La sociologia si pone come la costruzione intellettuale del mondo moderno, differenziandosi dall’ambito storico, filosofico e teologico. Convenzionalmente l’inizio dell’età moderna risale al 1492, (“scoperta dell’America”), poiché determinò l’emancipazione dell’Europa da un mondo chiuso e statico. Per Paolo Jedlowski, invece, la “modernità” ha inizio con la rivoluzione industriale, prettamente economica, (seconda metà del ‘700) e la Rivoluzione francese, di stampo politico, (fine del ‘700); entrambe percepite come un’accelerazione della storia verso trasformazioni sociali e materiali di una notevole portata. Da ciò scaturisce una cospicua attenzione allo studio della vita sociale, ponendosi il problema di comprendere le ragioni e le direzioni di tale mutamento, affinché possa essere controllato, criticato e diretto. Contemporaneamente avanza un nuovo concetto di scienza altrettanto rilevante per la comprensione dell’epoca moderna: “la scienza come insieme di strategie conoscitive in cui l’osservazione metodica, unita all’applicazione di procedimenti logici di tipo razionale, mira alla scoperta di regolarità universali che riguardano i fenomeni studiati”. Nonostante vi siano ulteriori fattori da richiamare, essenzialmente sono questi due (le rivoluzioni e il nuovo concetto di scienza) che fungono da base del pensiero sociologico. LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA RIVOLUZIONE FRANCESE: UN MONDO IN MUTAMENTO Con “rivoluzione industriale” si sintetizza l’avvio dell’industrializzazione verificatasi nell’Inghilterra del 1760; tale modo industriale, o capitalistico di produzione (Marx), si è progressivamente diffuso in tutta Europa, sebbene in determinate aree il processo di industrializzazione sia partito autonomamente, per poi espandersi all’intero globo. Tutt’ora questo processo in alcune aree è ancora in via di sviluppo. Per definizione parliamo di Industria come un sistema di produzione che coniuga il lavoro umano a quello delle macchine. Il nuovo modello di produzione proposto dalla rivoluzione industriale, ha la capacità di incrementare con una certa regolarità la produzione e di espandersi; così facendo le industrie saranno capaci, oltretutto, di svilupparsi, di crescere, anche economicamente. Nel contempo le rivoluzioni politiche, squalificano una visione statica del mondo sociale. Il fine ultimo della Rivoluzione Francese è stato la delegittimazione del potere feudale e l’instaurazione di una nuova legittimità di potere fondato sul consenso della società civile. Alla base della rivoluzione vi è la pressione sentita da una classe sociale la quale è pronta a rimuovere il potere aristocratico e a sostituirlo con il proprio. Il tutto ruota attorno allo sviluppo di un’ideologia che presenta le proprie aspirazioni come le aspirazioni dell’intera società, da cui ne deriverà un modello sociale e valoriale che sarà alla base di quello occidentale; sommariamente si può sintetizzare in un principio per cui tutti gli uomini godono di eguali diritti, e che in quanto cittadini di uno Stato hanno il diritto di partecipare al governo attraverso l’elezione dei propri rappresentanti. È un’idea che si oppone in maniera radicale al diritto del mondo feudale in cui i diritti di un individuo sono determinati dalla nascita, pertanto svincolare il destino dell’individuo dalla sua nascita è uno dei tratti più caratteristici della cultura moderna occidentale. Oltretutto, le rivoluzioni politiche, come quelle industriali, promuovono il mutamento come un fenomeno normale, contesto in cui gli uomini sono capaci di organizzarsi e ridefinire le proprie leggi sulla base di un confronto razionale, non sottostando più a chi acquisisce diritti per nascita. Per definizione, le leggi sono ora perfettibili: sono stabilite dagli uomini. Dunque non sono immutabili. ILLUMINISMO: L’IDEA DI UNA SCIENZA DELLA SOCIETÀ. Se la società modera emerge distruggendo un ordine precedente, in questo caso quello feudale, instaurandone un secondo che per principio implica il mutamento perpetuo, la sociologia nasce nel confronto con un mondo non più vincolato e garantito dalla tradizione, che non può più essere considerato ovvio. Da un’ottica prettamente culturale, l’origine della sociologia sono riconducibili all’Illuminismo, il movimento culturale che ebbe un ruolo fondamentale nella critica all’ordine feudale nel nome della ragione. Secondo gli illuministi, il mondo umano è essenzialmente storico propenso quindi ad un'unica direzione, cioè il progresso. L’idea che il mondo naturale sia osservabile e descrivibile razionalmente è alla base dell’idea della scienza, che gli illuministi applicheranno nel campo degli oggetti sociali, così da impostare la società come un modello naturale, che si dota di leggi proprie, che dunque può conoscere e trasformarle secondo ragione; quest’ultima deriva da un’opinione pubblica borghese. La filosofia illuminista equivale alla filosofia degli stati sociali che hanno contribuito alla rivoluzione liberale; in questi si sviluppa l’idea che il governo nazionale non appartenga unicamente al sovrano e/o ai nobili, ma che sia propriamente cosa pubblica, cioè di tutti e di nessuno in particolare e che in linea di principio ciascuno abbia il diritto di portare critiche e proporre le proprie idee. Stando a questo concetto, quindi, la ragione è il principio un dialogo e una critica ovvero dell’affermazione del diritto di discutere liberamente della cosa pubblica e della possibilità di proporre argomenti incensurati dal richiamo della volontà del sovrano, principi divini e decreti immutabili della tradizione. (Termine sociologia etc sul libro) L’EMPIRISMO INGLESE E IL PROBLEMA DELL’AUTOREGOLAZIONE DELLA SOCIETÀ. Contemporaneamente all’illuminismo, in Inghilterra e in Scozia si sviluppa l’empirismo, un movimento altrettanto decisivo nell’origine della sociologia, per cui l’osservazione è fondamentale. Nel pensiero di esponenti come Hume, la realtà umana si risolve in un sistema di credenze e regole morali in cui non vi è più spazio per autorità religiose e dogmi. L’empirismo non ripone la stessa fede illuminista nella capacità della ragione di padroneggiare tutta la realtà, ma ne condivide lo spirito critico relativo ai dogmi, e avvia lo stesso tentativo di adattare al regno umano i principi adottati dalle scienze fisiche nello studio dei fenomeni naturali. Questo è un lavoro sottoscritto principalmente da Adam Ferguson e Adam Smith. Ferguson, nel ‘Saggio sulla storia della società civile’ (1767) parla di un mondo sociale come il prodotto dell’attività degli uomini, tale da non rispecchiare il percorso individuale di nessuno, bensì il risultato dell’interazione di tutti. Su come può essere un insieme regolato, gli studiosi scozzesi rispondono grazie al mercato, un pensiero prettamente associato a Smith. L’idea è che la ricchezza di una nazione sia correlata alla sua capacità di produzione, che a sua volta dipende dal grado raggiunto dalla divisione del lavoro; quest’ultimo è un processo che, implicando la specializzazione di ciascuno in una determinata attività, accresce le capacità produttive della collettività. La divisione del lavoro è direttamente proporzionale alla dipendenza di ciascun individuo rispetto ad un altro nella società, questo perché il produttore di un bene, è subordinato ad un altro che gli procurerà altri beni necessari alla sua sussistenza. È necessario, dunque, che vi sia uno scambio tra ciò che si produce e che viene prodotto da altri. In che modo è possibile e in che modo si può evitare che in una società ci sia la sovrapproduzione di un bene rispetto ad un altro e creare quindi un’omogeneità di produzione? Presupponiamo che il mercato sia l’istituzione sociale che regola tutto ciò attraverso i meccanismi della domanda e dell’offerta e la conseguente definizione dei prezzi di ciascun bene che questi meccanismi comportano. Se in molti producono il bene X, questo verrà poco richiesto e venduto ad un prezzo minimo rispetto ad un bene Y poco prodotto e molto richiesto. Di conseguenza si avrà uno spostamento dei produttori verso il bene Y, a cui conseguirà un mutamento dei prezzi e così via. Questo meccanismo consentirà la suddivisione del lavoro tra i membri di una società, consentendo loro uno scambio equo, basato quindi sull’imposta di un prezzo che corrisponde all’effettiva quantità di lavoro contenuta nel prodotto. Questa concezione di Smith, assume un dato valore nella sociologia per la messa in evidenza del carattere fondamentale della divisione del lavoro nella vita sociale e nell’individuazione di una istituzione, quale il mercato, la cui funzione è quella di garantire l’autoregolazione della società oltre le intenzioni e volontà dei singoli e mostra un’idea di mercato perfettamente concorrenziale del tutto utopico. Il mercato, infine, non è l’unica forma di regolazione degli scambi sociali come non è nemmeno di quelli economici. KARL MARX LE ORIGINI FILOSOFICHE DEL PENSIERO DI MARX E LA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA Nella sua formazione filosofica Marx dipende da Hegel, difatti il termine dialettica, ricorrente nei suoi scritti, è un termine prettamente hegeliano. Con dialettica si intende, tanto per Hegel quanto per Marx, un movimento del pensiero o della realtà che attraverso la negazione di una precedente affermazione conduce ad una sintesi che è il superamento di entrambe. Superamento, in tedesco ANFBEBUNG (ANFBEBEN) è un verbo che comprende un processo di tre momenti che essenzialmente sono ‘conservare´, ‘far scomparire’ e ‘portare a un livello superiore’. In questo senso, Marx parla di comunismo come superamento della società capitalistica, in quanto quest’ultima produce al suo interno contraddizioni che categoricamente conducono ad un livello superiore, cioè a qualcosa che conservi i presupposti capitalistici, che scompariranno, però, nel momento in cui verranno sintetizzati entro una nuova formazione. Oltre a dialettica e superamento, un altro concetto proveniente da Hegel è quello dell’alienazione, ritenuta da lui un aspetto dell’oggettivazione. Nello svolgere un’attività pratica, l’uomo produce un oggetto che oltre ad essere un prodotto del soggetto diventa altro rispetto ad esso, ovvero un oggetto. Si parla di questo come una negazione del soggetto, che però può essere superata nel momento dell’autocoscienza dell’uomo che riconosce l’oggetto come proprio prodotto, provocando una riappropriazione. Per Marx, invece, oggettivazione e alienazione si distinguono in maniera radicale; difatti parla di alienazione dell’uomo rispetto al proprio prodotto, rispetto allo stesso svolgimento del lavoro, rispetto ad un altro uomo, che si tratti di un suo pari o del capitalista, tutte riassumibili nel concetto di sfruttamento, in assenza del quale non si potrebbe parlare di alienazione. Queste tre condizioni determinano la condizione operaia nella società industriale, su cui Marx si focalizzerà nella stesura de Il Capitale, da cui si evincerà che tali condizioni producono la negazione dell’individuo stesso, nello specifico parla di abbrutimento. Stando a questi presupposti, non può dirsi risolutivo l’atto di coscienza di cui parla Hegel relativo alla riappropriazione dell’individuo di sé; deve categoricamente risolversi in un’azione pratica, ovvero in una rivoluzione volta alla riappropriazione del controllo del proprio lavoro da parte dei salariati, in un processo di determinazione delle condizioni concrete in cui gli uomini vivranno e opereranno per trasformarle. Alla presa di coscienza pratica, poi, si affianca l’interpretazione filosofica che corrisponde alle condizioni di un tempo X in cui gli uomini vivono, che le deforma arrivando a parlare di una concreta situazione universale ed eterna, invece che storica. Da qui il concetto di materialismo storico di Marx per cui s’intende un modo di pensare che parte dall’analisi delle condizioni materiali umane, così come sono storicamente determinate. Per Marx, la storia dell’umanità equivale alla storia di come gli individui si sono organizzati e quindi rapportati alla natura al fine di garantire la propria sopravvivenza, concetto in cui la divisione del lavoro assume una rilevante funzione, sostenendo che quest’ultima fosse, fino ad oggi, esser sempre stata ineguale. Divisone del lavoro, della proprietà e tecniche di produzione formano la base di ciò che Marx definisce struttura all’interno della quale possiamo distinguere rapporti di produzione e forze produttive, che rispettivamente indicano i rapporti generati dalle due divisioni e mezzi e tecniche alla produzione propria degli oggetti. Alla struttura è subordinata la sovrastruttura, ovvero ambiti giuridici, morali, religiosi e stesso filosofici, ambiti che non hanno una propria storia, ma che, appunto, nel loro sviluppo, dipendono dal cambiamento della struttura a cui appartengono. A sostegno di ciò Marx dice che non è la coscienza degli uomini a determinare il loro essere sociale, ma il contrario. Analogamente, nell’Ideologia tedesca, parla della produzione delle idee, della coscienza, come direttamente intrecciata all’attività materiale degli uomini, ovvero subordinato al cosiddetto linguaggio della vita reale. Al contrario Engels, sostiene che la sovrastruttura non corrisponda in automatico alla struttura, in quanto sono i modi concreti nei quali gli uomini vivono a determinare le condizioni base entro cui tali oggettivazioni culturali si sviluppano. Concetto di IDEOLOGIA Per definizione si parla di ideologia come un insieme di teorie e/o valori che un individuo o un gruppo adotta e difende con delle argomentazioni . Da un punto di vista marxista, il termine ideologia indica un insieme di proposizioni che rappresentano il mondo parzialmente falsificato, ovvero una rappresentazione del mondo che nel contempo descrive e occulta le sue condizioni reali. Tipicamente l’ideologia, per Marx, muta le condizioni sociali dell’oggi in condizioni eterne, pertanto le giustifica, in altre parole l’ideologia giustifica l’esistente. Ciò avviene tramite l’occultamento delle contraddizioni e dei conflitti che comporta l’immobilità della storia. Tipicamente l’ideologia viene applicata dalla classe dominante di una società al fine di eliminare le contraddizioni che costituiscono il momento negativo della dialettica storica e che conducono al superamento di questo; pertanto ciò non si limita ad essere una “manovra sociale”, ma un processo definitosi ideologico. Ciò non toglie che i dominati possano condividere l’ideologia dei dominatori, ma se si parla di una condivisione “forzata”, cioè condivisa per paura di accettare le implicazioni conflittuali che il riconoscerli comporterebbe, in questo caso Marx parla di “falsa coscienza”. LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E IL CONCETTO DI MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO Marx scrive Il Capitale con l’intento di indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione ad esso relativi, a cui si allega, poi, la critica all’economia politica. Il modo capitalistico di produzione è una tipologia di produzione emersa post rivoluzione industriale, pertanto è il modo “moderno” di produrre; sebbene l’industria sia decisivo in questo modo, si differenzia dal “modo di produzione capitalistico” in quanto in questo si sono poi aggiunti dei caratteri specifici dei rapporti sociali. Il concetto di ‘modo di produzione’ è rilevante nel pensiero di Marx, perché su questo si basa la struttura di ogni società e i rapporti che gli uomini intrattengono al fine di produrre tutto ciò che è necessario alla loro sussistenza. (Capitalismo è il nome che Marx dà alla società il cui modo di produzione è di tipo capitalistico.) Ma che cos’è il ‘capitale’? Inizialmente Marx per definire il ‘capitale’, adotta la definizione fornita dagli economisti, cioè del capitale come accumulazione di lavoro che serve come mezzo per una nuova produzione; il lavoro accumulato diviene capitale quando sottostata ad una specifica condizione dei rapporti sociali. Che tipo di rapporti sociali? Si parte col definire i protagonisti di questi rapporti sociali dove da un lato abbiamo individui proprietari di mezzi di produzione e dall’altro individui i cui possedimenti si limitano alla propria forza-lavoro, cioè i proletari. Quest’ultima viene messa a disposizione dei primi ad un dato prezzo, definito salario, pertanto la relazione tra i due e mediata dal denaro. Il salario esclude una quota relativa al prodotto lavorato dal proletario, costui viene ripagato con una somma che corrisponde ad una certa quota del tempo impiegato nel lavoro. Fuori l’ambito lavorativo i proletari sono uomini liberi, per tanto le condizioni lavorative si allontanano da un mezzo di produzione fondato sulla schiavitù o su rapporti di tipo feudale. Il fine ultimo della produzione è lo scambio di merci sul mercato. Ogni merce possiede un valore d’uso e un valore di scambio, che si esprime nel prezzo della merce stessa, questo, inoltre, omette qualità e differenze tra le singoli merci in modo da renderle comparabili e pertanto scambiabili sulla base dei rapporti che esistono tra i loro prezzi. Anche in questo caso è il denaro l’equivalente universale del valore di scambio. Per quanto diversi, poi, possano essere i prezzi stabiliti per ogni merce, secondo Marx il loro valore di scambio corrisponde alla quantità media di lavoro socialmente necessario a produrle. Infine, il lavoro accumulato si presenta come capitale quando viene utilizzato nella produzione, assieme al lavoro vivo dei salariati, per ottenere un profitto da parte del capitalista. ANCORA SUL MODO CAPITALISTICO DI PRODUZIONE Con capitalismo quindi, s’intende un tipo società basata sulla produzione, con delle merci, di altre merci che abbiano un valore maggiore di quello prefissato inizialmente. Cosa rende il capitalista un capitalista? Per capitalista s’intende un soggetto il quale possiede una quantità X di denaro (D) che investe nell’acquisto di merci (M), le quali si suddividono in mezzi di produzione e forza- lavoro (operaia). Collaborando, le due risorse producono merci che, una volta vendute, si mutano in una quantità Y di denaro superiore a quella iniziale. Pertanto ciò che caratterizza il capitalismo è uno scambio basato sul principio D>M>D’, ed è la differenza tra D e D’, che costituisce il profitto, a muovere il capitalista. Da dove nasce questa differenza? Partiamo col definire il profitto che, per gli economisti, equivale al risarcimento dell’impegno del capitalista, che viene ripagato dei rischi presi nell’investire in un dato bene. Marx si contrappone a questa visione economicista. Riprendendo il discorso della dualità di una merce, Marx ricorda che il capitalista investe anche nella forza-lavoro operaia, il cui valore d’uso sta nella capacità di produrre altro valore, senza questo il modo di produzione capitalistico non esiste. Nel momento in cui il capitalista acquista la forza-lavoro dei suoi opera, paga un prezzo che corrisponde a ciò che è necessario per produrre forza-lavoro (che in questo caso si limita al costo dei beni necessari alla sussistenza e alla riproduzione fisica di questi). Tuttavia il lavoro operaio, in relazione a quello di altri operai, produce più del valore di scambio corrispondente al “prezzo” della sua forza lavorativa. Ciò genera il cosiddetto plusvalore. Questo ha origine dal pluslavoro, ovvero un lavoro aggiuntivo a quello per cui ordinariamente viene pagato. Il plusvalore diventa profitto del capitalista nel momento della vendita; pertanto il profitto, per Marx, nasce dalle condizioni di sfruttamento dell’operaio, che investe la propria forza-lavoro in una produzione di cui viene ripagato meno del dovuto. Questa condizione non fa altro che generare l’alienazione del salariato rispetto al proprio prodotto, che in pratica non gli appartiene sebbene prodotto da egli stessi. Dunque ciò che rende “lavoro accumulato” - “capitale” è lo sfruttamento. Ciò che distingue la critica marxiana dall’economia politica, è proprio il riconoscimento dello sfruttamento relativo ai rapporti di produzione, visibile solo con un’attenta analisi dei meccanismi capitalistici, di fatto se ci arresta all’analisi dei rapporti di scambio, cioè al mercato, lo sfruttamento non appare poiché di fatto gli operai sono pagati al loro prezzo, ciò omette le condizioni entro cui essi lavorano. Questo per Marx è un processo definito ideologico in quanto descrive qualcosa ma tace l’essenziale. LA NOZIONE DI “CLASSE” Genericamente, dagli scritti di Marx, si evince il significato di classe come un insieme di individui che si trovano nella medesima posizione all’interno dei rapporti di produzione tipici di un modo di produzione dato. Ogni società è caratterizzata da diverse classi sociali le quali, sviluppando interessi diversi, entrano in conflitto per la definizione del potere all’interno della loro società. All’interno della società capitalista Marx individua essenzialmente due classi: - Borghesia: costituita da capitalisti; - Proletariato: lavoratori salariati. Per quanto riguarda le altre classi individuabili, come contadini o commercianti, queste, dato lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, sono portate a supportare l’una o l’altra classe fondamentale. La contrapposizione di interessi dei due è data dal fatto che tra questi vige un rapporto di sfruttamento. Marx, però, esplicita che gli interessi non si manifestano nella loro forma bruta e che di fatto il capitalismo non è altro se non un’ideologia che giustifica tale rapporto come mezzo per il raggiungimento di interessi universali, del cui fine gioveranno tutti. Invece, gli interessi della classe operaia sta nel passaggio in cui si passa da uno stato di incapacità nel riconoscere i propri interessi a uno in cui è capace di farlo, ovvero il passaggio in cui il proletariato acquisisce una propria coscienza di classe. Questa si forma tramite un corso di lotte contro i capitalisti e attraverso lo sviluppo di aggregazioni entro cui gli operai elaborano la propria visione antagonista a quella dell’ideologia. Una classe di realizza pienamente soltanto nella loro capacità di sviluppare un’azione collettiva, pertanto si definisce anche come un soggetto collettivo capace di intraprendere azioni congruenti con i propri interessi. LA TEORIA MARXIANA DEL MUTAMENTO Materialismo storico, teoria capitalistica e sociologica, sono tre caratteri fondamentali per quello che è il fine ultimo di Marx, cioè l’identificazione di ragioni e direzioni del mutamento all’interno della società sorta con la rivoluzione industriale. Marx sostiene che in ogni formazione sociale si generano delle contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, contraddizioni che conducono al suo superamento. A un dato punto del loro sviluppo, questi due elementi entrano in contraddizione generando un’epoca di rivoluzione sociale. Cambiando la base economica, cambia rapidamente tutta la sovrastruttura. Una formazione sociale, inoltre, non si estingue totalmente fin quando le forze produttive consecutive non si sono sviluppate, detto ciò i rapporti di produzione non subentreranno prima che siano maturate le condizioni materiali della loro esistenza. Più che altro è rilevante l’applicazione di questa concezione all’analisi del capitalismo, il cui superamento dovrebbe porre fine al processo per cui la storia è stata storia di lotta di classe. In questo, Marx presuppone il mutamento come caratteristica propria del sistema capitalistico, sia dal punto di vista sociale che materiale, mutamento che in una società simile diventa “normale”. Ciò che spinge questo processo è la ricerca di profitto da parte del capitalista. Se il suo interesse è avere il massimo profitto possibile, ne consegue che l’interesse del capitalista è aumentare il più possibile la quota di pluslavoro; ciò può avvenire in due modi: allungando la giornata lavorativa del salariato o rendendo il loro lavoro più produttivo. In un primo momento viene adottata la prima soluzione, la quale, oltre ai limiti stessi della resistenza umana, trova in opposizione gli stessi operai i quali richiedono la riduzione della quota del tempo messo a disposizione. Viene, così, adottata la seconda, la quale consiste nel rendere più produttivo il lavoro industriale tramite un’organizzazione più efficiente e l’introduzione di macchine; entrambi giovano all’operaio, consentendogli di produrre un maggior numero di merci. Il valore corrispondente al suo salario sarà reintegrato in minor tempo e il pluslavoro aumenterà in proporzione. Secondo Marx, questo processo applicato al lungo periodo porta alla cosiddetta caduta tendenziale del saggio di profitto. Questa è dovuta agli investimenti inversamente proporzionali tra mezzi di produzione e forza-lavoro, che tra l’altro è l’unica a produrre valore. Mentre nel breve periodo, dal punto di vista del capitalista, investire nei mezzi di produzione appare una strada estremamente redditizia, in quanto giova alla competizione nel momento in cui si producono più merci, anche di una maggiore qualità. Con l’incremento delle merci, il capitalista può ridurre i prezzi e invadere il mercato; come contromossa la concorrenza può dotarsi a sua volta di nuove macchine e avviare lo stesso processo. Per conseguire il profitto, il capitalista è dunque alla ricerca constante di innovazioni tecnologiche che gli consentano di sviluppare tecniche di produzione per un migliore sostentamento della domanda. A sua volta lo sviluppo tecnico è dato dalla ricerca scientifica che è stata notevolmente condizionata dalla rivoluzione industriale. Questo influisce anche sulle condizioni di vita delle persone, poiché producendo sempre più merci, diverse tra loro, automaticamente si modifica la domanda del consumatore; in questo caso, ancora una volta, il capitalista sarà alla ricerca di vari mercati in cui investire e da cui trarre profitto e da ciò conseguirà ricerche di nuovi fonti di energia e materie prime, nuovi mezzi di comunicazione e quant’altro. Come avviene il superamento del capitalismo secondo Marx? Aumentando il capitale, e il potere ad esso relativo, vi è una crescita della classe operaia che, però, in relazione alla crescente ricchezza del capitalista, diviene sempre più povera. In questa condizione, però, diviene anche più consapevole del proprio ruolo nella produzione, che la ricchezza prodotta lo è in modo collettivo, di cui poi se ne appropria privatamente ogni singolo capitalista. Di fronte a questa contraddizione, la classe operaia può organizzarsi per rivoluzionare i rapporti sociali esistenti, ponendosi come obiettivo è la formazione di una società che esclude classi e proprietà privata, fondata quindi su uguaglianza e giustizia. Il capitalismo, quindi, genera automaticamente una forza produttiva che allo stesso modo lo distruggerà; questo avviene, dunque, nel passaggio ad un’altra forma di rapporti sociali che elimini lo sfruttamento, cioè il passaggio ad una società comunista, per definizione una società nella quale i produttori, liberamente associati, si approprieranno collettivamente del frutto del proprio lavoro. INDIVIDUO E SOCIETÀ Marx non si riferisce mai ad una “società” astratta, bensì a più società o diverse forme di società caratterizzate da differenti strutture. Marx parte col definire l’uomo come un essere sociale, che insieme dettano le condizioni della propria sopravvivenza e dunque l’unione di individuo e società, fuori dal quale l’uomo non esiste. Già pensando al rapporto elementare tra i due sessi relativo alla riproduzione della specie, senza il quale l’umanità non è concepibile; tanto meno il rapporto tra uomo e natura per cui si devono sviluppare norme di sussistenza in un determinato ambiente. In quest’ultimo processo, l’uomo sviluppa ulteriormente il proprio essere, di conseguenza si constata che anche la sua stessa coscienza è prodotta dall’interazione sociale. Quella moderna è una società in cui la divisione del lavoro sociale è molto sviluppata, ciononostante il mercato è un sistema di rapporti astratti, in cui gli individui non scambiano i propri beni in base a rapporti personali ma tramite regole impersonali, ovvero i prezzi; pertanto nell’ambito del mercato, ogni individuo è isolato, ed è su questo isolamento che si forma l’ideologia borghese. Di fatti nell’economia capitalista ogni individuo è confinato nel proprio ruolo, e sulla base di questo confinamento si forma un aspetto dell’alienazione per cui l’uomo si allontana dall’idea di estrinsecare pienamente tutte le proprie risorse. In tale contesto è la società ad acquisire potere, rispetto al singolo individuo che diviene sempre più impotente. Da ciò nasce la visione utopica di Marx che immagina una società in cui gli uomini siano parzialmente emancipati dalla necessità, e capaci di appropriarsi di sé stessi e di avere rapporti con i propri simili liberamente. EMILE DURKHEIM INTRODUZIONE Tra il 1890 e il 1910, troviamo le prime istituzionalizzazioni della sociologia come disciplina accademica, a cui Durkheim contribuirà facendo della fondazione della sociologia il punto cardine del proprio programma. Lo studio di Durkheim parte dallo stabilire cosa tiene insieme una società, domanda alla quale risponde con la morale, che unisce ogni individuo di una data società, realizzandosi in una solidarietà. Dunque la società è, propriamente, un ordine morale. Per quanto riguarda l’evoluzionismo e l’organicismo, Durkheim è influenzato da Spencer sebbene ne ribalti la prospettiva per ciò che concerne i rapporti dei singoli con la società. - Spencer parla di una società fondata su una sorta di contratto stabilitosi tra gli uomini che perseguono ciascuno il proprio utile (da qui la definizione di utilitarismo) - Per Durkheim, invece, la società è ciò che precede e consente la formazione di un contratto. La vita collettiva, sia in senso logico che storico, si antepone a quella individuale e ritiene che in questa i contratti siano fattibili solo tra soggetti che intendono rispettarli, ovvero che avvertano l’appartenenza ad una data società e che condividano una certa obbligazione nei confronti delle sue regole morali. Pertanto il comportamento di un individuo non è comprensibile se non come espressione del suo inserimento sociale. MORALE, COME NORME E FATTI SOCIALI Si definisce morale un insieme di norme che costituisce un vincolo per ciascun membro della società, agente dall’esterno e dall’interno; che rispettivamente fanno riferimento alle sanzioni attuate nel caso in cui vengano infrante e alla spinta che l’individuo avverte nel rispettarle, pertanto l’appartenenza ad una morale comune lega fra loro i membri di una società. Le norme morali vengono istituzionalizzate nel momento in cui queste entrano a fra parte, automaticamente, di credenze religiose rese sacre dalla loro iscrizione entro un sistema di riti. (esempio dei 10 comandamenti che, espressi come rivelazione divina, impongono rispetto etc.) Anche se alcune società hanno o hanno avuto norme in parte diverse, Durkheim sostiene che non si può non appoggiare la propria capacità di coesione su un insieme di norme che esprimono valori comuni. Bisogna definire, però, sociologicamente cosa sono le norme, che Durkheim definisce fatti sociali. In Regole del metodo sociologico, egli parla di atteggiamenti che sente propri in quanto educato a questi, che quindi sono al di fuori della sua conoscenza e che ha ricevuto tramite influenze ad essa esterne. Oltretutto, tali norme, data la loro imperatività, s’impongono a lui anche senza consenso, cosa che viene avvertita solo nel momento in cui un individuo tenta di opporsi a queste. Nel caso in cui un individuo si opponesse a tali norme, questo andrebbe in ogni modo a suo discapito, poiché sebbene ci sia la possibilità di fare diversamente, in un dato contesto non ci si può non adattare alle conformazioni sociali. I fatti sociali esistono nella misura in cui esistono gli uomini, ma nel contempo sono caratterizzati da un’esistenza indipendente che sovrasta la volontà di ciascuno. Stando a quest’ultima concezione, Durkheim propone una visione in cui i fatti sociali diventano cose, che sebbene dipendano dall’interazione tra gli uomini, ha un’esistenza a sé stante, che non si spiega a partire dalle coscienze e dalle azioni degli individui. Esempio: Il linguaggio. Non è creato da un singolo, diviene proprio in quanto intersoggettivo. È trascendente rispetto alla sua volontà e capacità di cambiarlo arbitrariamente. È il risultato dell’interazione di innumerevoli uomini in un tempo lunghissimo, spinto dalla loro volontà di comunicare, è una realizzazione collettiva. Di fatto si può utilizzare la lingua in modo scorretto, correndo il rischio di non essere capiti o denigrati per l’incapacità di comunicare correttamente. Ciò rende il linguaggio un fatto sociale, spiegabile solo a partire dalla società, ovvero dal risultato dell’interazione umana. UN APPROCCIO FUNZIONALISTA La società, quindi, per Durkheim è una realtà sui generis, di genere proprio, è un’unità di livello superiore, dotata di una vita che non limita alla descrizione di ciò che la compone. poiché la società si esprime in fatti sociali, la sociologia è la scienza che studia l’insieme dei fatti sociali. Per descrivere la società, Durkeim usa una metafora organicista: viene cioè paragonata ad un organismo composto da altri organi che interagiscono e cooperano tra loro. Alla base di questa concezione organicista, sta una caratteristica fondamentale del pensiero di Durkheim, cioè lo sforzo di spiegare ogni elemento di una società tentando di riconoscere quali funzioni tale elemento svolga all’interno della società stessa. Da qui la “funzione” della religione è codificare e sacralizzare le norme morali, mentre quella del diritto è quella di reagire alle infrazioni a tali norme e così via. Una spiegazione funzionalista consiste nello spiegare un fenomeno sociale sulla base dell’individuazione della funzione che esso adempie per la vita dell’insieme della società. Ciononostante Durkheim ritiene che questa sia possibile solo dopo l’analisi dei nessi causali che, essendo esclusivamente sociali, legano il fenomeno considerato ad altri fenomeni precedenti nel tempo; ma che non necessariamente ogni fenomeno sociale debba coincidere con qualche fine prestabilito. A questo si collega la trattazione della devianza, termine che indica l’esistenza di comportamenti che si discostano dalla norma, comportamento che può variare da un caso più specifico, come un crimine, a uno più generico come un comportamento definito anormale, cioè non conforme ai dettami di decenza stabiliti da una data cultura. Nel caso in cui viene commesso un crimine, l’atto stesso della sanzione appare come una funzione risanatrice della coscienza collettiva, un processo che riafferma le regole sociali che appaiono più chiare ed esplicite nel momento in cui viene punito di non si conforma. Con questo si può notare che la funzione non corrisponde a nessun fine prestabilito: è piuttosto un risultato non intenzionale di una pratica sociale. La devianza può anche rappresentare una sorta di “momento di sperimentazione” della società rispetto a delle nuove norme. Un movimento sociale, ad esempio, può nascere come espressione di una devianza rispetto ad una o più norme stabilite, che col tempo può diffondersi generando una nuova conformazione delle norme stesse, contesto in cui si possono sperimentare, oltretutto, anche nuove forme morali. Come per Marx, anche Durkheim non parla di un’unica società generale, ma di diversi tipi di società, che individua e argomenta in La divisione del lavoro sociale: - Il primo tipo di società: corrisponde storicamente alle tribù primitive, quindi ad una società detta semplice o segmentaria, cioè basata su una bassa divisione del lavoro, in cui gli individui svolgono attività poco differenti tra loro. - Il secondo tipo di società: corrisponde storicamente alle nazioni moderne, quindi ad una società detta complessa, basata su un’ampia e articolata divisione del lavoro, in cui gli individui svolgono attività diverse, caratterizzata ulteriormente dalla presenza di istituzioni intermedie, che mediano l’appartenenza del singolo all’insieme della società. Durkheim sottolinea quanto la morale, in questi due tipi di società, si sviluppi in maniera diversa, presentando diversi modi in cui si stabilisce la solidarietà collettiva. Per quanto riguarda le società complesse, Durkheim parla di solidarietà organica, ovvero quella che unisce gli organi differenti di un organismo complesso. Questa stabilisce i legami tra gli individui, o gruppi di questi, che hanno tra loro grandi differenze ma che devono cooperare per la vita dell’insieme sociale da cui tutti dipendono. Mentre nelle società semplici, viene definita solidarietà meccanica, ovvero quella tra soggetti uniti da vincoli quotidiani e le cui attività si diversificano poco. In quest’ultima tipologia, le coscienze degli individui non si differenziano molto, sebbene ognuno di questi si sente emancipato dal resto, ciò non accade poiché in relazione alla scarsità delle sue mansioni, saranno scarsamente individualizzabili anche i contenuti del suo pensiero. Per tanto si ritorna alla teoria per cui la coscienza collettiva prevarica quella individuale. In questo senso, la tolleranza della società verso comportamenti o idee diverse da quelli incorporati nelle norme comuni sono scarsamente tollerate. In tale ambito, il diritto si presenta come forma di leggi punitive, le norme tendono a vincolare ogni aspetto del comportamento, e ogni infrazione è considerata un attentato alla coesione del gruppo. Le società complesse, invece, essendo caratterizzate da una varietà di coscienze e quindi da una varietà di “punti di vista”, è possibile un’individualizzazione delle coscienze. In questo caso, il diritto si presenta più nella forma di leggi restitutive che punitive: l’infrazione del singolo è spesso considerata un danno recato ad altri più che un attentato alla società nel suo insieme. In questo contesto la tenuta delle norme morali diventa, date le diversità tra gli individui, più complicato stabilire norme che valgano per tutti indistintamente. È altrettanto necessario, però, rinforzarla proprio perché viene a mancare la solidarietà meccanica, pertanto la coesione sociale diventa qualcosa che va mantenuto appositamente attraverso dei meccanismi che vincolino ciascuno, nonostante le differenze, alla cooperazione. L’ANOMIA Si definisce anomia l’assenza di norme morali condivise, probabile rischio delle società complesse. Non è altro che l’incapacità sociale di vincolare a sé i propri membri, di garantire la loro adesione ad un medesimo e condiviso ordine di valori, di credenze e di aspettative. Durkheim parla di questa come un rischio specifico delle società moderne, dove lo sviluppo della divisione del lavoro non è seguito da uno sviluppo adeguato delle norme morali; prendendo come esempio i conflitti tra classe operaia e borghesia francesi e di altri paesi europei, in cui viene a mancare l’adesione individuale alle nuove condizioni dettate dal modo di produzione industriale. Differentemente da Marx, per cui i conflitti sociali sono il motore della dialettica storica, Durkheim ritiene che questi siano delle patologie che potranno essere curate. La cura alle anomie è il corporativismo, ovvero lo sviluppo di intermediari tra singoli e società fondati sull’associazione professionale. Tuttavia, l’ideale alle anomie è il potenziamento dei processi educativi, più precisamente uno sviluppo coerente e diffuso di un sistema morale che si imponga a tutti i suoi membri della società, capace di istillarsi nelle coscienze dei singoli solo tramite i processi educativi. Nella prospettiva di Durkheim, la funzione dei processi di socializzazione è quella di garantire l’integrazione coerente del singolo all’interno dell’insieme di norme che regolano la vita sociale. LA RICERCA DEL SUICIDIO Coesione e integrazione sociale, arrivano ad influire per Durkheim anche in casi di suicidio, cioè della deliberata scelta di sottrarsi alla vita. Per Durkheim è fondamentale in quanto avvalora la tesi per cui l’individuo propriamente isolano non esiste e che, pertanto, ciò che pensiamo sia caratteristico dell’essere individuale è totalmente riconducibile all’influenza della società. In caso di suicidio, in una coesione sociale, si riscontra la libertà del singolo che decide di sottrarsi a questa. Durkheim mira alla dimostrazione del fatto che anche questo gesto può essere spiegato in chiave sociologica, e che dunque sarebbe capace di interpretare ogni fenomeno individuale tramite questa. Per fare ciò, Durkheim non pone come oggetto di ricerca il suicidio di singoli individui, ma il tasso di suicidi che si riscontra in una data società, mostrando come i tassi, all’interno dei vari paesi catalogabili, restino pressoché costanti nel tempo. È pur vero che il suicidio di un singolo sia dettato da circostante soggettive, ma considerando la tendenza suicidogena di una società, si può constatare quanto questa sia correlata a fenomeni extrasoggettivi, cioè influenzata dai fatti sociali, e che è sempre in relazione con il grado di interazione sociale che la società stessa consente. Nella sua complessità, Durkheim riesce a dare una risposta empirica alla sua ricerca sociologica, basata su dati statistici, discussi e interpretati alla luce di una teoria dell’integrazione sociale. Prima di esplicitare la sua tesi, si dedica alla confutazione di alcune concorrenti: - La tesi per cui il numero di suicidi sia correlato ai fattori climatici: Durkheim mostra che le variazioni climatiche non sono regolari ad un aumento o ad una diminuzione del tasso, e che se non vi sono relazioni tra le due cose, non è possibile constatare questa tesi. - La tesi per cui i suicidi avrebbero a che fare con la diffusione della pazzia, con l’ereditarietà o con il consumo di alcolici. Osservando i dati statistici dei diversi Paesi considerati, Durkheim osserva che i membri delle confessioni protestanti presentano al loro interno un tasso di suicidi maggiore rispetto a quelle cattoliche o ebraiche. Durkheim osserva quanto la religione protestante fornisca una minore integrazione sociale, rispetto alle altre, strettamente legata all’importanza attribuita dalla Chiesa protestante al libero esame della coscienza di ogni singolo. Se da un lato favorisce lo sviluppo di personalità maggiormente individualizzate, dall’altro conduce il singolo a confrontarsi con sé stesso e con il suo Dio allo stabilire le leggi del proprio comportamento. È proprio questo che facilità la scelta del protestante di togliersi la vita. Il suicidio correlato all’influenza delle condizioni religiose del protestantesimo, viene definito da Durkheim suicidio egoistico, ove egoistico indica un forte sviluppo dell’ego, dato dall’enfasi della cultura protestante sulla liberta e la solitudine del singolo rispetto alle proprie scelte di fondo. Tutto ciò stabilisce una correlazione tra numero di suicidi e l’integrazione del singolo nella comunità. A sostegno di ciò Durkherim propone ulteriori tesi per cui i suicidi sono più frequenti tra persone non sposate rispetto a quelle che lo sono, rispetto a questo la tendenza al suicidio è legata all’indebolimento delle relazioni che legano il singolo ad una rete di relazioni con altri. O anche il legame tra le tendenze suicide e gli andamenti economici sia positivi, cioè di estrema ricchezza, sia negativi, cioè di estrema povertà; ciò si può spiegare solo interpretando i periodi di crisi economica come periodi di diffusa incertezza rispetto ai destini individuali delle persone e i valori fondamentali cui questi devono far riferimento. Tale incertezza corrisponde alla definizione durkhemiana di anomie, cioè mancanza di norme chiare e condivise. Pertanto il tipo di suicidio connesso a queste cause è definito suicidio anomico, spiegabile da un allentamento nelle forme della morale collettiva, da un aumento dell’incertezza rispetto alle norme cui conformarsi. Vi è un terzo tipo di suicidio, definito altruistico che, spiegabile in riferimento allo stato della coesione e dell’integrazione del singolo all’interno di un sistema morale, si esprime, ad esempio, nel sacrificio patriottico. CRITICHE ALLA RICERCA SUL SUICIDIO 1) Fonti dei dati: Durkheim si basa su fonti statistiche riprese dai registri dei suicidi delle autorità civili che a loro volta dipendono dalle registrazioni dei medici. Tuttavia è possibile che vi siano morti registrate non come suicidi, bensì come morti accidentali etc. ciò suggerisce l’inattendibilità dei dati su cui si basa la ricerca di Durkheim. (controllo delle fonti); 2) Spiegazioni riconosciute da Durkheim come significative: Maurice Halbwachs, allievo di D., ha mostrato come, nei paesi considerati, protestanti e cattolici tendessero a concentrarsi rispettivamente in città e campagna; ciò implica la possibilità che non sia l’appartenenza religiosa a determinare la tendenza suicida ma il tipo di residenza e le condizioni di vita relative. (non fermarsi all’ipotesi più evidente) 3) L’omissione del dato soggettivo: Durkheim non tiene conto della sfera soggettiva nell’analizzare cosa sviluppa una tendenza suicida. In generale notiamo come in un’analisi sociologica si possa adottare un metodo quantitativo o qualitativo, e che Durkheim si concentra sul primo sebbene sia essenziale incorporare il secondo per compensare le mancanze di un metodo e viceversa. LA SOCIOLOGIA DELLE RELIGIONI Quando parla di religioni, Durkheim si riferisce all’atteggiamento culturale che una religione diffonde. Durkheim è consapevole del fatto che le società moderne tendono a secolarizzarsi, cioè perdono, progressivamente, la rilevanza che le istituzioni, le pratiche e le credenze esplicitamente religiose attraversano nella modernità. Due fattori fondamentali per la secolarizzazione sono stati l’importanza che si è data alla scienza e alla spiegazione scientifica, accompagnata dalla progressiva emancipazione della sfera della vita politica e civile dagli ambiti religiosi. Quest’ultima ha ridefinito le istituzioni come laiche, ovvero garanti di regole e diritti che valgono per tutti i cittadini a prescindere dalle differenze religiose. Questo è parte di un processo che tende, nella modernità, a rendere le credenze religiose sempre più una cosa privata. Definizione del ruolo della religione per Durkheim Nel definirlo, Durkheim sviluppa 4 tesi: 1) L’elemento fondamentale della vita religiosa è la distinzione tra SACRO e PROFANO, una distinzione che è elementare, nel senso che è riscontrabile in qualsiasi credenza; 2) La funzione principale delle credenze religiose è quella di fondare e preservare gli ideali collettivi di una società, di fatto la sacralizzazione dei fondamenti della morale è un elemento determinante della coesione; 3) Tramite il culto l’individuo non fa altro che adorare la potenza trascendentale della società stessa, le forze del loro cooperare. In sintesi, Durkheim definisce la religione come il sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, cioè separate e interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata Chiesa, tutti coloro che vi aderiscono. Per quanto riguarda le forme concrete di pratiche e credenze religiose, queste pur variando nel tempo continuano ad avere qualcosa in comune; pratiche e credenze prodotte comunque dalla collettività, che rimandano a questa stessa come oggetto nascosto del culto. Stando a questo, dichiara che la religione è il sistema di simboli mediante i quali la società prende consapevolezza di sé, è la maniera di pensare propriamente collettiva. Durkheim non condivide la concezione comune dei fedeli, di fatto critica le religioni poiché tentano di mostrare in maniera ultraterrena qualcosa che di base è proprio all’uomo. Ritiene oltretutto che sia giusto porre la società come oggetto di sacralizzazione ma riconosce in maniera esplicita la funzione delle religioni per il sostegno delle norme morali che garantiscono la coesione sociale. I FONDAMENTI DI UNA SOCIOLOGIA DELLA CONOSCENZA La sociologia di Durkheim si sviluppa a stretto contatto con la filosofia, osservando che, per quanto riguarda la teoria della conoscenza, questa si divide in due posizioni: - Di stampo empirista: di chi ritiene che la conoscenza si sviluppi direttamente a partire dalle sensazioni, che vengono coordinate e sistematizzate nel corso dell’esperienza. - Di stampo kantiano: di chi ritiene che la conoscenza nasca dall’incontro dei dati sensoriali tramite un apparato intellettuale che è dato a priori, con categorie dell’intelletto che sono innate e universali. Sviluppando la seconda teoria, Durkheim osserva che ogni individuo percepisce dei dati bruti che assimila e ordina entro un apparato cognitivo secondo l’uso di nozioni e concetti (come nozione di spazio, tempo, concetto di causa etc) che, precisiamo, non derivano dall’esperienza bensì la costituiscono. Le categorie del pensiero, inoltre, rispetto ad ogni singolo soggetto, sono ‘a priori’, cioè ‘date’ e non sviluppate dal singolo. Ciò significa che sono categorie SOCIALI, che si costruiscono attraverso l’interazione tra gli uomini e il loro ambiente, trasmesse attraverso la loro cultura. In questo modo Durkheim afferma che i modi in cui conosciamo il mondo hanno origine sociale, pertanto quando varia una società variano anche le categorie ad essa relative; Durkheim attribuisce il ruolo fondamentale ai meccanismi psicologici collettivi che presiedono alla formazione del pensiero religioso, in quanto è nel dare un senso al mondo che gli uomini sviluppano i propri linguaggi e le proprie forme di conoscenza. MAX WEBER INTRODUZIONE Max Weber, di formazione economica, concentra il suo percorso sulla definizione dei compiti e del metodo delle scienze sociali. Le sue linee teoriche seguono tre campi di indagine: metodologico, storico- comparativo e sistematico che applica essenzialmente per altrettante questioni: 1) Il problema del metodo delle scienze sociali (in particolare della sociologia) e dei rapporti tra sapere scientifico e giudizi di valore; 2) Il problema della genesi, della specificità e del destino della civiltà occidentale moderna; 3) Il problema di una definizione sistematica e coerente dei concetti della sociologia. LA SOCIOLOGIA COME SCIENZA COMPRENDENTE Weber definisce la sociologia come un qualcosa che deve designare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi difetti (prima pagina di economia e società). Dunque la sociologia per Weber è una scienza di tipo comprendente, il cui fine è comprendere l’agire sociale. Con “comprendere un’azione” Weber parla di intendere il senso che tale azione ha per chi la compie e di fatto l’agire sociale, oggetto della sociologia, è un agire dotato di senso. Per ‘agire’ si deve intendere un atteggiamento umano, se e in quanto l’individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. La possibilità di comprendere l’agire di un soggetto, differenzia le scienze umane da quelle naturali, segnando una frattura nell’impostazione del modello scientifico adottato dagli illuministi fino a Durkheim, che Weber ritiene errato poiché nelle scienze naturali i fenomeni non sono AGITI da soggetti che danno loro un significato, mentre nelle scienze dell’uomo si analizzano fenomeni agiti da soggetti i quali recano loro un significato. (Esempio della pietra) Nella differenziazione delle due scienze, Weber assume la sua posizione sotto l’influenza di Wilhelm Dilthey e dal suo rifiuto di utilizzare per le scienze sociali i metodi propri di quelle naturali e di Heinrich Rickert sostenitore dell’impossibilità di applicare le nozioni come le leggi naturali al campo della storia umana. Stando a questa tradizione, Weber concepisce tutte le scienze sociali come scienze comprendenti, tra cui vi sono discipline che si differenziano come la storia e la sociologia. - Storia: si occupa della singolarità degli eventi, vuole comprendere eventi che si sono verificati una volta sola, non interessandosi alla regolarità con cui un fenomeno si manifesta; - Sociologia: al contrario si occupa delle generalità delle azioni sociali umane e di ciò che hanno di tipico, cioè di caratteristiche ricorrenti in più casi producendo delle tipologie di fenomeni. Pertanto affermiamo che in un primo momento la sociologia si propone di comprendere l’agire, per poi spiegarlo causalmente; con cui Weber intende rintracciare un fenomeno che sia precedente nel tempo a quello che si intende spiegare e rispetto a cui ciò che vogliamo spiegare sia LOGICAMENTE un effetto che ne dipende. Cercare una causa che ha prodotto ciò che vogliamo spiegare, sebbene per Weber non è possibile trovare un a spiegazione causale perfettamente esaustiva, quindi si limitano le ricerche delle condizioni sempre presenti quando tali fenomeni si manifestano. Oltre a non potersi definire mai completa, l’individuazione di una catena causale è sempre frutto di una scelta dello scienziato che, grazie alla sua esperienza sarà capace di vedere determinati nessi causali. Per questo Weber preferisce parlare di condizioni, influenza o di insieme di fattori anziché di cause. IL CONCETTO DI “IDEALTIPO” E I FONDAMENTI DELL’AGIRE SOCIALE. La sociologia si occupa specificamente dell’agire sociale, per cui s’intende un agire che sia riferito, secondo il suo senso, all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo. (agire sociale: azione che investe sugli altri) L’agire sociale può essere di diversi tipi, tra cui individuiamo gli idealtipi o tipi ideali, cioè di uno strumento conoscitivo che adotta lo scienziato per comprendere il senso delle azioni, a cui ciascun individuo attribuisce un significato proprio, pertanto tale metodo consente la generalizzazione tipica della disciplina sociologica. Altri autori hanno poi osservato come esistano diverse specie di tipi ideali. 1) Sono tipi ideali determinate formazioni storiche colte nella loro individualità; 2) Vi sono, in maniera più astratta, idealtipi che non colgono un’ndividualità storica, ma un tipo di fenomeni che si può presentare in formazioni storiche diverse. (burocrazia, potere carismatico etc.) 3) Tipi generali che corrispondono ad un tentativo di rendere interpretabile e confrontabile l’agire in un numero elevatissimo di casi.
Quest’ultima tipologia, poi, distingue altri quattro tipi di agire sociale:
1) Agire razionale rispetto allo scopo 2) Agire razionale rispetto al valore 3) Agire affettivo 4) Agire tradizionale
1) Il soggetto agisce in virtù di un fine determinato, calcolando i propri forzi in
modo razionale per raggiungere tale scopo. 2) In questo caso il senso dell’agire non rimanda ad uno scopo da raggiungere, ma risiede nel valore in sé dell’agire stesso, non rifacendosi ad alcuna considerazione relativa alle conseguenze che tale agire potrebbe comportare; il valore in questione è comprensibile solo in relazione ad un valore che è rilevante per il soggetto che compie l’azione a prescindere dalle conseguenze che può comportare. 3) In questo caso l’agire è correlato ad uno stato d’animo del soggetto, azioni non dettate da fine o da riferimenti a valori, ma solo da emozioni o dati sentimenti 4) In questo caso l’agire è dettato da abitudini acquisite, il soggetto agisce secondo una consuetudine La schematizzazione dei tipi ideali funge solo come strumenti analitico, nella realtà i diversi orientamenti di significato si mescolano pertanto non è possibile dire sia di tipo X o Y; nonostante ciò Weber sostiene che nel mondo moderno il tipo egemone sia quello razionale rispetto allo scopo, un fare che determina la strumentalizzazione delle azioni umane, e che corrisponde allo sviluppo di un processo di razionalizzazione (cioè di un crescente modus operandi rispetto allo scopo) IL CONCETTO DI “CAPITALISMO” Nel definire il ‘Capitalismo, Weber parte dal concetto di atto economico capitalistico, cioè “un atto che si basa sull’aspettativa di guadagno derivante dallo sfruttare abilmente le congiunture dello scambio, dunque da probabilità di guadagno formalmente pacifiche”, un sistema economico all’interno del quale i soggetti agiscono al fine specifico di aumentare il loro capitale. Il soggetto in questione è il proprietario dell’impresa capitalistica, a questo si aggiunge l’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero, ovvero l’utilizzo di salariati giuridicamente liberi per lo svolgimento dell’attività dell’impresa. Un agire economico è detto di tipo ‘capitalistico’ nella misura in cui è orientato a perseguire, in modo sistematico, continuo nel tempo e formalmente pacifico un PROFITTO. Rispetto a Marx, Weber omette il fattore dello ‘sfruttamento’ in quanto nella definizione di capitalismo si concentra sulle caratteristiche che riguardano il senso dell’agire capitalistico e le condizioni storiche in cui si sviluppa, senza includere i rapporti di produzione; quest’ultima infatti, ritiene Weber, sia una critica morale al capitalismo, che non rientra nei parametri scientifici da considerare. Inoltre, rispetto a Marx, Weber introduce il carattere razionale dell’agire capitalistico, cioè l’agire razionale che è alla base del calcolo economico alla base dell’organizzazione razionale del lavoro, precisando che la razionalità di cui parla Weber è quella spiegata nell’agire razionale rispetto allo scopo. Per quanto riguarda i numerosi fattori storici, Weber si focalizza su quattro punti: - La disponibilità di lavoro formalmente libero, fine della schiavitù; - Lo sviluppo di mercati aperti, apertura a tutti verso un vasto sistema commerciale; - La separazione tra famiglia ed impresa, cioè tra sfera domestica e lavorativa; - Lo sviluppo di un diritto formalmente statuito che consente alle imprese (ogg. Agire capit.) condizioni in cui le norme dettate dal potere politico non siano soggette a continui mutamenti, in assenza delle quali sarebbe impossibile fare calcoli razionali relativi al successo delle attività. È una combinazione di fattori che crea una mentalità specifica che consente di attribuire senso all’agire di tipo capitalistico nell’occidente moderno, una mentalità fondata sull’importanza di investire sul lavoro e sulle imprese, definito da Weber come spirito del capitalismo LO SPIRITO DEL CAPITALISMO E LE SUE ORIGINI NELL’ETICA PROTESTANTE Dopo aver definito il capitalismo, Weber indaga le origini dei fattori che hanno consentito la formazione di condotte pratico-razionali nella vita degli uomini occidentali moderni, entrambe le quali si pongono alla base di un agire economico il quale calcola in vista di uno scopo, il guadagno, escludendo il godimento concreto che si trae da quanto prodotto. Le origini di tale disposizione vanno ricercate, secondo Weber, in forme specifiche della cultura europea nei secoli iniziali dell’età moderna, ovvero nelle forme religiose. Nel 1517, Lutero rese pubbliche le sue 95 tesi che segnarono l’inizio della riforma protestante. La dottrina di Lutero comportava il rifiuto dell’autorità del Papa in materia di fede, e riproponeva un radicale ritorno al messaggio evangelico. Dopo violenti sconvolgimenti sociali, il protestantesimo si assestò, nel corso del ‘500 e del ‘600, in tutta l’Europa settentrionale, tuttavia ramificandosi in diverse versioni. La più rilevante di queste fu quella calvinista. Il protestantesimo pone l’individuo come diretto interprete della parola di Dio, ma Weber si sofferma più su come il protestantesimo esalti la vita mondana, ed è su questa esaltazione che si fonda il concetto di BERUF, termine che significa ‘professione’ - ‘vocazione’, con cui i protestanti indicano il carattere sacro dei compiti professionali di ciascuno e la dimensione religiosa dell’occuparsi dei compiti connessi alla propria posizione nel mondo. Altra caratteristica rilevante è quella dell’assoluta imperscrutabilità del valore divino e la sua indipendenza dalle azioni umane, un dogma calvinista sulla predestinazione delle anime: solo Dio ha il potere di salvare o perdere per l’eternità, l’uomo non può in alcun modo mutare o influenzare ciò che la Grazia gli concede. Per Weber, questo dogma si ripercuote a livello psicologico sull’individuo che da un lato non ha potere sulla propria salvazione, dall’altro è portato ad osservare ogni segno che possa venirgli a conferma del proprio destino. A tale pressione psicologica l’uomo risponde rispettando il volere di Dio occupandosi sistematicamente di ciò che egli ha creato, vietandosi ogni indulgenza nei confronti dei piaceri che dal mondo possono derivare; inoltre lungi dai protestanti la possibilità del perdono dei peccati tramite il sacramento della confessione, che tra l’altro non esiste in questa forma di cristianesimo, o quella di recuperare le indulgenze con maggiori atti di buona volontà. Questo stabilisce una condotta di vita strettamente metodica, in cui il lavoro non è solo un modo per glorificare Dio, ma anche di evitare le tentazioni. Questo atteggiamento (beruf + rinuncia al piacere) viene denominato da Weber ascesi intramondana, per l’appunto fusione di rinuncia al piacere del mondo e di presenza attiva nel mondo, ed è affine a quanto richiede lo ‘spirito’ del capitalismo. Questo perché l’etica protestante favorisce lo sviluppo di una mentalità dedita al lavoro in maniera sistematica, ove il lavoro esclude il godimento di trarre profitto da questo, pertanto fornisce una base di senso su cui fondare tale principio economico. Ciò non significa che il protestantesimo, sia l’unico fattore che getta le basi per il capitalismo; di fatto la continua produzione di ricchezza si oppone ai valori puritani che tendono a scomparire progressivamente nel compimento del sistema capitalistico. Sembrerebbe dunque che quest’ultimo distrugga automaticamente ciò che ha contribuito a farlo nascere. Posizione di weber: non critica il capitalismo poiché non vede altre forme di sistema possibili nel periodo in cui vive, la sua sociologia è dichiaratamente avalutativa, cioè categoricamente esonerata da ogni forma di giudizio di valore L’”AVALUTATIVITÀ” DELLE SCIENZE SOCIALI Generalmente per ‘valori’ s’intende un orientamento culturale di fondo che esprimono i nostri atteggiamenti morali. Con Weber bisogna, però, prima distinguere il riferimento a valori dal giudizio di valore: 1) È il soggettivo riferirsi nella propria condotta, da parte di qualcuno, a certi valori; 2) È un’affermazione che, riguardo certi fenomeni, esplicitamente dichiara una certa opinione- Lo scienziato sociale non può non riferirsi a valori, perché, oltre ad essere parte del senso dell’agire degli individui, non può farne a meno in quanto uomo, in quanto protagonista della storia che vive; inoltre Weber ritiene che da ciò nasca la dedizione del sociologo, che indaga un qualcosa poiché lo ritiene rilevante, privilegiando, nell’analisi della realtà, certi elementi piuttosto che altri. Ciò che rende oggettiva l’analisi è lo sforzo dello scienziato che, consapevole dei propri valori, omette giudizi di valore rispetto ai fenomeni considerati, l’oggettività diviene quindi una disciplina chiamata avalutatività. ALCUNE CATEGORIE DELLA SOCIOLOGIA WEBERIANA In relazione all’agire sociale, si parla di relazione sociale quando, alla presenza di più individui sociali compresenti, il senso dell’azione di ciascuno di riferisce all’atteggiamento dell’altro, in un modo tale che le azioni sono reciprocamente orientate fra loro. (Esempio dell’interazione tra insegnante-alunno) Individui in relazione COSTANTE tra loro possono costituire una comunità o una società, le quali si distinguono in: - Un gruppo di individui il cui agire sociale poggia su una comune appartenenza soggettivamente sentita dagli individui che lo compongono; - Un gruppo di individui il cui agire sociale poggia su una convergenza di interessi. Entrambi sono ritenuti da Weber tipi di relazioni sociali dove uno è legato alla dimensione affettiva, l’altro sulla considerazione razionale dell’interesse dei soggetti a prendervi parte; entrambi sono, poi, IDEALTIPI, cioè dei concetti astratti, in cui si pone l’accento sull’integrazione dei membri del gruppo. Vi possono essere relazioni sociali di tipo opposto, come la lotta, in cui ciascun attore non mira all’integrazione con e dell’altro ma alla sua sopraffazione. Weber, di fatto, tende a sottolineare la presenza continua di forme di lotta, non specificando un particolare tipo di conflitto e/o parlando di un conflitto che porterà verso sintesi successive, ma più generalmente parla del conflitto come una dimensione sempre inerente alle possibilità umane dell’agire. Le relazioni sociali possono essere aperte o chiuse: 1) Se la partecipazione all’agire sociale reciproco che le costituisce è possibile per chiunque; 2) Se vi sono degli ordinamenti che ne limitano l’accesso solo a determinati soggetti in possesso di certi requisiti. Da quest’ultimo tipo, può nascere un raggruppamento sociale, caratterizzato dalla presenza di un capo ed eventualmente un apparato amministrativo alle sue dipendenze. Un gruppo sociale se caratterizzato da un’occupazione in un dato territorio, dalla nozione della propria continuità nel tempo e da un’organizzazione in cui è presente la possibilità di minacciare il ricorso alla forza fisica per imporre il rispetto delle regole, questo viene definito da Weber raggruppamento politico. Nello specifico, è lo Stato a detenere il monopolio della violenza legittima. LE FORME DI LEGITTIMAZIONE DEL POTERE Ciò che legittima la violenza non è altro che la validità dell’autorità che la impone in quanto espressione di un potere legittimo. In Economia e Società, Weber distingue il concetto di potenza (MARCHT) da quello di potere (HERRSCHAFT) dove POTENZA intende qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, mentre per POTERE s’intende la possibilità che un comando, di determinati contenuti, trovi obbedienza presso certe persone. Nel caso della potenza, chi la subisce è costretto a seguire la volontà dell’altro, mentre nel caso del potere abbiamo un soggetto che OBBEDISCE ad un comando poiché riconosce la legittimità di chi lo emana. Per comprendere come un comando possa essere considerato legittimo, Weber individua tre tipi di legittimazione del potere: 1) Tradizionale: quando la base della legittimità poggia sulla credenza nel carattere sacro di tradizioni ritenute “valide da sempre”. Un tipo di obbedienza che si presta a coloro che rappresentano o detengono un posto di privilegio in virtù di una tradizione, come il re o il padre nelle famiglie patriarcali; 2) Carismatico: quando la base della legittimità poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da essa. È un potere capace di produrre mutamento, ritenuto da Weber la più grande forza rivoluzionaria della storia che, quando muore, è difficile riuscire a conservare gli ordinamenti o i messaggi da essa prefissati. 3) Razional-legale: quando la base della sua legittimità poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e nel diritto di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere in base ad essi. Quando la legittimazione è del terzo tipo, l’obbedienza non è data ad un singolo, ma a leggi impersonali, cioè leggi astratte che valgono ugualmente per tutti. Queste ultime non sono mai frutto della tradizione, bensì anche loro di un processo razionale, sulla base di una discussione formalmente pacifica. Questa è la forma più consona nelle società moderne e si noti come il cambiamento, sebbene possibile, alla presenza di tali leggi è in qualche modo “controllato”. LA BUROCRAZIA Ad ogni forma di potere legittimo corrisponde una forma di apparato amministrativo e per quanto riguarda il tipo connesso al potere “razional-legale”, questo è l’apparato di tipo burocratico. Generalmente, per burocrazia s’intende l’organizzazione permanente della cooperazione tra un grande numero di individui, ciascuno dei quali svolge una funzione specializzata. In relazione allo stato moderno, però, la burocrazia consiste in un apparato di individui espressamente organizzato per l’espletazione di compiti amministrativi, tali individui sono detti funzionari, ed esercitano i loro incarichi sulla base di procedure standardizzate, definite dalla legge o da regolamenti espliciti, obbedendo ad un’autorità impersonale. La burocrazia dello stato moderno si fonda su cinque principi: 1) L’esistenza di servizi e competenze rigorosamente definiti da leggi o regolamenti; 2) Una gerarchia delle funzioni; 3) La separazione tra la funzione e l’uomo che la svolge, cioè il criterio di non- proprietà personale della carica; 4) Il reclutamento dei funzionari basato sul possesso di una formazione specifica e sulla base di esami; 5) La retribuzione del funzionario mediante un salario erogato dallo Stato. Nonostante ciò, convenzionalmente con ‘burocrazia’ ci si riferisce ad ogni organizzazione razionale del lavoro, per questo, Weber, nella discussione delle caratteristiche del capitalismo occidentale moderno parla di burocratizzazione del lavoro. Come sistema amministrativo, però, la burocrazia è più efficiente nei sistemi basati sulla legittimazione tradizionale, cioè nel patrimonialismo, caratteristico dell’Europa feudale, in cui le funzioni amministrative erano affidate a funzionari i quali rispondevano al potere personale del signore a cui erano legati da un rapporto di fiducia personalistico, che però non sono adatti all’amministrazione moderna. Lo svantaggio della burocrazia è che in quanto fondata sulla spersonalizzazione favorisce la deresponsabilizzazione dei singoli funzionari, oltre al fatto che sfavorisce l’innovazione poiché basata su processi standardizzati. Infine i corpi amministrativi burocratici possono sviluppare propri interessi particolaristici, di fatto il controllo di questi è una delle cause fondamentali del malfunzionamento delle democrazie contemporanee. LA STRATIFICAZIONE SOCIALE Per stratificazione sociale s’intende, in sociologia, il modo in cui in una società gli individui e i raggruppamenti di individui si sono differenziati e ordinati gerarchicamente. Se per Marx è la nozione di classe a servire per l’analisi della stratificazione sociale, per Weber sono gli ordinamenti, diversi per ogni ambito sociale, come l’ordinamento economico, culturale e politico, e all’interno del quale la stratificazione si presenta secondo diversi criteri. Secondo Weber, una classe è un insieme di individui che condivide possibilità analoghe di procurarsi dei beni economici, cioè beni e servizi volti alla soddisfazione di bisogni relativi a prestazioni di utilità. Nella società moderna la classe si definisce in relazione al mercato, infatti fanno parte di una classe individui con interessi economici simili, ma queste non bastano, secondo Weber, a rendere la stratificazione sociale, che all’interno dell’ordinamento culturale, sempre secondo Weber, si esprime attraverso i ceti. Per definizione, si parla di ceto come un effettivo privilegio positivo o negativo nella considerazione sociale, che può essere fondato da individui che condividono un certo status riconosciuto socialmente, senza che questo coincida necessariamente con la condizione economica. Per quanto concerne la stratificazione politica, essa si realizza nelle forme degli apparati politici e amministrativi di un gruppo sociale, cioè nelle cariche che vi si possono ricoprire, secondo i vari sistemi di accesso previsti nelle diverse società; ma può anche succedere che i membri di un determinato partito o fazione politica prevalgano su altri nell’allocazione delle risorse del gruppo. RAZIONALIZZAZIONE E DISINCANTO DEL MONDO Del pensiero di Weber è importante sottolineare il fatto che, nel definire la sociologia come comprendente, parte dall’individualismo metodologico che la sottintende, cioè dall’agire degli individui, e dalla società come fa Durkheim. Inoltre Weber reca una notevole importanza ai conflitti, diversamente da Durkheim il cui principio è una società come insieme armonico. LA SOCIOLOGIA AMERICANA FRA GLI ANNI ’30 – ‘50 TALCOTT PARSONS Quello di Parsons è un approccio che si può definire struttural-funzionalista, il quale si propone di individuare la struttura di fondo della società mostrandone le funzioni che le sue parti assolvono e devono assolvere. Più propriamente si potrebbe definire un approccio sistemico, concetto centrale del pensiero di Parsons. L’obiettivo di Parsons è integrare le idee di Weber con quelle di Durkheim, dove da un lato si vuole comprendere l’agire umano e dall’altro come questo si inserisca in un quadro di vincoli sovraindividuale. AZIONE SOCIALE E SISTEMA In La struttura dell’azione sociale Parsons propone di considerare l’atto come oggetto principale della sociologia. La descrizione di ogni azione richiede che si individuino un attore, un fine, una situazione e un orientamento normativo. Questa situazione di partenza è analizzabile secondo due elementi, quelli per cui l’attore ha e non ha possibilità di controllo, dove gli elementi di cui ha controllo vengono chiamati condizioni dell’azione mentre quelli di cui non ne ha mezzi. Sebbene entrambi gli elementi siano correlati, questi ultimi non possono essere generati casualmente o esclusivamente subordinati alle condizioni dell’azione, ma devono essere soggetti all’influenza di un fattore indipendente selettivo. Il tutto nasconde la tendenza di Parsons a porsi contro: - il comportamentismo, che riduce l’azione umana a un meccanismo di risposta agli stimoli, riducendo così il ruolo della volontà; - l’utilitarismo implicito nell’economia neoclassica, che riconduce ogni azione a un interesse e sottovaluta l’orientamento normativo. Contro i quali vuole, nel primo caso, evidenziare la relativa libertà di scelta dell’attore nei confronti della situazione in cui è, mentre nel secondo vuole accentuare il peso che hanno le norme nel vincolare e governare l’azione. Di fatto queste ultime non sono altro che un sistema di regole di origine sociale derivanti da un sistema di valori, vengono pertanto definite una cultura volta a regolare il rapporto tra le personalità individuali e l’insieme sociale in cui esse agiscono. Parsons distingue così personalità, sistema sociale e cultura, e affinché un sistema sociale funzioni coerentemente è necessario che i suoi membri abbiano riconosciuto come propri i valori e le norme della cultura comune. Parsons parla di un sistema come un insieme autonomo interrelato di parti, ognuna delle quali svolge una funzione determinante alla riproduzione di questo. Ogni sistema deve essere in grado di svolgere almeno 4 funzioni: - Adattarsi all’ambiente; - Definire i propri obiettivi; - Conservare la propria organizzazione; - Garantire l’integrazione delle proprie parti. Queste, in un sistema sociale, sono adibite a degli specifici sottosistemi che sono rispettivamente: - Sottosistema economico; - Sottosistema politico; - Sottosistema della famiglia e del sistema scolastico; - Sottosistema giuridico e della religione Gli individui da considerare, sono dotati di una personalità che gli consente di ricoprire dei ruoli, ovvero insiemi di modelli comportamentali volti all’adempimento di una funzione. Pertanto, quello sociale, è essenzialmente un sistema di ruoli. Esercitando il proprio ruolo, conformemente alle norme, gli individui entrano in relazione tra loro consentendo la riproduzione dell’intero sistema. Oltre che alle norme, il funzionamento del sistema è facilitato anche dalla presenza di feedback tra le parti: agendo in base alle norme noi ci comportiamo secondo le aspettative altrui che rinforziamo, assieme alle norme, proprio con il fatto che le assecondiamo. FAMIGLIA E SOCIALIZZAZIONE Il concetto di interiorizzazione, ripreso da Freud, mostra come ognuno di noi impari a seguire certe norme e a rispettare determinati valori attraverso la formazione di un’istanza psichica – quella del Super Io – che riproduce al suo interno l’autorità che gli si impone dapprima come un vincolo esterno, processo che coincide con la socializzazione, che si realizza prioritariamente nella prima infanzia nel nucleo familiare. Se in epoche e società premoderne in quello della famiglia rientravano anche funzioni di altri sottosistemi, con l’evoluzione sociale si ha, secondo Parsons, un processo di differenziazione e uno di specializzazione delle istituzioni, dove uno corrisponde a un processo di moltiplicazione dei ruoli che un sistema sociale permette, cioè una risposta adattativa all’ambiente, e l’altro al rapporto che si crea tra i ruoli differenziati e compiti più specifici che ne consente una maggiore efficacia. Questi due processi, fanno sì che la famiglia perda alcuni dei suoi ruoli originari (es. cura della salute affidata alle ist. Sanitarie) ma che, nel contempo, diventi il garante principale della socializzazione dei bambini e di stabilizzazione delle personalità degli adulti. In tale processo, la famiglia si conforma a determinate caratteristiche che consentono l’emancipazione della c.d. famiglia moderna da ogni forma di famiglia nella storia. Quella moderna si presenta come una famiglia “nucleare”, che estranea i suoi membri dal resto della parentela, anche dal punto di vista abitativo. Al suo interno, alla donna spetta il ruolo di casalinga e di leader espressiva, colei che dirige la casa e i rapporti che all’interno si instaurano; mentre all’uomo spetta quello di breadwinner e di leader strumentale, colui che procura il denaro volto al sostentamento della famiglia e dirige i rapporti di questa con l’ambiente esterno, la cui professione determina il ruolo sociale della famiglia. Date queste caratteristiche, i genitori, cooperando, forniscono modelli comportamentali e valoriali che, con la socializzazione, consentirà ai figli di designare la loro personalità. La socializzazione dei bambini è da sempre compito della famiglia, ma nello specifico la socializzazione nella cura dei figli e nel sostegno reciproco della personalità dei due coniugi, è una peculiarità della famiglia moderna. ALCUNE CATEGORIE ANALITICHE Termini sociologici rielaborati da Parsons: - Norme: modelli comportamentali “imposti” in maniera esplicita o implicita che se non rispettati, implicano una sanzione; - Valori: sono il fondamento delle norme, ovvero atteggiamenti culturali di fondo che orientano le scelte e le azioni degli individui; - Ruoli: insiemi di comportamenti regolati da norme, attraverso cui l’individuo interagisce con gli altri, un individuo può svolgere una pluralità di ruoli che non si contraddicono, ma sono quelli che ricopre principalmente a determinare il suo status, cioè la sua posizione sociale; - Istituzioni: sottounità del sistema sociale che implicano più ruoli interagenti fra loro (famiglia, scuola); - Socializzazione: processo di interiorizzazione di valori e norme che consente ad un individuo di svolgere ruoli che le istituzioni gli richiederanno e di conseguire uno status; Sebbene ce ne siano di diversi per ogni sistema sociale, Parsons sostiene che ad ognuno di questi sono applicabili tali concetti. Parsons mette a punto un paradigma, con il quale è possibile distinguere società e culture, che viene chiamato variabile strutturale che, per definizione, sono scelte binarie di fondo riscontrabili analiticamente al di sotto di ogni sistema di azione. Tali scelte riguardano: - Particolarismo/universalismo: il particolarismo è un principio per cui un soggetto assume atteggiamenti e comportamenti diversi a seconda della persona con cui interagisce, mentre quello dell’universalismo si basa sul principio fondante de “la legge vale per tutti”; - Diffusione/specificità: la differenza tra i due concetti riguarda la forma di un’azione che nel primo caso può essere soggetta ad una pluralità di aspetti della propria e dell’altrui personalità (amicizia) mentre nel secondo dipende da un singolo aspetto (funzionario di servizio); - Ascrizione/acquisizione: nel primo caso si sottolinea l’importanza relativa che, nel relazionarsi, un soggetto attribuisce ai tratti che caratterizzano per nascita l’altro, mentre nel secondo ciò che è stato o è capace di realizzare; - Affettività/neutralità affettiva: la differenza passa tra sistemi d’azione in cui è prevista una gratificazione affettiva dei partecipanti (familiari) e in cui non lo è, per cui il significato dell’azione è puramente strumentale; - Interessi collettivi/interessi privati: è la distinzione meno sviluppata da Parsons vista la sua incertezza, sostanzialmente un medico ha un interesse collettivo rispetto ad un imprenditore il cui interesse è puramente privato, personale. La disposizione degli individui rispetto a tali atteggiamenti consente la descrizione dei caratteri fondamentali di un sistema sociale. Parsons osserva che quella moderna, considera maggiormente la prima e la terza varabile (part-uni + ascr-acqui) promuovendo un agire sociale universalistico e ispirato al principio di acquisizione, rispetto alla società tradizionale che presenta norme particolaristiche e che considera gli elementi ascrittivi di ogni individuo sociale. CRITICHE E OSSERVAZIONI Molte delle critiche riguardano i limiti del suo funzionalismo: concentrandosi su ciò che è funzionale al sistema, Parsons omette la comprensione delle questioni sociali che vengono viste come vere e proprie disfunzioni; ciò non gli consente di concettualizzare il mutamento sociale che pertanto viene sintetizzata entro una prospettiva evoluzionistica non argomentata e non permette di capire cosa per Parsons generi e faccia mutare i valori. Inoltre gli viene criticato il fatto che nel definire la struttura della società moderna, non fa altro che riprendere gli ideali della società americana, sottolineando la sua vena etnocentrica (egemonia del gruppo di appartenenza preso come riferimento nella valutazione degli altri). Quest’ultima si avverte nella distinzione tra culture moderne e tradizionali, la quale ha ispirato le teorie sulla modernizzazione che sono state messe in discussione perché oltre ad impostare il modello occidentale come quello a cui il resto delle società dovrà inevitabilmente conformarsi, concepiscono la modernizzazione come processo unilaterale e sempre identico a se stesso. Contemporaneamente a Parsons, Walt Rostow proponeva un modello di modernizzazione a quattro stadi valido per ogni paese e contesto, ed è proprio questa universalità che sociologia ed economia mettono in dubbio. Oltretutto le teorie della modernizzazione presuppongono che i paesi in via di sviluppo abbiano le stesse possibilità di riuscita di quelli che lo sono già; questo, però, viene negato dalle teorie della dipendenza, un insieme di analisi inizialmente contestualizzate al Terzo Mondo e poi sistematizzate da Wallerstein le quali mostrano come processi economici e politici vincolano i Paesi che sono oggi arrivano alle soglie dell’industrializzazione. La crescita dei paesi industrializzati ha dipeso notevolmente dai paesi del Terzo Mondo tanto da favorire lo sviluppo del sottosviluppo, ciononostante le variabili strutturali sono comunque considerate estremamente utili per la descrizione di società differenti. Alla sociologia della famiglia viene riconosciuta valida la constatazione che le famiglie mutano nella storia e il processo di interiorizzazione delle norme. Il resto viene screditato, partendo dalla chiusura del nucleo familiare rispetto al resto della parentela che è una pratica inusuale, alle sue funzioni economiche che non ha totalmente perso e che non necessariamente perderà; inoltre, la complementarità dei coniugi comporta una subordinazione, in questo caso della donna, poiché chi non dispone di un’indipendenza economica è meno libero rispetto a chi la possiede, e questo ha suscitato forti critiche del femminismo. Nel considerare paradigmatica la famiglia nordamericana (bianca – anglosassone – ceto medio), Parsons non ne descrive la realtà, ma la sua proiezione ideale, ciò che i membri, specialmente maschili, di queste famiglie vorrebbero che fosse; attribuendo così all’ideale il valore di una norma sociale, alla quale non ci si può non adeguare. Per quanto riguarda il concetto di azione, sebbene Parsons si dica molto vicino a Weber, le due accezioni sono molto diverse. Quella di Parsons, rispetto a Weber, si limita al solo agire razionale rispetto allo scopo; inoltre, a differenza di Weber, Parsons omette l’interpretazione dell’agire, concentrandosi piuttosto sulla descrizione dell’azione scomponendola nei suoi elementi. In questo modo renderà effettivo il concetto di azione come un fenomeno delimitato. Il tutto viene messo in dubbio perché è raro che un’azione venga concepita come singola, bensì come parte di una catena di azioni; per questo Weber parla di “agire”, un concetto idealtipico che non implica necessariamente il riferimento a una singola azione determinata. Infine, vi è una doppia traduzione del termine ‘azione’: Weber usa la parola HANDLUNG mentre Parsons usa AKNON. Entrambe significano azione ma solo il secondo termine intende l’azione come volontaria, rispetto al primo che indica una condotta, un insieme di azioni in cui l’elemento volontaristico non è necessariamente presente. Parsons si concentra su un aspetto dell’azione che privilegia eccessivamente la dimensione volontaria, finalistica ed esplicitamente cognitiva dell’agire sociale.