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I paradossi del consumo

Noi siamo “prosumer”, ovvero consumatori e produttori allo stesso tempo e in tal senso
comprendiamo come funziona il consumismo e i suoi pro e contro. Compriamo cose poco costose o
inutili pur essendo consapevoli di come molti lavoratori siano sfruttati o certi beni siano realizzati in
maniera poco sostenibile o inquinino. Il consumo è, inoltre, necessario per sostenere l’economia ma
allo stesso tempo l’inquinamento, lo sfruttamento di risorse non rigenerabili, il cambiamento
climatico sono tutti i risvolti negativi che il consumo ha generato. Questo, quindi, conduce ai
numerosi paradossi e ossimori del consumo.

Creazione e distruzione: la parola consumare dal latino può indicare sia “distruggere” che
“completare”. Per Marx, ad esempio, la distruzione e ricreazione erano necessarie al capitalismo per
continuare a produrre abbondanza. L’economista Schumpeter definiva “creative destruction”
(distruzione creativa) come centrale per la sopravvivenza del capitalismo, la quale consiste in un
costante processo di distruzione del “vecchio” (ovvero le vecchie industrie, i brand e beni non più in
voga) per ricreare il “nuovo”. Come “completamento” invece possiamo usare come esempio il modo
di dire “consumare un matrimonio”, ovvero la necessità di avere un rapporto sessuale con il proprio
congiunto di modo che il matrimonio sia valido. Quindi consumare significa sia
usare/consumare/terminare un bene che “completamento” nel senso che portano (teoricamente)
alla realizzazione, compimento.

L’efficienza dell’inefficienza è un paradosso che sta ad indicare la creazione della strategia


dell’obsolescenza programmata, di modo da aumentare i consumi grazie allo sviluppo di prodotti
programmati per rompersi nel breve periodo di tempo.

Utopia e distopia ovvero progresso e catastrofe. Marx teorizzava il capitalismo come funesto e allo
stesso tempo un processo di straordinario e liberatorio dinamismo. Jameson, colui che per primo
teorizzò questo paradosso, similmente a Marx, vede il capitalismo dei consumi come un processo che
permette al consumatore una grande libertà espressiva, identitaria e sociale. Ma per poter
partecipare a questa “libertà” bisogna avere i mezzi indispensabili: capitale economico e culturale e
la consapevolezza che i nostri gusti e desideri sono, se non tutti almeno in parte, manipolati dai
media.

Omogeneità ed eterogeneità fanno riferimento alla visione – ormai in parte obsoleta – delle
multinazionali che impongono le loro forme di cultura (solitamente americana), distruggendo la
cultura locale. Ad oggi però i grandi brand sono consapevoli che non possono continuare a
sopravvivere senza adattarsi in parte alle culture locali o comunque saranno le persone stesse ad
adattarle.

Un altro paradosso si riferisce al “consumerism” come un’attività sia libera che controllata. Questo
concetto è spiegato da Miles quando parla del paradosso del consumismo che consiste in un modo di
vivere dove “il consumismo” – e non più il semplice consumare – è sempre più centrale nelle nostre
vite. Un consumismo che appare affascinante, che promette di farci sentire appagati, liberi di
scegliere tra una grande varietà di beni ma allo stesso tempo cerca di manipolare le nostre scelte e il
nostro modo di consumare. I consumatori oggi sono consapevoli dei processi di marketing tesi a
manipolare le loro azioni e questo li porta ad oscillare tra il lasciarsi manipolare e il prendere
coscienza della manipolazione.

Non esiste quindi l’uomo economico di Mill, ovvero un consumatore mosso solo da calcoli razionali
di consumo, come il rapporto qualità-prezzo. Il consumatore è invece mosso da un mix di ragioni
razionali e irrazionali. Quella che viene chiamata “irrazionalità” viene riferita alla fedeltà e affetto che
si può provare verso un marchio. Anche il corpo è affetto irrazionalmente dal consumismo e dal
marketing. Le immagini relative al corpo nei media hanno contagiato i consumatori con degli ideali di
immagine del corpo ormai da tempo.

Come diventiamo consumatori


L’idea moderna di consumatori è nata grazie ad un complesso di sviluppi storici e teoretici di cui
Marx ha contribuito in gran parte alla loro nascita. La visione del consumatore ridotto ad un
archetipo stereotipato, manipolato e passivo rispetto al sistema capitalistico, creata dai primi teorici,
è però ormai obsoleta. Non bisogna quindi chiedersi solo “cosa compra” ma soprattutto “perché
compra”, che significati attribuisce il consumatore a ciò che compra e che effetti ha il marketing su
queste azioni? Si ricerca quindi la dimensione simbolica che avvolge le scelte del consumatore.

Oltre allo studio sul consumatore è necessario dedicarsi anche allo studio delle merci. Due visioni:

1) In una orizzontale del consumo, teorizzata da Fine, dove la merce è studiata per il suo valore
simbolico e come questo si lega all’identità personale, sociale o subculturale di una persona ma
anche gli effetti del marketing sulle scelte del consumatore.
2) In una visione verticale, la quale consiste nello studio del suo ciclo di vita, dall’ideazione,
compra-vendita, utilizzo e riutilizzo o smaltimento. A questo ultimo concetto è collegato anche
il possibile impatto ambientale di quella merce e la sua sostenibilità.

Storia del consumo


Quando si affronta il tema della nascita del consumo attraverso i suoi tre grandi teorici (Marx, Veblen
e Simmel) bisogna sempre tenere presente del contesto storico in cui vennero sviluppate. Da loro,
infatti, nasce la visione romantica dell’era preindustriale tipica dei primi teorici. Marx contrapponeva
l’alienazione del lavoratore moderno ad una società preindustriale dove il lavoratore era si soggetto a
sfruttamento e ingiustizie ma non esisteva l’alienazione così come la intendeva Marx. Era un’era
basata sulle relazioni personali, nel vedere i frutti del proprio lavoro e a chi sarebbero stati destinati.
Questa visione di Marx è chiamata prelapsariana, riferendosi alla condizione umana prima della
“caduta nel peccato originale” narrato nella Genesi.
Quando Marx parla di consumo lo intende come “produzione di merci”; di consumo di cibo e
bevande e non come beni che cercano di creare nuove forme culturali e simboliche. Una visione
quindi diversa dal moderno concetto di consumo.

Per Marx la merce è un bene necessario all’uomo per soddisfare i suoi bisogni. Essa è dotata di due
valori intriseci: valore d’uso e valore di scambio.
1) Il primo intende il costo reale, in termini di risorse e costo di produzione, della merce.
2) Mentre il valore di scambio intende il prezzo della merce sul mercato.
Il costo di una merce sul mercato non equivale alla sola somma del lavoro richiesto e delle risorse
usate ma da come è percepito, quali significati gli vengono attribuiti e quindi quanto viene
desiderato dai consumatori. La differenza tra (1) e (2) genera il plusvalore, ovvero il puro profitto per
i capitalisti a danno dei lavoratori. Queste teorie possono essere considerate parte della analisi
verticale, ovvero quando si fa riferimento al ciclo di vita del prodotto ma anche all’analisi orizzontale
riferendosi al processo con cui la merce assume valore.
Al concetto di plusvalore è collegato quello di alienazione: il fatto che ogni operaio sia tenuto a
prendere parte ad una millesima parte di tutta la catena predisposta alla produzione e poi vendita
della merce rende il lavoratore alienato dalla merce che produce.

Oltre al concetto di alienazione Marx introduce la teoria del Feticismo delle merci: dato che il
lavoratore non ha concezione del proprio lavoro e del prodotto delle proprie fatiche, si può ipotizzare
che la merce una volta prodotta sia un oggetto esterno le cui qualità sono state generate per
soddisfare i bisogni dell'uomo. A questa teoria Marx introduce la concezione antropologica del
Feticismo (che fa riferimento alla teoria secondo la quale un oggetto possa avere poteri magici o
divini). La merce, quindi, inizia ad essere trattata come se avesse valore di per sé senza guardare al
lavoro dell'uomo che c'è dietro. Questa teoria, unita alla visione di Marx di merce come un qualcosa
all’apparenza inutile ma che se analizzata si scopre essere ricca di sfumature metafisiche e
teologiche, porta al concetto di feticismo delle merci. Attraverso il feticismo delle merci viene
riconosciuto il fatto che il consumatore non è mosso solamente dalla ragione.
Veblen: consumo, oggi, non più collegato alla classe di appartenenza, è basato sull’emulazione delle
classi superiori.
1) Coloro che si arricchiscono cercano quindi di emulare il modo di consumare dell’élite che definisce
i nuovi trend.
2) L’élite deve continuare a rinnovare i propri gusti, così da differenziarsi dalle classi inferiori.

Coloro che emulano hanno due modi di mostrare il loro nuovo status acquisito:
1) Standing monetario che corrisponde ad esempio ai vestiti o ai ristoranti frequentati;
2) Svago vistoso, ovvero il distaccarsi totalmente dallo stile di vita di chi deve lavorare per sostenersi,
dedicandosi ad esempio a viaggi e nuovi interessi. Tutto questo avviene attraverso un consumo
vistoso anche perché nelle grandi città è difficile mettersi in mostra senza essere “eccessivi”.
Teoria di Simmel il quale sfrutta il concetto di blasé: atteggiamento distaccato, annoiato dalla vita di
tutti i giorni per denotare come le persone cercano di rompere l’anonimità della città e il tipico
ignorarsi reciproco attraverso forme di consumo che consentano loro di affermare la propria
individualità, di rendersi “visibili”, distinti dalla folla anonima.

La moda è per Simmel il primo modo per mostrare il proprio status ma anche la propria individualità.
Per questo l’individuo si ritrova diviso tra l’imitazione dei trend (la moda) usati dalle gerarchie a lui
superiori e il desiderio di differenziarsi dagli altri. Allo stesso tempo la moda definisce pattern di
consumo che diventano tipici di certi gruppi sociali e subculture permettendo loro di distinguersi in
gruppi di appartenenza o classi. Il mito dell’individualità nasce quindi con l’avvento della società
moderna e del diverso modo di consumare che ne consegue.

L’etica Romantica e il consumatore moderno


Alcune pratiche di consumo stabiliscono posizioni sociale e aspirazioni e le merci diventano portatrici
di significati. Ci si sposta sempre più una dimensione simbolica del consumismo. Ai fattori economici e
ai modelli di emulazione sociale si aggiunge la centralità dell’individuo in età moderna. L’idea di
individuo della cultura romantica segna il passaggio dal consumismo d’élite al consumismo di massa.
Campbell vede una continuità tra il disincantamento di cui parla Weber- separazione tra emozione e
mondo naturale - e il senso di perdita della comunione con la natura del movimento Romantico. Da
Rousseau in poi l’individuo è alla base di scelte che comportano grandi cambiamenti nella storia della
persona. Il romanticismo fornisce una filosofia della ricreazione che legittima la ricerca del piacere
come una cosa buona di per sé. Si apre così la strada per una nuova etica consumistica basata
sull’edonismo, si delineano già due fattori importanti delle teorie moderne del consumismo: il
desiderio e l’insaziabilità sottese alle ricerche del piacere

Scuola di Francoforte
Le teorie della Scuola di Francoforte hanno una visione molto pessimistica della società dei consumi.
Secondo Adorno e Horkheimer l’espansione dell’industria e produzione di massa ha portato alla
mercificazione della cultura e quindi una standardizzazione, omogeneizzazione e deterioramento della
cultura di massa un livellamento verso il basso nei riguardi della cultura americana. Per la Scuola di
Francoforte il consumatore è passivo di fronte alle manipolazioni dell’industria di massa, sempre alla
ricerca di un modo per sentirsi soddisfatto ma alla fine non troverà altro che una falsa soddisfazione
che lo porterà a consumare sempre di più.
Secondo Marcuse il capitalismo promuove un’ideologia atta a creare, tramite tecniche raffinate di
marketing, dei falsi bisogni, i quali hanno anche funzione di controllo sociale. Gli individui credono
quindi di avere scelta nei propri consumi ma in realtà sono scelte pre-modellate.
La sua teoria ha anche effetto sulla sfera politica: il capitalismo porta ad una conformità
depoliticizzata che limita gli obiettivi e le azioni dell’individuo all’interno di solo quelle realizzabili
dentro la cornice del capitalismo, portando così all’alienazione dell’individuo troppo concentrato nel
soddisfare i suoi falsi bisogni per dedicarsi seriamente alla politica.
Per Marcuse così come il nostro lavoro e tempo che gli dedichiamo è attentamente organizzato,
l’industria culturale ha come scopo quello di organizzare anche il nostro tempo libero mercificando le
esperienze, rendendo di fatto il lavoro e il tempo libero non più concetti profondamente distinti.
Le teorie della Scuola di Francoforte fanno riferimento alle teorie di Marx e la sua visione negativa del
consumismo. Si dimostrano reclutanti nel riconoscere che il consumo è un’attività necessaria piuttosto
che solo una forma di controllo sociale che ci porta a consumare per realizzare i nostri falsi bisogni e
forme di cultura ed esperienze mercificate, standardizzate, rozze. È quindi una concezione del
consumatore ormai obsoleta che verrà recuperata e reinterpretata da successive teorie in chiave
positiva, ovvero del consumatore consapevole di essere manipolato ma allo stesso tempo attivo nel
manifestare creativamente la propria identità rimanipolando la cultura industriale che gli viene
proposta.
Tardo capitalismo
Con la Seconda Guerra Mondiale si transita ad una produzione di massa, il quale avrà un forte impatto
sull’emergente cultura popolare. È proprio negli anni ‘50 che l’identificazione del mercato per i giovani
modifica il modo di operare del marketing e brand, i quali non targettizzato più i consumatori per
status ma per gruppi sociali di appartenenza e dei significati che attribuiscono a quello che acquistano.
Secondo Barthes crollano i grandi valori che avevano tenuto insieme le società precapitalistiche. La
mercificazione dei beni e della cultura ha frantumato quelli che erano i valori intoccabili della società
tradizionali (la religione, l’aristocrazia) portando alla messa in discussione delle concezioni su cui era
basata la società precapitalistica, rendendo allo stesso tempo l’uomo “più libero” ma anche più incerto
della propria realtà.
Si vengono quindi a creare nuovi miti, basati su un nuovo background culturale creato dalla cultura di
popolare e industriale di massa, che danno senso al nuovo modo di concepire la realtà per mezzo di
immagini e pubblicità che devono essere lette sfruttando una moltitudine di significati appresi tramite
la socializzazione all’interno della società dei consumi. Noi però crediamo che la visione che ne
abbiamo e significati che attribuiamo alla nostra realtà siano “naturali”, senza storia, come se fossero
sempre esistiti.
Capitolo 2- Siamo quello che compriamo
Nella cultura di consumo l’individuo utilizza le merci per esprimere la propria identità, scegliendo un
prodotto piuttosto che un altro per via delle sue caratteristiche e simboli che la società o gruppi sociali
gli impongono. Attraverso la scelta di un prodotto l’individuo esercita un giudizio di gusto. Il gusto
deriva dall’educazione ricevuta, background familiare o identità culturale. Da questo deriva lo stile di
vita (lifestyle) che dipende dall’esercizio dei nostri giudizi di gusto e scelte di consumo in un periodo di
tempo. Esprimiamo con il lifestyle la nostra identità o status che vorremmo raggiungere, il gruppo
sociale a cui apparteniamo ma anche a quali brand siamo fedeli e scegliamo per esprimere la nostra
individualità e valori. Il lifestyle serve anche a individuare la connessione tra identità e consumo.
Il concetto di identità è legato all’identità di sé, ovvero all’idea che abbiamo di noi stessi e all’identità
sociale cioè le opinioni che pensiamo gli altri abbiano di noi. Per Bourdieu è il consumo che plasma il
nostro modo di vedere noi stessi e gli altri e allo stesso tempo usiamo il consumo per distinguerci gli
uni dagli altri.
La spinta alla differenziazione è anche un concetto della teoria di Simmel, secondo la quale gli
individui cercano di differenziarsi dalla massa indistinta e anonima delle città attraverso l’eccentricità e
il consumo vistoso per esprimere la propria identità individuale o di appartenenza ad un gruppo o
posizione sociale.
Questo modo di vivere il consumo con gli stili di vita (lifestyles) e il consumo vistoso sono emersi dopo
la Seconda Guerra mondiale con la produzione industriale di massa che ha portato alla
democraticizzazione delle merci.
Se prima i beni di lusso, ovvero i beni non necessari, definiti come “positional markers” usati per
esporre il proprio status, erano solo ad appannaggio delle élite i quali li usavano per differenziarsi
dalle altre classi sociali, con l’avvento della produzione di massa i beni di lusso sono diventati
potenzialmente a portata di tutti avviando così un consumismo vistoso, legato alla logica della
significazione (dall’utilità materiale al valore segno), volto a cercare di emulare le classi sociali più
agiate anche a costo di comprare un qualcosa che non serve ( come una casa più grande). Questo per
Robert Frank porta ad un’insoddisfazione perpetua perché ci sarà sempre qualcuno che ha “più” di
noi. Inoltre, con l’aumento della domanda aumenta anche il prezzo di un bene così che per alcune
classi di individui quel bene diventi troppo costoso e quindi diventare un altro motivo di
insoddisfazione.

Bourdieu – capitale – habitus


Per Bourdieu gli individui possiedono tre tipi di capitale, ovvero delle risorse accumulabili necessarie
alla socializzazione:

1) Il capitale economico consiste nelle risorse economiche,


2) il capitale sociale concerne la conoscenza di certi gruppi sociali rispetto ad altri a seconda del
proprio;
3) capitale culturale, ovvero il tipo di educazione, background familiare e sociale da cui
proveniamo e che detta i nostri gusti e gli altri due tipi di capitale prima discussi; tutti e tre sono
infatti correlati tra loro.

Lo stile di vita però non dipende dal reddito o classe sociale ma è il risultato soggettivo dell’insieme
dei capitali: Bourdieu chiama questo concetto con il nome di habitus, ovvero l’insieme delle
disposizioni, rappresentazioni o modi di pensare che ci fanno percepire la realtà che ci circonda in
certi modi piuttosto che altri. L’habitus, il quale non concerne il reddito o classe di appartenenza, si
esprime anche attraverso i nostri consumi. Bourdieu fa l’esempio dell’olio d’oliva: questo bene,
prima considerato come non necessario in quanto sostituito da beni più economici, è diventato un
modo per distinguerci come persone sofisticate e attente alla salute e di conseguenza appartenenti al
gruppo sociale con cui si condivide quel certo stile di vita indifferentemente dalla classe economica di
appartenenza.
L’habitus porta anche alla strutturazione del nostro corpo in base allo stile di vita. Il modo in cui
mangiamo, cosa mangiamo, come camminiamo, quanto gesticoliamo mentre parliamo, la cura che
poniamo nel nostro corpo riflette la nostra scelta dell’habitus.
Per Bourdieu però le nostre scelte di consumo riflettono la nostra classe di habitus e difficilmente
verranno scelti prodotti o passatempi non appropriati a quest’ultimo. Questo denota come alla fine
la libertà di scelta di far parte di un certo habitus o classe sociale semplicemente cambiando il
proprio stile di vita, è difficile se non impossibile da realizzare. Per l’autore, infatti, i nostri gusti
resteranno sempre legati alla nostra classe sociale di appartenenza.

Estetizzazione della quotidianità


Featherstone ha una concezione di stili di vita, di gusto e di appartenenza sociale meno rigide
rispetto a Bourdieu e Veblen. Per l’autore lo stile di vita consiste nell’estetizzazione della
quotidianità, ovvero la scelta attenta e accurata dei beni e del design da parte degli individui per
esprimere la propria identità non più legata ad una classe sociale, habitus o all’emulazione di élite ma
per rimarcare le nostre scelte di vita, gusti e personalità individuale e per questo fluida, mutevole. Un
individuo può quindi anche far parte di gruppi differenti a seconda dello stile di vita che sceglie in
quel periodo.

Autenticità
I primi teorici della società del consumo vedevano il consumo come una forma di alienazione basata
su un sistema rigido di status e gruppo sociale di appartenenza e lontano da qualsiasi forma di
autenticità. Teorici successivi hanno dimostrato come il consumatore, non ha più un ruolo di passivo
fruitore dell’industria di beni e cultura ma fa sua la cultura e il simbolismo dei beni per modificarli,
reinventarli e riciclarli.
L’uso degli oggetti al di fuori del loro valore d’uso e il loro consumo per necessità è un concetto nato
con la modernità. Ma l’attribuzione di un valore simbolico agli oggetti è una pratica estesa da sempre
e ovunque tra gli individui. Gli oggetti arricchiti da questi valori simbolici vengono chiamati oggetti
culturali (cultural objects). Certi oggetti, all’interno del sistema comunicativo basato sullo scambio
dei simboli, hanno particolari caratteristiche simboliche che vengono espresse attraverso il
possedimento e la loro messa in mostra. Vengono chiamati “positional goods” e sono in genere beni
molto ambiti e desiderati. La ricchezza semiotica degli oggetti ha inoltre creato, secondo Douglas, una
“tirannia” basata sul sistema comunicativo degli oggetti, dove vi è un controllo sull’uso appropriato
dei segni a seconda della propria identità individuale e socioeconomica. Le pratiche di consumo e i
valori che attribuiamo a certi oggetti identificano quindi la nostra identità, status e appartenenza a
dei gruppi. L’appartenenza a dei gruppi può però anche non essere di predeterminata, afferma
Shield, ma può variare come il nostro pattern di consumo e posizione sociale.
Il mantenimento della nostra identità e status è quindi basato su due criteri opposti:
1) “flux”, ovvero la libertà di modificare la nostra identità;
2) “fixity” la quale si ricollega al concetto di habitus e stile di vita di Bourdieu che vede la nostra
individualità e gruppo sociale di appartenenza come un qualcosa che non possiamo semplicemente
decidere o cambiare.

Nella realtà non ci poniamo personalmente il problema del flux/fixity della nostra identità in quanto,
secondo Hall, abbiamo creato una narrativa del self dalla nostra nascita che fa sembrare la nostra
identità coerente.
In una società dove l’assimilazione di culture diverse è una realtà quotidiana ci si chiede quindi se
esista l’identità “autentica”. Per numerosi teorici il consumo industriale si contrappone al concetto di
autenticità ma Miller si oppone a questa visione perché la cultura è capace di assorbire,
reinterpretare, creare un qualcosa di totalmente nuovo. Gli oggetti non sono stati mai usati
esclusivamente per la loro sola utilità (al contrario di quanto Marx e altri teorici credevano) ma da
sempre sono stati quasi tutti impregnati di uno o più valori segnici e per questo vengono definiti
oggetti culturali.
Generalmente l’identità etnica, basata su profonde radici culturali come possono esistere nelle
piccole realtà sociali (villaggi, paesini, o zone dove vivevano i primi immigrati), viene vista come
autentica ma questa viene ibridata dai consumi esterni alla nostra cultura (tv, libri, giornali, radio,
internet) e classe sociale di appartenenza.

Capitolo 3

Mcdisneyficazione
Grazie a processi come la promozione di politiche neoliberiste in America, l’emergere dell’industria di
massa nei paesi meno sviluppati, la deregolamentazione e delocalizzazione delle risorse produttive in
un’ottica capitalistica si è potuto assistere al processo di globalizzazione del mercato che ha
modificato non solo il nostro consumo dei beni ma avuto effetto anche sulla cultura e il nostro stile di
vita. Le multinazionali globali sono infatti in grado di influire sui nostri modelli quotidiani di consumo.
Ad oggi però è in uso un approccio più sensibile alle culture locali. Le grandi multinazionali cercano
quindi di esportare i loro prodotti e “cultura” adattandole in parte al contesto socio-culturale, in
un’ottica di glocalizzazione.
Numerosi processi hanno portato alla globalizzazione ma il fordismo e il post-fordismo sono i
principali processi a cui dobbiamo la nascita della società consumistica e industria di massa
globalizzata come la conosciamo oggi.
Il fordismo consiste nella produzione di massa e standardizzata nella quale gli operai hanno un unico
semplice compito ripetitivo e massimizzato per essere il più efficiente e veloce possibile (gestione
scientifica del lavoro atta ad applicare sugli operai logiche simili alle macchine). Gli operai quindi non
sono lavoratori specializzati e per questo hanno un reddito basso e allo stesso tempo possono essere
facilmente rimpiazzabili.
La recessione globale degli anni Settanta dovuta alla crisi petrolifera, saturazione dei mercati e
un’alta disoccupazione ha portato alla teorizzazione di nuove logiche di produzione basate sulla
“razionalizzazione del consumo” in cui si cerca di adattare la produzione ai gusti e stili di vita del
consumatore e si cerca di ridurre lo spreco e l’accumulo, ad esempio, con logistiche di produzione
“just in time” dove viene prodotto solo quello che si prevede di vendere nel breve periodo. Vengono
sviluppate anche tecniche di marketing che cercano di sfruttare la componente emotiva del
consumatore e nascono nuovi mercati che rispecchiano gusti più di nicchia per certe classi di
consumatori. Il post-fordismo ha spostato quindi il focus dal prodotto al consumatore, mettendo in
pratica certe logiche del fordismo anche sul consumo dell’esperienza attraverso la
spettacolarizzazione e tematizzazione (i parchi a tema).

Mcdonaldizazzione
Il McDonald’s rappresenta il modello di multinazionale organizzata nella maniera più efficiente
possibile in tutto il mondo. È, infatti, una catena di ristoranti-fast food che utilizza principi simili a
quelli teorizzati per il fordismo. Questo gli ha causato molte critiche a causa:
1) delle pratiche commerciali aggressive finalizzate a imporre l’American Way of Life;
2) di omogeneizzare verso un certo modello di vivere anche le culture locali;
3) verso il trattamento dei dipendenti, con contratti zero hours, cioè quando si viene pagati solo per
il lavoro svolto senza un orario di lavoro fisso.
4) sono state mosse critiche verso la “cultura” del cibo

esportata da McDonald’s a causa di un menù a base di carne e cibo molto calorico, molto dannoso
anche per l’ambiente a causa dell’alto consumo di carne e del trattamento degli animali.

Questa realtà ha persino portato alla creazione del termine McJob, ovvero un lavoro mal retribuito e
privo di opportunità di carriera.
Il McDonald’s diventa un modello da imitare dalle altre aziende grazie alle 4 caratteristiche principali:
1) l’efficienza che consiste nell’assicurare che tutto avvenga nel momento e posto giusto al minor
prezzo e tempo possibile attraverso un’efficace organizzazione delle mansioni lavorative;
2) la prevedibilità per la quale i clienti si aspettano la stessa esperienza in qualunque parte del
mondo;
3) il controllo dei processi, atti ad eliminare l’errore umano e rendere tutto meccanicamente
efficiente;
4) la calcolabilità fondata sul concetto di servire porzioni sempre più grandi ad un minor tempo
possibile.
L’esperienza che quindi offre il McDonald’s è standardizzata, prevedibile, meccanizzata e soprattutto
razionalizzata.

Il consumo capitalistico odierno ci ha abituati a questo tipo di esperienze, ad avere tutto e subito ma
questo processo viene descritto da Ritzer come l’irrazionalità della razionalità: la nostra esperienza
di consumo è basata su sistemi che negano l’umanità dei dipendenti e clienti creando un clima di
alienazione. La disponibilità continua dei prodotti ci è data a costo di un uso sconsiderato delle
risorse, dell’inquinamento ambientale e da cibi privi di reali sostanze nutritive.
I concetti sopra esposti si possono collegare ai sistemi di funzionamento della società teorizzati da
Weber: l’efficienza burocratica, l’estrema razionalizzazione dei processi di produzione e consumo, la
calcolabilità dei risultati al fine di eliminare qualsiasi fattore irrazionale (l’emotività, la soggettività).
Il costo di un Big Mac ha dato vita ad una teoria economica fondata sulla parità dei poteri d’acquisto
e al fenomeno del Burgernomics. Il celebre hamburger è quindi stato usato come esempio per
comprendere se una valuta sia sopravvalutata o sottovalutata attraverso il confronto di quanto
quell’hamburger costi rispetto al salario medio (ad esempio ad un americano dovrà lavorare 1/3
rispetto ad un cinese per poter permettersi un Big Mac).

Disneyficazione
Accanto alla macdonaldizzazione un principio con caratteristiche comuni è la disneyficazione.
Nonostante il primo ristorante McDonald’s sia stato aperto lo stesso anno del primo parco a tema
della Disney, il processo di disneyficazione riprende i processi razionali della macdonaldizzazione
(controllo, puntualità, ripetitività, calcolabilità, efficienza) in chiave post-moderna dove alla
spettacolarizzazione del consumo dell’esperienza vengono affiancati concetti come la proliferazione
dei segni, l’uso della nostalgia per attirare gli adulti, la de-differenziazione del consumo.
Una critica che viene mossa ai processi di disneyficazione consiste nella trasformazione di storie
tradizionali e popolari in prodotti stereotipati e semplicistici, adattati per un pubblico di massa.
Questa critica ha come base la critica dell’industria culturale mossa dalla Scuola di Francoforte, la
quale sosteneva che la cultura di massa ha portato ad un livellamento verso il basso della cultura.
I parchi Disney sono anche un esempio dell’irrazionalità della razionalità, (ovvero un sistema di
consumo basato su sistemi che negano l’umanità dei dipendenti e clienti creando un clima di
alienazione), dove ad esempio l’efficienza nel processare la lunga fila per le giostre più gettonate
viene vissuta dai visitatori come un’inefficienza. Per Bryman ci sono 4 caratteristiche chiave che
oltrepassano la teoria della macdonaldizzazione dei processi:
1) Il tema è la caratteristica più peculiare dei parchi Disney, presente dall’inaugurazione del
primo parco. Fortemente voluto da Walt Disney stesso, il tema consiste nel creare un
universo con narrazioni, valori, luoghi e personaggi immediatamente riconoscibili.
2) Il tema è stato concepito per la necessità di coinvolgere anche gli adulti che accompagnavano
i bambini in un’esperienza completamente avvolgente, priva di intrusioni esterne e che
celebrasse la nostalgia grazie a temi come quelli del selvaggio West o l’era dei dinosauri.
3) Al tema è anche collegato il merchandising, ampiamente sfruttato dalla Disney fino dai suoi
esordi. Il parco oltre a vendere il merchandising Disney standard vende anche merchandising
specifico di quel dato parco, così da fungere da souvenir per commemorare l’esperienza. Il
merchandising non ha solo la funzione di incrementare le vendite ma anche promuovere un
dato prodotto (il parco, il film in uscita) attraverso magliette o cappellini indossate dai
visitatori.
4) La de-differenziazione si ricollega all’esperienza dei parchi a tema in quanto fa riferimento
alla interconnessione sempre maggiore tra diverse forme di consumo prima considerate
separate. Ad esempio, la visita del parco offre anche l’alloggio negli hotel Disney ma anche
l’opportunità di fare shopping e mangiare. Alloggiare in questi hotel permette anche di avere
diversi vantaggi come quello di avere il posto in prima fila per le giostre. Questo è anche un
altro esempio d’irrazionalità della razionalità.
Per rendere l’esperienza sempre più immersiva i dipendenti sono costretti ad avere un ruolo e un
copione preciso e spesso a dover indossare maschere e costumi per interpretare un personaggio.
L’interazione con i visitatori avviene quindi in un modo inscenato e controllato dove i dipendenti
sono costretti sempre a mantenere un copione e un atteggiamento allegro e cordiale qualsiasi sia la
situazione, portando, secondo Ritzer, alla dequalificazione degli impiegati nel settore dei servizi. Le
interazioni sceneggiate richiedono inoltre un grande impegno e autocontrollo definito “lavoro
emotivo”. Nonostante i risvolti negativi per i dipendenti, le interazioni sceneggiate sono state
emulate da molte aziende.
Globa cola-loca cola
La teoria della globalizzazione e l’imposizione di prodotti di massa standardizzati da parte delle
multinazionali globali si scontra con la realtà odierna rappresentata dalla appropriazione dei prodotti
di massa a livello locale e della nuova sensibilità delle aziende ad adattare i propri prodotti al
contesto locale e assicurandosi un maggior successo di vendite. Esiste quindi un’interconnessione tra
il globale e locale ben spiegata dall’autore tramite termini ad hoc. Il termine globa-cola o loca-cola
spiega come il consumo di prodotti locali sia un’alternativa sostenibile contro il consumo di massa.
- Localizzazione invece descrive il processo di adattamento di un prodotto o servizio alla cultura
locale, come il doppiaggio di un film nella lingua locale.
- Per glocalizzazione ci si riferisce all’adattamento di un prodotto di massa per renderlo più
appetibile per la cultura locale. Se questo ha successo il più delle volte i nativi iniziano a
credere che sia un prodotto locale.
La nuova cultura di massa ha bisogno di essere rigenerata in continuazione. Nonostante si sviluppino
periodicamente nuove idee, anche dalla cultura tradizionale-popolare locale, il consumo di massa si
limita il più delle volte ad assorbirle per poi richiedere ulteriori idee nuove.
Per vivere nella società dei consumi oggi bisogna adattarsi ad un modello di consumo nato
prevalentemente in America. Come l’uso di carte di credito, fare shopping online tramite Amazon, la
visione di una serie su Netflix, l’uso di Google o i prodotti e servizi Apple fanno tutti parte
dell’American Way of Life e che fungono da gateway della nostra esperienza della cultura di massa e
globalizzata. Proprio per questo alcuni teorici non vedono Internet come uno strumento per
esprimere la propria individualità personale o far emergere identità locali ma piuttosto come uno
strumento di distruzione delle differenze locali in nome di una logica di consumo standardizzata e di
massa.

Capitolo 4
Bodyshopping
Nonostante la possibilità di fare shopping online comodamente da casa, sono ancora tante le
persone che preferiscono recarsi in un negozio. Questo accade per via del desiderio delle persone di
toccare il prodotto, di averne un’esperienza sensoriale. È, infatti, a partire dal primo tocco di quel
determinato oggetto che desideriamo che noi lo percepiamo come nostro ancora prima di averlo
pagato. Questa sensazione rende i compratori il più delle volte impulsivi. Il marketing è consapevole
di quanto le percezioni sensoriali siano importanti per trasformare i consumatori consapevoli (gli
homo economicus, che credono di poter gestire gli impulsi con la ragione al fine di comprare solo
quel che serve e al miglior prezzo) in consumatori impulsivi e questo ha portato alla nascita del
marketing sensoriale atto a creare un mix multisensoriale attraverso l’ambiente, architettura, luci e
colori, profumi, sensazioni tattili al fine di creare un legame tra i consumatori e il brand e assicurarsi
così la loro fedeltà.
Le pratiche di consumo hanno iniziato fin dall’avvento del capitalismo a modificare il nostro modo di
mangiare e di conseguenza il nostro corpo. Marx indentificava infatti il consumo di cibo come solo
forma di sostentamento per lavorare, avere un salario e spendere questo salario nel consumo, in una
sorta ciclo infinito, producendo un paradosso: lavorare per produrre e vivere di quel che si è prodotto
per aver le forze di lavorare. La produzione industriale di cibo ha quindi portato anche al consumo
industriale di cibo, generando il concetto di McBody. Il consumo di questo tipo di cibo (fast-food e
altamente calorico) non solo fa ingrassare ma comporta notevoli effetti negativi sulla salute del corpo
e danni psicologici.
Bourdieu si ispira quindi alle teorie di Marx quando afferma che il nostro corpo (il peso, la forma,
l’altezza, la cura che gli diamo) è governato dalla nostra classe sociale di appartenenza, dal nostro
habitus e stile di vita e di conseguenza ne diventa anche espressione di queste. Mantenere un fisico
(che secondo Shilling è un altro nostro capitale) “adatto” al proprio gruppo socioeconomico diventa
quindi allo stesso tempo un’altra forma di consumo: compriamo cibo e bevande dietetiche,
pratichiamo certi sport piuttosto che altri.
Il consumatore ha una relazione con il cibo come la ha con lo shopping. Oltre ad esprimere le nostre
preferenze personali e culturali, il consumo di cibo concerne anche la nostra sfera religiosa e
sociale. Alcune religioni richiedono di mangiare in un certo modo mentre in certe occasioni sociali ci
si aspetta un certo tipo di cibo, come ad esempio le torte nei matrimoni.
Foucalt ha una concezione delle abitudini alimentari diversa da Bourdieu. Foucalt le chiama
“pratiche” o “tecnologie” del sé e piuttosto che attribuire il modo di consumare il cibo al proprio
habitus, lo attribuisce a pratiche di espressione dell’identità personale attraverso l’adozione di
“discorsi” e “fenomeni fisici” come vestiti e certi oggetti. Ad esempio, un lavoro rilevante come chef
implica la costruzione di una narrativa comprensiva di un vestiario, linguaggio e comportamenti
adatti che verranno poi nel tempo incorporati nel proprio corpo e identità.
Consumo e consumo relativo al cibo sono legati a tre aspetti da prendere in considerazione: il
paradosso dell’onnivoro consiste nel desiderio di voler variare cibo ma allo stesso tempo cibo ignoto
potrebbe essere pericoloso. Ci dividiamo quindi tra la paura dell’ignoto (neofobia) e la voglia di
conoscere questo ignoto (neofilia). La “civilizzazione del cibo” può variare di cultura in cultura. Ad
esempio, in molti paesi viene consumata la carne di cavallo ma non in Inghilterra, dove
corrisponderebbe al mangiare il proprio animale domestico.
Il secondo aspetto si riferisce alla tensione tra la disciplina e la trasgressione. La società ci impone
l’autodisciplina in contrapposizione al nostro istinto animalesco che si rivela nella golosità, nel
trovare piacere nell’abbuffarsi da cui deriva un piacere quasi sessuale. Nella realtà però noi siamo
soggiogati similmente a quello che Bordo chiama “corpo anoressico”, ovvero un corpo che, pur di
mantenere una forma fisica socialmente accettata, resiste alle tentazioni della golosità attraverso
l’auto dominio della propria mente e corpo.

Nella società capitalistica odierna il dualismo per cui la mente è più importante del corpo si è
invertito. Ad oggi avere un corpo come quello idealizzato dalla società è considerata una priorità. Vi
sono due modi attraverso cui le norme sociali vengono sospese e momentaneamente cambiate:

1) la spiaggia, un luogo consono in cui esibire il proprio corpo, un luogo dedicato al piacere dove
ci si permette anche ad esempio di mangiare cose caloriche o consumare più alcohol rispetto
alla quotidianità.
2) Il carnevale, il quale rovescia temporaneamente le regole e gerarchie quotidiane
permettendo una relativa libertà dal controllo sociale.

Capitolo 5
La natura
Anche la natura nella società dei consumi odierna si è trasformata in un prodotto da consumare, in
merce. La natura viene modificata da numerose pratiche (la cultura della tradizione, romanticismo,
divertimento) che rendono il consumo della natura in una forma di consumo spettacolarizzata, non
dissimile da un parco a tema o centro commerciale.
Vi sono due modi principali di consumare la natura:
1) un consumo dei temi della natura, ovvero un consumo passivo, mediato dai media (foto,
documentari, dipinti...)
2) un consumo basato sulla natura che consiste in un consumo diretto, “più autentico”; è collegato
anche al turismo e quindi a esperienze pre-confezionate, realizzate sulle aspettative e attese del
consumatore più che sull’offrire un’esperienza autentica. La cultura attraverso i media ha infatti
creato un particolare immaginario sul mondo della natura, realizzato attraverso documentari, dipinti,
foto che poi vengono mercificate attraverso pubblicità, parchi a tema, prodotti green. Il turista
diventa un semiotico amatoriale che non si limita a consumare la natura ma la riproduce attraverso
un insieme di segni, tra cui le foto. Per ogni foto che ritrae gli stessi luoghi turistici precedentemente
visti in documentari o brochure viene mantenuto e rinforzato l’immaginario del turista.
Si può facilmente dedurre che la vista è il principale senso con cui percepiamo la realtà e quindi
vediamo la natura. Urry parla infatti di due tipi sguardi:

1) sguardo turistico si riferisce al desiderio di novità, di allontanarsi dalla quotidianità per entrare
in contatto con la natura, dove per natura si intende un’esperienza mediata, preconfezionata,
per occupare il nostro tempo libero attraverso forme di consumo spettacolare. Si tratta quindi
di un’esperienza della natura mediata dall’immaginario che i media hanno costruito.
2) sguardo romantico che rappresenta il desiderio di un’esperienza autentica nella natura
incontaminata, carica di simbolismi religiosi e spirituali;
3) sguardo turistico collettivo, ovvero il turismo di massa in luoghi mainstream, progettati per
gestire un enorme afflusso di persone e favorirne il consumo.
4) sguardo zoologico si ricollega ad una visione di disneyficazione degli zoo. Gli animali vengono
trattati come attrazioni, mercificandoli e “addomesticandoli”, creando un ambiente per loro
che ricrei le aspettative delle persone più che un ambiente naturale per gli animali.

Luoghi ad hoc per fare esperienza della natura come i parchi nazionali seguono ormai le
caratteristiche dei parchi a tema, ovvero la tematizzazione, vendita di merchandising, de-
differenziazione che consiste nell’interconnessione sempre maggiore tra diverse forme di consumo
prima considerate separate (viene riportato l’esempio di un parco acquatico che è allo stesso tempo
un centro commerciale) e lavoro emozionale, ovvero il costringere i dipendenti a seguire un copione
mantenendo sempre un atteggiamento cordiale.
L’esperienza che noi crediamo di fare della natura è quindi perlopiù artificiale, simulata. Baudrillard la
chiama “simulazione del terzo ordine” per parlare di una simulazione in cui il referente non è più
presente o importante. I riferimenti vengono liquidati e l’autenticità a cui noi facciamo riferimento è
solamente un mito che noi abbiamo costruito.

Capitolo 6 -Tipi di consumatore, subculture


Il consumo moderno ha dato vita alla teorizzazione di due tipi idealtipi di consumatori:

1) il consumatore sucker, ovvero un consumatore irrazionale, facilmente manipolabile dalla


pubblicità e tecniche di marketing, passivo. Marx e la Scuola di Francoforte sono i principali
teorici di questo tipo di consumatore, costretto dalla logica irrazionale del capitalismo e dai
falsi bisogni a consumare i prodotti offerti dal mercato dell’industria di massa.

All’inizio del Novecento Bernays affermava che con la comprensione della mentalità di gruppi di
individui permette il loro controllo e la capacità di manipolare le loro azioni senza che ne siano
consapevoli. Da qui nasce la psicologia delle vendite (retail psychology) e la psicologia del
consumatore che studiano i processi che possono influenzare un consumatore all’acquisto,
attraverso tecniche subliminali, segnali sensoriali e influenze ambientali. Tra queste si possono
elencare l’uso di odori, l’organizzazione scientifica degli spazi, il fascino delle vetrine, l’uso calcolato
di luci, le musiche.

2) Il secondo tipo di consumatore è il consumatore savvy, esperto, ispirato all’homo


economicus. Egli è consapevole delle tecniche di manipolazione da parte dei media e negozi e
cerca di attuare forme di resistenza, le quali non si limitano a comprare solo quello che serve
al giusto prezzo ma anche a resistere alle forme di omologazione imposte dai consumi
attraverso l’uso creativo dei prodotti che vengono usati e rielaborati con metodi alternativi.
De Certeau definisce l’alterazione dei prodotti in maniera creativa come appropriazione.

È stato proprio il clima di benessere della seconda metà del Novecento che ha dato vita al nuovo
target commerciale dei teenagers. I giovani, sempre pronti ad omologarsi ai nuovi trend e nuovi stili
hanno contribuito all’accelerazione e cambiamenti nell’ambito della moda, musica e cinematografia
e allo stesso tempo all’aumento dei consumi inerenti a questi ambiti. L’uso improprio delle merci e la
ricerca di un gruppo sociale a cui omologarsi e allo stesso tempo distinguersi dagli altri, diversamente
dalle vecchie nozioni di status e classi socioeconomiche, ha portato alla creazione di subculture o
controculture. Hebdige definisce “estetizzazione della vita quotidiana” la scelta attenta e accurata
degli oggetti e stili per comunicare la propria identità e appartenenza ad un gruppo, o a più di uno
nello stesso momento o in periodi differenti della propria vita. Ogni controcultura è però sempre una
forma di consumo, destinata con il tempo a standardizzarsi e diventare uno stile alla portata di tutti
Paradosso del consumatore → libertà di espressione e allo stesso tempo manipolazione e controllo
da parte dell’industria della cultura di massa. Il consumo è stato poi spesso caratterizzato sia dalla
distruzione, che dalla creazione. Per capire meglio questo concetto, dobbiamo andare oltre le critiche
post-guerra della scuola di Francoforte e concentrarci su teorici della creatività e del potere della vita
quotidiana, come Lefebvre e De Certeau.

Capitolo 7
Centri commerciali – flaneur
I centri commerciali e gallerie come li conosciamo oggi sono frutto di un insieme di sviluppi storici,
sociali, tecnologici e, oserei aggiungere, di sviluppi relativi al marketing e pubblicità. La nascita
dell’industria ha comportato lo spostamento di grandi masse di persone nelle città e lo spostamento
delle ricchezze dai proprietari di terra agli industriali. Le innovazioni in ambito tecnologico hanno
portato non solo all’invenzione di treni e navi a vapore di modo da trasportare grandi quantità di
merce e di persone lungo il mondo ma ha anche fatto progredire l’uso di materiali come il ferro e il
vetro usati poi per creare le prime gallerie, centri commerciali e le vetrine.
Nell’era preindustriale l’artigiano e il commerciante avevano un rapporto diretto con i propri
compratori, sapevano da dove venivano le materie prime o gli oggetti che vendevano e spesso erano
loro stessi a produrli. Vi era un rapporto diretto tra le due parti, con cui si poteva ad esempio
patteggiare il prezzo e si veniva a creare una relazione personale. Nelle gallerie e centri commerciali
sono le vetrine a mostrarci il prodotto (e spesso anche il suo prezzo) generando quindi una de-
personalizzazione del rapporto di vendita, dove l’unico tipo di rapporto che abbiamo è quello con gli
oggetti e le loro confezioni e le tecniche con cui sono stati esposti.
Ritzer definisce i centri commerciali le cattedrali del consumo, luoghi in cui si può comprare qualsiasi
cosa. L’uso della parola cattedrale suggerisce quindi la visione del consumo come una nuova fede,
dove il consumo prende il posto della Chiesa nell’educazione e socializzazione del cittadino odierno. Il
luogo in cui avviene il consumo ha quindi un ruolo centrale nella società consumistica. La visione
delle vetrine e dei prodotti in ambiente sfarzoso serve ad alimentare la nostra fantasia e i nostri
desideri verso i prodotti. Un desiderio destinato a non estinguersi mai poiché è proprio tramite la
fantasia che ad ogni oggetto acquistato immaginiamo quanto potrebbe renderci felici e appagati il
prossimo.
Il Novecento ha visto la nascita, e la conseguente scomparsa, di un nuovo tipo di cittadino: il flaneur.
Indicava quelle persone elegantemente vestite e con alto status economico, che passavano il loro
tempo a girovagare per la città, distratti, senza fretta, lontani dalla frenesia della vita moderna, per
osservare e quel che gli stava attorno e le vetrine, prendere nota delle nuove mode o dedicarsi allo
shopping nelle gallerie. Ma l’avvento dei grandi magazzini e del capitalismo come lo conosciamo oggi,
ha portato alla scomparsa di questo tipo di cittadino. L’hipster può essere considerato il suo
corrispettivo odierno. È in realtà un termine con connotazioni negative che indica una forma di
consumo post-critica, ironica e fallimentare.
Capitolo 8
Centri commerciali – fantasia
Il centro commerciale nasceva come uno spazio dove le donne potevano fare acquisti in tutta
sicurezza. Imitava quindi l’ambiente domestico tramite arredamenti e ambienti familiari e allo stesso
diventava un luogo di socializzazione e fuga dalla routine domestica. Nasce la versione femminile di
flaneur, la flaneuse ovvero una donna che si dedica allo shopping e alle nuove tendenze e che sfrutta
i centri commerciali come luoghi per mettersi in mostra e socializzare in sicurezza. La flaneuse
rispecchiava la vita di una donna agiata e indipendente, in contrapposizione alle donne lavoratrici o
della classe media per le quali lo shopping non era altro che l’estensione dei lavori domestici.
Nonostante la prospettiva maschile considerasse i centri commerciali come luoghi dove le donne si
occupavano di attività frivole e banali o dove cadevano vittima nel consumo dei “falsi bisogni”,
poiché irrazionali e ingenue per natura, in realtà i centri commerciali ebbero un importante ruolo
per l’appropriazione di uno spazio sociale, libero e lontano dalla quotidianità domestica, per
socializzare ed esprimere la propria identità personale, per apparire.

I centri commerciali non sono solo un luogo di consumo ma anche un centro di aggregazione sociale,
per esprimere la propria identità e aggiornarsi sulle nuove tendenze. Un luogo in cui poter apparire,
non più riservato alle classi agiate le quali potevano permettersi il lusso di comprare anche oggetti e
beni non indispensabili, poiché il centro commerciale è un luogo dove è permesso ad ogni classe
sociale di farne parte (è quindi un luogo democratico) e quindi partecipare alla “communitas”. Oltre
alla socializzazione ed espressione della propria identità e appartenenza, i centri commerciali sono
anche uno spazio dove staccarsi dalla quotidianità e lasciarsi andare all’immaginazione e fantasia. Il
centro commerciale rappresenta uno spazio chiuso, distaccato dal frastuono e sporcizia della città.
Un posto pulito, accogliente, riparato, luminoso, dove ogni cosa è in ordine e al posto giusto. Un
luogo utopico e alternativo dove le fantasie dei consumatori vengono prodotte e controllate; un
consumo spettacolare (spectacle consumptio) volto a creare tramite tecniche di marketing,
architetture, colori e luci, disposizione delle merci e l’uso di temi un luogo atto ad attrarre i
consumatori e fargli vivere un’esperienza in cui possono liberare la propria fantasia, cambiare
momentaneamente stili di vita, identità e fingere che sia reale. Questo crea un paradosso: i centri
commerciali non sono altro che luoghi chiusi e isolati che permettono agli individui di fantasticare ma
tutta questa esperienza è attentamente simulata e controllata. A questa teoria viene contrapposta
l’idea di appropriazione del centro commerciale attraverso un uso non convenzionale che ne viene
fatto. Molti gruppi sociali che non hanno elevate disposizioni economiche ma molto tempo da
spendere (ragazzini o anziani) si limitano a consumare il luogo e l’esperienza che regala ma non le
merci.
Allo spettacolo delle merci è collegata la teoria di Debord il quale crede che il consumo, concentrato
sempre più sul senso della vista che sugli altri sensi abbia anche contribuito a impoverire la cultura.
Le immagini sono diventate la valuta della società dei consumi e mezzo per far sopravvivere le
strutture di potere. I centri commerciali fanno un massiccio utilizzo delle immagini ed è proprio
attraverso questo spettacolo che si generano i falsi bisogni del consumatore.

Molti teorici vedono il centro commerciale semplicemente come “space”, ovvero uno spazio fisico
nel senso di zona di transito senza altri significati, un “non luogo”, uguale ovunque e caratterizzato
dall’anonimato che però in qualche modo fanno sentire a loro agio i consumatori.
Morris invece rifiuta questa visione così arida del centro commerciale e ritiene che i centri
commerciali siano un “place”, ovvero un luogo pienamente inserito nella comunità, dotato di
identità storica e sociale e quindi soggetto al cambiamento ed evoluzione durante il tempo.

Capitolo 9
Brand – marchio – logo – razzismo
L’avvento del capitalismo industriale e successivamente del consumismo di massa ha dato vita a
numerosi processi socioculturali riguardanti l’uso della merce e ai valori e significati che le
attribuiamo; questo fenomeno è anche chiamato estetizzazione della quotidianità che comprende la
scelta attenta e accurata di certi beni, design, brand per esprimere meglio la propria identità
individuale o di appartenenza ad un gruppo sociale.
Il marketing ha avuto un ruolo centrale nella creazione di un sistema di valori e simboli con i quali
certi brand hanno costruito la propria immagine, il valore un tempo attribuito al prodotto dalla sua
utilità viene trasferito al mix di significati che quel brand vuole comunicare, questo per Baudrillard
rende la merce così astratta da far sparire l’oggetto per far rimanere solo un insieme di simboli e
“bisogni” che promette di soddisfare.

La storia del marketing si divide in tre frasi di cui la terza è la sintesi delle prime due:

1) Fine ‘800-Inizio ‘900 consumatore come individuo razionale: la pubblicità consisteva nel
promuovere l’utilità del prodotto, la qualità e il suo prezzo.
2) Fino al 1930 consumatore come un individuo anche irrazionale: Il marketing iniziò quindi a
sfruttare il senso di competitività tra le persone, il desiderio di approvazione o la vergogna.
Inizia il fenomeno della targhettizzazione: ovvero la divisione dei consumatori in gruppi con
gusti e stili di vita simili. +
3) Esplode quindi l’era dei brand e della pubblicità, tesi rendere fedeli acquirenti i gruppi di
consumatori. Allo stesso tempo però i consumatori diventano più consapevoli delle tecniche
di marketing, sviluppando una certa immunità. Seguirà lo sviluppo di un marketing che cerca
di focalizzarsi sull’individuo e cercane le affinità.

Con l’avvento delle gallerie e centri commerciali, le relazioni tra consumatori e negozianti furono
sostituite dal packaging. Se all’inizio servì a far distinguere un prodotto rispetto ad un altro, presto il
packaging fu usato segnalare la “personalità” fatta di un mix di valori e simboli. Spettava poi al
consumatore scegliere attraverso quale prodotto esprimere la propria individualità o appartenenza
ad un gruppo specifico o subcultura.

Ogni brand per distinguersi dagli altri usa un logo. I loghi oggi sono importantissimi poiché attraverso
la loro ubiquità, ovvero la capacità di poter essere distribuiti su numerosissimi media, e capacità di
essere riconosciuti immediatamente sono diventati parte della nostra cultura quotidiana.

I loghi, quindi, non fanno più riferimento al prodotto ma diventano semplici portatori di idee e valori;
diventano un feticcio: un disegno che però nasconde tutta la sua storia e la manodopera che c’è
dietro. I grandi brand sono infatti spesso stati colpevoli di azioni di sfruttamento o cancellazione di
tradizioni e subculture per perseguire il mero profitto. Ad oggi, infatti, le industrie dove viene creato
il prodotto sono delocalizzate nelle zone povere del mondo, dove la manodopera costa poco.
All’azienda resta solo di occuparsi di come far vendere il proprio prodotto attraverso il logo e
l’immaginario che costruiscono tramite la pubblicità e azioni di marketing.

Lo sfruttamento delle persone nelle zone povere del mondo si accompagna anche alla feticizzazione
dell’essere di colore. Le pubblicità dei prodotti realizzati l’800 e il ‘900 riflettevano le ideologie della
loro epoca ovvero l’inferiorità della donna e delle persone di colore rispetto all’uomo bianco e la
cultura delle colonie. Da diversi decenni invece è in voga lo sfruttamento dell’immagine dei poc
(people of color) come stile di vita diversa, underground, dove viene romanticizzata la vita
spericolata ed esaltato il loro talento innato negli sport. L’estetizzazione di questo stile di vita ha reso
mainstream queste forme di espressività, le quali sono state appropriate anche dai ragazzini bianchi
e asiatici alla ricerca di forme di cultura “autentiche”, per poi essere prontamente mercificate dai
grandi brand. Allo stesso modo anche le persone di colore sono state “vittime” della tecnica definita
coolhunting, ovvero la capacità di prevedere i trend e saperli sfruttare al momento giusto, facendo
pubblicizzare da artisti apprezzati dai poc, come i rapper, prodotti lussuosi usati prima dai bianchi con
un certo tenore di vita. Questo ha portato all’unione dello stile di vita da “ghetto” e prodotti lussuosi
da borghesi. Un esempio sono i video musicali dei rapper dove brand di macchine estremamente
lussuose fanno da sfondo a cantanti di colore vestiti con abiti oversize stracciati e atteggiamenti da
gangster spericolato dei bassi fondi.

Il rapporto tra i brand e il consumatore sviluppa un paradosso: il brand è una forma di espressione
individuale ma allo stesso tempo siamo tenuti ad usare i brand anche per sentirci inclusi socialmente
nel proprio gruppo e distinguerci dagli altri gruppi. Da qui nasce anche il fenomeno della logophilia,
legato principalmente agli adolescenti per i quali il consumo dei brand comporta a stati d’ansia e
depressione o addirittura forme di esclusione e bullismo dal gruppo di pari.

Legato alla logophilia c’è il consumatore appassionato. È un consumatore che ama così tanto la propria
marca preferita che vuole anche attivamente migliorarla, anche a costo di avanzare aspre critiche su di
essa. Alcuni esempi fanno riferimento ad una protesta causata della breve durata della batteria di un
prodotto Apple o la richiesta a Starbucks di certificare in maniera sostenibile il proprio caffè.

Capitolo 10

La logica dell’accumulo capitalistico è basata sul continuo aumento della produzione al fine di
provvedere alla sopravvivenza di un’azienda. Questo processo è pero insostenibile nella realtà,
poiché genera cicli di sovrapproduzione e stagnazione dell’economia che uniti ad altri fattori
generano una crisi economica.
Proprio per questo è stata messa a punto una strategia chiamata “obsolescenza programmata” che
prevede a limitare la durata di un prodotto ad un periodo prefissato così da garantire una
profittabilità continua. Questa strategia è affiancata alle strategie di marketing che reclamizzano le
nuove versioni di questi prodotti ormai “obsoleti”, così da spingere le persone a comprare sempre il
modello nuovo pubblicizzato in quanto migliore del modello precedente così da evitare l’accumulo
dei prodotti. Anche per gli oggetti non facilmente deperibili è messa in atto la stessa strategia
(definita obsoletism) attraverso le mode e i trend. I vestiti o gli accessori principalmente ma molto
altro come anche le macchine e i mobili delle case restano in voga solo per brevi periodi per poi
dover essere sostituiti dal nuovo trend in corso e costringere le persone a seguirlo attraverso una
manipolazione della domanda che spinge le persone a voler sempre qualcosa un po’ più nuovo,
migliorato di poco e prima che ve ne sia una reale necessità.

I prodotti che noi vediamo sugli scaffali ben disposti in maniera ordinata nelle loro confezioni
accattivanti nascondono la storia di tutto il lavoro che è stato necessario alla loro produzione.
Produrre beni in quantità industriali, a costi minimi, con materiali – il più delle volte – scadenti e
sfruttando manodopera a basso costo nelle regioni povere del mondo comporta non solo un enorme
spreco di risorse (specialmente di acqua) ma ha anche effetti sull’ambiente (oltre all’uso massiccio di
risorse anche l’uso o produzione di sostanze inquinanti o cancerogene) e sulle persone che spesso
lavorano in condizioni pericolose e disumane, sfruttati dalle grandi firme occidentali che giovano della
poca tutela riguardo i diritti dei lavoratori e paghe molto basse dei paesi del Secondo e Terzo Mondo,
così da produrre a basso costo capi o dispositivi elettronici che poi rivenderanno dall’altra parte del
mondo ad un prezzo molto superiore al costo di produzione grazie all’apposizione del proprio logo o
firma. I dispositivi elettronici, ad esempio, necessitano di grandi quantità di risorse per essere
prodotti per poi diventare obsoleti in poco tempo e generare rifiuti (e-waste) pericolosi per
l’ambiente che saranno riportati nei paesi dove sono stati prodotti (e da qui anche l’impatto generato
dal trasporto) per essere smaltiti.

Lo sfruttamento a basso costo e la mancanza di leggi appropriate che tutelino i lavoratori è un


vantaggio le grandi multinazionali che cercano sempre nuove terre, mercati non ancora saturi, risorse
e forza lavoro da sfruttare con i minori costi possibili. Date le numerose risorse di cui le industrie
necessitano si attua anche una appropriazione delle terre appartenenti ai nativi, dei trasporti e
dell’acqua, privatizzando così servizi che prima erano pubblici. Questo fenomeno è definito
accumulazione per espropriazione.

la Cina in particolare ma anche altri paesi asiatici definiti “Tiger economies”, dapprima paesi poveri
sfruttati dalle multinazionali, sono diventati oggi delle potenze mondiali in grado di investire in altri
paesi e consumare similmente all’Occidente. Se questo avvenisse in tutti i paesi del mondo
genererebbe un impatto ambientale e sulle risorse insostenibile per il mondo.

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