La trasformazione del valore d'uso del prodotto del lavoro in merce, serve a esemplificare il
rapporto costante, per cui nel mondo borghese capitalistico il prodotto mercificato domina
sull'uomo, diventando un feticcio. L'alienazione di una cosa è quindi un autoestraniarsi, per il
fatto che l'uomo non si serve delle cose, ma le cose si servono di lui.
In senso più ampio, si parla di alienazione religiosa, politica, ecc., per indicare che le idee
prodotte dagli uomini (religione, sistemi politici) sfuggono ad essi (espropriazione) e li dominano
(schiavitù).