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1. LE ORIGINI DEL PENSIERO SOCIOLOGICO


IL MONDO MODERNO E LE ORIGINI DELLA SOCIOLOGIA
La sociologia è una costruzione intellettuale del mondo moderno. Nella prospettiva dei sociologi, l’inizio della
modernità è segnata dalla rivoluzione industriale (economica e tecnologica), sviluppatasi in Inghilterra a partire dalla
seconda metà del XVIII secolo e la Rivoluzione francese (politica ed istituzionale), che ebbe luogo sul finire dello
stesso secolo. Entrambe segnano momenti di svolta e furono percepite dalle stesse persone che ne furono coinvolte
come un mutamento radicale. Questa percezione è stata una spinta notevole per il desiderio di studiare le forme
della vita sociale, perché essa non può più essere data per scontata.
Anche lo sviluppo del concetto di scienza è fondamentale per comprendere il sorgere della sociologia. Nell’accezione
moderna, la scienza è un insieme di strategie conoscitive in cui l’osservazione metodica, unita all’applicazione di
procedimenti logici di tipo razionale, mira alla scoperta di regolarità universali che riguardano i fenomeni studiati.
Prima dell’avvento della modernità, l’osservazione e l’esperienza sensibile si distinguevano da ciò che era ritenuto il
vero sapere assoluto ed eterno. Bacone, Galilei e Newton più tardi hanno cominciato a conciliare questi aspetti.
Movimenti come l’illuminismo francese o l’empirismo anglo-scozzese proporranno l’obiettivo di applicare il metodo
conoscitivo basato sull’osservazione (applicato con successo ai fenomeni naturali) anche ai fenomeni sociali.

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA RIVOLUZIONE FRANCESE: UN MONDO IN MUTAMENTO


Il processo di industrializzazione ha come presupposti la disponibilità di materie prime a buon prezzo, di masse di
lavoratori per il lavoro di fabbrica, di nuove tecnologie e il controllo delle vie commerciali e dei mercati coloniali.
La specificità del modo di produrre industriale è la capacità di far crescere con una certa regolarità la produzione: le
società sono quindi non solo capaci di produrre, ma anche di accrescere il proprio prodotto e di svilupparsi
economicamente. Da allora si è sviluppato il concetto di progresso; gli uomini si sono abituati all’idea che il mondo
sociale e materiale di domani sarà di norma diverso da quello di oggi.
Anche le rivoluzioni politiche squalificano una visione statica del mondo sociale. La Rivoluzione francese è il
momento culminante della delegittimazione del potere feudale e dello stabilirsi di un nuovo tipo di legittimità del
potere legale-razionale, grazie alla pressione di una nuova classe (la borghesia), che mira a rimuovere il potere delle
aristocrazie, a sostituirlo con il proprio e a sviluppare una propria specifica ideologia, che tende a presentare le
proprie aspirazioni come le aspirazioni di tutta la società.

ILLUMINISMO: L’IDEA DI UNA SCIENZA DELLA SOCIETA’


Sul piano culturale, le origini della sociologia sono da ricondurre all’illuminismo, movimento culturale del XVIII
secolo. Il mondo umano appare come essenzialmente storico ed ha una direzione: il progresso. La società è
considerata una natura che si dota delle proprie leggi, che può dunque conoscerle e, una volta conosciutele,
trasformarle secondo ragione. La decisione di quale ritenere il “primo sociologo” ha dei margini di arbitrio. Per gli
arbani è Ibn Khaldoun (uno storico del XIV secolo che analizzò in modo molto moderno i rapporti tra tribù nomadi e
città arabe nell’Africa settentrionale); per altri è Vico; per altri ancora Rousseau; secondo una tradizione indicata da
Durkheim sarebbe Montesquieu, un illuminista, che scrisse due libri molto importanti: le Lettere persiane e Lo spirito
delle leggi. In quest’ultimo avvia un discorso comparativo, basato sull’osservazione, a proposito delle leggi che
governano gli uomini in diverse società. Non stabilisce i principi in base ai quali gli uomini dovrebbero vivere: il punto
è osservare la varietà delle istituzioni umane e provare a spiegarla. Le Lettere persiane sono invece un romanzo
epistolare costituito da lettere che il principe persiano Uzbek invia agli eunuchi e alle mogli del suo serraglio. Uzbek è
in viaggio, arriva in Europa e comincia a descriverla. Il lettore vede la propria nazione con gli occhi di uno straniero ed
è portato a vederne la relatività, non la dà più per scontata o normale. Comincia a domandarsi per quali motivi il suo
mondo sia così e quello da cui proviene Uzbek diverso.

L’EMPIRISMO INGLESE E IL PROBLEMA DELL’AUTOREGOLAZIONE DELLA SOCIETA’


L’empirismo condivide con l’illuminismo lo stesso atteggiamento critico nei confronti di ogni dogma, ma non la
stessa fede nella capacità della ragione di venire a capo di tutta la realtà. Per Adam Ferguson “la conoscenza dei fatti
ha la priorità su quella dei principi”; il mondo sociale è sì il risultato dell’azione umana ma non corrisponde al disegno
individuale di nessuno, bensì all’interazione di tutti. La società, ciononostante, appare come un insieme regolato
grazie al mercato, concetto particolarmente associato al nome di Adam Smith, secondo cui la ricchezza di una
nazione dipende dalla sua capacità di produrre, che a sua volta dipende dal grado raggiunto dalla divisione del
lavoro. In realtà, non solo il mercato non è l’unica forma di regolazione degli scambi sociali, ma (così come è
immaginato da Smith) è una realtà assai rara.

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Giulia DeRusso
Giorgi(mlaura98russo@libero.it)
(giulia.de.giorgi@hotmail.it)
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2. SOCIOLOGIA E POSITIVISMO
INTRODUZIONE
La sociologia propriamente detta ha inizio intorno alla metà dell’Ottocento, grazie ai vari mutamenti provocati in
particolar modo dalla diffusione della produzione industriale: nuovi luoghi di lavoro (le fabbriche), nuovi strumenti di
produzione (le macchine), nuovi soggetti sociali (proprietari di fabbriche e macchinari da un lato, lavoratori salariati
dall’altro), nuove fonti di energia, nuovi materiali, nuovi mezzi di trasporto (ferrovia) e di comunicazione (telegrafo).
Politicamente, si verificano forme nuove di conflitti sociali che fanno sì che le monarchie assolute diventino
costituzionali. Dal punto di vista bellico, questo è per l’Europa un periodo di pace. Al contempo, però, ci sono
sanguinose rivoluzioni interne: moti nel 1821 e nel 1848, la Comune di Parigi nel 1871. Sul piano culturale si afferma
il positivismo, caratterizzato da un sentimento fortemente scientista, laico e orientato al progresso. Il positivismo è
erede dell’illuminismo ma ne abbandona le istanze critiche. Infatti, l’aggettivo “positivo” da un lato indica la volontà
di osservare i fatti, dall’altro indica il desiderio di superare la dimensione esclusivamente critica e negativa
dell’illuminismo. Sulla base della conoscenza oggettiva dei fatti vuole contribuire a rifondare la società.

COMTE E SAINT-SIMON
Auguste Comte ha utilizzato per la prima volta in questo contesto la parola sociologia. Iniziò la sua carriera
intellettuale come segretario particolare di Saint-Simon, una figura notevole che segna il passaggio dalle istanze
emancipative dell’Illuminismo a quelle tecnocratiche del positivismo; fece parte del corpo di spedizione francese che
aiutò George Washington; studiò ingegneria; durante la rivoluzione rinunciò al titolo nobiliare e conobbe anche il
carcere; maturò progetti scientifici impegnativi e immaginò il futuro Canale di Suez, realizzato poi da suoi ex allievi;
elaborò un programma sociale in cui nel governo fosse attribuito ai tecnici un ruolo di primo piano. Comte riprende
molti aspetti del pensiero di Saint-Simon, ma ha un atteggiamento diverso: vuole riconoscere questa realtà che si sta
già affermando, non darle una forma. L’importanza storica di Comte è fondamentale per l’influenza che esercitò su
Durkheim e altri sociologi. La sua idea fondamentale è che la conoscenza umana si svolga attraverso tre stadi:
teologico (la spiegazione dei fenomeni è perseguita con il ricorso a nozioni magiche e poi religiose), metafisico
(spiegazioni ricercate con l’uso di concetti astratti, quindi con la speculazione filosofica) e positivo (conoscenza
basata sul sapere scientifico). La successione di questi stadi è intesa da Comte come una legge naturale.
Nel Corso di filosofia positiva, Comte delinea la sociologia come una fisica sociale, una scienza modellata sui tratti di
quella naturale, intesa a rilevare fatti e riconoscere leggi. È la più complessa di tutte le scienze ed è l’ultima a
delinearsi. Inoltre egli distingue una statica sociale (che si occupa del modo in cui le società si autoregolano) e una
dinamica sociale (che studia il mutamento).
Nel Sistema di politica positiva, Comte propone il positivismo come un’idea politica: ci si deve sottomettere
razionalmente alla supremazia delle leggi fondamentali della natura.
Nel corso degli anni, egli si scontra tuttavia con un problema: la scienza in sé non consente una fondazione dei valori
nei quali gli uomini credono; Comte si chiede quindi cosa tenga insieme una società, tema affrontato in seguito da
Durkheim e Weber.

ALEXIS DE TOCQUEVILLE
Non si è mai definito un “sociologo”, era uno scrittore, un pensatore, un politico. Non era neanche un positivista, è
difficile classificarlo. Egli è un osservatore dell’epoca tra la fine del Settecento e l’Ottocento. Per lui il mutamento
porta contemporaneamente dei vantaggi in una direzione e degli svantaggi in un’altra. È interessato alla novità
rappresentata dalla democrazia, che gli appare un processo storico che porta all’eguaglianza delle opportunità, in
quanto sistema legale in cui i diritti sono definiti in modo tale da permettere una vasta mobilità sociale. Gli individui
sono sempre più liberi di creare autonomamente la propria sorte.
In La democrazia in America, Tocqueville riconosce negli Stati Uniti il luogo dove questo processo si è sviluppato. Fra
i prezzi della dell’uguaglianza, vi sono il declino del concetto di onore, una diffusa mediocrità e un eccessivo
individualismo. Tra i rischi c’è invece la dittatura della maggioranza, cui sono subordinate tutte le minoranze. Scrisse
anche L’antico regime e la rivoluzione, uno studio sulla Francia di prima e dopo la rivoluzione, accompagnato da
frequenti confronti tra questa e i paesi vicini. Tocqueville è considerato il primo ad avere utilizzato in modo
sistematico la comparazione nelle scienze sociali.

HERBERT SPENCER
Come Comte, Spencer pensa alla società come una sorta di organismo, ma a differenza dal primo, utilizza un
apparato concettuale evoluzionista, in parte preso in prestito da Darwin (sebbene Spencer avesse cominciato a

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formulare le sue idee già prima della pubblicazione dei libri di Darwin), il cui trattato L’origine della specie ebbe una
larghissima influenza sul pensiero ottocentesco. L’idea fondamentale era quella di un processo di trasformazione e
differenziazione evolutiva delle specie attraverso un meccanismo di adattamento all’ambiente, di competizione per
la sopravvivenza e di eredità genetica. Spencer prova ad applicare questa idea anche allo studio delle formazioni
sociali: nasce così il “darwinismo sociale”. La storia gli appare come un cammino evolutivo; “evoluzione” e
“progresso” diventano sinonimi. La sua sociologia si basa su una vasta raccolta di informazioni su diversi tipi di
società. Le informazioni sono ordinate secondo una doppia tipologia: la prima è quella che distingue la società in
base al grado di complessità della loro differenziazione interna, la seconda è quella tra società “militari” e
“industriali”. Per quanto riguarda la differenziazione, secondo Spencer la storia delle società umane comporta una
serie di passaggi lineari dal più semplice al più complesso: crescendo di dimensioni, le società sviluppano una rete di
organi e di funzioni sempre più specializzati e quindi differenziati.
Quanto alla distinzione tra società “militari” e “industriali”, nelle prime l’ordine sarebbe garantito in modo
essenzialmente coercitivo, nelle seconde deriverebbe dalla libera scelta degli individui.
Più di Comte, Spencer fu effettivamente interessato alla raccolta di osservazioni, sebbene fossero di seconda e terza
mano: non svolse ricerche in prima persona.

STATISTICHE MORALI E INCHIESTE SOCIALI


La sociologia non è fatta solo di teoria: è anche un insieme di pratiche di ricerca. Lo sviluppo della statistica è legata
alle esigenze amministrative di quasi tutti gli Stati nazionali nel corso dell’Ottocento; dapprima erano soprattutto
esigenze militari e fiscali, successivamente sono cresciute le necessità burocratiche dei governi che utilizzavano la
statistica per conoscere le esatte condizioni della nazione. Si domandavano informazioni sempre più precise,
complete e frequenti su aspetti diversi della vita sociale, non solo dati demografici o relativi al commercio e
all’industria, bensì anche raccolte periodiche di dati quantitativi riguardanti criminalità, istruzione, abitazioni,
condizioni di salute, alimentazione: si sviluppa la cosiddetta statistica morale.
Alle raccolte periodiche di dati quantitativi si affiancano inchieste di vario genere: i Parlamenti di molti Stati
incaricano commissioni di propri membri di investigare in dettaglio le condizioni di lavoro nelle fabbriche, lo stato
delle campagne, ecc. Le inchieste sociali si sviluppano dapprima in Inghilterra, Francia e Germania. Sull’impalcatura
di questa rete di informazioni si svilupperanno almeno in parte le teorie sociologiche.

3. KARL MARX
INTRODUZIONE
Karl Marx nacque a Treviri, in Germania, nel 1818. Studiò filosofia a Berlino, lavorò come giornalista nella Rheinische
Zeitung di Colonia, scrivendo articoli sulle condizioni dei lavoratori in Renania. La rivista fu soppressa per il suo
atteggiamento radicale, Marx si trasferì a Parigi dove conobbe Engels. Fu espulso da Parigi per la sua attività
intellettuale e politica, andò a Bruxelles dove entrò in contatto con diverse associazioni operaie e scrisse il Manifesto
del Partito comunista. Dopo la fine dei moti rivoluzionari del 1848, si trasferì a Londra, dove visse con la moglie e i
figli in estrema miseria, sostenuto da Engels e collaborando saltuariamente ad alcune riviste. Morì a Londra nel 1883.
Il suo lavoro ha segnato molto la storia moderna. La sua opera principale è Il capitale: il primo volume è l’unico ad
essere stato pubblicato durante la vita dell’autore, il secondo e il terzo postumi a cura di Engels. Prima del Capitale,
Marx scrisse altre opere, tra cui il Manifesto del Partito comunista (in collaborazione con Engels), Le lotte di classe in
Francia, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e Per la critica dell’economia politica. Altri scritti pubblicati postumi sono I
Manoscritti economico-filosofici del 1844, L’ideologia tedesca (scritto con Engels) e i sette quaderni dal titolo
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (più noti come Grundrisse).
All’inizio della sua vita intellettuale, Marx è un filosofo hegeliano. L’influenza di Hegel lo rende estraneo al clima
positivista del suo tempo. Il proseguimento della sua opera rappresenta tuttavia un superamento della filosofia.
Engels in un famoso passo spiegherà il pensiero suo e di Marx dicendo: “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in
modi diversi, si tratta però di cambiarlo”. Sebbene la sua opera abbia influenzato molto profondamente la
sociologia, Marx non si definiva un sociologo.

LE ORIGINI FILOSOFICHE DEL PENSIERO DI MARX E LA CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA STORIA


Il termine dialettica, mutuato da Hegel, compare costantemente nelle frasi di Marx. La dialettica è sia per Hegel che
per Marx un movimento del pensiero o della realtà che, attraverso la negazione di una precedente affermazione,
conduce ad una sintesi che è il superamento di entrambe. In tedesco aufheben indica un processo che comporta

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l’insieme di tre momenti: si tratta di conservare, far scomparire e portare a un livello superiore. Quando Marx parla
di superamento della società capitalistica, intende che essa, dispiegandosi, produce al suo interno delle
contraddizioni che conducono ad un livello superiore, che ne conserva gli sviluppi come suoi presupposti, ma li fa
scomparire e li sintetizza in una nuova formazione: il comunismo.
Da Hegel viene anche un altro concetto: quello di alienazione. Per Hegel essa è un aspetto dell’oggettivazione:
quando gli uomini esercitano un’attività pratica (lavorano), producono un oggetto che è un risultato dell’azione del
soggetto ma è qualcosa di altro dal soggetto stesso, dunque ne è una negazione, che può essere superata con
l’autocoscienza dell’uomo che riconosce l’oggetto come proprio e quindi ne provoca una riappropriazione. Marx
distingue l’alienazione dall’oggettivazione. Il lavoro umano è alienato in certe condizioni, cioè quando vi è uno
sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non è il lavoro in generale che produce alienazione; lo fa solo quando il soggetto
che produce non ha il possesso del frutto del proprio lavoro: è la condizione dell’operaio nelle fabbriche che, tra
l’altro, non ha il controllo su come produce, né la gestione delle sue relazioni con i propri compagni. In queste
condizioni, il lavoro diventa il luogo dell’abbrutimento dell’uomo. La riappropriazione di cui parlava Hegel non può
risolversi in un atto della coscienza, deve essere un’azione pratica, una rivoluzione che restituisca a chi lavora il
controllo del proprio lavoro. Non si tratta di interpretare filosoficamente il mondo determinando categorie astratte,
si tratta di determinare le condizioni concrete in cui gli uomini vivono.
Le interpretazioni filosofiche corrispondono secondo Marx alle condizioni in cui vivono gli uomini in un tempo
determinate, e le descrivono però come in uno specchio deformato che trasforma la condizione storica concreta in
una situazione universale, cioè eterna. Quest’osservazione è legata al materialismo storico di Marx, che è un modo di
pensare che parte dalle condizioni materiali degli uomini, così come esse sono storicamente determinate (concetto
sviluppato nell’Ideologia tedesca). Per Marx, inoltre, la storia dell’umanità è la storia dei modi in cui gli uomini si
sono organizzati insieme per produrre, cioè per rapportarsi alla natura al fine di garantirsi la sopravvivenza. In questa
storia è molto importante il ruolo della divisione del lavoro, che però sembra essere stata sempre ineguale:
nell’antica Roma gli schiavi e i plebei lavoravano per i patrizi, nel Medio Evo europeo i servi per i signori, nel mondo
industriale gli operai per i padroni. I modi concreti in cui sono divisi il lavoro e la proprietà e la disponibilità delle
tecniche di produzione costituiscono la base materiale della società, cioè la sua struttura, che determina le forme di
tutto il resto, che egli chiama sovrastruttura (gli ambiti delle istituzioni giuridiche, delle rappresentazioni religiose,
della morale e della filosofia dipendono nel loro svolgersi dalle modificazioni della struttura cui corrispondono).
Anche il concetto di ideologia è fondamentale nel pensiero di Marx. Nel suo corrente con questo termine si intende
un insieme qualsiasi di assunzioni teoriche e di orientamenti di valore che un individuo, o un gruppo di individui,
adotta e difende con delle argomentazioni. Per Marx, l’ideologia è un insieme di proposizioni che rappresentano il
mondo in modo parzialmente modificato, perché ne occulta le condizioni reali. Il modo in cui funziona un’ideologia
secondo Marx consiste nello scambiare le condizioni sociali di oggi come eterne e con ciò giustificandole. Di solito
l’ideologia è la forma di pensiero delle classi dominanti di una società, che hanno interesse ad occultare i conflitti
interni che vi si producono, poiché questi ultimi sono le contraddizioni che costituiscono il momento di negazione
della dialettica storica e che quindi conducono alla sintesi, ciò al superamento della forma sociale esistente. Chi ha
interesse a mantenerla in vita, occulta tali contraddizioni: con ciò il suo pensiero diviene ideologico. D’altro canto,
anche i dominati possono condividere l’ideologia dei dominanti se non comprendono i propri interessi o se temono
le implicazioni conflittuali. La teoria di Marx è mobilitata contro l’ideologia.

LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E IL CONCETTO DI MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO


Oltre che il titolo di una sua famosa opera, l’espressione “critica dell’economia politica” è anche il sottotitolo del
Capitale, il cui scopo è quello di indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio
che gli corrispondono. Un modo di produzione è per Marx un insieme, storicamente determinato, di mezzi per la
produzione (materie utilizzate, strumenti adottati, tecniche disponibili) e di rapporti di produzione (che gli uomini
stabiliscono fra loro riguardo al produrre).
Il modo capitalistico è emerso dalla rivoluzione industriale ed è la struttura della società capitalistica; la sua
caratteristica principale è di essere fondato sul capitale, che è lavoro accumulato che serve come mezzo per una
nuova produzione. Questa è la definizione data dagli economisti, che secondo Marx è corretta ma dimentica
l’essenziale, cioè di spiegare che cos’è che rende il lavoro accumulato (delle materie prime, degli strumenti di lavoro,
dei mezzi di sussistenza) capitale. La risposta è: una specifica condizione dei rapporti sociali tra proprietari dei mezzi
di produzione (capitalisti) e uomini che dispongono solo della propria forza-lavoro (proletari). Il rapporto tra questi
due insiemi di individui è mediato dal denaro, nel senso che la forza-lavoro dei secondi si presenta come una merce

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venduta ai primi ad un certo prezzo: il salario, che non è una quota del prodotto del lavoro dei lavoratori ma
corrisponde ad una quota del tempo che essi vendono; fuori del lavoro, essi sono uomini liberi. I beni economici
prodotti sono merci: la produzione è finalizzata alla vendita dei prodotti sul mercato. Una merce ha sia un suo valore
d’uso (differente per ogni tipo di merce) e un valore di scambio che si esprime nel prezzo della merce stessa.
Il lavoro accumulato si presenta come capitale quando viene utilizzato nella produzione, assieme al lavoro vivo dei
salariati, per ottenere un profitto da parte del capitalista.

ANCORA SUL MODO CAPITALISTICO DI PRODUZIONE


Il capitalismo presenta uno scambio di tipo particolare. Non si tratta solo di scambiare merci tra loro (come in una
società mercantile), si tratta di produrre con delle merci altre merci che abbiano un valore maggiore di quello che era
presente all’inizio. Il capitalista all’inizio possiede un certo ammontare di denaro (D) che investe acquistando delle
merci (M) – materie prime, strumenti di produzione e forza-lavoro. Facendo lavorare i suoi operai con le sue materie
prime e i suoi strumenti di produzione, egli ottiene nuove merci che, una volta vendute sul mercato, si tramutano in
un ammontare di denaro (D’) superiore a quello disponibile all’inizio. La differenza tra D’ e D costituisce il profitto, la
cui ricerca muove il capitalista. Secondo gli economisti, il profitto è il risarcimento dell’impegno del capitalista,
risarcisce il rischio connesso all’investire e ricompensa il capitalista per le sue attività di controllo sull’intero
processo. Marx ha una posizione diversa: tra le merci che il capitalista acquista all’inizio c’è anche la forza-lavoro
degli operai; senza il lavoro, tutte le altre cose comprate dal capitalista non produrrebbero nulla. Egli paga la forza-
lavoro come una merce, al suo prezzo, che corrisponde a ciò che è necessario per produrre questa particolare merce:
trattandosi di esseri umani, corrisponde al costo dei beni necessari per la sussistenza e la riproduzione fisica degli
operai stessi. Tuttavia il lavoro dell’operaio produce più del valore di scambio corrispondente al prezzo della sua
forza lavorativa; la parte in più e quella in cui viene prodotto del plusvalore, che ha dunque origine nel pluslavoro: un
lavoro che l’operaio svolge in aggiunta a quanto sarebbe sufficiente a pareggiare i conti che ciò che il capitalista ha
speso. Il plusvalore diventa profitto del capitalista e nasce dallo sfruttamento dell’operaio, che è proprio ciò che
rende il “lavoro accumulato” capitale. Questo sfruttamento è visibile solo se si indagano i meccanismi della
produzione e i rapporti di proprietà che vi sono in gioco. Se ci si ferma all’analisi dei rapporti di scambio, cioè del
mercato, lo sfruttamento non appare; questo fermarsi costituisce un’ideologia: descrive qualcosa di vero, ma tace
l’essenziale.

LA NOZIONE DI “CLASSE”
La classe è un insieme di individui che si trovano nella stessa posizione all’interno dei rapporti di produzione tipici di
un modo di produzione dato. Secondo Marx ogni società è caratterizzata dalla presenza di classi; in base alle loro
collocazioni esse sviluppano interessi diversi ed entrano in conflitto per la definizione del potere all’interno della
società. All’interno del modo di produzione capitalistico, Marx individua due classi: borghesia (nucleo composto da
capitalisti) e proletariato (lavoratori salariati). Tutte le altre classi saranno spinte entro o a fianco di queste due
fondamentali, i cui interessi sono antagonistici: l’interesse dei capitalisti è quello di sfruttare il più liberamente
possibile la forza-lavoro degli operai, quello degli operai è di liberarsi dallo sfruttamento. Tuttavia gli interessi si
presentano raramente nella loro forma bruta, perché la borghesia tende a giustificare il capitalismo e a presentarlo
come universalmente conveniente e il proletariato spesso non ha chiari i propri interessi. Il passaggio della classe
operai da uno stato in cui è incapace di riconoscerli ad uno in cui li riconosce e si organizza di conseguenza è quello
dalla classe in sé alla classe per sé, passaggio che si produce nel corso delle lotte che gli operai intraprendono contro
i capitalisti. Quindi, la classe in senso pieno è un soggetto collettivo capace di intraprendere azioni congruenti con i
propri interessi.

LA TEORIA MARXIANA DEL MUTAMENTO


Il materialismo storico, la teoria del capitalismo e la teoria sociologica delle classi si fondono in una teoria che mira a
identificare ragioni e direzioni del mutamento all’interno della società sorta con la rivoluzione industriale. Secondo
Marx in ogni formazione sociale si generano delle contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione,
che portano verso il suo superamento. Il modo di produzione capitalistico è il più potente generatore di muramento
sociale e materiale mai apparso nella storia. L’elemento motore è la volontà di massimizzare il profitto da parte del
capitalista. Se il profitto è generato dal pluslavoro degli operai, ne deriva che l’interesse del capitalista è aumentare
la quota di pluslavoro; può ottenere questo obiettivo in due modi: il primo (seguito nelle prime fasi della rivoluzione)
è allungare la giornata dei lavoratori salariati, ma questa strada si è scontrata con i limiti fisiologici della resistenza
umana e con l’opposizione degli operai stessi; il secondo consiste nel rendere più produttivo il lavoro degli operai,

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attraverso l’introduzione di macchine e la razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro, il che fa sì che, a parità di
tempo impiegato, l’operaio produca un numero maggiore di merci. Sul lungo periodo, questa strada porta secondo
Marx a dei problemi (indicati nella celebre tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, elaborata nel Capitale),
dovuti al fatto che, rispetto all’investimento complessivo del capitalista, la parte dedicata all’acquisto e alla
manutenzione delle macchine cresce, mentre decresce quella dedicata all’acquisto di forza-lavoro, che è l’unica che
però produce nuovo valore. Nel breve periodo, invece, l’introduzione di macchine aumenta la produttività del lavoro
degli operai. Producendo più merci, il capitalista può abbassarne il prezzo o invadere nuovi mercati; per difendersi, i
concorrenti introducono nuove macchine e il processo che si instaura è infinito.
Il capitalista è quindi alla ricerca costante di innovazioni tecnologiche, possibile grazie allo sviluppo delle scienze.
L’introduzione costante di innovazioni tecnologiche nella produzione cambia i modi di lavorare e modifica anche ciò
che la gente può consumare. Dovendo anche vendere le merci, i capitalisti cercano sempre nuovi mercati. Poi, il
crescente sviluppo del sistema delle fabbriche genera richieste di nuove fonti di energia, di materie prime, di nuovi
mezzi di comunicazione, di sistemi di trasporto per raggiungere i mercati, ecc.
Vi sono anche altri mutamenti che non sono provocati dalla ricerca di profitto: continuando ad accrescere il proprio
capitale e la produzione, i capitalisti aumentano il proprio potere, ma nel contempo cresce anche la classe operaia,
sempre più numerosa, povera e consapevole che la ricchezza che essa produce è prodotta collettivamente e che se
ne appropriano privatamente i singoli capitalisti; la classe operai può organizzarsi per rivoluzionare i rapporti sociali
esistenti. Il capitalismo ha dunque creato, dispiegandosi, una contraddizione, rappresentata dalla classe operaia, la
quale nasce nel capitalismo ma si pone come sua antagonista; la risoluzione è possibile col il passaggio ad un’altra
forma di rapporti sociali che elimini lo sfruttamento: il comunismo.

INDIVIDUO E SOCIETA’
Marx non definisce mai la “società” in astratto, il suo punto di partenza sono gli uomini concreti; l’individuo isolato
non è pensabile, egli è sociale e l’umanità non è pensabile nemmeno senza un rapporto degli uomini con la natura,
grazie alla quale si può mangiare e riprodurre le condizioni per la sussistenza. In tale rapporto, gli uomini entrano in
relazione tra loro e i modi di questa relazione mutano nel tempo: gli uomini modificano il mondo circostante, i propri
strumenti, le forme della loro convivenza, il proprio pensiero e la propria coscienza di sé.
L’idea che l’individuo sia qualcosa di radicalmente diverso, di “opposto” alla società paradossalmente si sviluppa
quando i rapporti sociali si sviluppano di più e si fanno più complessi. Il paradosso è dovuto a ciò: la divisione del
lavoro tipica nel mondo capitalistico è estremamente articolata, ciascun individuo si trova confinato in un ruolo e in
questo confine l’uomo si allontana dalla possibilità di estrinsecare al massimo le proprie risorse; egli produce
moltissimo e controlla la natura ma l’appropriazione ultima, la capacità di godere dei rapporti con gli altri uomini e
con la natura, viene meno. La società diviene smisuratamente potente ma il singolo impotente.

ALCUNE OSSERVAZIONI
Un’osservazione riguarda il problema delle cosiddette classi intermedie. Per Marx esistono essenzialmente due
classi, ma egli parla anche di una terza classe, quella collegata alla rendita, cioè i proprietari terrieri, con
un’importanza relativa perché trattasi di una classe parassitaria che vive di una parte dei proventi derivanti dallo
sfruttamento degli operai e in ogni caso, al momento dello scontro, si affiancherà ai capitalisti. Anche la borghesia è
divisa al suo interno (oltre ai proprietari delle fabbriche ci sono i banchieri, per esempio) ed esistono nella società
capitalistica anche altre classi: i contadini, gli artigiani, i commercianti, i tecnici, gli impiegati. Nella prospettiva di
Marx, il futuro avrebbe visto una crescente proletarizzazione di questi strati e una polarizzazione di tutti i gruppi in
due schieramenti. Con lo sviluppo del capitalismo, però, contrariamente a quanto previsto da Marx, questa fusione
non si è verificata e si sono conservate forme di coscienza particolari.
Un’altra osservazione è quella circa la progressiva sparizione della volontà rivoluzionaria tra i membri della classe
operaia: l’adesione al sistema da parte dei lavoratori interni alle società più ricche sarebbe stato “comprato”
attraverso la concessione di una serie di privilegi (aumenti salariali e servizi pubblici). Ad essere sfruttati sarebbero
oggi le masse dei lavoratori del Terzo mondo, come afferma Lenin in un celebre testo sull’imperialismo

IL MARXISMO DOPO MARX


Si sono sviluppate diverse interpretazioni dell’eredità marxiana. In Germania, in gran parte sotto l’influenza di Karl
Kautsky, il marxismo fu concepito come una teoria scientifica dell’evoluzione sociale con una forte accentuazione
deterministica. In Russia, dove il capitalismo aveva appena cominciato a svilupparsi e dove non c’era un movimento
operaio di massa, il marxismo fu trasformato da Lenin in una dottrina più volontaristica. Ci sono state versioni anche

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contrastanti del marxismo. Il revisionismo di Bernstein e della Seconda Internazionale criticò la tesi secondo cui la
fine del capitalismo sarebbe stata conseguente ad una sua crisi economica generalizzata (tesi fondamentale per
Lenin). Per contrastare queste critiche si sviluppò la ricerca sociologica; Lenin e i bolscevichi prestarono poca
attenzione ai suoi sviluppi e cominciarono a identificare il revisionismo come un riformismo che tradiva gli interessi
rivoluzionari della classe operaia. L’idea bolscevica di marxismo si concentrava sulla creazione di un partito
rivoluzionario disciplinato capace di guidare la classe operaia e i suoi alleati verso la conquista del potere. Dopo la
rivoluzione russa, il leninismo divenne un’ideologia ufficiale che legittimava la dittatura del proletariato e influenzò la
Terza Internazionale con la fondazione di partiti comunisti sul modello sovietico in altri Paesi europei. Le difficoltà di
sviluppare una società ispirata ai principi del Comunismo si combinarono in URSS con la necessità di promuovere
l’industrializzazione in un Paese con cui gli altri rifiutavano ogni rapporto. Ciò provocò intensi dialoghi che
terminarono bruscamente con la dittatura di Stalin e la repressione di ogni critica interna.
Negli anni fra le due guerre e anche nel secondo dopoguerra, il marxismo venne ad identificarsi con quello sovietico,
assumendo una forma sempre più dogmatica che legittimava le élite al potere. Tuttavia quello sovietico non era
l’unico marxismo; molto diverso era il maoismo della Repubblica popolare cinese, caratterizzato dalla presenza di
elementi tratti dalla tradizione culturale cinese. In Europa si sviluppa il cosiddetto marxismo occidentale, molto
diversificato al suo interno, più attento agli sviluppi delle scienze sociali e caratterizzato da una critica radicale degli
sviluppi totalitari del regime comunista nell’URSS.

4. ÉMILE DURKHEIM
INTRODUZIONE
Fra il 1890 e il 1920 la sociologia si istituzionalizza come disciplina accademica: nascono le prime cattedre
universitarie intitolate alla sociologia, le prime associazioni professionali e le prime riviste esplicitamente dedicate
alla ricerca sociologica. Si cerca di dare un fondamento teorico e metodologico alla sociologia. Émile Durkheim è tra
gli studiosi che hanno in programma di fonare la sociologia. Nacque ad Épinal, in Lorena, nel 1858; insegnò sociologia
all’università di Bordeaux e fondò una rivista: L’année sociologique. La prima opera importante di Durkheim è La
divisione del lavoro sociale. Pubblicò inoltre Le regole del metodo sociologico e lo studio Il suicidio. L’ultimo dei suoi
lavori più importanti è, invece, Le forme elementari della vita religiosa.
Il problema di fondo del pensiero di Durkheim è quello della coesione di una società e della sua riproduzione nel
tempo. Ciò che tiene insieme una società, per Durkheim, è la morale, che si realizza in una solidarietà dei membri
della società tra loro e consente la vita in comune. Egli risente dell’influenza di Spencer, per quanto riguarda
l’evoluzionismo e l’organicismo di quest’ultimo. Rispetto a Spencer, però, ribalta la prospettica circa i rapporti dei
singoli con la società: per Spencer la società si basa su un contratto stabilito da uomini che perseguono ciascuno il
proprio utile; per Durkheim la società non deriva da un contratto tra uomini separati, essa è ciò che precede – sia
storicamente che logicamente – la vita dei singoli separati e rende possibile ogni contratto. Il comportamento di
ciascun individuo non è comprensibile e non come espressione del suo inserimento in un insieme sociale.

MORALE, NORME E FATTI SOCIALI


La morale è un insieme di valori e di credenze che si esprimono in norme a cui tutti i membri della società sono
vincolati dall’esterno e dall’interno. Dall’esterno, l’infrazione provoca reazioni che puniscono chi la fa; dall’interno
l’individuo avverte una spinta al rispetto delle norme stesse. L’appartenenza ad una morale comune fonda la
solidarietà che lega tra loro i membri di una società. Il modo originario con cui le norme morali si impongono è il loro
istituzionalizzarsi nelle forme di un insieme di credenze religiose, rese sacre dalla loro iscrizione entro un sistema di
riti. Le società hanno o hanno avuto norme parzialmente diverse, ma ciascuna non può fare a meno di appoggiare la
propria capacità di coesione su un insieme di norme che esprimono valori e credenze comuni. Le norme possono
essere esplicite o implicite. In ogni caso, sono dei fatti sociali, come Durkheim scrive nelle Regole del metodo
sociologico. I fatti sociali sono fenomeni che non si possono spiegare ricorrendo alla sola analisi delle azioni del
singolo o all’analisi psicologica delle loro motivazioni. Essi si presentano in media o normalmente all’interno di una
società, si impongono ai singoli come qualcosa che proviene dal di fuori e contemporaneamente li attraversano nei
loro modi di sentire, di pensare e di comportarsi. Esistono nella misura in cui esistono gli uomini, ma
contemporaneamente hanno un’esistenza indipendente, autonoma, che sovrasta la volontà di ciascuno. Un esempio
di fatto sociale è il linguaggio, che non è creato da nessun singolo isolatamente, è intersoggettivo; ciascun individuo
lo trova già dato, esso è trascendente rispetto alla sua volontà o alla sua capacità di cambiarlo arbitrariamente: si

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può usare una lingua in modo scorretto, non aderendo alle regole ma ciò si scontra con delle sanzioni, non ci si fa
capire e ci si espone al ridicolo e a correzioni da parte degli altri. È una realizzazione collettiva, eppure attraversa
ogni singolo uomo. È un fatto sociale, non lo si spiega a partire dal comportamento o dalle intenzioni dei singoli, ma
solo a partire dalla società.

UN APPROCCIO FUNZIONALISTA
La società viene descritta come un organismo dotato di una serie di organi che si integrano e cooperano tra di essi.
Da questa impostazione organicistica deriva lo sforzo di spiegare ogni elemento di una società, tentando di
riconoscere quali funzioni tale elemento svolga all’interno della società stessa (la religione ha la funzione di
codificare e sacralizzare le norme morali, l’economia ha la funzione di provvedere al sostentamento della vita
materiale dei membri di una società, ecc.). Si tenta di dare una spiegazione funzionalista di un fenomeno sociale
sulla base dell’individuazione della funzione che esso adempie. Durkheim non ritiene che questa spiegazione sia
l’unica che lo scienziato sociale deve dare, anzi essa è possibile solo dopo che siano stati esaminati i nessi causali che
legano il fenomeno considerato ad altri fenomeni precedenti nel tempo. Non bisogna confondere l’idea di funzione
con quella che ogni fenomeno sociale debba coincidere necessariamente con un qualche fine prestabilito.
Un esempio per spiegare questa differenza è data dalla trattazione di Durkheim della devianza, un termine
sociologico che intende l’esistenza di comportamenti che si discostano dalla norma: è devianza, ad esempio, il
crimine. Il crimine appare a prima vista qualcosa di ben poco funzionale; tuttavia nel momento in cui viene punito,
attraverso riti adeguati (processo, esecuzione della pena), esso svolge la funzione di rinsaldare la coscienza collettiva:
riunita nell’atto di sanzionare il colpevole, la società riafferma le sue regole, mai così visibili e chiare come quando
viene punito chi non vi si conforma. La funzione non corrisponde dunque a nessun fine prestabilito: è un risultato
non intenzionale di una pratica sociale.

SOCIETÀ SEMPLICI E SOCIETÀ COMPLESSE


Per Durkheim esistono diversi tipi di società. In La divisione del lavoro sociale, egli sviluppa un discorso
sull’evoluzione delle società umane come un movimento da un tipo di società a un altro. Il primo tipo di società –
che corrisponde storicamente alla forma delle tribù primitive – è la società semplice (o segmentaria), basata su di
una bassa divisione del lavoro; gli individui svolgono attività poco differenziate. Il secondo tipo è quello delle società
complesse – storicamente le nazioni moderne – con un’ampia divisione del lavoro, attività fortemente differenziate e
numerose istituzioni intermedie.
L’evoluzione storica delle società umane verso una complessità sempre maggiore è ricondotta alla crescita della
divisione del lavoro, che dipende dall’ampliarsi delle società nello spazio e dall’aumento del numero e della densità
relativa die loro membri. Nelle società semplici e in quelle complesse la morale si presenta in forme diverse; è
diverso il modo in cui si stabilisce la solidarietà che tiene insieme i membri della società. Nelle società semplici c’è
una solidarietà meccanica fra individui strettamente uniti gli uni agli altri da vincoli quotidiani e le cui attività si
diversificano poco. Nelle società complesse la solidarietà è detta organica e somiglia a quella che unisce gli organi
differenti di un organismo, stabilisce i legami tra individui e gruppi di individui con grandi differenze.
Nelle società semplici, inoltre, le coscienze degli individui tendono a differenziarsi scarsamente; la coscienza
collettiva tende a ricoprire quella individuale; le persone pensano in modi molto simili ed è scarsa la tolleranza nei
confronti di altri punti di vista; il diritto si presenta nella forma di leggi punitive: le norme tendono a vincolare ogni
aspetto del comportamento e ogni infrazione è considerato un attentato alla coesione del gruppo.
Nelle società complesse, invece, poiché i membri della società svolgono mansioni differenziate, anche i loro punti di
vista sono diversi ed è possibile un’individualizzazione delle coscienze; il diritto si presenta nella forma di leggi
restitutive: l’infrazione del singolo è considerata un danno arrecato ad altri in un ambito specifico della vita e non un
attentato alla società nel suo insieme. Nelle società complesse, però, la tenuta delle norme morali è più
problematica (perché gli individui possono comportarsi e pensare in modo diverso e ciò rende meno forte la tenuta
di norme che valgano per tuti indistintamente) e più necessaria (non essendo più la solidarietà data
meccanicamente, bisogna vincolare ciascuno alla cooperazione, nonostante le differenze). È presente, inoltre, il
rischio di anomia, che è la assenza di norme morali chiare e condivise, una incapacità della società di vincolare a sé i
suoi membri. Nelle società moderne, i conflitti tra classe operaia e borghesia sono manifestazione di anomia:
corrispondono al mancato sviluppo di una capacità dei singoli di cooperare nelle nuove condizioni create dal modo di
produzione industriale. La visione di Durkheim è completamente diversa da quella di Marx, il quale ritiene che i
conflitti tra classi siano il motore della dialettica della storia; Durkheim, invece, ritiene che essi siano delle patologie
da curare con il corporativismo. Più in generale, la vera risposta al rischio di anomia è un potenziamento dei processi

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educativi, sviluppando in modo coerente e diffuso di un sistema morale che si imponga a tutti i membri della società.
Da qui l’interesse di Durkheim per la pedagogia e i processi di socializzazione. Quest’ultima ha la funzione di
garantire l’integrazione coerente del singolo all’interno dell’insieme di norme che regolano la vita sociale.

LA RICERCA SUL SUICIDIO


Il tema della coesione sociale e dell’integrazione è decisivo anche nella trattazione che Durkheim offre del suicidio
nel suo studio del 1897. Il suicidio è, a prima vista, qualcosa che riguarda in modo esclusivo e drammatico un singolo
individuo. Ma Durkheim vuole mostrare che l’individuo isolato, propriamente, non esiste. Ciò che si incontra nel
suicidio è una libertà del singolo che sceglie di sottrarsi alla coesione sociale. L’oggetto della ricerca di Durkheim non
è infatti il suicidio di singoli individui, ma il tasso di suicidi che si riscontra in una data società. Egli mostra che i tassi
all’interno dei vari Paesi hanno una singolare tendenza a restare costanti nel tempo e vuole spiegare che la regolarità
di questi tassi è dovuta a spiegazioni di ordine sociale, sebbene il fatto che a suicidarsi sia un individuo piuttosto che
un altro dipenda da variabili soggettive. Durkheim mostrerà che il numero complessivo di suicidi presenti in un dato
anno in società è sempre in relazione con il grado di integrazione sociale che la società medesima consente.
Quello di Durkheim sul suicidio è il primo esempio di ricerca sociologia basata su di un metodo empirico con l’uso di
dati statistici, discussi e interpretati. Durkheim, prima di proporre le proprie spiegazioni, passa in rassegna quelle
concorrenti diffuse al suo tempo, come quella secondo cui il numero di suicidi sarebbe da correlare con fattori
climatici. D. intende confutarla mettendo affianco i numeri di suicidi presenti in diversi Paesi in diverse stagioni
dell’anno, per molti anni, con la serie delle variazioni climatiche relative e mostra che non c’è una correlazione, una
variazione concomitante dei dati. Confuta anche le tesi secondo cui i suicidi dipenderebbero da pazzi, ereditarietà o
alcolismo.
Giunge poi alla rilevazione di una correlazione positiva. Osserva che i membri delle confessioni protestanti
presentano al loro interno un tasso di suicidi sempre maggiore di quello tra i membri di altre confessioni (in
particolare cattolicesimo e ebraismo). Avanza un’ipotesi: che la religione protestante fornisca ai suoi membri un
grado di integrazione sociale minore di quella fornita da altre confessioni. Ciò dipenderebbe dal libero esame del
testo sacro cui è posto il singolo protestante e favorirebbe lo sviluppo di personalità più fortemente individualizzate:
il protestante è meno vincolato ai dettami di una tradizione e non dipende dagli insegnamenti impartiti dall’autorità
ecclesiastica; contemporaneamente egli deve confrontarsi in solitudine con il proprio Dio e deve stabilire le leggi per
il proprio comportamento. Inoltre, la chiesa cattolica (come l’ebraismo) dà molto spazio a cerimonie religiose in
comune che rinsaldano periodicamente il senso della comune appartenenza dei fedeli. Il suicidio che appare
correlato con l’appartenenza religiosa protestante ha a che fare con un forte sviluppo dell’ego, cioè con l’enfasi sulla
libertà e la solitudine di fronte alle proprie scelte di fondo: si parla perciò di suicidio egoistico. Il fatto che in generale
il suicidio sia più frequente tra le persone non sposate confermerebbe che la tendenza al suicidio è legata a
situazioni di indebolimento delle relazioni.
Il numero dei suicidi varia anche con i dati relativi agli andamenti dell’economia. Nei periodi di crisi, rapide ricchezze
si affiancano a rapide rovine e ciò provoca diffusa incertezza rispetto ai destini individuali delle persone, ai valori
fondamentali cui devono riferirsi. Tale incertezza corrisponde proprio all’anomia, perciò si parla di suicidio anomico,
spiegabile con un allentamento nelle forme della morale collettiva ed un aumento dell’incertezza rispetto alle norme
cui conformarsi. In entrambi i casi, si tratta di una spiegazione sociale che non chiarisce perché sia un determinato
individuo piuttosto che un altro a suicidarsi, pur immerso in una situazione analoga.
Il terzo ed ultimo tipo di suicidio analizzato da Durkheim è il suicidio altruistico, espressione di una fortissima
coesione sociale (es. il sacrificio di un milite per la sua patria).

ALCUNE CRITICHE ALLA RICERCA SUL SUICIDIO


La prima critica riguarda il controllo delle fonti dei dati. D. si basa su fonti statistiche (a volte consultate
direttamente, altra volta prese da volumi di altri studiosi) che riguardano il numero dei suicidi registrati dalle autorità
civili che dipendono dalle registrazioni dei medici. Si può ipotizzare che in certe circostanze ci siano pressioni sui
medici e sulle autorità per non registrare come tali alcuni suicidi. Quindi è probabile che i numeri su cui si basa D.
non siano del tutto attendibili.
La seconda riguarda alcune spiegazioni riconosciute da D. come significative, come ad esempio la dimostrazione da
parte di uno dei suoi allievi, Halbwachs, che la popolazione protestante tende a concentrarsi in città e quella
cattolica nelle campagne. Dunque sarebbe possibile pensare che non sai l’appartenenza religiosa ma il tipo di
residenza (e lo stile di vita connesso) ad influire sul tasso di suicidi.
La terza critica riguarda l’analisi puramente quantitativa di D., che lascia in ombra le motivazioni soggettive,

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accessibili solo con metodi di ricerca diversi, ad esempio attraverso l’esame sistematico di storie di vita e di
documenti autobiografici (metodo qualitativo).

LA SOCIOLOGIA DELLE RELIGIONI


D. è consapevole del fatto che le società moderne tendano ad essere sempre più secolarizzate, sebbene egli non
utilizzi esplicitamente il termine secolarizzazione, con il quale si intende il processo della progressiva perdita di
rilevanza delle istituzioni, pratiche e credenze esplicitamente religiose nella modernità, a causa dell’ascesa
dell’importanza attribuita alla scienza e della progressiva emancipazione della sfera della vita politica e civile dai
dettami religiosi: le istituzioni politiche sono definite laiche, regole e diritti valgono per tutti i cittadini, la religione
diventa sempre più un fatto privato. La secolarizzazione porta per D. problemi rilevanti, a causa del ruolo che egli
attribuisce alle religioni. Proprio all’interno della sfera religiosa, infatti, si sviluppano le norme morali.
In Le forme elementari della vita religiose Durkheim espone le seguenti tesi:

1. L’elemento fondamentale della vita religiosa è la distinzione tra sacro e profano. È una distinzione elementare
comune a tutte le religioni
2. La vita religiosa si esprime in credenze (che articolano la visione del mondo propria del gruppo che le condivide,
esprimendone e rafforzandone la solidarietà) e riti (pratiche dotate di valore simbolico finalizzate alla ricreazione
periodica)
3. La funzione principale delle credenze e dei riti religiosi è di fondare e preservare gli ideali collettivi di una società
4. Gli uomini hanno di volta in volta adorato attraverso i loro culti la potenza trascendete della società stessa. Le
credenze religiose attribuiscono ad una potenza estranea degli attributi propri della società.

Le forme concrete delle pratiche e delle credenze religiose variano nel tempo, ma in tutte vi è qualcosa in comune: i
contenuti sono simboli prodotti dalla collettività che rimandano alla collettività stessa come oggetto nascosto del
culto. È evidente che D. non condivida la spiegazione delle religioni fornita dai fedeli delle religioni stesse. Egli
critica le religioni (rappresentano una proiezione fuori del mondo umano di qualche cosa che è invece
essenzialmente umano. D’altra parte ritiene che la società sia giustamente l’oggetto di una sacralizzazione. Inoltre,
riconosce in modo esplicito la funzione delle religioni per il sostegno delle norme morali che garantiscono la
coesione sociale. Il problema che resta è come le credenze abbiano origine. Nelle Forme elementari, è presente la
teoria
dell’effervescenza sociale: vi sono momenti nella vita collettiva in cui gli uomini sviluppano un’energia e una
passione che li rendono capaci di affermare e di proiettare fuori di sé delle credenze a cui attribuiscono il carattere di
rivelazioni di una potenza superiore. Questa teoria però non è molto sviluppata.
Lo studio durkheimiano delle religioni è un paradosso: ne riconosce l’importanza per il fondamento della morale ma
ne critica la scientificità e finisce per delegittimarle agli occhi dei fedeli; questa critica scientifica fa parte del processo
di secolarizzazione, ciò che ne consegue è una progressiva perdita di integrazione delle società moderne, oppure
l’idea che non sono sempre le religioni propriamente dette a garantire la coesione sociale.

I FONDAMENTI DI UNA SOCIOLOGIA DELLA CONSOCENZA


Nell’introduzione a Le forme elementari della vita religiosa, Durkheim sviluppa il nucleo fondamentale di una
sociologia della conoscenza. Constata che la teoria della conoscenza proposta dai filosofi tende a polarizzarsi in due
posizioni: vi è chi, come gli empiristi, ritiene che la conoscenza si sviluppi direttamente a partire dalle sensazioni
coordinante e sistematizzate nel corso dell’esperienza e vi è chi, come Kant, ritiene che essa nasca invece
dall’incontro tra i dati sensoriali con un apparato intellettuale dato a priori, con categorie dell’intelletto innate e
universali. Durkheim sviluppa questa seconda posizione: pensa che indubbiamente le sensazioni vengano coordinate
dal soggetto entro un apparato di categorie; tali strumenti cognitivi non derivano dall’esperienza, sono loro piuttosto
che organizzano l’esperienza stessa; non sono sviluppate dal singolo ma ciò non significa che siano universali e
naturali, significa che sono sociali: si costruiscono con l’interazione tra gli uomini e tra gli uomini e il loro ambiente e
vengono trasmesse attraverso la cultura.
I modi in cui conosciamo il mondo hanno dunque origine sociale. Ne consegue che, al variare della società, variano
anche le forme del conoscere umano.

I DURKHEIMIANI

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La fecondità del pensiero di D. sta nella sua capacità di individuare il sociale come un oggetto sui generis, irriducibile
all’analisi del comportamento e delle intenzioni dei singoli. La sociologia propriamente detta, come insieme
strettamente solidale di teoria e di indagine empirica, ha inizio con lui. Attorno alla sua rivista, D. raccolse un gran

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numero di collaboratori e di discepoli che ne estesero l’influenza anche dopo la morte, tra cui Halbwachs e Mauss.
Halbwachs sviluppò un’attenzione per le forme concrete della società contemporanea; sono rilevanti i suoi lavori
sulle classi e sulla loro psicologia collettiva e quelli sulla morfologia sociale, sebbene la se ricerche più importanti
siano quelle riguardo la memoria collettiva, un elemento costitutivo dell’identità di ogni gruppo e dunque un fattore
della sua coesione. Le immagini del passato che la memoria conserva sono selezioni, ricostruzioni, interpretazioni del
passato. Si sottolinea soprattutto ciò che sostiene legittima i valori e le aspirazioni che nel presente sono più forti. In
una società complessa convivono più raggruppamenti sociali, si tende quindi ad avere una molteplicità di
rappresentazioni del passato, anche in competizione tra loro. Halbwachs intravede il ruolo che la censura e la
ricostruzione forzosa della memoria sociale hanno nei regimi totalitari negli stessi anni in cui egli scrive (lavorò al suo
ultimo libro nella Francia occupata e morì in un campo di concentramento nazista.
Mauss scrisse, come sua opera più celebre, il Saggio sul dono, in cui analizza le modalità dello scambio tra clan in
alcune tribù indiane del nord-ovest d’America, il potlac, una sfida festiva in cui un capoclan offre all’altro dei doni, a
cui l’altro è tenuto a rispondere con doni altrettanto notevoli o superiori. L’importanza del dono nelle società
premoderne adempie funzioni economiche, in un processo che consolida i rapporti reciproci tra i gruppi e
contribuisce a definire le posizioni di prestigio relative. È un fatto sociale totale, poiché ingloba diverse dimensioni.

5. GEORG SIMMEL
INTRODUZIONE
Nel periodo tra la metà dell‘800 e l’inizio della Prima guerra mondiale ci sono stati in Europa degli importanti
mutamenti economici, politici e sociali. Oltre agli aumenti della produttività, si sono verificati cambiamenti anche
nella vita quotidiana: si sono sviluppati i mezzi di comunicazione e di trasporto, le città e le fabbriche sono dapprima
illuminate grazie a condutture di gas centralizzate e poi con l’impiego dell’elettricità, l’igiene è migliorata insieme ai
progressi della medicina e della legislazione sanitaria. La popolazione europea ha cominciato ad aumentare con
regolarità, l’istruzione ha iniziato a diffondersi, l’urbanizzazione è aumentata e gli Stati hanno sostenuto un notevole
processo di burocratizzazione.
Politicamente, si sono sviluppati quasi in tutta Europa dei regimi parlamentari, è stato ampliato progressivamente il
diritto di voto e i partiti politici sono diventati sempre più importanti, soprattutto quelli di sinistra, per far ottenere ai
lavoratori migliori condizioni di lavoro.
In Europa non vi sono stati conflitti armati di grande rilievo, ma il periodo tra il 1870 e il 1914 è detto “l’età
dell’imperialismo”, essendo quello del maggiore espansionismo coloniale europeo, non più nelle due Americhe ma
quasi ovunque in Africa, Asia e Oceania. Le colonie fornivano all’Europa materie prime, mercati, mano d’opera e
armate. Pochi in Europa si levarono contro la colonizzazione, molti la sostennero come una necessità o una missione
civilizzatrice. I sociologi vi prestarono poca attenzione, utilizzarono i dati raccolti dagli etnografi ma non discussero
nulla. L’unica eccezione furono i marxisti che teorizzarono l’imperialismo.
Il termine modernità fu utilizzato per la prima volta da Baudelaire nel 1861; l’aggettivo “moderno” significa nuovo,
recente ed evidentemente ciò che è nuovo ad un dato momento non lo è più tardi; trasformare questo aggettivo in
un sostantivo che perdura nel tempo, nel nome di un’epoca intera, è paradossale. Il termine ebbe molta fortuna e
venne a significare l’epoca in cui il nuovo è la norma, ed è un valore. È anche il termine in cui si esprime
l’autocoscienza di un’epoca che riconosce di essere dominata dal mutamento e di essere diversa da ogni altra
formazione sociale del passato.
La cultura europea visse in un’euforia dettata dalla sensazione di uno sviluppo senza precedenti, a cui si
accompagnava l’idea di essere parte di una civiltà superiore. La stessa parola “civiltà” divenne sinonimo di “Europa”
e di “Occidente”. Proprio per questo la guerra del 1914-1918 rappresentò un trauma difficile da elaborare, sebbene
la sociologia, soprattutto nell’area tedesca, avesse elaborato precocemente la consapevolezza del carattere
problematico e ambivalente della modernità.

FRIEDRICH NIETZSCHE
La sociologia accademica tedesca maturò all’interno del neokantismo e dello storicismo con Weber e Simmel, ma
sullo sfondo vi erano anche altre posizioni, tra cui quella di Nietzsche, una voce fuori dal coro ma potente. Non fu un
sociologo, ma la sua critica della civilizzazione occidentale ha avuto eco a lungo nelle scienze sociali. Al centro della
sua opera c’è la nozione di volontà, non da intendersi come l’espressione di un progetto deliberato mirante ad
ottenere qualcosa, ma come un’energia vitale elementare, come “volontà di potenza”, tensione all’affermazione

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personale nella definizione del proprio destino e nella realizzazione di sé.


Simmel, inoltre, osserva che il concetto di individuo ha dei significati differenti, ad esempio nella cultura europea del
Settecento e in quella del secolo successivo. Nel XVIII secolo, infatti, parlare di individui significo soprattutto
affermare il principio dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini; nell’Ottocento, invece, si afferma l’idea che gli
uomini, per quanto riguarda la loro interiorità, siano dissimili. Affianco a questa idea si affianca quella secondo cui il
compito etico di ciascuno consiste nel portare a compimento (cioè esprimere e realizzare) la propria unicità. Per
questa idea di individuo, Simmel conia l’espressione di individualismo qualitativo.

LA MODA
La densità della popolazione negli immensi agglomerati della vita urbana moderna rende nei fatti difficile agli
individui vivere all’altezza delle esigenze poste dall’individualismo qualitativo. I tratti dell’eccentricità e della ricerca
ossessiva di segni distintivi o di novità stupefacenti sono caratteristici di un tentativo di costruzione di una
personalità che tende a volte a svuotarsi di senso.
Nella moda si esprime in modo perfetto la compenetrazione in un fenomeno unico di due spinte contraddittorie: la
distinzione e l’imitazione. La prima esprime l’esigenza di differenziarsi, di affermare la propria singolarità rispetto agli
altri; la seconda esprime il bisogno di affermare la propria partecipazione ad una cerchia sociale che riconosciamo
come autorevole in fatto di stile. Il singolo, dunque, afferma la propria volontà di distinguersi da chi non segue la
moda, ma nello stesso tempo afferma anche quella di assomigliare a coloro che ne sono i rappresentanti.
Nella società contemporanea, la differenziazione non avviene per nascita, ma in virtù delle capacità di ciascuno di
farsi valere; la moda consiste così in un processo di mobilità sociale apparente. Il paradosso della moda è che
esprime ad un tempo autonomia ed obbedienza: come scrive Simmel, è la palestra adeguata per individui che sono
intimamente non autonomi e bisognosi di appoggio. Essa si concentra sempre di più sul presente ed enfatizza la
percezione della caducità e della transitorietà di ogni cosa.

QUALCHE COMMENTO

1. Con Simmel, la sociologia assume esplicitamente la riflessione sui procedimenti conoscitivi che la
contraddistinguono.
2. La ricerca di rapporti causali tra fenomeni si fa cauta: ogni fenomeno dipende da cause molteplici e a sua volta è
causa di altri fenomeni. Il mondo è una rete di fenomeni che si influenzano reciprocamente.
3. L’oggetto della sociologia si ridefinisce: non sono più studiate delle entità isolabili, bensì le relazioni entro cui
queste si definiscono.
4. La sociologia inizia ad assumere nel proprio campo di indagine la vita quotidiana. Simmel tematizza quello che
spesso è considerato irrilevante, poiché assunto come lo sfondo implicito e ovvio dell’agire quotidiano.

6. MAX WEBER
INTRODUZIONE
Max Weber è lo studioso che ha più influenzato la sociologia del XX secolo. Nacque a Erfurt nel 1864 e morì a
Monaco nel 1920; fu membro di una famiglia dell’alta borghesia, intrattenne rapporti con molti tra i principali
uomini politici e intellettuali tedeschi del suo tempo. La sua formazione economica e storica è centrale nel suo
pensiero; partecipò alla fondazione della rivista “Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik” e alla fondazione
dell’Associazione tedesca di sociologia: in questi primi anni il suo interesse si concentrò sulla definizione dei compiti
e del metodo delle scienze sociali e vengono pubblicate le sue opere più celebri come L’oggettività conoscitiva della
scienza sociale e della politica sociale e L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Pubblicò, come prosecuzione
del lavoro sull’etica protestante, gli studi della sua Sociologia delle religioni. La sua opera più nota, Economia e
società, non fu pubblicata mentre era in vita ma riordinata e ricostruita dalla moglie e poi da Winckelmann. Postume
sono anche le sue lezioni di Storia economica, tenute a Monaco dopo la fine della Prima guerra mondiale.
Weber è una personalità complessa ed un elemento importante è costituito dall’esaurimento nervoso che per un
periodo lo costrinse ad abbandonare ogni attività intellettuale.
Le preoccupazioni teoriche di Weber riguardano tre campi di indagine: metodologico, storico-comparativo e
sistematico. Quindi si è occupato essenzialmente di tre problemi:
1. Il metodo delle scienze sociali e i rapporti tra sapere scientifico e giudizi di valore;
2. La genesi, la specificità e il destino della civiltà occidentale moderna;

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3. Una definizione sistematica e coerente dei concetti della sociologia.


Questi ordini di questioni sono intimamente connessi tra di loro e non corrispondono a delle fasi distinte nel
pensiero di Weber.

LA SOCIOLOGIA COME SCIENZA COMPRENDENTE


La sociologia è una scienza che si propone di intendere l’agire sociale, in virtù di un procedimento interpretativo;
essa è, cioè, una scienza comprendente. Comprendere non è sinonimo di spiegare, la spiegazione causale viene
infatti dopo l’applicazione del procedimento interpretativo. Comprendere un’azione vuol dire per Weber intenderne
il senso, ciò interpretarne il significato che ha agli occhi di chi la compie (senso soggettivo). L’agire sociale che è
oggetto della sociologia è infatti un agire dotato di senso. Un agire è tale se e in quanto vi è connesso un senso. La
possibilità che si dia comprensione distingue le scienze sociali da quelle naturali e ciò segna una frattura rispetto ad
un’impostazione operante dai primi illuministi fino a Durkheim quando si ritendeva che le scienze dell’uomo
dovessero adeguarsi al modello scientifico di quelle naturali. Per Weber, questa impostazione è sbagliata per il fatto
che nelle scienze naturali i fenomeni non sono agiti da soggetti che danno loro un significato, a differenza di quanto
avviene nelle scienze sociali.
Tuttavia, vi sono anche differenze tra le diverse discipline scientifiche sociali: la storia, ad esempio, si occupa della
singolarità degli eventi, intende comprendere fatti che si sono verificati una volta sola e non si interessa alla
regolarità con cui si manifestano i fenomeni. La sociologia, al contrario, è orientata alla generalità, intende studiare
le azioni sociali degli uomini in quello che esse hanno di tipico, cioè di ricorrente in più casi: deve astrarre da infinte
azioni singolari certe caratteristiche comuni e produrre delle tipologie di fenomeni.
La sociologia si propone dunque innanzitutto di comprendere l’agire e in secondo luogo di spiegare causalmente
l’agire, che significa rintracciare un fenomeno che sia precedente nel tempo a quello che si intende spiegare e
rispetto a cui ciò che vogliamo spiegare sia logicamente un effetto che ne dipende: significa cioè individuare una
causa che spieghi l’insorgere del fenomeno, come fa lo scienziato naturale.
Weber pensa però che una spiegazione causale perfettamente esaustiva per i fenomeni umani non sia mai
rintracciabile per la molteplicità dei fattori che si combinano nel produrre ogni fenomeno del mondo umano e
sociale. Spiegare causalmente significa dunque cercare, in modo modesto ma non per questo meno rigoroso, di
rintracciare, per i fenomeni che si intende spiegare, le condizioni che sono sempre presenti quando essi si
manifestano. Piuttosto che di cause, Weber preferisce parlare di condizioni, di influenze o di insieme di fattori.

IL CONCETTO DI IDEALTIPO E I FONDAMENTI DELL’AGIRE SOCIALE


Non ogni forma di agire, secondo Weber, è sociale: è sociale solo quell’agire che è orientato all’atteggiamento di
altri. L’agire sociale può essere di diversi tipi; propriamente Weber parla di idealtipi o tipi ideali, cioè tipi costruiti
idealmente: sono strumenti conoscitivi di cui lo scienziato si dota per comprendere il senso delle azioni. Il senso che
ciascun soggetto attribuisce alle proprie azioni è differente caso per caso, ma la sociologia tende a generalizzare; il
tipo ideale è dunque lo strumento di questo processo di generalizzazione, è una sintesi, un’astrazione utile per
ridurre l’infinta varietà di fenomeni a un insieme di categorie maneggevole.
Alcuni autori hanno osservato che in realtà vi sono diversi tipi ideali in Weber:
 Ad un primo livello, sono idealtipi determinate formazioni storiche colte nella loro individualità (es. capitalismo
occidentale moderno)
 Ad un secondo livello – più astratto – concetti (come quello di “burocrazia”) che non colgono un’individualità
storica, ma un tipo di fenomeni che si può presentare in formazioni storiche diverse
 Ad un terzo livello – ancora più astratto – vi sono tipi ideali generalissimi che corrispondono ad un tentativo di
rendere interpretabile e confrontabile l’agire in un numero elevatissimo di casi (es. tipi di azione sociale).
Quest’ultima categoria comprende quattro tipi di agire sociale:

1. Agire razionale rispetto allo scopo: il soggetto agisce in vista di un fine determinato e calcola i suoi sforzi in
modo razionale per raggiungere tale fine. Il soggetto ha una chiara visione del suo obiettivo e la sua azione
serve a conseguirlo, utilizzando le risorse e gli strumenti a disposizione secondo un calcolo.
2. Agire razionale rispetto al valore: è orientato dalla credenza nell’incondizionato valore in sé di un
comportamento in quanto tale, a prescindere da qualunque considerazione relativa alle conseguenze di tale
comportamento. Il senso dell’agire non rimanda ad uno scopo da raggiungere ma risiede nel valore in sé
dell’agire stesso. È comprensibile solo in riferimento a quel valore che è rilevante per il soggetto che compie
il soggetto a prescindere dalle conseguenze che può comportare

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3. Agire affettivo: il senso è legato ad un particolare affetto o stato d’animo del soggetto; le azioni non sono
dettate da un fine né dal riferimento ad un valore, ma dalle emozioni o dai sentimenti
4. Agire tradizionale: è dettato da un’abitudine acquisita; il soggetto non compie l’azione in modo riflessivo né
segue un impulso momentaneo, ma agisce sulla base di una consuetudine.

Nella realtà, spesso non è facile distinguere se un’azione sia di un tipo oppure di un altro, poiché diversi orientamenti
di significato si mescolano; l’utilità di questa classificazione è meramente analitica. >
Nel mondo moderno, secondo Weber, c’è un crescente predominio dell’agire razionale rispetto allo scopo, le azioni
tendono a farsi sempre più strumentali e il calcolo diviene l’atteggiamento mentale predominante. La frequenza di
azioni orientate esclusivamente a valori in sé decade, così come decresce il peso relativo dei modi d’agire
esclusivamente affettivi o passionali e di quelli tradizionali. È una diagnosi simile a quella di Tönnies, relativa alla
distinzione tra Gemeinschaft e Gesellschaft e ricorda anche il tema simmeliano del crescente predominio
dell’intelletto nel mondo moderno (metropolitano). Nei termini di Weber, il crescente predominio di forme d’agire di
tipo razionale rispetto allo scopo corrisponde allo sviluppo di un processo di razionalizzazione.

IL CONCETTO DI CAPITALISMO
Uno dei temi principali della riflessione di Weber consiste nella definizione delle caratteristiche essenziali, delle
origini e del destino della civiltà occidentale moderna. Dal punto di vista della sua organizzazione economica, ha il
suo perno nel capitalismo, un aspetto essenziale di questa civiltà. Per Weber, il capitalismo non è uguale al semplice
desiderio di accumulare denaro e non è uguale neppure alla rapina (che non è formalmente pacifica). Esso si basa su
aspettative di guadagno formalmente pacifiche, disciplinate razionalmente e reiterate nel tempo.
L’agire economico capitalistico è specificatamente orientato all’aumento costante del capitale, utilizzando le
congiunture dello scambio. Il tipico soggetto di questo sistema è il proprietario dell’impresa capitalistica, che dispone
di un capitale e mira ad accrescerlo mediante il conseguimento rinnovato di profitti, di norma reinvestiti per
procurare nuovo profitto.
Il capitalismo occidentale moderno è dunque un’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero, cioè
l’utilizzo dei lavorator salariati, giuridicamente liberi, per lo svolgimento delle attività dell’impresa. Quindi, un agire
economico è detto capitalistico se orientato a perseguire, in modo sistematico, continuo nel tempo e formalmente
pacifico, un profitto; il capitalismo occidentale moderno è un sistema di imprese, collegate fra loro attraverso il
mercato, in cui ogni impresa agisce per conseguire il profitto e organizza le proprie attività conformemente a tale
scopo in modo razionale, utilizzando lavoro formalmente libero.
La società nel suo insieme è capitalistica quando la soddisfazione dei bisogni dei suoi membri ha luogo in modo
prevalente attraverso l’attività di tali imprese e il consumo delle merci che queste producono.
In molti punti, la definizione weberiana richiama quella di Marx, ma rispetto a quest’ultimo è assente il tema dello
sfruttamento, perché la definizione di Weber non si basa sulle caratteristiche dei rapporti di produzione, ma riporta
la formazione del profitto alla sfera dello scambio e considera un insieme di caratteristiche che riguardano il senso
dell’agire e le condizioni storiche in cui tale agire si dispiega. La denuncia dello sfruttamento è per Weber un aspetto
di una critica morale al capitalismo che non ha a che vedere con la definizione scientifica. Ma la definizione di Weber
ha anche qualcosa in più rispetto a quella di Marx: il riferimento al carattere razionale dell’agire capitalistico. La
razionalità cui Weber fa riferimento è quella dell’agire razionale rispetto ad uno scopo.
Perché il capitalismo potesse svilupparsi, sono stati necessari numerosi fattori storici, tra cui:

 La disponibilità di lavoro formalmente libero (fine della schiavitù e del servaggio)


 Lo sviluppo di mercati aperti (sistema di relazioni commerciali più vaste)
 La separazione tra famiglia e impresa (cioè tra sfera domestica e del lavoro, dove vigono logiche differenti)
 Lo sviluppo di un diritto formalmente statuito che consenta ai soggetti dell’agire capitalistico – le imprese –
condizioni in cui le norme dettate dal potere politico non mutino continuamente (in assenza di regole stabili e
garantite sarebbe difficile fare calcoli razionali).

Questi fattori sono stati presenti, secondo Weber, seppur in grado e modo diverso in molte altre epoche e società
ma la loro combinazione si è prodotta solo nell’Occidente moderno. C’è dell’altro: ciò che caratterizza il capitalismo
occidentale moderno è una mentalità specifica che permette di attribuire senso a un agire capitalistico: è ciò che
Weber chiama lo spirito del capitalismo, caratterizzato da un’enfasi particolare sull’importanza del lavoro
professionale e su quella di reinvestire i proventi senza esaurirli nel consumo improduttivo o nel lusso.

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LO SPIRITO DEL CAPITALISMO E LE SUE ORIGINI NELL’ETICA PROTESTANTE


Lo “spirito del capitalismo” è l’ethos razionale che lo anima. Il problema diviene dunque cercare di individuare le
origini della capacità e della disposizione degli uomini dell’Occidente moderno a sviluppare in modo particolare delle
forme di condotta pratico-razionale nella vita.
Il saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo è uno sforzo teso a definire le origini di questa disposizione
culturale, la cui origine andrà cercata in sfere della vita specificamente culturali, proprie della cultura europea nei
secoli che stanno all’inizio dell’età moderna, cioè in forme religiose.
Il protestantesimo pone più di altre confessioni l’accento sull’individuo come interprete diretto della parola di Dio. In
questa enfasi particolare sull’individualismo, alcuni autori hanno colto uno dei tratti più consoni alla formazione
della cultura moderna. Ma non è questa la strada di Weber: piuttosto egli osserva che il protestantesimo si
differenzia dal cattolicesimo per un’enfasi particolare sulla vita mondana. È sul terreno di questa rivalutazione dei
compiti mondani che si instaura il concetto di Beruf: significa insieme “professione” e “vocazione”. Nel concetto di
Beruf i protestanti hanno indicato il carattere sacro dei compiti professionali di ciascuno, la dimensione religiosa
dell’occuparsi di compiti connessi alla propria posizione nel mondo.
Un’altra caratteristica della dottrina protestante che ha grande rilevanza è la concezione dell’assoluta
imperscrutabilità del volere divino e la sua totale indipendenza dalle azioni degli uomini. Questo dogma, osserva
Weber, ha delle conseguenze psicologiche notevoli: il singolo credente non ha alcun potere sulla propria salvazione e
contemporaneamente è portato a scrutare ogni segno che possa venirgli a conferma del proprio destino; si vieta
dunque ogni indulgenza nei confronti dei piaceri, nel timore di scoprire in tali piacere la tentazione e dunque il segno
del proprio essere dannato. La condotta di vita che emerge dall’insieme di questi atteggiamenti è molto metodica; ai
calvinisti è estranea la credenza della possibilità del perdono dei peccati tramite il sacramento della confessione:
indulgere nel peccato è un segno della dannazione, per questo si deve vivere in modo metodico e il lavoro assurge
anche a strumento per evitare le tentazioni.
Adesione al mondo, nel compimento del proprio Beruf, e insieme ascesi dal mondo, rinuncia ad ogni godimento,
fuga da ogni tentazione: quest’atteggiamento è detto da Weber ascesi intramondana ed è affine a quanto richiesto
dallo spirito del capitalismo, almeno ai suoi inizi, cioè nel mondo più sistematico e razionale possibile alla propria
professione economica, ma, nel contempo, rinunciare al desiderio di utilizzare i guadagni per goderne. L’etica
protestante – specie nella sua versione calvinistica – favorisce dunque lo sviluppo di questa mentalità.
Che l’etica protestante abbia giocato un ruolo importante nelle origini del capitalismo non significa né che sia stato
l’unico fattore, né che giochi tuttora questo ruolo. Anzi, la situazione che questa etica produce è paradossale, perché
favorisce la produzione di ricchezza ma la ricchezza prodotta gioca a sfavore degli impulsi religiosi originari,
favorendo la tentazione.
Lo sviluppo del capitalismo tende a perdere, nel suo corso, i propri fondamenti culturali legati all’etica protestante.
Una volta avvenuto, esso procede meccanicamente, quasi per forza di inerzia. Il profitto e il successo professionale
vengono perseguiti per se stessi o per consentire il conseguimento di quei beni esteriori che l’etica puritana
originaria fuggiva come tentazioni. Weber ne sottolinea quindi il carattere tragico o comunque contraddittorio: la
modernità capitalista sembra distruggere proprio quelle forze che hanno contribuito a farla nascere.
Weber tuttavia rinuncia ad una posizione esplicitamente critica, perché non vede nel momento storico in cui vive
delle alternative plausibili allo sviluppo del capitalismo. Nei confronti del socialismo è palesemente scettico, ma nel
complesso la sociologia di Weber è dichiaratamente avalutativa.

L’AVALUTATIVITA’ DELLE SCIENZE SOCIALI


I “valori” sono orientamenti culturali di fondo che motivano le condotte, esprimono degli atteggiamenti morali. Il
riferimento ad un valore è il soggettivo riferirsi nella propria condotta a certi valori. Il giudizio di valore è invece
un’affermazione che, riguardo a certi fenomeni, esplicitamente dichiara “è bene” oppure “è male”.
Lo scienziato sociale non può fare a meno di riferirsi ai valori, perché da un lato essi sono parte del senso che gli
attori attribuiscono al proprio agire (poiché la sociologia è orientata a comprendere tale senso, deve
necessariamente essere in grado di cogliere anche i valori) e dall’altro lato, lo scienziato sociale si riferisce a dei valori
perché non può farne a meno essendo un uomo situato in un contesto storico e sociale e quindi giudica la realtà in
cui è immerso: proprio da questa sua appassionata presenza nel mondo, lo scienziato deriva la propria stessa volontà
di ricerca, egli studia qualcosa perché la ritiene rilevante e del resto i suoi orientamenti personali lo spingono a
scegliere di analizzare certi nessi causali piuttosto che altri. Ciò che garantisce l’obiettività del suo lavoro è che egli si

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sforzi di essere consapevole dei propri orientamenti soggettivi e sappia metterli tra parentesi, evitando di emettere
dei giudizi di valore rispetto ai fenomeni che studia.

ALCUNE CATEGORIE DELLA SOCIOLOGIA WEBERIANA


Negli scritti intesi a fornire dei fondamenti sistematici alla sociologia, Weber sviluppa delle categorie.
La relazione sociale esiste quando, essendovi più attori sociali compresenti, il senso dell’azione di ciascuno si riferisce
all’atteggiamento dell’altro, in un modo tale che le azioni sono reciprocamente orientate tra loro. Individui in
relazione costante tra loro possono costituire comunità (se e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale
poggia su una comune appartenenza soggettivamente sentita da parte degli individui che vi partecipano) o
società/associazione (se e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una convergenza di interessi,
o su un legame di interessi motivato razionalmente). Tipicamente, ma non necessariamente, la società o
associazione può poggiare su stipulazioni, cioè su impegni reciproci presi esplicitamente dai suoi membri (es. Società
per azioni). Rispetto alle categorie di Tönnies, tuttavia, quelle di Weber sono esplicitamente analitiche e non venate
da alcuna valutazione nostalgica nei confronti della Gemeinschaft: comunità e società sono per Weber
semplicemente dei tipi ideali di relazioni sociali. Nei casi concreti, però, molto spesso le relazioni sociali hanno in
parte il carattere di comunità e in parte quello di società.
Comunità e società si basano entrambe sull’integrazione dei membri del gruppo, ma possono esservi anche relazioni
sociali di tipo opposto come la lotta, in cui ciascun attore non mira ad un’integrazione con l’altro ma alla sua
sopraffazione. L’approccio di Weber talvolta è definito conflittualistico, perché tende ad osservare la ricorrente
presenza di forme di lotta, ma comunque non privilegia nella sua analisi un tipo di conflitti, né si attende che essi
conducano la storia verso sintesi successive; sono piuttosto una dimensione sempre inerente alle possibilità umane
dell’agire.
Infine, le relazioni sociali possono essere aperte se la partecipazione all’agire sociale reciproco è possibile per
chiunque, oppure chiuse se vi sono degli ordinamenti che ne limitano l’accesso solo a determinati soggetti, in
possesso di certi requisiti. Un insieme di relazioni sociali chiuse corrisponde ad un raggruppamento sociale. Se
questo definisce se stesso attraverso la sua occupazione di un dato territorio, se ha la nozione della propria
continuità nel tempo e se è presente la possibilità di minacciare il ricorso alla forza fisica per imporre il rispetto di
certe regole della vita in comune, è detto raggruppamento politico (es. lo Stato).

LE FORME DI LEGITTIMAZIONE DEL POTERE


Il potere politico (che è un sottoinsieme del potere sociale) può basarsi meramente sulla forza oppure invocar
qualche principio di legittimità. Nel primo caso, vengono imposte regole che convengono agli interessi o alle
convinzioni di alcuni, a prescindere dagli interessi o dalle convinzioni degli altri. Nel secondo, le regole si basano su
un criterio condiviso e vengono ritenute legittime.
In Economia e società, Weber distingue due concetti: Macht e Herrschaft; in italiano il primo termine viene tradotto
con “potenza” e il secondo con “potere”. Nel caso della potenza, chi la subisce si trova costretto a seguire la volontà
dell’altro; nel caso del potere, invece, la situazione è quella di qualcuno che obbedisce ad un comando perché ritiene
legittimo il potere da cui il comando emana. Il problema è quello di comprendere secondo quale senso l’obbedienza
sia accordata, cioè comprendere come un comando politico, entro un certo raggruppamento sociale, possa essere
considerato legittimo. Weber distingue così tre tipi di legittimazione del potere:

1. Di carattere tradizionale, quando poggia sulla credenza nel carattere sacro di tradizioni ritenute “valide da
sempre”. Chi obbedisce lo fa sulla base del sentimento che così è sempre stato, o che così di è sempre fatto. Il
potere di chi comanda riceve la sua legittimità dal fatto di provenire dal passato.
2. Di tipo carismatico, quando poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore
esemplare di una persona e degli ordinamenti rivelati o creati da essa. Ha una grande potenzialità di produrre
mutamento. Weber è dell’idea che il carisma sia la più grande forza rivoluzionaria potenziale della storia. Esso è
tuttavia sempre legato ad una persona particolare e quando questa muore si pongono i problemi della sua
continuità.
3. Di carattere razional-legale, quando poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e nel diritto di
coloro che sono chiamati ad esercitare il potere in base ad essi.

L’obbedienza non è prestata ad una persona in particolare, ma a delle leggi impersonali, costituite da regole astratte
che valgono per tutti in modo uguale. Tali leggi derivano la loro legittimità di essere razionalmente statuite, cioè

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prodotte in modo razionale sulla base di una discussione formalmente pacifica. Questa forma di legittimazione del
potere è la più tipica delle società moderne; favorisce un mutamento sociale continuo e regolato. L’esistenza di un
potere legittimo non significa che il ricorso alla forza scompaia, significa solo che essa è monopolizzata dal potere in
virtù della sua legittimazione. Se il numero o la forza di coloro che vi si oppongono sopravanzano quelli di coloro che
sostengono la legittimità del potere dato, emergono conflitti da cui eventualmente potrà scaturire un nuovo potere
politico, il quale secondo Weber è sempre potenzialmente instabile.

LA BUROCRAZIA
Ad ogni forma di potere legittimo corrispondono forme tipiche di apparati amministrativi; quella connessa al potere
razional-legale è la burocrazia. Per “burocrazia” si intende l’organizzazione permanente della cooperazione tra un
grande numero di individui, ciascuno dei quali svolge una funzione specializzata. Per l’espletazione di compiti
amministrativi ci sono individui detti funzionari ed essi esercitano le funzioni connesse alla propria carica sulla base
di procedure standardizzate e obbedendo ad un’autorità impersonale. La burocrazia dello stato moderno si fonda su:
1. L’esistenza di servizi e competenze rigorosamente definiti da leggi o regolamenti
2. Una gerarchia delle funzioni
3. La separazione tra funzione e uomo che la svolge (criterio della non-proprietà personale della carica)
4. Il reclutamento dei funzionari sulla base del possesso di una formazione specifica sulla base di esami
5. La retribuzione del funzionario mediante un salario erogato dallo Stato.
La burocrazia è più efficiente di altri sistemi di amministrazione quando si tratti di amministrare società ampie e
complesse, soprattutto rispetto al patrimonialismo tipico dell’Europa feudale, in cui le funzioni amministrative erano
affidate a uomini ricompensati dal signore che attingeva per questo al suo patrimonio; essi non rispondevano ad un
potere impersonale, ma al signore cui erano legati da un rapporto di fiducia personalistico. Un tale sistema non è
adeguato alla gestione di servizi differenziati e rivolti ad un numero enorme di persone.
La burocrazia ha anche egli svantaggi: in quanto basata sulla spersonalizzazione, favorisce la deresponsabilizzazione
dei singoli funzionari e, in quanto fondata sul rispetto di procedure standardizzate, sfavorisce l’innovazione. Inoltre, i
corpi amministrativi burocratizzati possono sviluppare propri interessi particolaristici ed il loro controllo è uno dei
problemi fondamentali del funzionamento delle democrazie contemporanee.

LA STRATIFICAZIONE SOCIALE
Per stratificazione sociale si intende in sociologia il modo in cui in una società gli individui e i raggruppamenti di
individui sono differenziati e ordinati gerarchicamente. Il concetto allude dunque a delle diseguaglianze che
riguardano le risorse cui ciascuno può accedere. Per Weber in ogni società esistono diversi ordinamenti che
corrispondono a diversi punti di vista da cui la società può essere considerata: economico, culturale e politico; in
ognuno di essi la stratificazione si presenta secondo criteri diversi.
La nozione di classe è centrale dal punto di vista economico. Una classe è per Weber un insieme di individui che
condivide possibilità analoghe di procurarsi dei beni e dei servizi finalizzati alla soddisfazione dei bisogni relativi a
prestazioni e utilità. Tipicamente gli individui appartenenti ad una stessa classe hanno interessi economici simili.
All’interno dell’ordinamento culturale, la stratificazione si esprime attraverso i ceti. Weber definisce “situazione di
ceto” un effettivo privilegio positivo o negativo nella considerazione sociale, che può essere fondato sul modo della
condotta della vita, sulla specie di educazione ricevuta, sul prestigio (o sul disprezzo) derivante dalla nascita oppure
dalla professione o dall’appartenenza ad un gruppo in cui si entra in virtù di certi requisiti specifici. Un ceto è dunque
un insieme di individui che condividono un certo status riconosciuto socialmente.
Quanto alla stratificazione politica, si realizza nelle forme degli apparati politici ed amministrativi di un gruppo
sociale, cioè nelle cariche che vi si possono ricoprire, ma anche nella possibilità che i membri di un determinato
partito o di una determinata fazione politica prevalgono su altri nell’allocazione delle risorse del gruppo.

RAZIONALIZZAZIONE E DISINCANTO DEL MONDO


La sintesi più alta del pensiero di Weber è la conferenza che tenne nell’immediato dopoguerra parlando ai suoi
studenti di La scienza come professione, la quale contiene alcuni passaggi molto importanti, riguardo il processo di
razionalizzazione tipico della modernità e il disincanto del mondo che vi è connesso.
Il processo di razionalizzazione corrisponde alla conquista di una specifica efficienza e produttività delle procedure
che sono applicate per dominare tecnicamente i diversi aspetti dell’esistenza, ma anche al crescente predominio
della fiducia nel fatto che tutte le cose – in linea di principio – possano essere dominate dalla ragione. Lo sviluppo di
questa fiducia comporta un disincanto nel mondo: progressivamente viene espulso dall’atteggiamento

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fondamentale degli uomini ogni riferimento a spiegazioni e a comportamenti magici, animistici o religiosi. Il tipico
soggetto moderno si aspetta che tutto possa essere (oggi o domani) spiegato razionalmente: questo atteggiamento
sostiene uno straordinario sviluppo delle sue capacità tecniche, ma tende anche a sostituire all’antico senso del
mistero un radicale disincanto.
Tuttavia – e qua sta il paradosso della modernità – l’idea che la ragione possa in linea di principio dominare ogni cosa
è essa stessa una fiducia non giustificata razionalmente. Inoltre, per la scienza moderna, il mondo dei valori è ciò che
è extrascientifico ed extrarazionale per eccellenza: questa scissione tra la razionalità e i valori comporta
l’individuazione della dimensione della responsabilità personale come fondamento dell’etica e corrisponde ad un
appiattimento dell’idea di ragione su quella di razionalità strumentale e di intelletto.

7. LE ORIGINI DELLA SOCIOLOGIA AMERICANA


INTRODUZIONE
A partire dall’ultimo decennio del XIX secolo, la sociologia è insegnata nelle Università degli Stati Uniti, ma è ancora
piuttosto dipendente da quella britannica e in particolare dalla figura di Spencer, sebbene vi siano teorizzazioni
originali: Sumner mette a punto il concetto di etnocentrismo (privilegiamento da parte di un gruppo dei propri
costumi e valori con la relativa svalutazione di quelli degli altri; Veblen propone il concetto di consumo vistoso (non
finalizzato tanto al soddisfacimento di bisogni materiali, quando all’ostentazione della ricchezza); Cooley elabora la
teoria del “sé specchio” e studia i processi mediante i quali l’individuo acquista un’immagine di se stesso.
La società nordamericana a cavallo del secolo è contrassegnata da mutamenti molto intensi, dovuti agli elevatissimi
ritmi dell’immigrazione e ai problemi di integrazione che le differenze di lingua, tradizioni e costumi comportano,
all’industrializzazione, all’espansione delle aree urbane.
Fino alla crisi del 1929 e agli interventi statali che seguirono, il capitalismo americano fu caratterizzato da dinamismo
e grande capacità di produrre diseguaglianze, che tuttavia non diedero luogo a una consistente lotta di classe a causa
dell’assenza di una solidarietà duratura tra lavoratori di diverse provenienze.
Ai problemi dell’immigrazione, dei conflitti interetnici, della disgregazione sociale e della devianza si dedicarono
particolarmente gli autori della prima grande scuola di sociologia americana, quella di Chicago.

LA SCUOLA DI CHICAGO
La scuola di Chicago è caratterizzata da una fortissima propensione alla ricerca empirica: un originale metodo di
ricerca fu quello dell’osservazione partecipante, cioè la parziale immersione del ricercatore per un lungo periodo di
tempo nella vita del gruppo che studia; la sociologia esce così dalle aule universitarie e studia non un rarefatto
mondo cui si pensa al tavolino, ma uno ricco di dettagli e di vita. L’oggetto unificante delle ricerche di questi sociologi
è la citta: Chicago è il loro laboratorio. Gli autori che più contribuirono al suo sviluppo furono William I. Thomas e
Robert E. Park.
L’opera fondamentale di Thomas è Il contadino polacco in Europa e in America (1918-1920) e riguarda le condizioni
degli immigrati polacchi a Chicago: si assume che il comportamento degli immigrati non sia comprensibile senza far
riferimento alla loro storia, al paese dal quale provengono e alle motivazioni dietro l’emigrazione; Thomas
individuava nella formazione di istituzioni capaci di permettere l’integrazione progressiva degli immigrati nel nuovo
ambiente la chiave per evitare processi di disgregazione sociale e conflitti interetnici. Egli diede inizio a quelli che
saranno definiti i metodi qualitativi della ricerca sociologica. In modo indipendente, ma analogo a Weber, Thomas
ritiene che la sociologia non possa fare a meno di tener conto del significato che gli attori attribuiscono al proprio
comportamento e alle situazioni in cui si trovano. Inoltre, secondo il cosiddetto teorema di Thomas, se gli uomini
definiscono reale una situazione, essa è reale nelle sue conseguenze; ma la definizione di una situazione non è
accessibile mediante metodi quantitativi: il sociologo deve studiare le persone e apprezzare le differenze qualitative
dei loro modi di attribuire significato a ciò che vivono.
Robert E. Park fu l’animatore della scuola; il suo primo interesse fu il giornalismo da cui deriva la sua grande capacità
di vedere i dettagli della vita urbana, una specifica attenzione per i processi comunicativi e per il ruolo della stampa
quotidiana che egli concepisce come “istituzionalizzazione del pettegolezzo” (e dunque agenzia del controllo
sociale), ma anche luogo di formazione dell’opinione pubblica (e dunque strumento per la critica democratica delle
azioni del governo). Per gli studiosi della scuola di Chicago i mezzi di comunicazione di massa sono parte costitutiva
dei processi di modernizzazione, favoriscono l’integrazione di società sempre più differenziate e complesse. Al di là
dell’interesse teorico, Park è affascinato dal giornale poiché fonte di notizie, cioè di frammenti di informazione sulla

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vita sociale, che si combinano con le esperienze del lettore, costruendo la sua immagine del mondo: la teoria
sociologica appare a questo riguardo come il tentativo di passare dai frammenti all’insieme.

LA CITTÀ
La nozione chiave per intendere l’essenza della città moderna è quella di mobilità, il cui concetto nella terminologia
di Park e della scuola di Chicago ha significati molto ampi e poco precisi: è mobilità sia lo spostamento geografico o
sociale, sia la vivacità spirituale che consegue all’esposizione a stimoli numerosi e vari. Mobilità significa apertura;
più si è mobili, più si è inclini al mutamento che riguarda anche i propri quadri di riferimento cognitivi o i propri stessi
valori. La maggiore mobilità comporta però anche una maggiore disorganizzazione sociale, endemica in ogni
processo di mutamento, ma, secondo Park, solo come momento che preannuncia una nuova organizzazione. Il suo
stabilizzarsi corrisponde a un’incapacità dell’ambiente sociale di fornire agli individui risorse per soddisfare
efficacemente i propri bisogni.
Uno dei concetti più tipi di Park e della sua scuola è quello della distanza sociale: il sentimento dei membri di un
gruppo di essere distinti ed estranei rispetto ai membri di un altro; il pregiudizio nei confronti degli altri è una
manifestazione di questa distanza.
La distanza sociale tende poi ad esprimersi in territoriale: secondo la teoria delle “aree naturali”, sul territorio di una
città, i gruppi diversi tendono a collocarsi in aree distinte. Secondo Park, in ogni città moderna tende a svilupparsi
uno schema generale: attorno al quartiere commerciale centrale, indicato come “il centro”, si trova normalmente
un’area di transizione occupata da imprese commerciali e da piccole industrie; una terza area è abitata dagli operai
dell’industria; oltre questa zona c’è l’ “area residenziale”, occupata da edifici con appartamenti di lusso o da quartieri
privilegiati e chiusi, con abitazioni monofamiliari; più oltre, al di là dei confini della città, c’è la zona dei lavoratori
pendolari. È un modello che risente ovviamente dell’esperienza americana ed è difficile applicarlo ad una città
europea; lo stesso Park avverte che nessuna città concreta vi corrisponde perfettamente; ma l’idea che lo spazio di
ogni città tenda a suddividersi in aree socialmente e funzionalmente dissimili è ancora valida così come lo è quella
secondo cui le diverse zone possono essere occupate successivamente da gruppi diversi.

GEORGE H. MEAD
All’Università di Chicago insegno anche Mead, non un sociologo, bensì un filosofo e uno psicologo sociale.
L’elemento delle ricerche di Mead che ha più influenzato la sociologia è quello che riguarda la formazione del sé; non
inteso nei termini di uno spirito o di un’anima: è qualcosa che emerge e si realizza nel corso dell’interazione sociale.
Il sé è il soggetto umano nella misura in cui diventa oggetto a se stesso, cioè si offre a un’attività autoriflessiva,
specifica dell’essere umano, così come specifico dell’essere umano è anche il linguaggio (un insieme strutturato di
segni, ai quali per convenzione è assegnato un significato condiviso da più soggetti).
Riflettendo, l’individuo si sdoppia: è insieme il soggetto dell’azione “riflettere” e il suo complemento oggetto: questa
è la fondamentale distinzione tra “io” e “me”, i due poli del “sé”. Riflettendo, ci si guarda come dall’esterno, come
dal punto di vista di un altro. Dunque, l’individuo si descrive, si nomina: ma se si nomina, fa uso del linguaggio, cioè
può nominare se stesso con quelle parole (e quindi concetti e categorie) con cui ha imparato a descrivere gli altri e
con cui ha imparato che gli altri lo descrivono. La partecipazione al linguaggio che un soggetto condivide con altri è
dunque la condizione perché emerga un sé; è una condizione sociale, essendo il linguaggio cosa sociale per
eccellenza. In Mead si trova dunque una riformulazione del problema del rapporto individuo/società: l’individuo è
sociale perché ha un sé, la cui forma è resa possibile dalla sua immersione in un linguaggio comune.

8. LA SOCIOLOGIA IN ITALIA AGLI INIZI DEL XX SECOLO


LE ORIGINI DELLA SOCIOLOGIA ITALIANA
Come nel resto d’Europa, la sociologia comincia a svilupparsi in Italia alla fine dell’Ottocento dalle indagini sociali
(come quelle legate ai problemi dell’industrializzazione e alla costruzione di uno Stato unitario; è da ricordare in
particolare l’inchiesta sulla Sicilia compiuta da Sonnino e da Franchetti) e dal pensiero positivista, di cui l’esponente
più noto fu l’antropologo Cesare Lombroso. Nel 1896 fu fondata la prima “Rivista italiana di sociologia”, su cui
scrissero i principali sociologi del tempo e che pubblicò fino al 1922, quando la sociologia italiana ebbe una battuta
d’arresto su diversi livelli: sul piano politico e civile, il fascismo rappresentò un congelamento della ricerca sociale
scientifica; su quello culturale, ebbe molta influenza la posizione di Benedetto Croce, antifascista e ostile anche alla
sociologia stessa, che egli considerava “pseudoscienza”, poiché riteneva che si trattasse di un tentativo di negare

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9l’essenziale storicità dell’essere umano mediante la ricerca di supposte regolarità della vita sociale, ma in realtà
Croce identificava tutta la sociologia con quella positivista.

VILFREDO PARETO
Nacque a Parigi nel 1848, da una famiglia della nobiltà italiana, e visse a Torino, Roma, Firenze e infine in Svizzera, a
Losanna, dove morì nel 1923. La sua prima formazione e professione iniziale fu nel campo dell’ingegneria;
successivamente si dedicò all’economia ed ottenne anche la cattedra di Economia Politica all’Università di Losanna.
In seguito, smise di insegnare e iniziò ad occuparsi di sociologia; pubblicò il Trattato di sociologia generale e diversi
articoli di argomento politico. Accettò anche un incarico ufficiale presso la Società delle Nazioni, come
rappresentante del governo italiano ed entrò in contatto con il fascismo di Mussolini.
Per Pareto, la sociologia è la scienza in grado di comprendere e spiegare ciò che la sociologia non riesce ad afferrare;
l’economia si occupa solo di azioni logiche, ma la vita degli uomini è piena di azioni che non lo sono affatto, come
passioni, sentimenti, abitudini, paure, ecc.; per comprenderla nella sua interezza, l’economia non è completa.
La sociologia è dunque la scienza logico-sperimentale dei comportamenti degli uomini: il suo oggetto è la
spiegazione logica di ciò che logico non è. Pareto non realizzò alcuna ricerca empirica: si basava sulla sua conoscenza
del mondo. Il mondo sociale è pensato come un insieme di elementi interdipendenti tra loro. Nota è la sua teoria dei
residui e delle derivazioni. I residui sono ciò che Pareto scorge di fondamentale nell’uomo; “residuo” è ciò che
rimane una volta che si sia scomposto il comportamento degli uomini nelle sue componenti elementari, che sono
sei: l’istinto alla combinazione, la persistenza degli aggregati, il bisogno di manifestare i propri sentimenti, la
socialità, l’integrità della persona e la sessualità. I residui rappresentano il fondamento non-logico del
comportamento: al di sotto di tutti i comportamenti degli uomini, vi è la spinta più o meno inconsapevole dell’uno o
dell’altro di questi residui. Gli uomini, tuttavia, tendono ad autoingannarsi, a dare una vernice logica alle proprie
azioni, cioè a produrne delle giustificazioni pseudorazionali: è ciò che Pareto chiama derivazioni, cioè
rappresentazioni mentali (un’ideologia, una religione, un programma politico) che occultano gli impulsi fondamentali
e propongono una legittimazione del comportamento in termini che appaiono logici (senza esserlo, in realtà).

LE TEORIE DELLE ÉLITE


Il termine élite designa una cerchia sociale ristretta in grado di esercitare un controllo o un’influenza sulla società nel
suo insieme. Il pensiero sociologico italiano dei primi anni del secolo rifletté sui caratteri e sul ruolo sociale delle
élite. Se ne occuparono principalmente il siciliano Gaetano Mosca, Pareto e l’italo-tedesco Roberto Michels, detti
élitisti. La teoria delle élite è in sostanza una critica del funzionamento reale delle democrazie, le quali hanno assunto
di norma negli Stati moderni la forma di democrazie rappresentative. Gli élitisti non si oppongono alla democrazia in
nome dei principi tradizionali dell’aristocrazia, ma intendono demistificarne il funzionamento concreto, indicando
come, nei fatti, a governare siano sempre piccole minoranze. Per gli élitisti, le minoranze di governo sono costituite
da coloro che, nella situazione storica data, sono più atti a governare. È cruciale che la società sia in grado di mettere
ai posti di comando, di volta in volta e nei diversi settori, gli individui o i gruppi più adatti a governare, e i cui interessi
siano i più consoni a sviluppare il benessere della società tutta. Una società non in grado di esercitare regolarmente
questo ricambio condanna se stessa alla stagnazione, aumentando i rischi di sommovimenti rivoluzionari.
Michels elabora in La sociologia del partito politico la cosiddetta “legge di ferro dell’oligarchia”; l’idea centrale è che
ogni organizzazione complessa come quella di un partito politico tende a sviluppare al proprio interno un’oligarchia
di funzionari i cui interessi si divaricano da quelli di coloro che essi affermano di rappresentare: i membri delle élite
di partiti politici avversari possono essere così più simili tra di loro che non con i membri inferiori delle rispettive
organizzazioni.

IL FASCISMO
Verso la fine del XIX secolo nella psicologia sociale e nella sociologia diventa ricorrente il tema della folla. Ciò che
colpisce gli intellettuali è soprattutto il carattere irrazionale che sembrano assumere gli uomini quando si radunano
in folla, la perdita da parte loro dei segni di una personalità autonoma, la violenza di cui diventano capaci. Ciò che è
obiettivamente vero è il riconoscimento di una novità nel panorama sociale, l’agglomerarsi nelle città di una folla di
persone relativamente anonime le une rispetto alle altre, la possibilità che queste folle si organizzino in
manifestazioni collettive imponenti.
Alla nozione di folla, gli intellettuali di sinistra contrappongono il concetto di massa, intendendo la presenza nella
società industriale di una maggioranza di lavoratori che, per quanto indispensabili, non vedono riconosciuti i propri
diritti. Per i marxisti e i rivoluzionari, il problema è organizzare queste masse in una forza compatta e

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autoconsapevole; per i riformisti è promuovere gradualmente una completa partecipazione dei lavoratori. Per
entrambi, in ogni caso, il richiamo alle masse ha una valenza positiva, non disgiunta dal riconoscimento della
necessità di un’educazione diffusa. È a tutto ciò che si oppongono coloro che sottolineano il carattere irrazionale e
violento delle inedite manifestazioni e della vita sociale di cui sono testimoni.
Il fascismo, tra il 1925 e il 1943, si costituì come una dittatura, con la caratteristica di non fondarsi unicamente sulla
violenza – per quanto questa sia essenziale – ma anche sulla ricerca di un consenso popolare, ricercato soprattutto
attraverso l’instaurazione di un rapporto privilegiato tra il leader e le masse di tipo emotivo, che presuppone
l’utilizzo di rituali e di mezzi di propaganda efficaci ma anche la disponibilità dei soggetti a proiettare sul leader una
forte carica affettiva. Il leader si propone come referente unico, unica incarnazione dell’autorità, ma ciò è possibile
solo se gli individui rinunciano tanto alla propria individualità concreta quanto (almeno in una certa misura) al valore
dei propri legami con gli altri: il che corrisponde a una loro riduzioni a membri di una massa. Contemporaneamente,
l’appello indifferenziato del leader contribuisce a sua volta a trasformare i singoli in massa; il discorso è circolare: il
fascismo presuppone la massa e contemporaneamente la produce.

ANTONIO GRAMSCI
Opposta alle teorie conservatrici di Pareto o di Mosca e soprattutto al fascismo di Mussolini è la posizione di
Gramsci, membro di spicco del PCI, ispiratore e teorico dell’insurrezione dei “consigli operai” di Torino nel 1920,
messo in carcere nel 1926, dove passò il resto della sua vita e scrisse i suoi Quaderni del carcere.
Gramsci non era un sociologo, ma la sua opera è ancora oggi considerata internazionalmente come una delle più
significative nella storia della sociologia. La rilevanza sta soprattutto nella sua rielaborazione del marxismo in chiave
antidogmatica e antideterministica. A Gramsci si fa risalire la definizione – o ridefinizione – di alcuni concetti oggi
particolarmente usati, come fordismo, società civile ed egemonia.
Il termine fordismo fa riferimento alle trasformazioni del modo di produzione capitalistico avviate dalle innovazioni
di Henry Ford nelle sue fabbriche di automobili negli USA tra il 1910 e il 1920. Ford aveva modificato il lavoro dei suoi
operai scomponendone l’attività in minuscoli compiti specifici. Si trattava di razionalizzare la produzione, aumentano
la produttività complessiva del lavoro. Inoltre Ford ritenne necessario aumentare i salari per ricompensare i
lavoratori per la disciplina cui si sottoponevano, incentivarne la fedeltà all’azienda e assicurare un ampio mercato
per i beni prodotti, favorendo lo sviluppo di uno strato di piccoli consumatori. Accedendo al mercato in virtù
dell’aumento dei propri salari, la classe operaia viene dunque a partecipare all’aumento di benessere e la sua
disposizione rivoluzionaria viene placata, nello stesso momento in cui il controllo sulle coscienze si fa più capillare. Ci
si deve allora spostare sul piano di una complessa lotta ideologica; diventa decisiva la capacità delle avanguardie
operaie di proporre una cultura complessivamente alternativa a quella del capitalismo. La capacità di diffondere
all’interno di tutta la società una cultura congruente con i propri valori ed i propri interessi è la capacità di esercitare
un’egemonia sulla società. Nella società capitalistica le classi dominanti non esercitano il proprio potere solo con la
coercizione, ma anche egemonizzando gli atteggiamenti delle classi subalterne, cioè imponendo i propri valori e le
proprie logiche come elementi della cultura diffusa. Dunque, la lotta sul terreno della cultura diventa fondamentale
e il luogo in cui essa si dispiega è la società civile, concetto ripreso da Hegel, definita come la sfera della vita sociale
tra la famiglia e lo Stato, composta da chiese, scuola, sindacati, associazioni di imprenditori e associazioni culturali:
organizzazioni a cui l’individuo partecipa in quanto cittadino, attraverso cui le classi dominanti esercitano la propria
egemonia sulla società intera: è nelle stesse istituzioni, però, che questa egemonia può essere contrastata.
Come molti marxisti, Gramsci era piuttosto ostile alla sociologia, che però identificava esclusivamente con il
positivismo. Tuttavia, contrappone alla sociologia positivistica una sociologia dell’azione, nella quale è riconosciuto
un ruolo cruciale al soggetto storico.

9. VIENNA E DINTORNI
INTRODUZIONE
Nel cuore dell’Europa, la Prima Guerra mondiale mise di fronte i paesi che si consideravano i più civili d’Europa.
Cominciava ad essere difficile vedere della modernità solo i lati positivi e ad essere sicuri di qualcosa. D’altra parte, la
cultura aveva cominciato a cambiare già prima dello scoppio della guerra. Tra i centri culturali di maggior rilievo ci
sono Berlino, Praga, Budapest, ma è Vienna la capitale per eccellenza. La trasformazione in corso avviene nel segno
della scoperta della molteplicità delle prospettive possibili a proposito di ogni fenomeno. Viene meno la certezza del
nesso tra le parole e le cose e la plausibilità dell’idea di poter definire la realtà in un modo univoco.

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Il Tractatus logico-philosophicus è un trattato il cui progetto è quello di fornire un impianto logico al linguaggio
ordinario, tale per cui sia possibile individuare e escludere tutte le proposizioni prive di un significato accertabile.
Tale progetto presupponeva però la possibilità di una corrispondenza univoca tra ogni espressione linguistica e il suo
referente nella realtà, presupposto che entra in crisi nel pensiero di Wittgenstein successivo al Tractatus. Nel
linguaggio ordinario, infatti, le parole hanno significati diversi, che dipendono dal contesto, definiti da regole
pratiche: si tratta di un gioco linguistico; significa che quando si parla, si seguono delle regole, altrimenti non si
potrebbe giocare con gli altri; allo stesso tempo, però si possono sospendere queste regole e, soprattutto, gli altri
possono giocare altri giochi. Ciò che ha senso in un sistema di regole (gioco linguistico) non ha necessariamente lo
stesso senso in un altro o può addirittura non averne alcuno. Ciò che dice, ad esempio, un critico d’arte può essere
incomprensibile ad un chimico, sebbene usino quasi lo stesso vocabolario: i contesti diversi delle due professioni, le
regole d’uso delle parole, gli scopi a cui servono fanno sì che i discorsi di ciascuno dei due non siano
immediatamente traducibili in quelli propri dell’altro. Quando a confrontarsi, poi, sono discorsi prodotti in lingue
radicalmente diverse, all’interno di culture dissimili, il problema è lo stesso ma è più grande.
Ciò comporta che il ruolo del linguaggio nella società venga in primo piano, poiché esprime la forma di vita degli
uomini ed è il mezzo attraverso cui la interpretano. Il linguaggio è qualcosa da cui non si può prescindere, perché è la
risorsa per comunicare, ma allo stesso tempo, è il limite che definisce le possibilità di farlo.
Inoltre, un’altra conseguenza è che non è scontato che gli stessi concetti che hanno senso in una cultura siano
adeguati a comprenderne un’altra. L’esito potrebbe essere un relativismo radicale o, in forma più debole, un invito a
rivendicare la pari dignità di ogni gioco linguistico e di ogni cultura.

KARL MANNHEIM
Mannheim nacque a Budapest nel 1893. Si trasferì in Germania e poi a Londra, dove morì nel 1947. Formulò una
sociologia della conoscenza, termine introdotto dal filosofo tedesco Max Scheler, per intendere un’analisi dei
rapporti che sussistono tra i vari tipi di conoscenza e i fattori sociali che determinano la situazione esistenziale degli
uomini. Una prima embrionale analisi era stata avviata da Marx e Durkheim, ma Mannheim la sistematizza.
Il problema cruciale di Mannheim è il relativismo e il primo oggetto della sua riflessione è la compresenza in una
medesima società di visioni politiche concorrenti tra loro. Marx, attraverso il concetto di ideologia, aveva mostrato
come le classi dominanti tendano a descrivere il mondo occultandone le contraddizioni e legittimando così i propri
privilegi. A questo concetto, Mannheim aggiunge quello di utopia, con cui intende la visione del mondo di coloro che,
impegnati nella lotta per rovesciare i rapporti esistenti, non riescono a scorgere nella realtà se non gli elementi che
vogliono negare; come l’ideologia, l’utopia è una parziale deformazione della realtà.
Abbandonando poi la nozione marxiana, Mannheim propone di usare il termine ideologia per intendere che ogni
individuo, in quanto appartenente a un gruppo sociale determinato, tende a concepire la realtà secondo un punto di
vista che esprime gli interessi, la cultura, la sensibilità e le peculiari capacità di quello stesso gruppo. Non si tratta,
dunque, solo della collocazione di classe, ma anche dell’appartenenza ad una nazione, ad un gruppo etnico, ad una
generazione, altrettanto determinanti. Il modo in cui si vede la realtà è dunque connesso alla situazione esistenziale.
Dal problema del relativismo, Mannheim arriva alla proposta teorica del relazionismo, che non afferma che non
esista alcuna verità, bensì che questa sia piuttosto un limite cui si può tendere e l’approssimazione ad esso è tanto
maggiore quanto più si è capaci di prendere atto delle diverse prospettive esistenti e di controllare le tendenze
ideologizzanti in ciascuno di noi. Secondo Mannheim, gli intellettuali costituiscono un gruppo relativamente
svincolato dalle appartenenze sociali, ma è evidente che si tratti più di un ideale indicato piuttosto che della
descrizione di uno stato di fatto.
Attraverso la sua sociologia, Mannheim è il primo a sociologo a prendere atto della crisi dei fondamenti
epistemologici sui quali le scienze sociale sono sorte e cresciute: la sociologia si avvia a diventare una scienza
autoriflessiva.

10. LA SCUOLA DI FRANCOFORTE


INTRODUZIONE
La scuola di Francoforte prende il nome dall’Istituto per la ricerca sociale fondato a Francoforte nel 1923. Tra i
membri più noti, vi sono Horkheimer, Marcuse, Fromm e Benjamin. La formazione di questo gruppo di studiosi non è
omogenea. Il riferimento al marxismo è, almeno all’inizio, un tratto comune, ma non si tratta di marxisti ortodossi. Il
marxismo cui si riferivano era antidogmatico e non determinista; essi revisionano il marxismo rivalutandone le origini

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nel pensiero hegeliano e integrandovi diversi elementi della psicoanalisi freudiana; l’approccio che ne derivò fu una
teoria critica della società dai tratti originali. Dopo la presa del potere in Germania, da parte dei nazionalsocialisti,
l’Istituto fu chiuso per “tendenze ostili allo Stato”; in previsione di ciò, i suoi membri avevano già trasferito i fondi
all’estero e aperto una sede a Ginevra, spostandosi poi negli USA, a New York, dove allargarono i loro interessi allo
studio della società di massa e dell’industria culturale; Horkheimer e Adorno elaborarono una critica radicale della
modernità occidentale, del predominio della razionalità strumentale. Nel 1950 l’Istituto venne riaperto a
Francoforte; la notorietà dei membri crebbe progressivamente, la teoria critica diventa uno dei principali riferimenti
intellettuali per tutti coloro che non intendono riconoscere al marxismo sovietico lo statuto di unico rappresentante
di un’alternativa al sistema capitalistico, ma che non si riconoscono nemmeno nelle tendenze dominanti della
cultura di quest’ultimo. La teoria critica è caratterizzata da un forte intreccio di ricerca sociale, psicoanalisi e filosofia;
non è intesa come una mera osservazione della realtà, è una ricostruzione della genesi storica dei fenomeni sociali
ed una ricorrente esplicitazione delle possibilità di emancipazione.

LE ORIGINI MARXISTE
Nella società posta in essere dal modo di produzione capitalistico, il fine dell’esistenza degli uomini diventa produrre.
La vita degli uomini è un’appendice della produzione. Prenderne atto, riconoscendone la pervasività, ma
conservando anche il sospetto che si tratti di un’assurdità, significa conservare il nucleo del pensiero di Marx: è
questo il nucleo della teoria critica della società. Marx è il primo dei grandi riferimenti della scuola di Francoforte,
che intende rendere esplicite le possibilità rivoluzionarie che si aprono nella fase contemporanea del capitalismo.
Tuttavia, queste possibilità rimangono latenti: nonostante i movimenti operai, la classe operaia sembra aver
abdicato alla vocazione rivoluzionaria che il marxismo le attribuiva. Bisogna quindi scoprire perché la rivoluzione non
avvenga. Ciò comporta necessariamente un rinnovamento della teoria.
Se lo stravolgimento della condizione dell’uomo operata dal capitalismo è così radicale, altrettanto dovrà esserne
l’abolizione. La rivoluzione di cui Marx parlava non dovrà essere solo politica e nemmeno riguardare la sola sfera
della produzione: dovrà essere una rivoluzione totale. Nel corso degli anni trenta, la fiducia marxista dei membri
dell’Istituto nella classe operaia scema drasticamente. L’esperienza del totalitarismo stalinista rende difficile
identificare la rivoluzione di cui parlava Marx con il comunismo. La critica diventa senza soggetto, non intende se
stessa come espressione degli interessi di una classe, ma come un richiamo costante alle possibilità di
emancipazione di cui si conserva il ricordo.

L’INTEGRAZIONE DELLA PSICOANALISI E LE RICERCHE SULLA FAMIGLIA E SULLA PERSONALITA’


Si rivela dunque necessario integrare il marxismo con una teoria capace di rendere conto dei meccanismi della
psiche, di comprendere in che modo si realizzino i meccanismi psichici per i quali è possibile che restino allo stato
latente quelle tensioni sociali che la situazione economica spingerebbe invece al conflitto: bisogna comprendere
l’integrazione della classe operai nel capitalismo; a questo serve la psicologia e in particolare la psicoanalisi.
La prima integrazione del pensiero di Freud con quello di Marx è opera di Fromm, il quale in Studi sull’autorità e la
famiglia, considera la famiglia la cerniera che collega la struttura sociali con la coscienza del singolo; nell’epoca del
tardo capitalismo, la famiglia tende a indebolire la sua capacità di formare individui autoresponsabili e a favorire la
genesi di persone dotate di un carattere autoritario, tipico di chi, reprimendo in sé la tensione a soddisfare i propri
impulsi libidici e non riuscendo a farsi ragione di questa repressione, scarica aggressivamente sugli altri la
frustrazione che accumula. Viene messo a punto il concetto di capro espiatorio: chi ha una personalità autoritaria
tende a sfuggire all’analisi razionale della realtà e anche alla ricerca dei fattori sociali che possono provocare disagio,
teme di criticare il proprio governo e di mettere in discussione il sistema in cui vive e scarica dunque la colpa del
proprio disagio su gruppi minoritari e impotenti, che diventano dunque capri espiatori (meccanismi inconsci).
Marcuse, in Eros e civiltà, aveva osservato che il progresso della civilizzazione ha comportato un forte controllo degli
impulsi libidici, allo scopo di permettere lo sviluppo crescente del dominio degli uomini sulla natura. Con il
capitalismo lo sviluppo delle forze produttive è tale da permettere di ridurre questo controllo e lasciare spazio allo
sviluppo di un’umanità capace di entrale con la natura in un rapporto conciliato: è l’edonismo, che per Marcuse
rimanda alla capacità degli uomini di godere della propria vita e di essere felici entro i limiti che la vita stessa pone,
all’interno di un quadro sociale sgombrato dall’ingiustizia.

LA CRITICA DELLA RAZIONALIZZAZIONE


Il processo di razionalizzazione descritto da Weber viene ricompreso dai membri della scuola di Francoforte come un
processo di pervertimento della ragione, cioè come una riduzione della ragione a intelletto. Gli uomini moderni sono

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sempre più capaci di eseguire calcoli tecnici, ma sempre meno di esercitare capacità critiche in cui si dispiega la
ragione propriamente detta. In Eclisse della ragione, Horkheimer situa il nucleo di questo processo nel passaggio
dall’illuminismo al positivismo. Gli illuministi avevano usato il richiamo alla ragione come strumento per affermare i
principi della libertà, dell’uguaglianza e della tolleranza. Il pensiero positivista invece appiattisce l’idea di ragione sul
modello della ricerca scientifica e tecnologica e la separa radicalmente da tutto ciò che riguarda i valori e i fini. L’idea
della ragione come guida alla ricerca di un mondo più giusto e più libero svanisce, la ragione scompare, resta solo la
razionalità ridotta a criterio formale. Successivamente è criticato anche l’illuminismo, poiché promotore di un
percorso di rischiaramento di quanto trascende la possibilità di una spiegazione razionale. Avviene dunque una certa
rivalutazione del pensiero magico e religioso. Già Horkheimer aveva notato che nei movimenti religiosi popolari si
esprime spesso una carica critica nei confronti delle istituzioni vigenti che rende la religione diversa da quell’oppio
dei popoli a cui il pensiero marxista tradizionali l’aveva ridotta. Ora nel pensiero magico e in quello religioso si
riconosce qualcosa che il disincantato pensiero razionalistico tende a non riconoscere più, e cioè che non tutto è
dominabile con la ragione.
L’illuminismo viene dunque ora inteso come tutta la civiltà occidentale, ricompresa come unico progetto di
razionalizzazione e di padroneggiamento del mondo: si tratta di comprenderlo per dominarlo. Ma nel compimento di
questo progetto, l’uomo si estrania dalla natura stessa, annulla ogni senso della vita che non corrisponda al mero
dominio tecnico sopra di essa. Il cammino del progresso dell’uomo resta indubbiamente un progresso della tecnica,
ma la ragione comprende il mondo solo per trasformarlo in oggetto di dominio; il mondo sociale moderno tende ad
allontanare da sé l’idea stessa della barbarie, ma in realtà l’amministra solo più efficacemente.

L’INDUSTRIA CULTURALE
L’industria culturale corrisponde all’amministrazione dello svago, che mira a fornire ai lavoratori una compensazione
temporanea per i sacrifici cui si sottopongono, ma alla fine ciò che attende loro è sempre la medesima routine
produttiva. L’industria culturale porta la cultura alle masse; sotto questa apparenza, tuttavia, svuota la nozione
stessa di cultura ed è un progetto di manipolazione. La cultura non è più luogo privilegiato dell’elaborazione del
senso e veicolo di aspirazioni ideali che trascendono l’ordine dato, bensì luogo di intrattenimento e meccanismo di
promozione dell’adattamento di ciascuno all’ordine sociale esistente. Quanto alla manipolazione, essa è insita nella
logica della comunicazione di massa, in cui i messaggi sono unidirezionali, non è previsto che gli utenti siano anche
emittenti. La comunicazione di massa p del resto analoga alla produzione di massa: i prodotti culturali vengono
standardizzati e finiscono per somigliarsi, sono equivalenti a denaro. Questo sistema ha la funzione di promuovere
un adattamento generalizzato al sistema sociale e di sostenere il mercato invitando ciascuno al consumo.

CRISI DELL’ESPERIENZA E “SEMICULTURA”


La critica della cultura di massa è stata sviluppata nell’ambito della scuola di Francoforte soprattutto da Löwenthal,
che ne sottolineerà soprattutto la funzione di promuovere la sottomissione del singolo alle gerarchie esistenti:
scaricando nell’immaginario i propri desideri frustrati, il singolo rinuncia a prendere atto nella realtà della divergenza
tra la libertà cui aspira e l’ordine sociale in cui è immerso. Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, Benjamin propone la tesi della perdita di quell’aura di unicità dell’opera d’arte che consegue
alla possibilità della sua riproduzione; la fotografia e il magnetofono permettono a ciascuno di ammirare un dipinto o
di ascoltare una sinfonia senza spostarsi da casa: la fruizione dell’opera in questo modo si allarga, ma nel contempo
si trasforma radicalmente, sebbene c’è da dire che Benjamin non fosse del tutto ostile a queste trasformazioni. Le
stesse idee di originalità e di autenticità cambiano senso: al limite, gli originali spariscono del tutto.
Nel saggio Di alcuni motivi in Baudelaire, invece Benjamin formula la teoria della crisi dell’esperienza nella
modernità, data innanzitutto dal fatto che le condizioni della vita moderna ci costringono a trattenere le impressioni
ai margini della nostra vita psichica: le padroneggiamo intellettualmente ma non le lasciamo sedimentare nel
profondo. Ciò che è trattato solo in modo intellettuale è sterilizzato, non può più essere elaborato dalla memoria.
L’esperienza in senso proprio è una sorta di tradizione che il soggetto costruisce entro se stesso: è un accumulo e
una ricorrente rivisitazione dei materiali della sua vita, è l’espressione di una continuità del soggetto che diventa
capace di raccontare a se stesso la propria storia. La sterilizzazione delle impressioni favorita dalla vita moderna
corrisponde all’incapacità di percepirsi come dotati di una continuità interiore: i materiali della nostra esistenza
rimangono frammenti slegati di un vissuto che non riesce più a farsi storia. Anche nelle attività produttive, la
crescente parcellizzazione delle mansioni fa sì che il soggetto non vi possa percepire altro che una mera successione
di frammenti di attività che si ripetono sempre uguali a se stessi: l’operaio non diventa più esperto, dalla ripetizione
degli stessi gesti non impara nulla di più che l’abilità a trasformarsi in automa.

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Quanto alla cultura nel suo complesso, la crisi dell’esperienza corrisponde ad una preferenza crescente per le
informazioni a scapito di forme di comunicazione più antiche, come la narrazione. Il motivo del tramonto della
capacità di narrare non sta solo nel carattere frettoloso della vita moderna, che sottrae tempo, quanto nella
difficoltà di porsi di fronte alla vita come qualcosa che abbia una trama. Anche la vita stessa si è trasformata in una
serie di stimoli slegati tra loro, informazioni immediatamente afferrabili ma incomponibili in un insieme.
In un saggio degli anni cinquanta, Adorno ritornerà su questo tema parlando della cultura contemporanea come di
una semicultura, una cultura che ha perduto le sue funzioni.

ALCUNE OSSERVAZIONI
La scuola di Francoforte è molto sospettosa nei confronti della sociologia che però identifica esclusivamente con
quella positivistica, la quale assume la realtà come un insieme di dati che si tratterebbe di osservare e di registrare.
Essa può essere qualcosa di più solo se pervasa dallo spirito della critica. La scienza sociale è intrisa di etica. La
separazione della scienza dall’etica corrisponde alla negazione della responsabilità che pensare comporta;
ciononostante l’organizzazione delle scienze nelle università sembra fondata sull’idea che pensare sia antiscientifico
– scrive Adorno. I lavori della scuola di Francoforte sono stati sottoposti a molte critiche per l’atteggiamento elitario
e il soggettivismo, per il vicolo cieco in cui si collocano a proposito della plausibilità di una pratica politica concreta.
Un’altra critica riguarda il potere eccessivo attribuito all’industria culturale e alle comunicazioni di massa.
Il limite vero dei discorsi dei francofortesi è che le loro analisi spesso impediscono di vedere la complessa ricchezza e
le potenzialità della cultura popolare, non sempre e solo riducibile alla nozione di una cultura di massa colonizzata.

JÜRGEN HABERMAS
L’autore principale della cosiddetta seconda generazione della scuola è Habermas, noto grazie a Storia e critica
dell’opinione pubblica (1962), un libro riguardante il concetto di sfera pubblica, che è uno spazio di discorsi e di
pratiche discorsive pubblicamente accessibili. Non si riferisce a ciò che è pubblico in senso istituzionale, bensì a uno
spazio in cui sono i privati cittadini a incontrarsi, a informarsi e a discutere di ciò che li concerne collettivamente,
liberamente, razionalmente e tra pari, affiancando e controllando in tal modo le azioni dei propri governi. Nella sfera
pubblica si forma l’opinione pubblica – non come somma delle opinioni private ma come risultato di discussioni
aperte, razionali e informate – e in quanto tale è cruciale per il funzionamento di una società democratica.
Questo spazio critico è sorto nel Settecento grazie alla borghesia nei circoli e nei caffè, però lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione di massa lo ha trasformato, rendendola invasa da interessi economici e politici, che esercitano il
proprio controllo e colonizzano, secondo Habermas, la sfera pubblica che perde le sue caratteristiche.
Il pensiero di Habermas nella sua fase seguente si allontana molto da quello degli autori della prima scuola di
Francoforte, tiene conto dei risultati delle ricerche di molte correnti scientifiche. Basandosi soprattutto sull’opera di
studiosi che si ispirano a Wittgenstein, riconosce che gli uomini sono sempre legati gli uni agli altri dalla ricerca di
una comprensione reciproca mediante la lingua. Quest’assunzione lo conduce a una critica del riduzionismo in cui
sarebbe caduto il marxismo; la società non può essere analizzata basandosi esclusivamente sulla dimensione del
lavoro: a fianco delle attività produttive vanno considerate le pratiche dell’interazione mediate dal linguaggio.
Habermas associa così al lavoro e all’interazione linguistica due diverse forme di razionalità, rispettivamente
strumentale e comunicativa. La prima si evolve accumulando saperi di tipo tecnico, la seconda attraverso
l’emancipazione progressiva ai vincoli che impediscono la comunicazione libera, autoconsapevole e responsabile tra
gli uomini. La società moderna ha prodotto le condizioni per lo sviluppo delle forme dell’agire orientato alla
comprensione reciproca, ma nel contempo ha bloccato queste potenzialità tramite un’estensione dell’agire
strumentale e attraverso la manipolazione dei processi comunicativi da parte dei poteri politici, economici e militari.

NORBERT ELIAS
Non appartiene alla scuola di Francoforte, ma vi entrò in contatto e ne presenta affinità, almeno per l’attenzione
rivolta al pensiero di Freud. In Processo di civilizzazione, ispirandosi a Weber, Simmel e Freud, intende ricostruire i
processi che hanno dato luogo alla formazione della configurazione sociale moderna. Il nucleo fondamentale del suo
pensiero riguarda i rapporti tra civilizzazione e violenza. La formazione degli Stati dinastici realizzatasi in Europa alla
fine del Medioevo corrisponde alla creazione degli Stati stessi come detentori del monopolio della violenza legittima.
Dopo la fase delle guerre di religione, si assiste ad una progressiva pacificazione della vita sociale. La violenza
estromessa dalla vita esteriore, corrisponde però ad una sua interiorizzazione: gli individui devono imparare a
controllare i propri impulsi come mai prima. Sedimentano le “buone maniere” moderne e le passioni diventano
oggetto di disgusto, la soglia di pudore si innalza. Questo processo ha molte facce: in quanto esseri civilizzati, noi

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siamo capaci oggi di identificarci con gli altri molto più chiaramente dei nostri antenati (il dolore altrui non
costituisce più uno spettacolo come nella Roma dei circhi o durante l’inquisizione). Contemporaneamente, tuttavia,
tendiamo ad allontanare dalla coscienza molti dei tratti più naturali della nostra esistenza. La morte è socialmente
rimossa e ciò corrisponde anche ad un isolamento del moribondo. La stessa deritualizzazione della vita sociale
moderna aumenta le difficoltà del morente e dei suoi cari, perché abbandona alla creatività individuale la messa in
atto dei gesti necessari all’elaborazione del lutto, cioè alla gestione della crisi di senso che inevitabilmente
accompagna la percezione della mortalità.

11. LA SOCIOLOGIA AMERICANA NEGLI ANNI DELLO STRUTTURAL-FUNZIONALISMO


LA SOCIOLOGIA AMERICANA DOPO CHICAGO
Negli anni venti e trenta, la sociologia americana era stata caratterizzata dall’impronta della scuola di Chicago. Sul
piano della ricerca empirica ha prodotto alcuni studi di comunità di grande rilievo, di cui il più celebre è Middletown,
scritto dai coniugi Lynd; si concentra su una cittadina americana di medie dimensioni analizzando stratificazione
sociale, stili di vita e comportamenti sociali con una pluralità di metodi d’indagine; pubblicarono anche un seguito
alla loro ricerca: Ritorno a Middletown.
Fu studiato anche il lavoro e le organizzazioni, grazie anche ai finanziamenti di diverse imprese, ricercando i fattori
che influenzavano l’efficienza dei lavoratori. I risultati evidenziarono l’importanza delle relazioni umane all’interno di
un’azienda per favorire la buona produttività, mostrarono come al fianco di ogni organizzazione formale tenda a
svilupparsene un’altra informale del personale, in cui si deposita gran parte del sapere dell’azienda e che rende
conto dell’efficienza reale e del coordinamento concreto delle mansioni.
Le tecniche di ricerca quantitative conobbero sviluppi notevolissimi. Il positivismo strumentale di Ogburn concepiva
la sociologia scientifica come la messa a punto di strumenti di misurazione sofisticati, capaci di affrontare le variabili
sociali con procedure di tipo statistico. Queste tecniche si arricchiscono di diverse innovazioni e trovano ampie
applicazioni nelle ricerche di mercato; uno degli artefici principali di questo sviluppo fu Lazarsfeld, che fu anche uno
dei principali rappresentanti della ricerca scientifica sulle comunicazioni di massa e sull’opinione pubblica, tema già
affrontato abbastanza precocemente negli USA, soprattutto a causa dell’utilizzo di mezzi di propaganda nelle
campagne presidenziali. Negli USA si è infatti realizzato un intreccio fecondo tra scienze sociali e istituzioni politiche,
economiche e anche militari: The American Soldier è uno studio su motivazioni, atteggiamenti e comportamenti dei
soldati e dei reduci; an American Dilemma è invece la prima grande ricerca sul problema del razzismo dei bianchi nei
confronti dei neri, rimanda al conflitto presente nella società americana tra i valori universalistici affermatisi e i
pregiudizi che discriminano una categoria particolare di cittadini; su di un versante diverso, Mills (uno degli
esponenti della sociologia critica) pubblica Colletti bianchi, uno dei primi studi sui nuovi ceti medi in America; l’altro
suo celebre libro, L’élite del potere è uno studio inteso a mostrare come la società americana sia dominata da
un’élite ristretta di persone (vedi teoria élite di Pareto, Mosca, Michels).

TALCOTT PARSONS
Parsons nacque a Colorado Springs nel 1902, morì nel 1979. Insegnò ad Harvard ed esercitò per trent’anni
un’influenza enorme sulla sociologia americana e su gran parte di quella europea successiva alla seconda guerra
mondiale. Fra le sue opere principali vi sono La struttura dell’azione sociale, Il sistema sociale, Famiglia e
socializzazione e Sistemi di società. L’approccio di Parsons viene chiamato “struttural-funzionalista”, ma più
adeguatamente sistemico. Il riferimento alla struttura compreso nello struttural-funzionalismo, in ogni caso, non va
inteso nel senso della struttura marxiana, piuttosto la struttura di una società intesa come insieme delle relazioni che
collegano tra loro i diversi elementi della società, in modo tale che il significato di ciascuno di questi elementi non è
comprensibile isolatamente, poiché è determinato dai rapporti che intrattiene con gli altri e dalla funzione che svolge
per l’insieme. Il problema da cui Parsons muove è comprendere in cosa consista l’azione degli individui,
vedere come l’azione si inserisca in un quadro di vincoli sovraindividuale.

AZIONE SOCIALE E SISTEMA


In La struttura dell’azione sociale Parsons propone di considerare l’azione (l’atto) come l’unità elementare di cui si
occupa la sociologia. Bisogna individuare un attore, un fine, una situazione e un orientamento normativo. La sua
importanza sta nel tentativo di rendere conto della relativa libertà di scelta che l’attore ha nei confronti della
situazione in cui è immerso e nell’accentuazione del peso che hanno le norme nel vincolare e governare l’azione. Le
norme sono il nesso che collega la personalità di ogni individuo all’insieme sociale di cui è parte. Ognuno di noi agisce

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riconduce. L’oggetto della sociologia della scienza è l’interdipendenza dinamica tra la scienza e la circostante
struttura sociale. L’aspetto più evidente della loro relazione è l’esistenza di un insieme di domande che –
esplicitamente o implicitamente – la società pone alla scienza: la scelta dei temi di cui gli scienziati si occupano è in
gran parte definita dagli interessi del mondo circostante. Inoltre, l’idea che la verità sia qualcosa di accertabile
razionalmente mediante l’osservazione sistematica e l’esperimento è l’idea senza cui la scienza stessa non
esisterebbe, ma non nasce dalla scienza, bensì all’interno della cultura in cui è inserita.
La scienza è dunque un’istituzione sociale, trae il proprio significato dalla cultura della società in cui è immersa. Ciò
non vuol dire che non abbia una propria autonomia, anzi spesso si verificano tensioni tra la logica propria della
comunità scientifica e il resto della società. La logica della comunità scientifica si basa su una serie di procedure
caratteristiche ma anche un ethos specifico, che attribuisce un valore chiave al dubbio sistematico, comporta che
ogni affermazione sia verificabile intersoggettivamente e dunque impone il dialogo aperto tra gli scienziati, implica la
disponibilità universale dei risultati di ogni ricerca e pretende che ogni scienziato sia valutato in relazione esclusiva ai
meriti del proprio lavoro. Conformandosi a questi principi, la comunità scientifica può entrare in collisione con la
società; ciò avviene in tutte le dittature ma anche all’interno di una società democratica in cui prevalgono interessi
particolaristici. Del resto, non è nemmeno detto che tutta la comunità scientifica si conformi sempre al suo ethos.

12. VITA QUOTIDIANA E COSTRUZIONE SOCIALE DELLA REALTÀ


IL PANORAMA GLOBALE
Nonostante le due guerre mondiali, la nozione di progresso non ha perso il suo fascino. Sempre più identificato con
lo sviluppo delle tecnologie, il progresso è ciò che porta il benessere. Le disuguaglianze permangono, sono
parzialmente compensate dallo sviluppo di sistemi assistenziali resi possibili dalla cresciuta ricchezza sociale. Le
politiche economiche di stampo keynesiano sostengono l’economia ma suggeriscono anche un notevole impegno
degli Stati sul fronte dei servizi sociali, imposto anche dal forte peso dei sindacati e dei partiti socialdemocratici. Si
erge inoltre il blocco dei paesi guidati dall’URSS e avviene un processo di decolonizzazione del Terzo mondo, con
difficoltà sociali ed economiche inaspettate. Le scienze sociale sono ormai pienamente istituzionalizzare in tutti i
paesi occidentali e in molti dei paesi in via di sviluppo. La sociologia cresce soprattutto nell’analisi delle
problematiche poste dai nuovi sviluppi della società. Le trasformazioni del lavoro, gli effetti dell’automazione e i
problemi della società industriale così come la stratificazione sociale sono oggetto di grande attenzione.
Apparentemente vi è una grande mobilità sociale: è però una mobilità che non diminuisce le disuguaglianze, le
gerarchie rimangono marcate e i destini restano seganti in gran parte dall’origine familiare di ognuno: si tratta di
temi affrontati un po’ in tutti i paesi. Tuttavia, i momenti di innovazione teorica più significativi sono da individuare
negli Stati Uniti. È innanzitutto un mutamento morale: i movimenti dei neri e degli studenti, le mobilitazioni per i
diritti civili e quelle contro la guerra nel Vietnam, un disincanto nei confronti dell’american way of life, una nuova
sensibilità per le diseguaglianze e per la povertà.

ALFRED SCHUTZ E LA SOCIOLOGIA FENOMENOLOGICA


La sociologia fenomenologica muove da una fusione della sociologia weberiana con la filosofia fenomenologica di
Husserl. Da Weber trae l’interesse per azione, senso e comprensione. Da Husserl soprattutto l’idea stessa di
fenomenologia, intesa come studio di ciò che appare. L’idea fondamentale della fenomenologia è che il soggetto non
è semplicemente nel mondo, ma costituisce il mondo: inconoscibile nella sua realtà ultima, questo si mostra alla
coscienza unicamente all’interno delle categorie in cui essa lo inquadra.
Schutz usa la fenomenologia di Husserl per una discussione dei concetti fondamentali di Weber e mostra che quella
costruzione di tipi ideali che Weber intendeva come il metodo proprio dello scienziato sociale è in realtà qualcosa
che noi tutti facciamo costantemente. Tipizzare significa compiere un’astrazione, ridurre la complessità del reale a
un insieme di tipi, i quali sono delle rappresentazioni della realtà, ne costituiscono una classificazione. Ciascuno
impara a tipizzare la realtà nel corso dei suoi processi di socializzazione; l’utilità dei tipi consiste esattamente nel
fatto che siano condivisi con gli altri, la loro funzione è permettere l’interazione sociale. Ogni sfera della vita sociale
comporta la costruzione di tipologie riguardanti i fenomeni che vi rientrano. La sfera che a Schutz interessa di più è
quella della vita quotidiana. Al suo interno, noi sospendiamo il dubbio che le cose possano essere diverse da come ci
appaiono in relazione alle nostre routine. Nel mondo quotidiano noi agiamo dando per scontato tutto ciò in cui
siamo immersi.

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IL SENSO COMUNE
Il pensiero in cui siamo immersi nel quotidiano è il senso comune, il pensiero dell’ovvio: funziona come una sorta di
automatismo che preserva ciascuno dal dover continuamente risolvere di nuovo problemi che si sono già affacciati e
hanno già trovato una risposta soddisfacente. In un saggio dedicato alla figura dello straniero, Schutz ha mostrato
come a volte si sia costretti ad affrontare problemi per i quali affidarsi al senso comune non è sufficiente. Lo
straniero è qualcuno che si trova in una situazione in cui niente è più ovvio, il quadro di cose che egli dava per
scontate all’interno del gruppo da cui proviene non vale più nel nuovo mondo cui accede. Ciò comporta una crisi: lo
straniero deve abbandonare un senso comune e imparare a condividerne un altro. Nelle situazioni di crisi, il senso
comune non tiene. Ma, nelle situazioni normali, siamo certi che quello che il senso comune ci fa dare per scontato
sia vero solo perché ciascuno condivide questo pensiero.
Il senso comune funziona come un sistema condiviso di credenze, è quello che ciascuno crede che tutti gli altri
credano. È il risultato di una sorta di accordo tacito, non esplicito, che si basa in parte sulla tradizione di ogni gruppo
sociale e in parte è costantemente riprodotto e confermato dall’attività di ciascuno. Ma se il senso comune è un
insieme di credenze, lo stesso vale per la realtà: ciò che intendiamo per realtà nella nostra esistenza è ciò che noi
crediamo reale. La realtà – cioè il senso della realtà, la definizione di ciò in cui la realtà consiste – è una costruzione
sociale. Reale è ciò che intersoggettivamente viene chiamato reale.

IL PENSIERO QUOTIDIANO E LA SCIENZA


La differenza tra il pensiero delle scienze sociali e quello quotidiano riguarda innanzitutto i criteri con cui nei due casi
è costruito il sapere: mentre il pensiero quotidiano è orientato in senso pragmatico e non teme né l’incoerenza né
l’approssimazione, quello scientifico cerca coerenza logica e si interroga sistematicamente. Inoltre, le tipizzazioni
delle scienze sociale sono tipi di tipi, cioè costruzioni idealtipiche edificate su costruzioni che i soggetti già operano
nel corso della propria vita ordinaria. Tra scienza sociale e pensiero quotidiano non vi è dunque tanto una differenza
di sostanza, quanto di metodo e di grado.

PETER BERGER E THOMAS LUCKMANN: LA REALTÀ COME COSTRUZIONE SOCIALE


i due continuatori più noti dell’opera di Schutz sono Berger e Luckmann. Luckmann si è interessato a questioni
riguardanti la comunicazione e l’intersoggettività, Berger ha sviluppato col tempo un’importante serie di ricerche
sulla modernizzazione e sui rapporti tra cultura ed economia. Il libro che ha reso entrambi famosi è un lavoro a
quattro mani: La realtà come costruzione sociale (1966). L’argomentazione che vi è contenuta prende l’avvio da tre
mosse teoriche: 1) una lettura del pensiero di Schutz come una sociologia della conoscenza quotidiana, 2)
l’affermazione che la sociologia della conoscenza quotidiana è la pietra fondante dell’intero edificio della sociologia,
3) la tesi secondo cui questo tipo di approccio consente di combinare le due prospettive fondamentali della
sociologia, cioè quella durkheimiana riguardante l’apparente oggettività dei fatti sociali e quella weberiana
riguardante la priorità del senso che gli individui attribuiscono soggettivamente all’agire.
Dopo le mosse d’apertura, l’argomentazione comporta due momenti distinti: da un lato si tratta di vedere come la
realtà sia prodotta dagli individui in interazione tra loro come una realtà oggettiva; dall’altro come questa realtà sia
interiorizzata soggettivamente dagli stessi individui. Si tratta dunque dell’analisi dei processi di oggettivazione e
socializzazione.
La trasformazione dell’azione in abitudine è il primo passo nel cammino dell’oggettivazione: il comportamento
soggettivo si solidifica, acquista una sua propria inerzia. Il secondo passo è la routine, un corso d’azione che si ripete,
un’abitudine condivisa il cui significato viene dato per scontato. Il terzo passo è l’istituzione: le routine già costituite
non sono più l’esito di un processo, ma qualcosa di già esistente di per sé. In ogni caso, le forme della vita sociale
hanno una propria esistenza solo nel senso che sono il prodotto dell’interazione di molti, non che siano autonome e
immutabili, altrimenti di trapassa nella reificazione, una perversione dell’oggettivazione.
Per quanto riguarda la socializzazione, quella primaria corrisponde alla prima acquisizione di ciò che è necessario
sapere per muoverci in questo mondo; ciò che impareremo lo assumeremo come naturale, il senso comune di coloro
fra i quali cresciamo diventa anche per noi naturale. La socializzazione secondaria (corrispondente ai successivi
passaggi della nostra vita e all’ingresso in mondi sociali specifici e circoscritti) articola questo bagaglio iniziale senza –
di norma – mettere in discussione il carattere di fondamento naturale del nostro senso della realtà.

L’ETNOMETODOLOGIA
Schutz è anche una delle principali fonti di ispirazione dell’etnometodologia, la corrente di pensiero sociologico che
fa capo a Garfinkel, il quale conia il termine per intendere lo studio dei modi con i quali i soggetti situati in contesti

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culturali di volta in volta diversi (etnici o locali) danno senso alla propria esperienza e cooperano alla costruzione
dell’universo sociale in cui interagiscono. Secondo Schutz, il pensiero di senso comune sospende ogni dubbio. Ma sei
il dubbio è sospeso, significa che da qualche parte esiste: il pensiero quotidiano ne è dunque costantemente
minacciato. Garfinkel procede da qui in due direzioni: da un lato vuole mostrare come davvero il dubbio sia sempre
in agguato, dall’altro analizzare in quali modi esso è di volta in volta continuamente fugato.
Per quanto riguarda il primo punto, emerge che la spia della paura che il subbio riemerga è il disagio, è la percezione
di una minaccia all’ordine del nostro universo, la quale è sempre vicina.
Quanto al fugare i dubbi, Garfinkel osserva che se riusciamo a comunicare, a intenderci e ad interagire è perché ad
un certo punto decidiamo che ci siamo spiegati abbastanza, facciamo come se ci capissimo, si tratta di un accordo
tacito, ricorrente e necessario a permettere l’interazione, che viene stabilito di volta in volta in ogni situazione; è il
risultato di procedure contingenti. Le norme, del resto, per Garfinkel non esistono. Le regole, anche quando
sembrano dichiarate senza alcuna possibile ambiguità, vanno sapute usare: come usarle è qualcosa che varia da
contesto a contesto e non lo si può dire a priori. La relativa stabilità della realtà e delle interazioni sociali non è
garantita da nessun sistema di regole universalizzabili. La realtà e le sue norme apparenti sono per Garfinkel una
costruzione che si riproduce costantemente, piuttosto precariamente. Il compito dell’etnometodologia è la
descrizione dei modi in cui questa costruzione è riprodotta.

L’INTERAZIONISMO SIMBOLICO E LA TEORIA DELL’ETICHETTAMENTO


Il termine interazionismo simbolico indica un approccio teorica che si concentra sull’interazione sul suo carattere
simbolicamente mediato (comprensibile cioè solo attraverso il riferimento all’interpretazione che gli attori stessi in
cui sono coinvolti). L’approccio teorico e gli interessi di ricerca dell’interazionismo simbolico tendono a concentrarsi
soprattutto sui processi di formazione dell’identità degli individui. Come Mead indicava, l’identità è il prodotto di un
processo autoriflessivo nel quale il soggetto si confronta con le definizioni di se stesso che trova presenti nei discorsi
degli altri, che interiorizza ed elabora. L’interazionismo simbolico sviluppa questa prospettiva enfatizzando il ruolo
che le parole che usiamo quotidianamente hanno nel dar forma alle nostre realtà e nell’influenzare la percezione che
abbiamo di noi stessi e del nostro comportamento.
Per questa via, l’interazionismo simbolico perviene alla “teoria dell’etichettamento”. L’idea chiave è che la devianza
sia un processo di interpretazione di determinati comportamenti: il nome che si attribuisce in certe situazioni a chi si
comporta in un certo modo; il deviante è uno a cui questa etichetta è stata applicata con successo (un outsider); un
comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta così. La devianza è più un’interpretazione del
comportamento che il comportamento in sé. Questo discorso implica che il processo di costruzione sociale della
realtà va inteso essenzialmente come un processo di interpretazione della realtà stessa e che questo processo ha
degli aspetti conflittuali che mettono in gioco il potere che i diversi soggetti hanno di imporre la propria
interpretazione. Inoltre, l’etichetta è anche la proiezione di un’aspettativa e la costruzione di ciò che pretende di
descrivere. Quando un’etichetta è stata applicata con efficacia, trasforma la vita di chi è stato etichettato perché dà
forma ad un sistema di aspettative nei suoi confronti: trasforma la sua identità – egli è e sarà per tutti colui che viene
detto che sia. In genere, l’etichetta viene interiorizzata. A posteriori, può quindi diventare veritiera.

ERVING GOFFMAN
L’opera di Erving Goffman è uno dei contributi più interessanti della sociologia nordamericana, allo studio della via
quotidiana. Il suo approccio è detto drammaturgico; la parola attore – che i sociologi usano per designare chi compie
un’azione- ha un doppio senso: attore è anche chi recita, il teatro è per lui la metafora che permette di capire come
ciascuno di noi agisca nella vita quotidiana: sulla ribalta l’attore recita una parte si sforza di produrre nel pubblico
certe impressioni; nel retroscena abbandona il personaggio che recitava sul palco. Il retroscena è la vita privata, i
momenti di abbandono, quelli in cui si dimentica lo sforzo di presentarsi in pubblico o si preparano le nuove
performance. Nel teatro si finge, ma tra l’attore e gli spettatori si stabilisce un accordo che inquadra ciò che sta
avvenendo: sappiamo tutti che siamo a teatro. Nella vita quotidiana avviene qualcosa di simile, produciamo un
frame cioè incorniciamo le situazioni in cui siamo coinvolti definendo di che cosa si tratta. I messaggi attraverso cui
definiamo le situazioni sono dei metamessaggi: non stanno nel contenuto di ciò che diciamo ma al lato, nella
comunicazione non verbale. Intendiamo e facciamo intendere i metamessaggi grazie ad un accordo implicito
condiviso con gli altri riguardo alla definizione della situazione. Senza di ciò l’interazione è impossibile; non si tratta
di norme fissate una volta per tutte, è qualcosa che viene rigenerato costantemente. L’importanza e la fragilità di
questi accordi sono mostrate quando la scena si incrina: quando qualcuno fa qualcosa di imbarazzante, quando ciò
che si vorrebbe dare per scontato non lo è più. In questi casi si cerca di ripristinare una situazione normale.

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L’ordine sociale è garantito secondo Goffman dalla reciproca accettazione di un’illusione. Il soggetto stesso non è
un’entità che governa le interazioni ma l’insieme dei personaggi che ciascuno è in grado di mettere in scena.
Naturalmente è sempre possibile allontanarsi dal personaggio, ma anche questa distanza non porta alla scoperta di
un’entità riconoscibile in modo autonomo: qualunque percezione di sé dipende da immagini che hanno senso solo in
riferimento a una potenziale messa in scena davanti all’altro.
In istituzioni totali, come ospedali psichiatrici, conventi di clausura, campi di concentramento o carceri, chi è
internato è segregato dal resto del mondo e la percezione che ha di sé è sottoposta a vincoli violenti, l’identità è
disgregata e poi riorganizzata secondo definizioni imposte dall’istituzione stessa.

LE TEORIE DELLA VITA QUOTIDIANA E IL COSTRUZIONISMO SOCIALE: ALCUNE OSSERVAZIONI


1) le teorie della vita quotidiana hanno rinnovato il panorama della sociologia, rendendo la vita quotidiana stessa il
terreno della riproduzione della società. La conseguenza di questa idea non è di negare l’importanza e la relativa
autonomia delle strutture sociali, delle norme o della cultura, ma di spiegare che se tutto ciò esiste è perché gli attori
lo riproducono.
2) la riproduzione della società viene intesa ora come una questione di pratiche non disgiunte da
interpretazioni essenziali per comprendere ogni fenomeno sociale, la sociologia non può non tenerne conto.

LA SCUOLA DI PALO ALTO


Il nome di questa scuola deriva da quello della cittadina della California in cui ha sede l’istituto di ricerca in cui questa
scuola si è costituita nei primi anni ’60. L’autore più importante è Bateson, in ogni caso si tratta di studiosi dalla
formazione pluridisciplinare, i cui contributi sono legati al campo della psicoterapia, ma sono rilevanti anche per la
sociologia poiché la loro spiegazione delle malattie mentali viene ricondotta ai contesti relazionali in cui gli individui
si muovono. L’interesse per le malattie mentali si esprime in un’attenzione per tutti i processi comunicativi. I temi
della comunicazione e della metacomunicazione trovano applicazione nello studio delle dinamiche familiari. Secondo
l’approccio di Palo Alto, la famiglia è un sistema: L’identità di ciascuno dei suoi membri si costituisce e si mantiene
nelle interazioni comunicative che si stabiliscono fra i suoi componenti. Gli studiosi di questa scuola rintracciano la
genesi delle malattie mentali in queste dinamiche comunicative e metacomunicative familiari. In particolare, la
schizofrenia (che comporta una scissione della personalità) sembra spiegabile in riferimento allo stabilirsi di una
comunicazione patogena nella famiglia, in cui almeno uno dei membri rivolge sistematicamente a un altro messaggi
contradditori: è il cosiddetto doppio legame. Comunicazioni contradditorie di questo tipo si verificano molto spesso
nella nostra vita, ma ciò che produce conseguenze patologiche è che la comunicazione avvenga entro un gruppo
chiuso in cui i membri sono vincolati da un rapporto affettivo. L’unica soluzione in questo caso è elaborare
comportamenti altrettanto sconnessi, sviluppando disturbi della personalità.

SOCIETÀ E COMUNICAZIONE
Con gli anni ’60 le tematiche della comunicazione hanno acquistato un ruolo sempre più rilevante nel pensiero
sociale, anche per quanto riguarda l’analisi dei mezzi di comunicazione e del loro impatto sulla società. Se ne
occuparono in particolare due studiosi canadesi: Innis e McLuhan.
Innis prese la nozione dell’importanza sociale dei mezzi di comunicazione da Park e avanzò l’idea che le epoche della
storia dell’umanità siano caratterizzate non da una successione di modi di produzione ma di comunicazione, basati
sui mezzi diversi, che favoriscono di volta in volta certe strutture sociali piuttosto che altre; ne sono influenzati le
forme della produzione del commercio, i modi di gestire il potere, la percezione dello spazio e del tempo e la
mentalità.
McLuhan tenta di descrivere gli effetti che il passaggio da una cultura basata sulla stampa ad una basata sui media
audiovisivi hanno sull’intera struttura della percezione, sulla sensibilità e sulla mentalità degli uomini
contemporanei. Invece di guardare esclusivamente ai contenuti dei messaggi che sono veicolati dai diversi media, si
tratta di guardare ai caratteri del mezzo in sé, non più mero veicolo ma con degli effetti che sono autonomi rispetto
al contenuto trasmesso. McLuhan conia anche l’espressione “villaggio globale”, con cui intende la forza con cui i
media contemporanei mettono in contatto quotidianamente le parti più distanti del globo, configurandole come un
villaggio.

13. VERSO LA SOCIOLOGIA CONTEMPORANEA


IL SESSANTOTTO E LA SCOPERTA DEI MOVIMENTI SOCIALI
Il Sessantotto fu un movimento antiautoritario di studenti e di giovani, internazionale, articolato e differenziato

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