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1.

Introduzione
La sociologia nasce come risultato dell’incontro e dell’intreccio di
molteplici fenomeni sia sociali sia scientifici, che hanno dato modo ai
ricercatori dell’epoca di analizzare e studiare tali fenomeni in maniera
empirica, quindi come delle leggi naturali esaminate con strumenti e
misurazioni razionali. Qui si basa il concetto successivamente
esposto da Comte, che definiva la sociologia una scienza e che come
tale doveva rispondere alle domande sorte a seguito dei fenomeni
sociali, con lo stesso la sociologia verrà addirittura definita una
“religione”.
Innanzitutto, dobbiamo evidenziare le rivoluzioni sia politiche sia
scientifiche: le prime furono un insieme di movimenti di massa che
perpetuarono e ottennero uno sconvolgimento dell’ordine sociale al
fine di poter garantire maggiori diritti e possibilità, il cui punto di
origine lo riconosciamo nella Rivoluzione Francese del 1789. Seppur
tali movimenti portarono effettivamente dei cambiamenti positivi, i
ricercatori hanno esaminato con maggior attenzione gli effetti
negativi prodotti da tali moti, in particolar modo il disordine e il caos;
le seconde furono sconvolgimenti tecnico-scientifici che produssero
importanti e profondi cambiamenti nella società del tempo, e tali
eventi cominciarono a prodursi sin dalla prima rivoluzione industriale.
La conseguente industrializzazione e urbanizzazione determinarono
dei cambiamenti comportamentali e abitudinari nelle popolazioni
dell’epoca e ciò fu oggetto di analisi delle ricerche condotte dagli
studiosi.
Un altro fenomeno di rilievo nella nascita della sociologia, è il
colonialismo: ossia, un fenomeno secondo il quale “una Nazione e un
popolo sono assoggettati per via diretta, sia economicamente sia
politicamente, da un altro Stato sovrano estero”. Questo fenomeno
produsse sia degli effettivi spostamenti che dei cambiamenti sociali
assieme a studi evoluzionistici (ricordiamo in particolare Charles
Darwin e il suo darwinismo) e sociali che hanno influenzato
profondamente la politica oltre che la società, di fatto è qui che
poniamo l’origine del razzismo e della politica di potenza.
Come risultato dell’industrializzazione sorse il capitalismo: il
fenomeno economico di produzione e accumulo di capitale, ovvero il
denaro. L’industrializzazione determinò lo spostamento di ingenti
masse di popolazione dalle campagne alle città, dove stavano
sorgendo le prime fabbriche con nuove opportunità di lavoro. In molti
casi, però, tale situazione permetteva ai proprietari delle fabbriche di
ammontare maggior denaro facendo percepire ai lavoratori una paga
più che esigua. In contrapposizione al capitalismo, nacque il
socialismo: un movimento di natura sociale volto a contrastare gli
effetti negativi e alienatori del capitalismo al fine di risolvere le
problematiche sociali e migliorare le condizioni di vita dei ceti meno
abbienti. Entrambi i movimenti furono oggetto di ricerca per molti
studiosi (ricordiamo Weber e Marx) e determinarono la creazione di
molteplici idee, anche in contrasto fra loro, ma soprattutto il
mutamento sempre costante della società nel corso del tempo.
Infine dobbiamo tener conto dell’influenza dell’Illuminismo, della
religione e della scienza: l’Illuminismo, corrente filosofica di fine
XVIII secolo con principio fondamentale la ragione e la relativa
razionalità. Secondo i filosofi illuministi, era possibile studiare i
fenomeni sociali e quindi la società, attraverso una concezione
razionale e logica al fine di comprenderne la natura e i meccanismi,
in modo da poter rielaborare tali fenomeni oppure terminarli e
sostituirli con dei nuovi, per costruire una “nuova società” più
razionale. A tale corrente si contrapposero, in primo luogo, i cattolici
ma in senso generale tutti i religiosi che andarono a costituire la
corrente opposta e più conservatrice, all’interno della quale si
credeva che l’irrazionalità e il potere tradizionale della società fossero
le fondamenta di un mondo più stabile e sicuro; inoltre pensavano
che essendo la società un costrutto di Dio, essa non poteva essere
contraddetta o modificata dall’uomo poiché questo era inferiore alla
divinità. Sia l’Illuminismo sia la corrente conservatrice influenzarono
in modo incisivo gli studiosi della società del tempo, creando una
sociologia come frutto della reazione ad entrambe le tendenze.
Dobbiamo includere nel processo di formazione della sociologia
anche la scienza, dato il quantitativo di strumenti sia fisici sia
metodologici che essa ha fornito ai ricercatori per poter studiare i
fenomeni sociali al fine di poterli regolare o comunque porgli delle
condizioni di esistenza.
2. Auguste Comte (1798-1857)
Comte fu il primo studioso ad usare il termine “sociologia” ed esercitò
un’incredibile influenza sugli esponenti e le scuole più rinomate della
sociologia classica. Egli riteneva che la sociologia dovesse essere
attuata attraverso i metodi della “scienza dura”: ovvero, attraverso
l’osservazione, la sperimentazione e l’analisi storico-comparativa dei
fenomeni sociali. Comte detestava il clima di anarchia che
imperversava in Francia a seguito e della Rivoluzione, e criticava
aspramente la corrente filosofica dell’Illuminismo per contribuire a
creare ancor più caos e disordine. Data la negatività espressa dalla
Rivoluzione e dall’Illuminismo, Comte decise di formare il proprio
pensiero sociologico in contrapposizione ad essi: il “positivismo”, o la
“filosofia positiva”. Inizialmente è stato interpretato sulla falsariga
dei cattolici conservatori, ma Comte ebbe comunque da criticare
persino i conservatori stessi, poiché secondo lui i progressi scientifici
e sociali non avrebbero potuto permettere un ritorno al Medioevo,
inoltre egli creò un metodo ben più sofisticato e complesso di analisi
dei fenomeni sociali e della società intera. Chiamato “la fisica
sociale”, tale metodo implicava l’applicazione delle metodologie delle
scienze dure nei riguardi dei fenomeni sociali. Di fatto, Comte
credeva che solamente tramite la ricerca empirica fosse possibile
determinare delle leggi in grado di regolare la società e il suo
complesso mosaico che la componeva, inoltre pensava che la
sociologia avrebbe dovuto necessariamente diventare “la” scienza
per eccellenza in quanto quella più veritiera, e che la società avrebbe
dovuto gradualmente confluire le proprie speranza e la propria fede
nei riguardi della sociologia, costituendo di fatto una vera e propria
“religione scientifica”. Per Comte non era necessaria la rivoluzione né
tantomeno il caos e il disordine scaturiti da essa, bensì stabiliva che
il processo di crescita e mutamento della società avrebbe consentito
a questa di migliorare costantemente e di risolvere le problematiche
sociali. Infine, Comte stabilì “tre stadi evolutivi” della società: quello
“teologico”, compreso negli anni precedenti al 1300
approssimativamente, nei quali la società si basava sulla concezione
di entità soprannaturali sulle quali riponeva la più completa fiducia e
fede; quello “metafisico”, compreso tra il 1300 e il 1800, dove si
preferì sostituire le concezioni divine con altre astrattezze (come la
“natura”) per poter rispondere alle domande e alle esigenze morali
dell’individuo; infine, “positivo”, corrispondente dagli anni di Comte
in poi, dove la società, più razionale, avrebbe cominciato ad affidarsi
sempre più alla scienza e ai suoi strumenti per poter risolvere le
proprie problematiche. Il caos, il disordine e tutti gli effetti negativi
prodotti nei due stadi iniziali, si ripresentano anche nel terzo stadio
e per questo furono oggetto di minuziosa analisi da parte di Comte,
che determinò due realtà differenti ma collegate tra loro: quella
“statica (strutture sociali) e quella “dinamica” (mutamento); Comte
prestava maggior attenzione alla realtà dinamica e al mutamento di
per sé, data la necessità di regolare e migliorare i mutamenti sociali.
Inoltre, Comte non considerava una singola componente della
società, come l’individuo, bensì prendeva in analisi unità ben più
grandi e comprendenti più unità al loro interno, come la famiglia,
conferendo particolare importanza anche al legame fra le strutture
stesse. Comte, in fin dei conti, rappresentò e rappresenta tutt’ora,
l’avanguardia degli studi sociologici nonostante la mancanza di una
base accademica tale da permettergli di creare una propria scuola di
pensiero, nonostante influenzò decisamente gli studiosi a lui
successori, tra cui Durkheim.
“L’universo sociale è soggetto allo sviluppo di leggi astratte che
possono essere provate attraverso un’accurata raccolta di dati; tali
leggi indicheranno le proprietà fondamentali e generali dell’unvierso
sociale e ne specificheranno le ‘relazioni naturali’ “.
3. Émile Durkheim (1858-1917)
Fu il primo sociologo a ricoprire una cattedra di sociologia, presso
l’Università di Bordeaux e fu anche principale ispiratore del pensiero
dell’olismo sociologico. Secondo Durkheim, la sociologia deve
progredire in quanto scienza che studia i fatti sociali (norme sociali,
linguaggio, ecc.), ovvero modifiche esterne all’individuo che ne
modificano il comportamento sociale, caratterizzate da tre distinte
peculiarità: l’esternalità, quindi la loro natura esterna all’individuo;
la coercizione, ovvero la loro capacità di agire nel comportamento
sociale, modificandolo; la generalità, cioè valgono in determinati
contesti. Essi, infine, possono essere materiali, come la
conformazione di un’aula, oppure immateriali, come le leggi.
Durkheim è un innovatore del pensiero sociologico: i fatti sociali
costituiscono il mondo e quindi la società, stabilendo come e in che
misura è possibile all’individuo prendere parte della società, data la
loro esternalità e la loro capacità coercitiva, inoltre l’individuo, non
dovesse sottoporsi ai valori e alle misure stabilite dai fatti sociali,
soffrirebbe delle pene sociali e non tanto di quelle giuridiche, a causa
della reazione della società intera. Per Durkheim è rilevante l’essere
sociale più che individuale: questo perché si basa sull’essenza
sociologica, determinata dalle credenze, dalle idee e dai
comportamenti, in oltre essa non è facilmente modificabile come del
resto lo è la società e, in primis, l’insieme dei fatti sociali: su questo
concetto si bassa il principio di oggettività illustrato da Durkheim.
Infatti Durkheim pone maggior rilevanza ai fattori che formano la
società e non alle persone che la compongono: esempio, persino il
suicidio rappresenta un fatto sociale capace di modificare i
comportamenti sociali poiché si rappresenta in tutti e tre i principi sui
quali si esprimono i fatti sociali (esterno, coercitivo e generale).
L’individuo, secondo Durkheim, non può cambiare in nessun modo
tali meccanismi perché: possiedono una propria realtà, per di più
indipendente; sono conoscibili soltanto a posteriori, cioè
successivamente al loro compimento; esistono indipendentemente
dalla volontà umana; sono osservabili solo dall’esterno, precludendo
la possibilità di introspezione. I fatti sociali possono essere o
“normali” o “patologici”: normali, perché sono quei comportamenti
che, di fatto, rientrano fra i comportamenti medi osservabili
(conformisti); patologici, perché si discostano dai comportamenti
medi osservabili (anticonformisti). Il metodo di studio sociologico di
Durkheim prevede quattro regole ben precise: 1) quando studiamo
un fatto sociale, occorre ricercare separatamente la causa efficiente
che lo produce e la funziona a cui esso assolve; 2) la causa
determinante deve essere cercata tra i fatti sociali antecedenti e non
tra gli stati di coscienza individuale; 3) la funzione di un fatto sociale
deve essere cercata nel rapporto in cui si trova con lo scopo sociale;
4) l’origine prima di ogni processo sociale deve essere cercata nella
costituzione dell’ambiente esterno. Durkheim, inoltre, è un
organicista: osserva l’insieme degli apparati costituiti da più entità al
loro interno e ne determina il funzionamento attraverso le loro
relazioni, esattamente come se studiasse un corpo umano (legame
al metodo scientifico). La sociologia, dunque, deve studiare i
fenomeni sociali sulla base della loro esternalità, capacità coercitiva
e generalità; da qui si deduce il metodo che determina origine/cause
ed effetti dei fenomeni e, infine, la spiegazione del condizionamento
esercitato. Dunque i sociologi devono cercare di determinare la
natura della società attraverso studi sui fenomeni che l’hanno
formata. Con l’arrivo della società moderna, i sociologi hanno
compreso come si sia posto fine al “meccanismo meccanico” che
produceva il processo sociale, dando spazio al “meccanismo
organico” dello stesso. Con l’avvento dell’urbanizzazione si
innescarono quei processi, quei fenomeni che cambiarono
considerevolmente la società (quali industrializzazione e rivoluzione
scientifica) determinando un vero e proprio fermento dovuto ad un
aumento della densità dinamica, con maggiori componenti e di
conseguenze maggiori relazioni fra gli stessi, dando così vita alla
“solidarietà organica”. Data la solidarietà organica, originata
dall’insieme dei comportamenti attuati dagli individui, si determina
la coscienza collettiva, ovvero la somma di tutti gli elementi culturali:
da essa scaturiscono quei fatti sociali che non si manifestano
direttamente ma che mantengono stabile la società, quale insieme di
istituzioni sociali che devono essere ben integrate fra loro. Il vincolo
solidale che forma la coscienza, ha subito dei cambiamenti nel
passaggio da società pre-moderna a società moderna: inizialmente,
la coscienza collettiva era più forte ciò determinava una solidarietà
meccanica con dura repressioni nei confronti di coloro che violavano
le moralità e leggi prestabilite, con una maggior funzionalità della
giustizia (esecuzione pubblica); successivamente, la coscienza
collettiva è diminuita, determinando così la solidarietà organica con
una minor repressione attuata nei confronti dei “ribelli” e con la mera
necessità di risarcimento in caso di danno, con una maggior
amministrazione della giustizia (delega ai funzionari). Secondo
Durkheim, è l’individuo che si conforma alla società e non viceversa:
la società è quell’entità sopra l’uomo, con una proprio struttura la cui
morale agisce sull’individuo influenzandone il comportamento, e
qualora l’individuo non si conformasse agli standard della società,
subirà le cosiddette pene sociali, ovvero l’allontanamento
progressivo dalla struttura sociale. L’individuo nasce con un ruolo ben
preciso e non può modificarlo, perché il volere della società prevale
su quello dell’uomo: solamente sottomettendosi al volere della
società, l’individuo può raggiungere la sua vera liberazione. In questo
caso parliamo di agire morale, che determina l’agire razionale e
laddove esiste la morale, essa deve necessariamente interessare
l’uomo al fine di fargli superare, oltrepassare la propria sfera
egoistica individuale per il bene della società. La teoria di Durkheim
presenta però un limite dato dal confine tra l’indeterminatezza e la
determinatezza: accentuando suddetta dicotomia, si perde di vista il
carattere proprio del sociale; inoltre, vi esistono delle anomalie nelle
ricerche empiriche compiute che annullano in parte la teoria di
Durkheim, esse si chiamano anomie. Le anomie sono vere e proprio
mancanze di leggi all’interno del quadro sociale analizzato che
determinano degli squilibri o altrettante mancanze, data la tendenza
degli individui a non rispettare sempre le regole della società, ma
questo perché manca una visione completa e generale delle norme e
dell’ordinamento sociale. Maggiori sono le anomie e minore è la
coscienza collettiva e viceversa: questo è stato possibile stabilirlo
attraverso delle ricerche condotte da Durkheim sul suicidio, l’anomia
per eccellenza. Esso è possibile classificarlo nei seguenti modi:
fatalistico, altruistico, egoistico, anomico; 1) altruistico è quel
suicidio compiuto “a favore” della società, poiché l’individuo è
talmente integrato da porre l’esistenza di essa al di sopra di tutto,
per ciò parliamo di eccesso di integrazione, o iper-socializzazione; 2)
egoistico è quel suicidio fatto per motivazioni puramente personali e
che riguardano la nostra persona unicamente, questo perché vi è un
difetto di integrazione, o eccessiva individualizzazione; 3) anomico è
quel suicidio eseguito a causa dell’incapacità del sistema di fornire
norme e strumenti culturali al fine di integrare l’individuo, da qui il
concetto di anomia come mancanza del quadro normativo culturale;
4) fatalistico perché il sistema regola eccessivamente l’individuo ed
esso si sente soffocato dalle norme che ne influenzano il
comportamento, da qui l’importanza della regolazione
dell’integrazione. È quindi comprensibile che si tratta di una
necessità, da parte della società, di regolare efficacemente il
processo di integrazione dell’individuo e di fornire allo stesso gli
strumenti necessari, cioè norme e leggi e attitudini, da utilizzare per
seguire tale processo. Questo concetto determina un’altra necessità,
quella di accettare il cambiamento del sistema qualora fosse
necessario. Il sistema, quindi la società, muta nel corso del tempo e
mutando comporta uno squilibrio dell’ordine che deve riuscire a
mantenere e rinnovare, anche grazie a momenti di completa
irrazionalità che riescono ad essere complementari a tale scopo: si
tratta dell’effervescenza collettiva, ovvero momenti eccezionali di
pura irrazionalità caratterizzati da uno status di relativa pace
individuale. Per ciò, nonostante la razionalità della società sia
superiore a quell’uomo, e questi debba sottomettersi ad essa, la
stessa deve concedere spazio all’irrazionalità in quei momenti di
mutamento sociale in modo da mantenere il sistema integro così da
permettergli un cambiamento stabile. L’effervescenza collettiva è
anche in grado di sostenere l’individuo nel caso questi sia
eccessivamente integrato od individualizzato, in modo evitare
l’eccessivo altruismo od egoismo che lo istigherebbe a sacrificarsi per
la società o per se stesso. In questo caso, per Durkheim la religione
(dato anche il contesto storico) è un ottimo collante per la società:
essa, come la laicizzazione e la secolarizzazione, è molto importante
ma non deve essere estremizzata, poiché l’estremo determina gli
squilibri sociali e quindi la caduta del sistema. Di fatto, secondo
Durkheim la società è una vera e propria entità sovrannaturale e
divina, tale da essere eterna e non modificabile, grazie anche
all’effervescenza collettiva che permette di spurgare gli sfoghi di
massa.
4. Max Weber (1864-1920)
A fine ‘800, dove la sociologia si distingue in due paradigmi principali,
quello individualista e quello olista, Weber definisce un terzo
paradigma, quello dell’azione: la società non è autonoma, bensì si
forma dalla somma delle singole azioni individuali, per questo Weber
non osserva il macro-insieme, preferendo invece il micro-insieme. È
necessario studiare le singole azioni individuali ed identificarne il
significato. Questa è la differenza principale che divide Weber da
Durkheim, ma dobbiamo anche considerare i due differenti contesti
culturali all’interno dei quali questi due studiosi vissero (Durkheim
era cattolico e Weber protestante). Data l’importanza dei valori
sociali per la loro influenza sul mutamento sociale, per Weber è
importante studiare l’azione sociale piuttosto che il mero fatto
sociale: per questo, la sociologia non deve limitarsi anzi, deve essere
comprendente. Weber si discosta dalle visioni di Comte e Durkheim
vede nella sociologia il ruolo importante di intendere l’agire sociale in
virtù di un procedimento interpretativo, per poi spiegarlo nelle sue
cause e nei suoi effetti: quindi, l’analisi storico-comparativa deve
comprendere senso e significato dell’agire e spiegarne le cause al fine
di evidenziare eventuali negatività. L’agire sociale deve essere
analizzato attraverso le uniformità empiriche e costanti statistiche,
in modo da comparare i risultati delle ricerche con i tipi ideali: essi
non sono reali e non possono essere tali, ma sono ad ogni modo
modelli comparativi per esaminare la realtà analizzata. Ne “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo” (1904) Weber identifica la
prima come il complesso di comportamenti normativi alla base della
società occidentale moderna favorito dall’etica protestante e dal
dogma predestinativo, invece la seconda come spinta per l’individuo
ad impegnarsi per il successo delle proprie iniziative economiche
nell’ambito nazionale. I due temi sono correlati in quanto il secondo
favorisce il primo e svincola la ricerca del profitto dalla brama di
successo e ricchezza. Se, di fatto, Marx è il sociologo della classe
proletaria, Weber è il sociologo della classe borghese. Un altro punto
per il quale Weber si discosta da Marx, è la visione del capitalismo:
esso è visto da Marx da una prospettiva di materialismo economico
prodotto dal capitalista sfruttatore delle masse lavoratrici, che quindi
sono vittime; Weber, dall’altra parte, vede il capitalismo dall’ottica
dello spirito protestante e legittima la volontà borghese tramite il
collegamento ai valori della fede protestante. Valori che sono
profondamente razionali e oggetto di grande studio da parte di
Weber, riconosciuto come teorico della razionalizzazione del mondo.
Razionalizzazione che non è avvenuta ovunque: infatti, osservando
il mondo orientale, esso è rimasto per molto tempo sotto l’influenza
confuciana e induista che, nonostante le differenti visioni etiche,
hanno mantenuto il mondo orientale ancorato ai valori religiosi, come
esattamente nel periodo pre-capitalismo tedesco o comunque sia
europeo. L’agire sociale sostituisce il fatto sociale in materia di
primazia sociologica, distinguendosi in due tipi: 1) agire in senso
generale, ovvero l’agire in risposta ad un qualsiasi impulso esterno
all’individuo; 2) agire in senso sociale, ossia quando esso è riferito
alla collettività ed ha un senso altrettanto collettivo. Quando si studia
l’agire individuale, dobbiamo tenere conto: 1) del senso, poiché
l’agire non può essere sociale se non vi è senso oggettivo all’interno
dello stesso, per questo dobbiamo considerare le motivazioni dietro
l’agire stesso, le quali possono essere o materiali, quindi che
riguardano la fortuna o la ricchezza, o ideali, in relazione al benessere
interiore; 2) dell’agire altrui, perché deve essere tenuto presente sia
che gli altri siano fisicamente presenti sia che non lo siano, data la
quantità di segnali che viene costantemente passata sulla base della
condivisione di uno stesso patrimonio culturale; 3) la condotta, che
deve essere oggettivamente osservabile, poiché l’agire sociale è
influenzato dalla percezione che ogni individuo ha del proprio agire e
di quello altrui, quindi bisogna dimostrare di aver saputo
comprendere i segnali. L’importanza delle interrelazioni fra individui,
si comprende nella socialità, ovvero la somma delle azioni individuali
dotate di senso all’interno delle quali ciascuno tiene di conto dell’agire
altrui ed è, al tempo stesso, un punto di riferimento per il medesimo.
La relazione sociale, ossia un comportamento di più individui
instaurato reciprocamente secondo il contenuto di senso e orientato
in conformità, ha un ruolo centrale all’interno sia della socialità sia
dell’agire sociale, questo perché le interrelazioni sociali sono fondate
su aspettative reciproche e su possibilità calcolate soggettivamente
circa le conseguenze del proprio agire. L’agire è suddivisibile nei
seguenti tipi: 1) tradizionale, modello di agire risalente a tempi
antichi e lontani, quando l’individuo si comportava in un certo modo
dato dalle abitudini; 2) affettivo, più recente ma ugualmente pre-
moderno, quando l’individuo agiva valutando il proprio stato di
benessere; 3) razionale rispetto al valore, modello tipicamente
moderno nel quale l’individuo valuta il proprio agire in base all’ordine
a lui/lei espresso; 4) razionale rispetto allo scopo, modello
ugualmente moderno all’interno del quale l’individuo valuta
razionalmente i propri mezzi a disposizione con i fini prestabiliti.
Considerando gli ultimi due modelli, trattiamo della razionalità come
principale elemento di punta e di novità delle teorie weberiane. Sulla
base della razionalità, i primi due modelli di agire sono puramente
irrazionali, gli ultimi del tutto razionali: questo perché il mondo,
progressivamente, ha seguito un processo di costante
razionalizzazione della società. Il tutto determinato dalla necessità di
calcolare: con la razionalizzazione del mondo, conseguentemente è
avanzato anche il processo di secolarizzazione, il quale ha allontanato
i valori della società dalla imprevedibilità e irrazionalità dei principi
religiosi e mistici per affiancarli dal calcolo strumentale razionale,
tendente al raggiungimento dell’efficienza sulla base delle
conseguenze prevedibili. Il capitalismo, di per sé, rappresenta la
forma più alta di razionalità assoluta: nonostante questo, il processo
storico tende sempre più ad una costante razionalizzazione senza
alcuna prospettiva evoluzionistica, ciò però determina anche una
chiusura nella gabbia d’acciaio e un disincanto del mondo, che a loro
volta sviluppano il fenomeno della burocratizzazione e alla
concezione della produzione di denaro senza felicità. Questa
razionalizzazione estremamente radicale e omnipervasiva è giunta
solamente nella civiltà occidentale a causa del Cristianesimo, ma il
processo di occidentalizzazione del mondo intero sussiste e
continuerà a sussistere. La gabbia d’acciaio comporta due visioni
differenti: per Marx ha un destino, dato dal fatto che secondo lo
stesso non è possibile forzare le sbarre e fuggire; per Weber, invece,
è un destino, in quanto è il singolo individuo a potersi salvare da essa
e non la classe intera del medesimo. L’individuo essendo parte del
sistema in quanto meccanismo, può sfuggire ad esso e alla sua
autoreferenzialità, ossia la caratteristica della società di rispondere a
se stessa: il politeismo dei valori che proliferano senza che nessuno
di questi prevalga sull’altro fa perdere il valore intero potenziale, ad
ogni modo Weber considera necessario includere ed accettare tale
condizione in modo “virile”. Bisogna essere all’altezza della realtà
quotidiana grazie alla propria forza interiore, quindi scegliendo un
valore e seguendolo fino in fondo e affrontando il destino dei propri
tempi con fierezza e volontà. Una qualità in grado di assicurare una
grande forza interiore, è il carisma: esso è un elemento interamente
irrazionale che però si dimostra come una potenza rivoluzionaria. –
“Una qualità straordinaria… che viene attribuita ad una persona, la
quale è considerata come dotata di forza e proprietà soprannaturali
o sovrumane, o almeno eccezionali in modo specifico, non accessibili
agli altri, oppure come inviata da Dio o come rivestita da un valore
esemplare e, di conseguenza, come duce.” – Weber. Ad ogni modo,
sul carisma l’ultima decisione la prendono i dominati che devono
riconoscere il dominatore per attribuirgli tale capacità carismatica
(es.: Hitler a capo del nazionalsocialismo prima e del popolo tedesco
dopo) attraverso la creazione di una tensione morale che trascenda
la quotidianità, quindi che spezzi la routine (routinizzazione del
sistema). Nonostante questo, è un’abilità che muore con il suo
portatore stesso, in quanto successivamente non vi sarebbe nessuno
in grado di essere altrettanto carismatico, data l’impossibilità di
tramandare tale peculiarità. Inoltre, il carisma è una vera propria
forma di autorità assieme a: 1) la tradizionalità, ossia la credenza
che un’autorità permetta la stabilita necessaria al sistema,
proclamata da una validità antica fondata sulla consuetudine; 2) la
razionale-legale, fondata su un complesso di regole che sono state
razionalmente concepite e sanciscono un’obbedienza a doverti
stabiliti dalle norme, nelle quali sussiste un’impersonalità altrettanto
razionale. Con l’avvento della modernità siamo passati da un’autorità
tradizionale ad una razionale-legale, e quindi da un potere di uomini
ad uno di regole. Sulla base del tipo di agire è possibile determinare
l’etica: 1) in relazione all’agire razionale secondo il valore, poniamo
l’etica della convinzione secondo la quale chi agisce non si preoccupa
delle conseguenze delle proprie azioni; 2) legata all’agire razionale
secondo lo scopo, troviamo l’etica della responsabilità secondo la
quale chi agisce si preoccupa delle conseguenze delle proprie azioni
(è comunque differente dal principio di responsabilità). L’etica della
responsabilità implica anche l’etica della convinzione, ma non
viceversa: la vera etica della responsabilità è quella che pone nella
stessa misura sia le convinzioni sia i mezzi e i fini; dall’altra parte,
l’etica della convinzione è universale, esattamente come la religione.
Sulla base di questo concetto trascriviamo la concezione tipico-
ideale: ovvero, nonostante le due etiche siano inconciliabili è
possibile seguire un’etica responsabile con una propria convinzione.
5. Karl Marx (1818-1883)
Marx è riconosciuto come uno dei principali studiosi socio-economici
del XIX secolo, dato soprattutto dall’elaborazione delle sue teorie
riguardo l’alienazione da parte del capitale e quindi del lavoro nei
riguardi dei lavoratori e quindi del proletariato. Le sue teorie si
distinguono per due importanti principi: quello delle contraddizioni,
prodotte dal capitalismo stesso e dal rapporto capitalista-proletari;
quello della dialettica enunciato anche da Hegel, ma con una
caratterizzazione propria di Marx come rappresentazione del mondo
e non come formazione di esso. Su questo punto, Marx pone maggior
rilevanza nel dinamismo delle strutture sociali e delle relative
relazioni, per ciò non riguarda solamente le idee: per Hegel, la
dialettica è legata all’idealismo e viene così centralizzato lo spirito
rispetto al materiale; per Marx, invece, è il materiale ad essere
centrale in quanto le contraddizioni proprie del capitalismo non sono
svolte nell’intelletto ma sono reali e concrete. E per ciò necessario
studiare le contraddizioni per comprendere la realtà a cui
appartengono in modo da conoscere il fenomeno economico: da qui,
la filosofia dialettica, secondo la quale il mutamento sociale è
necessario al fine di superare le contraddizioni capitaliste. Per questo
Marx accusa Hegel di misticismo logico: è conservatore poiché tende
a giustificare la realtà, porta cioè all’accettazione delle istituzioni
vigenti, che non potrebbero essere cambiate in quanto
intrinsecamente razionali e positive. Marx aggiunge il materialismo
alla dialettica, invertendo l’ordine delle cose in base al loro senso
materiale, non divinizzando idee astratte ma anzi l’uomo reale.
Segue, in un certo senso, l’idea di Feuerbach: abbandona l’idealismo
soggettivo hegeliano, per poter concentrarsi sulla realtà materiale
degli esseri umani (es.: Dio è proiezione dell’uomo ed è per questo
che egli stesso ad alienarsi rispetto alla divinità). Marx sviluppa il
concetto del materialismo storico: storico, perché sta ad indicare che
è attraverso la storia che la realtà si fa e diventa quello che è; inoltre,
le vere forze motrici della storia non sono di natura coscienziale o
spirituale, ma anzi materiale e socio-economica. Di fatto, non è la
coscienza che determina la vita, ma viceversa: una realtà, però, non
ontologica ma esclusivamente antropologica. Infatti, secondo Marx
l’unica realtà indagabile e da indagare è l’umanità nel suo costituirsi
come società. È costituita, essenzialmente, dai rapporti di produzione
tra i suoi componenti in quanto umanità socializzata. Sempre
secondo Marx, i filosofi si sono limitati unicamente a interpretare il
mondo, mentre ora è necessario trasformarlo: infatti, non conta solo
la teoria ma anche l’azione rivoluzionaria, dato che l’uomo può
risolvere i suoi problemi solamente attraverso un’azione criticamente
illuminata, attraverso sia l’impegno di trasformazione che l’attività
rivoluzionaria, dunque la teoria serve alla pratica. Marx per questo
non è puramente un sociologo, in quanto sì lui e le sue teorie sono
alla base di molte teorie sociologiche ma sono anche altrettanto
osteggiate: infatti, i sociologi classici sono contrari al radicalismo di
Marx spinti sia da un forte senso conservatore (vedi Durkheim o
Weber); lo stesso per i socialisti utopisti, che criticano Marx seguendo
invece la linea di Proudhon. Marx, ad ogni modo, ci fa riflettere sul
ruolo della teoria sociologica: nonostante il risultato fallimentare dei
movimenti e quindi la decaduta delle previsioni, le teorie rimangono
e mantengono il loro valore interpretativo e alternativo alla nostra
società attuale (come per lo sfruttamento, le disuguaglianze, le
ingiustizie, ecc.). Un motivo per il quale Marx si discosta da Weber e
la differenza tra classe e ceto sociale: nel primo caso, esposto da
Marx, si parla di rapporti di produzione e quindi dell’occupazione e
dell’attività lavorativa che determinano la classe; nel secondo caso,
esposto da Weber, si parla di stili di consumo e quindi dello stile di
vita e del modo di rappresentarsi che stabiliscono il ceto di
appartenenza. Altra differenza che si basa sul principio esposto
poc’anzi si trova tra la coscienza di classe, di Marx, e del concetto di
ceto, di Weber: la coscienza di classe si tratta della reazione della
classe che, notando la necessità di trasformare la società, pianificano
e attuano la rivoluzione, ciò però non è realizzabile in quanto
l’evoluzione capitalistica evita la formazione di tale presa di
coscienza; invece, il concetto di ceto, quindi lo stabilirsi dello stile di
vita dell’individuo e la successiva classificazione, vince grazie alla
spinta evoluzionistica del capitalismo. Al centro delle teorie di Marx
si trova il lavoro e l’oggettivazione dell’uomo attraverso il lavoro:
l’individuo si realizza attraverso l’attività produttiva, ed essa è lo
strumento di emancipazione dell’uomo (esso, è un concetto
estremamente moderno); sempre l’uomo, produce oggetti in cui
riconosce se stesso poiché li produce lui stesso, e tale processo si
definisce come strumento di caratterizzazione dell’individuo.
All’interno del sistema capitalistico Marx, assieme ad Hegel, trova
nell’oggettivazione il processo di alienazione dell’uomo: essendo il
prodotto dell’attività lavorativa il riflesso stesso dell’identità del
lavoratore, venendo quest’ultimo espropriato di quella proprietà da
parte del datore di lavoro, in cambio di un’esigua somma di denaro,
per poi vederla conferita a qualcun altro per una somma di denaro
superiore, conseguentemente produce un meccanismo di alienazione
all’interno dell’uomo determinando così lo sfruttamento. Quindi, nel
capitalismo: gli individui subiscono le scelte dei padroni che decidono
al posto dei lavoratori cosa e come devono produrre in cambio dei
soldi senza alcuna gratificazione; al tempo stesso, gli stessi operai
non possono trattenersi la proprietà dell’oggetto a meno che non
spendano la stessa quantità di denaro come tutti gli altri acquirenti,
ma senza quei soldi non sarebbero in grado di consumare o utilizzare
i risultati del loro lavoro; infine, i capitalisti possiedono i beni prodotti
che possono utilizzarli o convincere gli altri ad utilizzarli, quindi
vendono i prodotti senza che il lavoratore possa avere più nulla da
ridire sul destino di quel bene. Si perde il senso progressivamente.
L’alienazione è caratterizzata sia dallo sfruttamento della produzione
sia dalla partecipazione al consumismo: il primo concetto è di stampo
puramente marxista, con il capitale come assoggettatore e il
lavoratore come usurpato, tutto sulla base della catena di montaggio,
però essa non è solo industriale ma anche burocratica; il secondo
concetto è più moderno, secondo il quale maggiore è il lavoro
maggiore è il guadagno e, quindi, il consumo, con uno sforzo
fondamentale da parte della pubblicità nell’illudere l’individuo a
partecipare nella cosiddetta economia della felicità. Ad ogni modo, la
macchina rafforza la sottomissione dell’uomo alla stessa: essa è in
grado di rendere l’essenza dell’uomo qualcosa di estraneo allo stesso,
estraniandolo dal proprio lavoro e quello altrui, conducendolo a
rapportarsi con se stesso così come si rapporta con il lavoro e il
prodotto. Inoltre, il capitalista “istiga” i lavoratori gli uni contro gli
altri: propone un’unica quota retributiva e vede chi è disposto a fare
di più pagando di meno anche a condizioni durissime, creando il
cosiddetto “esercito industriale di riserva” come elemento funzionale
in grado di calmierare la crescita dei salari e la conseguente riduzione
dei profitti. Tale visione marxista è sempre attuale, in quanto più si
unifica il mercato e più si amplia la competizione o, altrimenti, si
forma un processo di complementarizzazione nel quale il lavoro
povero è indispensabile per mantenere il lavoro ricco. Altro concetto
esposto da Marx è il plusvalore: esso è la differenza tra il valore del
prodotto quando viene venduto e gli elementi utlizzati durante la sua
fabbricazione. I capitalisti pagano gli operai meno di quanto essi
producono, tenendo per sé la rimanenza. Ciò, determina il profitto
come forma di dominio: il capitale è lavoro morto che si ravviva,
come un vampiro, succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne
succhia. Il capitalista, dunque, non lavora ma sfrutta: è quindi
possibile una riappropriazione? Sì ma con un’azione pratica, quindi
rivoluzione, e non tramite atto di coscienza, come nel caso
dell’autocoscienza di Hegel. Sulla base del materialismo storico, è
necessario guardare alle reali condizioni materiali di vita degli
individui, osservando come la struttura sociale si basi sulla struttura
economica e materialistica: questa è la sovrastruttura. L’emergere
della borghesia rappresenta un passaggio focale che ha reso l’uomo
capace di risvegliare il proprio potenziale: durante il pre-capitalismo,
gli individui erano impegnati a sopravvivere; con l’avvento del
capitalismo, invece, essi intravedono maggiori aspirazioni umane. Si
ha un passaggio dalla falsa coscienza alla coscienza di classe: questo
determina l’innesco della lotta di classe, ma ciò non è un concetto
riproponibile attualmente, dove si parla di impoverimento da lavoro,
ovvero del fatto che si è poveri pur lavorando: ciò è dato dalla
relatività della povertà, che non riguarda la disuguaglianza, quella
che in realtà Marx enuncia nelle sue teorie con maggior cura ed
analisi. Il capitalismo rappresenta la chiave per accedere allo stadio
successivo, mentre le disuguaglianze sono possibili da risolvere
solamente tramite la redistribuzione e il cambiamento, dato che
bisogna concedere il salario non su base economica ma in base alle
necessità essenziali.
6. George Simmel (1858-1918)
Simmel è un altro importante sociologo appartenente alla schiera dei
sociologi classici alla base dello studio della società, assieme a
Durkheim e Weber, per citarne alcuni. Il suo studio riguardo la
metropoli e la moda è di rilevante importanza al fine di studiare
l’assetto urbano e l’influenza che esercita sull’animo individuale.
Simmel, di fatto, ha creato uno stile di ricerca e un modo di osservare
lo spazio urbano, con la città che non è più analizzata attraverso i
suoi grandi mutamenti strutturali, bensì sulla base dei suoi modelli
relazionali e delle evoluzioni di essi. L’opera di Simmel sulla
sociologia urbana ha influito in modo diretto tramite il suo saggio
sulla vita nelle metropoli e la sua specifica interpretazione della vita
quotidiana nelle metropoli all’inizio del secolo. Simmel, inoltre, ha
interpretato e studiato soprattutto gli aspetti culturali della città
industriale come espressione dello spirito moderno e dei suoi valori
fondamentali. Nella modernità, la liberta ha un costo: questo è
stabilito dalle varie forme di socialità della metropoli, vissuta come
“vita di spirito”. La metropoli ha cambiato profondamente il tipo di
relazioni: innanzitutto ne ha accelerato l’eterogeneità ma,
soprattutto, le ha razionalizzate al fine di ridurre qualità e quantità,
facendo sorgere nell’animo individuale l’esigenza di ergere barriere a
difesa delle proprie emotività. Inoltre, la vita della metropoli si
ridisegna all’insegna del riserbo, della superficialità, della diffidenza
e dell’avversione verso chi non fa parte della propria cerchia: la
cosiddetta “metropolizzazione” della socialità porta
conseguentemente all’individualizzazione della relazionalità e
all’indebolimento dei gruppi primari sociali. In contrapposizione a
Tönnies, Simmel vede la vita delle metropoli come un
raffreddamento dei sentimenti, con un maggior distacco sia per
trattare con gli altri individui sia per affrontare il quotidiano: nelle
metropoli, vengono imposte delle convenzioni basate sull’oggettività,
il mantenimento della distanza e il non coinvolgimento emotivo. La
città di per sé, è uno spazio troppo denso e ciò comporta poche
possibilità di intrecciare rapporti: è un luogo disarmante all’interno
del quale l’unica arma di difesa contro la quotidianità e le sue
imperfezione è l’indifferenza. L’ambito urbano comporta delle
trasformazioni che si riflettono anche nel quadro dei modelli
interrelazionali: la società è un insieme di associazioni/interazioni che
avvengono nella banalità quotidiana; tutti i fenomeni sociali sono in
reciproco rapporto di influenza, in quanto la società è una forma
metaforica della cristallizzazione delle interazioni; infine, Simmel si
interessa per le forme temporanee e situate e i tipi ideali urbani.
Simmel si distacca dal metodo di studio di Durkheim e weber,
introducendone uno ben più istantaneo: si basa su due concetti, il
primo è quello delle forme, ossia dei costrutti da comparare con le
reali interazioni umani, il secondo è quello dei tipi, ovvero i modelli
individuali idealistici da comparare con i soggetti sotto studio; ciò
comporta una semplificazione nella gamma infinita di relazioni
possibili e degli attori che ne fanno parte attraverso dei punti di
riferimento. Le forme si distinguono nelle diadi e triadi: le prime sono
un gruppo paradossale di due persone, esso non ha vita propria al di
là di ciò che costituiscono le due persone (non vi è centralità del
gruppo); le secondo sono un gruppo di tre persone le quali
permettono la costruzione e la formazione di una struttura
indipendente, quindi più il gruppo si amplia e più si alza il livello di
qualità. Il passaggio da una diade ad una triade costituisce un salto
di qualità: questa trasformazione sviluppa strutture sociali separate
dagli individui e capaci di influenzare gli stessi (qui è la centralità del
gruppo). Nelle città, però, esistono più cerchie e tale pluralità non
permette il controllo intero della socialità da parte di una di esse;
inoltre, man mano che aumenta il gruppo, esso diventa sempre più
indipendente. Ergo, maggiore libertà uguale maggiore solitudine, per
l’individuo. La pluralità delle cerchie sociali rende maggiore
l’indipendenza delle stesse e dell’individuo, quindi la loro solitudine:
il processo intensifica sia l’indipendenza individuale, che è positiva,
sia la solitudine dell’individuo, che è negativa. La vita metropolitana,
inoltre, frammenta la società: è contemporaneamente una necessità
sociale e un’opportunità per evitare la sopraffazione della metropoli;
a differenza di Durkheim, Simmel vede l’anomia non patologica né
alienante, bensì necessaria: la maggior solitudine nei confronti
urbani è il prezzo da pagare per essere liberi. Quindi, maggior libertà
o maggior sicurezza? L’una paga l’altra. Altro concetto importante
all’interno delle relazioni è la menzogna: essa è una forma come
tante altre che serve a semplificare le relazioni poiché non tutto può
essere rivelato in tutte le relazioni, quindi ogni individuo seleziona
accuratamente le informazioni da offrire agli altri suoi simili.
Maggiore è la distanza, più è accettabile la menzogna, ma ad ogni
modo è necessaria anche nelle relazioni più intime: il segreto è
fondamentale. La fiducia sta nel mezzo tra la conoscenza e
l’ignoranza: maggiore è la conoscenza e meno c’è bisogno di fidarsi;
viceversa, maggiore è l’ignoranza è più c’è bisogno di fidarsi. La
menzogna ha il ruolo di equilibrare questa equazione: abbiamo
bisogno di un equilibrio fra verità e menzogna e una distinzione fra
chiarezza e conoscenza. Simmel denota l’ambivalenza fra oggettività
e soggettività: la società comprende uno sviluppo dei processi di
oggettivazione e di reificazione delle relazioni. La complessità della
vita delle metropoli rende necessaria questa progressiva
oggettivazione, tuttavia gli attori sociali sentono il bisogno di
interpretare in maniera soggettiva e personale le situazioni e i
contesti dei quali fanno parte: questa è l’ambivalenza. Viene vissuta
come scarto dato dalla mancanza e nostalgia di un’unità ormai
perduta: il quotidiano determina la tragedia della cultura, ovvero una
distinzione tra cultura oggettiva, che segue il processo sociale, e
quella soggettiva, che segue il processo individuale; la prima tende
a espandersi, mentre la seconda a limitarsi, determinando così una
disparità, un’alienazione alla quale è possibile confrontarsi solo con
l’indifferenza dato l’immenso potere della tecnica proprio della
cultura oggettiva. Se Durkheim vede positivamente la divisione del
lavoro, per Simmel essa è sintomatica della tragedia della cultura:
più aumenta la specializzazione e maggiore è la perdita di controllo
della cultura da parte dell’individuo. Quindi il lavoro è vera e propria
alienazione e sottomissione alla tecnica dalla parte dell’uomo, visione
differente da quella di Marx che vede il lavoro e lo sfruttamento
derivato da esso come i pretesti per il rianimo della classe lavoratrice.
La vita urbana e i suoi correlati non corrispondono alla nozione di
modernizzazione intesa come progresso, inoltre la modernità urbana
è anche crisi: l’autocoscienza è sempre più sviluppata dal
moltiplicarsi delle forme, che determinano a loro volta ruoli e tipi del
tutto nuovi. Simmel è noto anche per i suoi studi riguardo il denaro
e la filosofia del denaro: mai come nella modernità il denaro è stato
così centrale in quanto medium di scambio; di fatto, la città è un
grande luogo di scambio, sia di beni sia di prestazioni, e ciò richiede
un mezzo all’altezza, ovviamente oggettivo e razionale e neutro, in
grado di pesare tali scambi. Il denaro riduce e semplifica la
complessità di tali relazioni: è funzionale alla riduzione della
complessità e contribuisce a un cambiamento epocale nel tipo di
relazioni. La modernità, per questo, rappresenta un salto qualitativo
con un concetto del tutto nuovo: il denaro è il metodo di misura
neutro e universale capace di oggettivare qualsiasi tipo di azione o
prestazione. Questa è un’analisi contraria alle osservazioni di Marx,
in quanto questi considera lo sfruttamento e Simmel no: non è
economista e per questo si concentra sullo svuotamento dovuto alla
centralità del denaro; è necessario trovare nuovi stimoli poiché il
denaro è capace di soddisfarli, anche qualvolta ne sorgano di nuovi.
Si trasforma la civiltà di cultura in una civiltà di denaro: la
metropolizzazione ha dato vita alla società di denaro determinando
un cambiamento individuale dovuto alla relatività ed oggettività del
lavoro, sulla base della lontananza o vicinanza delle cose raggiungibili
e desiderabili; questo è stato favorito dal neutralismo e
dall’oggettività statica del denaro, seppur esso abbia comportato una
vera e propria alienazione rispetto allo stesso. Infatti, il denaro
annulla la coscienza individuale: la città offre l’infinità di cose
disponibili da fare e avere grazie alla sovrabbondanza di beni sul
mercato; avviene così una perdita di valore affettivo/soggettivo di
stampo pre-industriale. Di fatto la distanza ha permesso la perdita di
relazione tra individuo e bene e tra individui, e questo ha generato
la possibilità di emancipare l’individuo, anche grazie alla molteplicità
di cerchie che ne aumenta l’autonomia e la solitudine. L’identità si
rimodella costantemente a seconda dell’esigenza della stessa: la città
è sia liberatrice sia costringente e la modernità è il momento nel
quale sorge, comunque sia, l’individuo. Il denaro, come abbiamo
detto, è una misura neutrale originato dall’ascesa dalla cultura
oggettiva ed è uno strumento di ridimensionamento dell’individuo
determinato dal declino della cultura soggettiva: esso identifica il
ruolo, attraverso la valutazione del prezzo dello stesso; l’uomo
urbano ha una personale specificità legata all’emergere del tipo
ideale, sulla base di un approccio relativistico. Si sviluppano così
l’indifferenza e la riduzione della sensibilità, oltre all’atteggiamento
distaccato e sicuramente cinico: cinismo, un punto fondamentale
della civiltà moderna legato all’illusione che tutto è potenzialmente
acquistabile con il denaro. Ciò è tipico della società moderna che
preserva così un anonimato, in modo da resistere agli stimoli esterni
ed evitare ogni tipo di coinvolgimento emotivo al suo interno. Questo
determina un impoverimento delle relazioni interpersonali e la
necessità di adattare il proprio comportamento tramite l’indifferenza:
l’individuo della metropoli è interessato solamente alle cose che lo
riguardano personalmente, affrontando così ciò che lo circonda con
cinismo e razionalità. Questo fenomeno accresce la necessità per
l’individuo di legarsi ad altri ma, al tempo stesso, anche la volontà a
distaccarsene, creando di fatto un vero e proprio paradosso tipico
della metropoli. Simmel per questo rimane su un piano
maggiormente pessimista come quello di Weber, ma se ne distacca
per quanto concerne la quotidianità, affiancandolo alla crescente
autonomia e indifferenza individuale: determinata la negatività della
metropoli, non si prospetta il destino da gabbia ma una quotidiana e
crescente autonomia sviluppata dall’indifferenza. Simmel individua
nel cosmopolita un “individuo senza patria”, contraddistinto da un
anonimato utile ma micidiale. Questo perché la libertà, di essere
indipendenti si intende, è ottenuta con dei costi, ovvero i vincoli: la
tecnica produce nuove forme di controllo, che permettono
l’autonomia in cambio dell’anonimato. Il cosmopolita è progressista,
mentre il provinciale è conservatore: l’apertura è determinata dalla
libertà. Un altro studio molto importante riguardo la metropoli è la
moda: i singoli individui necessitano di dimostrare o negare la propria
esistenza sulla base della loro volontà di distinguersi o associarsi;
quindi seguono un abbigliamento conformista o, altrimenti,
anticonformista. Il conformismo era forte nelle società pre-moderna,
dove veniva meno l’identità individuale e si cercava di controllarne
gli istinti, la seconda è tipicamente moderna, data dal venir meno
dell’identità di gruppo e dal consolidamento dell’identità individuale,
di cui si cerca di sfogarne gli istinti. La moda determina sia cultura
sia appartenenza, le quali a loro volta formano l’individuo che
compone la società, sviluppandone o l’uniformità o la distinzione.
7. Ferdinand Tönnies (1855-1936)
Tönnies è un altro importante sociologo dello studio della vita urbana
e della sua influenza sull’individualità e relazionalità umana.
Differisce da Simmel in quanto vede la metropoli da un punto di vista
positivo e parla di comunità prima e società dopo: la città, grazie alla
vicinanza spaziale tra le persone e alle maggiori opportunità di
contatti interpersonali, favorisce il mantenimento di relazioni
comunitarie basate sull’amicizia e sui rapporti di viso. Definito come
teorico della comunità, Tönnies vede la comunità come un rapporto
reciproco sentito dai partecipanti, fondato su una convivenza
durevole, intima ed esclusiva: dunque la vita comunitaria è sentita e
durevole al tempo stesso. Dall’altra parte, invece, la società e la vita
societaria è razionale, passeggera, apparente e pubblica. Tönnies
riconosce tre comunità primitive: madre-figlio; uomo-donna;
fratello-fratello/sorella-sorella/fratello-sorella, riconosciuta anche
come la più umana. La comunità fa riferimento all’origine, al
territorio, ad una bandiera, ecc., e si distingue in: comunità antica,
convivenza durevole, convivenza genuina; la società, invece, si regge
sulla base degli interessi puramente economici e si riconosce in:
società moderna; convivenza passeggera; convivenza apparente. La
comunità è un’idea capace di sviluppare il vincolo sociale, ossia il
legame relazionale, in favore di una crescente coesione sociale;
inoltre, è un concetto sociologico con radici forti ma che non si presa
ad interpretazioni univoche. Anche in tempi moderni è stata presa in
analisi la comunità, un esempio è Baumann: nel libro “Voglia di
Comunità”, Baumann denota come odiernamente le comunità siano
ben differenti da quelle del passato e di come la mentalità stessa
dell’individuo nei riguardi della comunità sia cambiata in modo
radicale, a causa della maggiore individualità che soffoca il bisogno
di vincolarsi alle relazioni; parla infatti di “comunità guardaroba”,
molto sentite ma dal tempo determinato, quindi breve, temporanee
e non durature. Per Tönnies la comunità costituisce l’identità
dell’individuo e crea il senso di appartenenza di questi alla società in
cui vive: di fatto, l’individualità rende più forte l’identità, che si
affievolisce nel senso di comunità ma che rafforza, al tempo stesso,
il senso di appartenenza in grado di sviluppare l’identità di gruppo,
ben più forte e solida come relazione tra individui differenti. Ciò però
è un processo altamente strumentalizzabile ed è stato studiato infatti
come sia possibile sfruttarlo per rilanciare il patriottismo ma,
soprattutto, il nazionalismo (o populismo), creando anche conflitti tra
comunità differenti in società multietniche. Tönnies differisce anche
da Durkheim: se i rapporti di affermazione reciproca sono positivi,
danno origini ad associazioni: la comunità è un’associazione organica
mentre la società è un’associazione meccanica. Quindi: la comunità
può essere di lingua, di costume o di fede e costituisce il pre-
moderno; la società può essere di profitto, di viaggi o di scienze e
costituisce il moderno. In sintesi: per Durkheim ciò che è pre-
moderno è meccanico, mentre ciò che moderno è organico; per
Tönnies è il contrario, con un pre-moderno organico e un moderno
meccanico. Nella pre-modernità, la società è più simile a delle forme
di associazionismo comunitario: si parla di società di comunità;
invece, nella modernità, la società è costituita da forme di
associazionismo societario: si parla di società di società. Qual è il
confine di suddetta analisi? Il principio di partecipazione: come nasce
il legame, esso è talmente forte da condizionare gli individui, e quindi
a selezionare gli appartenenti al legame. Qui si formano i fenomeni
di emancipazione, emarginazione, discriminazione, ecc. La società, a
differenza della comunità, è una dimensione pubblica, delimitata
solamente nei campi delle prestazioni reciproche (ed economiche),
contraddistinte dallo scambio e dal valore dello stesso. In questo
caso, gli individui rimangono separati nelle loro relazioni, nei loro
legami, concedendo maggior vantaggio a chi detiene il potere, usato
per dominare. Nelle comunità, invece, si parla di volontà
comunitaria: essa è distinta dalla comprensione (consensus) e dalla
concordia (unità di cuore), poiché richiede partecipazione e, per ciò,
vita comune, con un potere che deve educare e non dominare.
8. La scuola dell’Interazionismo Simbolico
Essa è una scuola influenzata dalla psicologia sociale e dal
comportamentismo: segue la riflessione simmeliana ma ne cambia
la prospettiva (nasce negli USA e non in Europa); inoltre, è formata
dall’unione della microsociologia e la sociologia della vita quotidiana.
Si basa su tre principi: 1) gli esseri umani agiscono nei confronti delle
“cose” in base al significato che gli attribuiscono; 2) questo significato
nasce dall’interazione tra gli individui, per questo è un prodotto
sociale; 3) il significato è costruito e ricostruito attraverso un
“processo interpretativo” messo in atto da un individuo
nell’affrontare le cose in cui si imbatte. Quindi, la società è formata
attraverso le interazioni, le quali non possono avvenire se non
tramite i simboli: questi sono significati puri condivisi da tutti ed è
centrale come principio all’interno delle relazioni (es.: il linguaggio);
assieme al contesto nel quale avvengono le relazioni, queste e i
simboli attribuiti ad esse formano la società. Si parla dunque di “sé
sociale”, cioè l’unico tipo di sé che possa esistere come risultato di
un processo di interazione (non si parla di identità soggettiva): è
chiamata anche “identità sociale” ed è così importante che persino il
corpo fisico può risentirne dello sviluppo. Il principale ispiratore di
questi studi è George Herbert Mead.
9. George Herbert Mead (1863-1931)
Filosofo e sociologo statunitense, egli respinse la nozione di sistema
sociale e si preoccupò delle interazioni fra i soggetti sociali (no
funzionalismo): si dedica all’individualismo, formato dalla
motivazione assieme al contesto e alla socializzazione. L’azione
umana è una realtà che nasce all’interno delle relazioni, quindi si
tratta di azioni reciproche fra gli individui: l’uomo come creatore del
proprio ambiente e come costruttore del proprio mondo di oggetti;
ciò forma la struttura sociale. All’interno di essa ogni manifestazione
strutturale (sia culturale sia sociale) ha funzione di cornice
dell’azione, inoltre è risultato dei singoli soggetti che agiscono.
L’uomo possiede un sé in grado di porsi come oggetto: può
comportarsi nei confronti propri allo stesso modo col quale affronta
la realtà esterna, definendosi così un prodotto dell’interazione
sociale; in più, tale sé gli permette di operare in modo attivo e non
solo di subire i condizionamenti esterni ed esso nasce quando
l’individuo diventa oggetto di se stesso. Tutto ciò lo identifichiamo
nel condizionamento sociale a seguito della costruzione della società:
l’individuo si vede come riflesso dell’interazione che gli altri individui
hanno con lui; tutto ciò che noi siamo e i modi con cui agiamo
denotano le valutazioni di coloro che ci circondano, questo abbatte il
fenomeno dell’omologazione di massa, inoltre c’è una costante
ridefinizione dell’identità soggettiva seguendo l’evoluzione delle
relazioni; ricapitolando, il risultato delle relazioni è tanto migliore
quanto più è efficiente il loro meccanismo. A questo si lega anche il
concetto espresso da C.H. Cooley del “io riflesso”, ossia la
dipendenza profonda che il nostro essere ha nei confronti delle
valutazioni altrui. Mead, in una maggior analisi delle interazioni e dei
relativi simboli, denota l’importanza dei gesti: questi diventano
simboli quando suscitano nell’individuo che li riceve quel che gli
individui stanno manifestando nei suoi confronti, al momento
dell’interazione; essi hanno un ruolo “di preparazione” all’interno
delle relazioni, in quanto permette agli individui di comprendere in
anticipo le intenzioni degli altri individui. I gesti non hanno valore
senza significato: ogni organismo deve avere conoscenza di come
l’altra persona risponderà al suo agire; inoltre, suscitano negli
individui che li propongono lo stesso effetto della risposta, per come
essi suppongono di ottenerla da coloro ai quali si rivolgono. Quindi,
il pensiero è la manifestazione esterna che viene innanzitutto
prodotto all’interno, seguono i gesti, i quali, assieme ai simboli a cui
vengono attribuiti, trasmettono il significato dell’agire e questo
procedimento crea la comunicazione che permette l’interazione, alla
fine di tutto si forma la società sulla base di come sono avvenute le
interazioni: il pensiero è lo sviluppo di conversazioni interiorizzate
analoghe a quelle intrattenute con altri individui, e questo dà modo
all’individuo di decidere come rapportarsi e quali simboli trasmettere;
quest’ultimi sono importanti perché devono valere allo stesso modo
sia per l’individuo che li manifesta o li riceve sia per gli altri individui
che li manifestano o li ricevono di conseguenza, inoltre senza
rapporto sociale non si produrrebbe alcun pensiero e quindi non
sarebbe possibile interiorizzare le interazioni sociali. Un simbolo
particolarmente importante, secondo Mead, è il linguaggio, poiché
esso è un simbolo univoco e particolarmente generalizzato. Si
distingue: 1) nel segno, che può essere il gesto o la voce; 2)
nell’oggetto, che può essere fisico o non fisico; 3) nell’idea, ovvero
la capacità del linguaggio di evocare un’idea univoca sia nel parlante
sia nell’ascoltatore della conversazione, sia nell’emittente sia nel
ricevente della comunicazione. Altro concetto importante alla cui
base sta il pensiero, è la mente: essa è il centro di individualizzazione
del processo di comunicazione eseguito dall’insieme delle relazioni;
inoltre il suo emergere è subordinato all’interazione tra l’organismo
umano e il suo ambiente sociale, perché attraverso la comunicazione
si sviluppa il pensiero e di conseguenza la mente. L’agire non è più
definito dallo stimolo alla risposta, bensì dall’interpretazione dello
stimolo prima e dalla risposta dopo: l’interpretazione rende possibile
la segnalazione dello stimolo; ciò produce il senso comune,
caratterizzato sia dall’esperienza soggettiva sia dal comportamento
manifesto e osservabile. All’interno degli studi dell’interazionismo
simbolico si ricostruisce la personalità individuale, dato il soggetto
come luogo della differenza all’interno dell’ambito sociale: è
necessario vedere se stessi come se visti dagli altri e viceversa, oltre
che oggettivare il senso; innanzitutto bisogna riconoscere il sé come
prodotto dell’unione del me e dell’io; il me è risultato degli
atteggiamenti prevalenti all’interno del gruppo di appartenenza e che
vengono interiorizzati da ogni componente; l’io è invece la
soggettività non programmata e meno programmabile, più istintiva
e creativa, propria di noi stessi. A livello individuale, Mead e altri
sociologi utilizzano il termine “altro significativo”, al fine di denotare
individui abbastanza rilevanti da motivare o cambiare il
comportamento sociale di altri individui; l’insieme degli individui che
influenzano il comportamento sociale dell’individuo, si definisce
“gruppo di riferimento”; vi sono addirittura individui distaccati che
fungono da veri e propri modelli di riferimento, come delle “star”. La
relazione e l’interazione sociale sono alla base della formazione di un
individuo e, quindi, della società: inizialmente, sin dai primi anni di
vita sociale, l’individuo viene reso come un “altro generalizzato”;
questi è la costruzione mentale, interna all’individuo, che la società
gli incentiva prima e a seguito della socializzazione primaria. La
socializzazione primaria è quella fase grazie alla quale gli esseri
umani cominciano a comprendere il mondo sociale, tramite il gioco e
la competizione; durante la fase del gioco, i bambini assumono
diversi ruoli che osservano nella società adulta; successivamente,
dopo l’interpretazione di questi ruoli, cercano di acquisire una
comprensione dei differenti ruoli sociali specifici reali. Successiva alla
socializzazione primaria, vi è la secondaria: questa rappresenta la
seconda fase caratterizzata dal passaggio dal gioco di ruolo al gioco
di squadra; il bambino deve assumere un ruolo legato a determinati
altri ruolo coinvolti nel gioco; questi ruoli devono essere collocati
all’interno di una precisa e reciproca relazione; si forma così
l’organizzazione e viene costruita la personalità; i bambini
cominciano ad essere capaci di agire all’interno di un gruppo e
iniziano a determinare cosa faranno all’interno di uno specifico
gruppo, lavorativo o meno. Secondo Mead, questo è il primo incontro
del bambino con l’altro generalizzato, e quindi rappresenta uno dei
principali concetti per la comprensione della nascita del sé sociale
negli esseri umani: sia il gioco di ruolo sia il gioco di squadra
rimangono una concezione di sé molto limitata, ma ad ogni modo
sono il primo passo verso la sua costruzione. L’altro generalizzato
non è altro che la comprensione di una data attività e del posto
occupato dagli attori in quella data attività, dalla prospettiva di tutti
gli altri partecipanti: la comprensione permette all’individuo di capire
quale tipo di comportamento sia previsto, appropriato, ecc.; questo
esatto meccanismo di trasmissione e comprensione della stessa,
messo assieme agli atti sociali è lo scambio di posizione sociali;
questo determina la scoperta del “me”, il quale assieme al “io”
costruisce il “sé”. Non si tratta di conformismo, bensì della capacità
di comprendere i ruoli sociali e di inserirsi all’interno di essi se
ritenuto opportuno e in linea con il proprio “io”.
10. Philip Zambardo (1933 - )
Sociologo statunitense che ha studiato l’obbedienza acritica di alcuni
individui all’autorità esercitata da un gruppo. Definì “l’Effetto
Lucifero”, ossia la capacità nelle persone di giungere a compiere atti
estremamente negativi, anche contro la loro natura. Esso viene
utilizzato anche per spiegare gli effetti del Nazismo. L’idea del branco
porta l’individuo a sottomettersi ad esso, tramite il conformismo e la
creazione di una personalità eterodiretta. Quest’idea porta il processo
di deindividualizzazione, ovvero la rinuncia dell’individuo alla propria
identità personale, in favore di una maggiore coesione di gruppo e in
difesa dei valori e principi dello stesso.
11. Ervin Goffman (1922-1982)
Sociologo statunitense che, come Mead, ha studiato il
comportamentismo sociale e l’importanza delle relazioni e dei ruoli
sociali. Egli vide la sociologia della vita quotidiana come risultato
drammaturgico: la società non è altro che un gioco delle parti, una
continua rappresentazione scenica (non ha vita propria; un po’ come
la mentalità di Pirandello o Shakespeare); quando un individuo è in
presenza di altri individui, agisce facendosi influenzare al tempo
stesso e il nostro agire sociale non è solo strumentale, bensì è legato
a e influenzato da i comportamenti degli altri individui in società (qui
si distacca dalle idee di Weber e si affianca a Mead). Questo modello
drammaturgico sta alla base della costruzione della società. Se Mead
parla di sé come essenza sociale, formata dall’unione del me con l’io,
Goffman non vede il sé come prodotto dei giudizi altrui: esso non è
organico, bensì un effetto drammaturgico che emerge dalla scena
rappresentata in società; l’individuo è obbligato ad esporre il sé non
perché lo si possiede, ma perché richiesto dalla società; è attiva la
volontà nel far accettare agli altri il nostro sé, ma se non veniamo
accettati subiamo uno stigma (o un’etichetta), soffrendo di
conseguenza l’emancipazione e l’inadeguatezza nel contesto sociale
che stiamo vivendo (si parla anche di stereotipizzazione). Goffman
divide l’identità in: 1) identità potenziale, ossia ciò che realmente
potremmo essere; 2) identità reale, ovvero quell’identità “scremata”
dalle discriminazioni e stigmatizzazioni. Lo stigma è lo spartiacque
che prende la prima e la trasforma nella seconda: purtroppo, il
potenziale dell’individuo viene screditato e quindi questi viene
stigmatizzato; colui che è screditabile ma non effettivamente
screditato, porta attributi negativi per la società nonostante riesca ad
eluderli, mentre lo screditato effettivo è stato “rivelato” e
conseguentemente etichettato; la società è un palcoscenico e
l’individuo è un attore, per ciò sono l’apparenza e i modi di fare a
determinare come e per quanto potremo resistere in scena. L’identità
reale, detta anche sociale, è quindi ciò che l’individuo mostra a
seguito del processo di stigmatizzazione o di integrazione da parte
del sistema. Lo stigma può essere di vari tipi: 1) fisico, dovuto per
esempio ad handicap o malformazioni; 2) caratteriale, dovuto per
esempio a condizione psichiche o all’orientamento sessuale; 3)
etniche/religiose, ergo dovute a differenze religiose o di
appartenenza entica. Questo costrutto sociale assume forma in base
al contesto dove viene posto: è costante poiché chi è integrato
stigmatizza a sua volta e si comporta, in conformità, all’unisono con
il resto del gruppo nei confronti dello stigmatizzato, che subisce. Le
ingiustizie sociali, che nascono a seguito del processo di
stigmatizzazione, sono normali per chi etichetta, mentre sono
anormali per chi viene etichettato. Gli etichettati sono visti e
considerati una mancanza, ossia un’anomalia, e spesso si induce il
senso di vergogna e la possibilità di forzare il cambiamento: 1) gli
esseri umani agiscono nei confronti del resto in base ai significato
che loro gli attribuiscono; 2) i significati sono un prodotto sociale, nel
senso che nascono dall’interazione degli individui tra di loro; 3) i
significati vengono costantemente ricostruiti in base
all’interpretazione individuale. In un’ultima analisi, l’agire sociale e
l’agire individuale sono riflessi della volontà di proporsi di farsi
accettare. L’interazione sociale è un teatro dove si seguono regole e
rituali, ergo non è casuale, e dà vita alla società: questo grande
palcoscenico non stabilisce dei copioni ma valuta l’istinto di ogni
attore; le rappresentazioni poste in scena comportano uno scarto tra
ruolo riconosciuto e i comportamenti, originando la distanza di ruolo
(lo scenario è un luogo fisico, es. l’aula scolastica; il fronte personale
è l’equipaggiamento, es. gli appunti per gli studenti o il materiale del
docente; l’apparenza è l’identificazione, es. il vestiario; i modi di fare
sono le informazioni, es. il comportamento; la distanza di ruolo
avviene fra i ruoli principali dello scenario, es. tra professore e
alunno). La società è un palcoscenico scelto e non creato: i ruoli sono
prestabiliti per scene prestabilite (istituzionalizzazione); le persone
tendono a trasmettere un’immagine di sé idealizzata, durante le
interazioni tendono a trasmettere qualcosa che le faccia accettare e
non discriminare, per ciò non mostrano angherie o i comportamenti
subiti per poter andare in scena; non vi è presenza di un processo
produttivo, in quanto c’è la possibilità di aver compiuto del lavoro
sporco per accedere alla scena. Su tutto questo si basa
l’idealizzazione: adattamento agli stereotipi; l’elusione di aspetti
sconvenienti, delle fasi intermedie, del lavoro sporco e dei
comportamenti/valori contrari alla società; la messa in mostra del sé
migliore per la società. Dall’idealizzazione si passa alla segregazione
del pubblico: chi assiste deve essere ben diviso dagli altri che
assistono al tempo stesso; vi è anche la necessità di diversificare il
gruppo, in quanto ogni parte di ciascuna presentazione non deve
avere sbavature, si deve mantenere la distanza dal pubblico poiché
aiuta ed è necessario evitare gaffe e problemi attraverso la
mistificazione (riduzione del contatto con il pubblico). La distanza
sociale è comoda per il pubblico e si crea un legame di fiducia più o
meno gravante: infatti, tendiamo a dare il meglio di noi in pubblico
per controllarne l’impatto; inoltre la vita è sia palcoscenico e
retroscena, con il pubblico che non deve accedere al secondo in modo
che si fidi e non riveli gli sforzi dell’attore; infine vi è differenza tra
spazio pubblico e spazio privato (nei luoghi di ribalta ci vestiamo e
comportiamo diversamente). Bisogna evitare contraddizioni che
portino a conseguenze molto negative. I ruoli studiati da Goffman
presentano delle incongruenze: 1) il delatore, che finge di essere un
attore in modo da partecipare al retroscena al fine di fornire
informazioni al pubblico; 2) il compare, che si accorda con gli attori
per mescolarsi col pubblico così da cercare di orientarlo in scena; 3)
lo spettatore puro, ovvero un professionista riconosciuto come
spettatore qualificato e capace di osservare; 4) la non persona, ossia
quella persona che, pur essendoci fisicamente, non fa parte della
rappresentazione e per questo viene ignorata (da qui riprende il
concetto di “non luogo” di Marc Augé, ossia un ambiente che esiste
ma che è anche povero di contenuto relazionale). Questa distinta
classificazione è attribuibile sia tra conoscenti sia tra estranei:
quest’ultimi può sembrare che si ignorino, ma in realtà si scambiano
continuamente informazioni; si parla della disattenzione civile. Essa
non è altro che un minimo scambio di informazioni volto a rassicurare
i due o più individui: è una “regola” teatrale che permette di far
funzionare al meglio un contesto di cui non conosciamo nulla.
Esistono anche delle rappresentazioni collettive (squadre di
rappresentazione): spesso recitiamo al fine di esprimere il compito
svolto perché facciamo parte di un gruppo; tale gruppo si forma non
su base strutturale ma relazionale; attori e pubblico rappresentano
un vero e proprio concetto di interazione fra squadre attraverso un
dialogo, uno scambio. Un altro oggetto di analisi di Goffman sono le
istituzioni: sono luoghi circondati da barriere permanenti tali da
ostacolare la percezione da parte di coloro che non vi appartengono
riguardo ciò che avviene al loro interno; inoltre, essa comporta
un’equipe di persone che condividono spazi, percezioni e regole. Vi è
una distinzione netta tra appartenenti ed estranei: si parla delle
istituzioni totali, ovvero istituzioni che riducono completamente a sé
i singoli individui che ne vengono a far parte, privandoli dell’identità
personale e ella personalità (ospedali psichiatrici, caserme, conventi,
carceri). Si distingue dalle altre istituzioni per la sua capacità di
ridefinire l’internato e non vale per gli organizzatori di tale istituzione,
in quanto per essi è un’attività tanto uguale quanto le altre; solo gli
internati sono sottoposti a pratiche la cui specifica funzione è quella
di far perdere loro ogni aspetto personale che li caratterizza.
12. La scuola dello Struttural-Funzionalismo
Scuola originata nel XIX secolo, negli Stati Uniti, osserva la società
come un insieme di parti interconnesse tra di loro: le relazioni tra
queste parti sono di tipo funzionale, in quanto ogni elemento svolge
un particolare compito che, unito a tutti gli altri, concorre a creare e
mantenere funzionante l’apparato chiamato società; inoltre, è
necessario avere uno stato di equilibrio nella società, che si ha
quando ogni parte svolge correttamente il suo compito; infine è
basato sul modello del sistema organico elaborato nelle scienze
biologiche. Nessuna delle parti, ad ogni modo, è isolata realmente,
ma solo contestualmente: ci si basa su di un approccio organicista
contrapposto al metodo di Marx e vicino a Durkheim, seppur
superando quest’ultimo. Ricapitolando, il funzionalismo studia la
società dal punto di vista della conservazione, delle condizioni di
esistenza delle forme sociali e del loro funzionamento.
13. Talcott Parsons (1902-1979)
Sociologo statunitense e principale ispiratore del funzionalismo. Egli
studiò le reazioni degli attori, quindi gli individui e gli apparati, alle
esigenze della struttura, quindi la società: gli attori agiscono in base
a regole apprese ed interiorizzate tramite i processi di
socializzazione; l’idea di integrazione, in questa teoria, è intesa in
termini culturali e normativi e costituisce il fondamento della sua
sociologia; la società non è coercitiva ma paradossalmente
permissiva. Il processo di socializzazione permette di condurre gli
individui a prendere determinati comportamenti come propri
(indottrinamento) ed esso è funzionale alla stabilità della società. Il
funzionalismo di Parsons si distacca dal Marxismo, poiché per
Parsons le disuguaglianze sono funzionali e garantiscono stabilità,
concedendo maggior spazio di manovra agli apparati. L’attore,
seguendo le regole, viene integrato nel sistema e contribuisce al
mantenimento dello stesso: ergo l’agire personale è positivo, quindi
funzionale; altrimenti è negativo, quindi disfunzionale. Si parla di
primazia del sistema sull’attore: l’azione viene valutata in base al
contributo offerto al mantenimento del sistema; con questo si cerca
di fondare una teoria sociologica generale dell’azione e del sistema,
superando di gran lunga sia Durkheim sia Weber. Per Parsons il
sistema è un insieme interrelato di parti che è capace di autoregolarsi
e in cui ogni parte svolge una precisa funzione necessaria al suo
mantenimento. Il sistema si autoregola esattamente come un
organismo vivente, rispondendo agli stimoli sia interni sia esterni sul
funzionamento del suo sistema: quindi, se per Durkheim la società
sta sopra l’individuo e per Weber l’individuo crea la società, per
Parsons la società è un’entità a sé che sta sopra l’individuo ma che
senza di questi non sarebbe in grado di autoregolarsi e mantenersi.
Il sistema ha quattro esigenze, che si basano sul rapporto
esterno/interno e scopi/mezzi, il cui intreccio dà forma allo schema
AGIL: 1) Adattamento, ossia la capacità di far fronte ai propri bisogni
di sopravvivenza, trovando all’esterno le risorse di cui ha bisogno,
per poi ridistribuirle efficacemente al suo interno; 2) Goal, cioè
stabilire e perseguire degli scopi congeniali, selezionandoli ed
ordinandoli al fine che non turbino l’integrazione; 3) Integrazione,
ovvero il processo all’interno del quale deve avere a disposizione gli
strumenti necessari a garantire coerenza e solidarietà interna; 4)
Latenza, ossia la necessità di assicurare a tutti i membri le
motivazioni opportune atte a farli agire in modo congruente e
continuativo. Il sistema AGIL, a sua volta, forma quattro
sottosistemi: 1) l’organismo biologico; 2) il sottosistema della
personalità; 3) il sottosistema della cultura; 4) il sottosistema
sociale. Questi quattro sottosistemi si riconducono a delle precise
funzioni: 1) le funzioni di adattamento, che non si basano
propriamente su una scienza esatta; 2) le funzioni di conseguimento
degli scopi, attraverso la psicologia sociale; 3) le funzioni
motivazionali, sulla base dell’antropologia culturale; 4) le funzioni
integrative, tramite la sociologia. Questa struttura forma,
conseguentemente, il sistema sociale e i suoi sottosistemi: 1) il
sottosistema integrativo; 2) il sottosistema economico; 3) il
sottosistema politico; 4) il sottosistema culturale.
Imperativi Adattamento Goal Integrazione Latenza
Funzionali
Sottosistemi Economico Politico Sociale Culturale
Elemento Denaro Potere Norma Valore
Qualificante
Elemento Industrie, Partiti, Scuole, Matrimonio,
Istituzionale banche burocrazie chiese famiglia

Secondo Parsons, lo schema AGIL rientra in ogni singola istituzione,


per esempio la famiglia: c’è la necessità di sussistere e ridistribuire
risorse; c’è un’organizzazione decisionale; c’è un processo
integrativo; c’è una gestione degli aspetti psicologici. In questo
esempio, il padre assolve le prime tre funzioni mentre la madre cura
l’integrazione sistemica.
A G
Padre Padre
Padre Madre
I L

Le famiglie sono in relazione con le industrie: i padri lavorano e


portano il pane in casa, le madri cucinano e trasmettono i valori e i
figli apprendono il proprio ruolo sessuale identificandosi con il
genitore dello stesso sesso; quest’idea è andata avanti sino agli anni
’70 quando sorsero i primi movimenti femministi contro il modello
parsonsiano, accusato di perpetuare e accentuare le disuguaglianze.
Secondo Parsons il sottosistema della cultura assieme a quello della
personalità, congiuntamente al sistema sociale, danno vita alla
società vera e propria: il processo di socializzazione serve ad
interiorizzare norme e valori che vanno a far parte delle coscienze; è
un processo conservativo all’interno del quale, fin dalla più tenera
età, si interiorizzano i valori della società; qui rientra anche la
moralità, in quanto c’è ben poco spazio per la creatività, inoltre la
società definisce gli obiettivi e fornisce i mezzi per raggiungerli; è
necessario conformarsi senza però un controllo sociale da parte della
società, in modo da permettere le devianze e quindi una maggior
flessibilità, funzionale all’equilibrio del sistema. Al fine di permettere
al sistema sociale di mantenersi e riprodursi, non bastano solamente
le istituzioni, bensì devono essere maggiormente attivi gli individui:
prende forma una serie di complicati processi che, dovessero
mancare dell’intervento dell’individuo, porterebbe la società a
cessare di esistere (motivazioni; interiorizzazione); il sistema sociale
è un sistema di ruoli poiché, attraverso il proprio ruolo, l’individuo
entra in relazione con gli altri individui e contribuisce alla
riproduzione e al mantenimento del sistema; quindi, il ruolo esprime
funzionalità ed è determinato dall’attore soggetto, al tempo stesso
definisce anche lo status definito dall’attore oggetto. Il soggetto
agente ha a sua disposizione delle alternative di ruolo in numero
limitato, secondo: 1) l’universalismo/il particolarismo, considerano
l’oggetto come singolarità o intera categoria (es.: genitore il primo,
giudice il secondo); 2) l’orientamento verso il sé o la collettività (es.:
l’imprenditore nel primo caso, il medico nel secondo); 3)
l’ascrizione/l’acquisizione, quindi con tratti che caratterizzano
l’individuo dalla nascita o quello che l’individuo è capace di fare; 4)
l’affettività/la neutralità, ergo con un atteggiamento affettivo o del
tutto neutrale (es.: la madre per il primo caso, il burocrate per il
secondo); 5) la specificità di diffusione, rivolgendosi dunque o
unicamente alle competenze particolari o alla persona in generale
(es.: per primo l’amico, per secondo il cameriere). Le società
moderne sono sempre più caratterizzate da azioni universalistiche e
acquisitive, secondo Parsons, ma ciò è una sopravvalutazione:
l’azione è un’energia da incanalare per il soddisfacimento dei bisogni
del sistema; però, le stesse energie degli individui esercitano delle
forze centrifughe che devono essere costrette attraverso il
meccanismo premi/punizioni. Le società tradizionali si basavano su
azioni, invece, particolaristiche e ascrittive, mentre nella modernità
l’uomo è più razionale e quindi si comporta in conformità al fine di
raggiungere le proprie mete. La società moderna consiglia, non
impone, però per questo è maggiormente influenzante. All’interno
degli studi di Parsons si denota un contrasto tra comportamentismo,
ovvero la tendenza a ridurre l’azione umana a mero meccanismo di
risposta a degli stimoli esterni, e l’utilitarismo, ossia la spiegazione
secondo la quale tutte le azioni si basano su di un interesse
eliminandone il ruolo. Le norme svolgono una funzione altrettanto
fondamentale, in quanto collegano l’individuo alla società di cui fa
parte (riducendo, però, il libero arbitrio almeno in parte): le norme
vincolano l’individuo nel suo comportamento; inoltre sono
espressione dei valori di fondo di una determinata cultura; il sistema
culturale, di fatto, penetra nel sistema della personalità con
l’interiorizzazione dei valori (attraverso le norme) e nel sistema
sociale con l’istituzionalizzazione delle aspettative reciproche
(determinismo culturale). Ergo, la dimensione etico/normativa crea
un legame, con il quale gli uomini danno vita ai valori, seppur questi
diventino elementi culturali solo successivamente.
14. Robert Merton (1910-2003)
Allievo di Parsons ma anche suo riformista, concentra le sue
attenzioni sulle disfunzioni sociali: 1) metodologia, basandosi su
assunti verificabili empiricamente; 2) contenutistica, evidenziando
l’incapacità di spiegare ogni cosa basandosi sulla sola struttura
sociale e le sue funzionalità; 3) politica, notando che la società non
è spiegabile attraverso la funzionalità dei suoi apparati e delle sue
istituzioni. La metodologia è il principale punto di svolta: si passa
dalla Grand Theory di Parsons, incentrata su tutta la società, a quella
a medio raggio di Merton; si sviluppa tramite una serie di concetti
logicamente collegati fra loro ma che non sono universali, con delle
ricerche parziali e dei “ponti” fra le stesse ricerche differenti tra di
loro. Essa è una strada intermedia tra la Grand Theory e la ricerca
empirica circoscritta, data l’impossibilità di ricercare un sistema
teorico totale per la sociologia (contrariamente a Popper e Parsons):
le ricerche devono basarsi su un numero limitato di assunti da cui si
possono derivare ipotesi specifiche empiricamente osservabili;
inoltre, devono stare nel mezzo tra chi compie empirismo astratto e
la Grand Theroy parsonsiana; infine, l’analisi deve essere compiuta
a partire dai gruppi, dalle culture, dagli scopi. Si parla di Serendipity:
un concetto base, che riguarda la fortuna di fare felici scoperte per
caso e, anche, il ritrovamento di un’indeterminata cosa non cercata
e/o prevista, mentre se ne stava cercando un’altra (no all’indagine
sistemica). Merton critica apertamente Parsons e il funzionalismo
assoluto: 1) postulato dell’unità funzionale del sistema sociale, cioè
che tutti gli elementi o le attività di una cultura sono funzionali
all’intero sistema, incentivandone l’integrazione, ciò però è
contraddetto dal fatto che il grado di integrazione di una società è
una variabile empirica in costante mutamento; 2) postulato del
funzionalismo universale, ovvero che ogni aspetto sociale è
funzionale all’integrazione del sistema stesso, però esistono delle
forme culturali residue, tramandate dal passato sino al presente,
senza alcuna funzione e per ciò non vi è prova del fatto che tutto ciò
che esiste all’interno del sistema è funzionale allo stesso; 3)
disfunzioni, poiché affianco le funzioni e tendono alla disintegrazione
del sistema, questo perché un fatto, un atto o una forma sociale
standardizzata producono conseguenze volte a riprodurre il grado di
adattamento del sistema, nonostante ciò sia estremamente relativo
in base alla concezione soggettiva, ad ogni modo è capace di
produrre conseguenze inattese, come la burocrazia che si
“ritualizza”; 4) postulato dell’indispensabilità, dato che ogni elemento
in una società o in una cultura è indispensabile per lo svolgimento di
una specifica funzione, ma è anche relativo alla disfunzionalità oltre
che alla funzionalità. Merton parla delle alternative funzionali: una
struttura sociale non va sacralizzata poiché non impermeabile ai
cambiamenti; infatti, esistono nella realtà alternative funzionali, in
grado di compiere e svolgere lo stesso compito; esempio, la religione
come antidoto all’anomia può essere sostituita, con gli stessi effetti,
dai movimenti religiosi non istituzionalizzati. Ciò forma un equilibrio
netto, che determina funzioni e disfunzioni di molteplici strutture
sociali, in più non si limita a poche strutture e le studia tutte assieme.
Merton osserva la funzionalità attraverso un rapporto tra il positivo e
il negativo: le funzioni, possono essere latenti, se riguardano le
conseguenze dell’azione nei confronti dell’integrazione o
disintegrazione sociale; oppure, possono essere manifeste, se
coincidono con le motivazioni coscienti e riconosciute dal pubblico;
possono esistere delle differenze tra le motivazioni soggettive
coscienti e le conseguenze oggettive del comportamento sociale.
Merton osserva come gli individui non rispondono solo agli elementi
oggettivi della situazione, bensì anche al significato che essi
attribuiscono a tale situazione, determinando il loro comportamento
nell’agire conseguente: l’individuo, quindi, studia la situazione e ne
attribuisce un significato, stabilendo così il suo comportamento nei
riguardi di tale situazione, determinando un agire positivo o
negativo; esempio, la discriminazione razziale nasce dalla
presunzione circa l’inferiorità delle popolazioni nere, essa è maggiore
o minore a seconda del sentito soggettivo individuale che si riversa
nel contesto sociale. E il sociologo? Deve ricalibrare l’approccio
funzionalistico, con lo studio delle conseguenze non desiderabili e/o
non previste dell’azione, inoltre deve concentrare l’attenzione
analitica su tutto ciò che si palesa come disfunzionale piuttosto su ciò
che è funzionale. Distaccandosi da Durkheim e Parsons, Merton
riconosce la devianza come un comportamento singolo oppure
collettivo, che viola le norme formali e/o informali: essa non è
assoluta ed è relativa; non è qualità inerente a un atto ma
un’attribuzione soggettiva, da parte di una collettività in un preciso
contesto. Da qui, la teoria della tensione: l’anomia è uno stato di
tensione tra fini culturali e mezzi culturali del contesto analizzato;
esempio, il “grande sogno americano” riguarda il successo economico
ma ciò non è universalmente raggiungibile, e per questo produce
devianza a seguito di aver originato povertà. La devianza produce
degli effetti nella società:
Contesto
Scopi culturali Norme istituz. Adattamento
+ + Conformità
+ - Innovazione
- + Ritualismo
- - Rinuncia
+/- +/- Ribellione
1) Conformità, ossia la condivisione di mezzi e fini (individuo
integrato); 2) Innovazione, ovvero la condivisione dei fini ma non dei
mezzi (individuo rivoluzionario); 3) Ritualismo, cioè la condivisione
dei mezzi ma non dei fini (individuo meccanico); 4) Rinuncia, quindi
il rifiuto sia dei mezzi sia dei fini (individuo passivo); 5) Ribellione,
ergo il rifiuto sia dei mezzi sia dei fini (individuo attivo).
15. Niklas Luhmann (1927-1998)
Sociologo del XX secolo definito il teorico dei sistemi ma anche di un
modello tecnocratico della società. Egli esaspera la centralità del
sistema elaborata precedentemente da Parsons: una società dove i
sistemi che la compongono sono chiusi, impermeabili,
autoreferenziali e che si autoregolano. Sono esattamente tre le realtà
studiate all’interno delle sue teorie: 1) Mondo, ossia l’infinità delle
molteplicità e complessità del reale, non si può studiare ma è
funzionale per la concessione di contesti di studio; 2) Ambiente,
ovvero la delimitazione delle possibilità di una situazione attraverso
la loro concettualizzazione, serve a ridurre le illimitate possibilità
proposte dal mondo reale; 3) Sistema, cioè la parzialità di ambiente
e selezione razionale delle possibilità offerte, serve a selezionare gli
aspetti più essenziali del contesto sotto studio. Il mondo è
infinitamente complesso e per questo deve essere ridotto tramite
l’ambiente prima e il sistema dopo (entrambi possono
reciprocamente sostituirsi): riducendo l’infinità senza senso ad una
sezione limitata e sensata, si ottiene una società come sistema di
sistemi; non vi è un senso di organicismo, ogni sistema ha un
ambiente di riferimento ed è autoreferenziale e, infine, può essere
compreso solamente da chi il sistema lo vive dall’interno. Secondo
Luhmann, inoltre, il sistema: 1) è un insieme di elementi o di
sottosistemi interconnessi tra di loro o con l’ambiente esterno e che
si comportano come un tutt’uno; 2) può essere definito come l’unità
fisica e funzionale, costituita da più parti che contribuiscono per una
finalità comune, inoltre è sicuramente meno complesso dell’ambiente
ma ciò lo rende più debole nei confronti dello stesso (suo nemico) e
per questo deve necessariamente complicarsi al fine di difendersi
(gabbia sistemica). Vi sono tre tipologie di sistema: 1) biologico,
ossia costituiti dalla sintesi di determinate sostanze; 2) psichici,
ovvero composti dalla riproduzione dei processi cognitivi; 3) sociali,
cioè caratterizzati dalla comunicazione individuale e/o collettiva.
Luhmann espone il concetto dello “Autopoiesis”: la capacità del
sistema di riprodursi e autoregolarsi (creazione, produzione,
regolazione); la rete di processi di creazione, trasformazione e
distruzione di componenti porta questi a interagire fra loro e, di
conseguenza a sostenere e rigenerare il sistema costantemente; il
suo dominio coincide con quello topologico delle sue componenti;
quindi, in sintesi, i due pilastri su cui si basa il sistema sono la sua
autoreferenzialità e la specificità dei suoi componenti. Il sistema
produce gli elementi di cui ha bisogno, per esempio il denaro per le
società che basano le proprie economie sulla transizione di denaro,
ed esso stabilisce i confini, quindi cosa lo separa dall’ambiente, e il
coordinamento, cioè la collaborazione fra le strutture interne al fine
di mantenerlo e anche qui quel che è disfunzionale favorisce il
mantenimento del sistema. Essendo autopoietici e autoreferenziali, i
sistemi sono chiusi all’esterno, inoltre sono caratterizzati dagli
individui che ne fanno parte, nonostante persino l’individuo sia un
sistema a sé, particolarmente complesso (coscienza). Quando il
sistema decide di aprirsi all’esterno, “seleziona” attentamente con
cosa farlo: infatti, esso sviluppa una complessità propria e la evolve
in relazione alla complessità esterna, cercando di mantenere un certo
dislivello tra le due realtà. La società moderna si caratterizza per il
suo processo di differenziazione interna e sistemica necessaria al
rapporto con l’ambiente, il quale può essere interno se condiviso da
tutti od esterno se specifico ad un particolare sottosistema. Questi
rappresenta una prospettiva del sistema stesso, e per questo ne
aumenta la complessità, a causa della differenziazione: 1)
segmentaria, tipica delle società preistoriche divise in tante tribù o
villaggi dalla struttura simile; 2) centro/periferia, propria dei grandi
imperi, dove avveniva una diversificazione tra il centro e la periferia,
con un rapporto di forza e importanza della prima rispetto alla
seconda; 3) stratificata, sviluppata nel Medioevo e nella Modernità,
caratterizzata da una divisione in classi organizzate
gerarchicamente; 4) funzionale, più Contemporanea, che consiste
nella diversificazione degli elementi della società in base alla funzione
che hanno o al compito a cui assolvono. Secondo Luhmann la
diversificazione è un mezzo per ridurre la complessità: l’evoluzione
storico-sociale coincide con il processo di differenziazione e di
aumento della complessità, il cui grado aumenta costantemente; si
formano dunque i sistemi differenziati, che comunicano tra di loro e
che hanno a loro volta hanno dei sottosistemi fondamentali
(economia, famiglia, scienza, politica). Il sottosistema, nato dalla
differenziazione del sistema, è un riflesso dello stesso e per questo
diventa oggetto di sé (come la scienza). Anche la fiducia riduce la
complessità sociale: l’assunzione di un rischio al fine di semplificare
la vita, assieme al grado di apertura nei riguardi di ciò che ci viene
proposto dall’altra persona a proposito di un “mondo comune” (una
visione futura”), produce la credibilità e questa tanto è maggiore e
tanto riduce la necessità di fidarsi.
16. Jurgen Habermas (1929 - )
Habermas è noto per la sua contrapposizione tra sistema e mondo
vitale: il mondo della vita rappresenta il punto di vista dei soggetti
che agiscono nella società, mentre il sistema comporta una
prospettiva esterna che considera la società dal punto di vista
dell’osservatore non coinvolto. L’agire comunicativo è essenziale
all’interno di questo concetto (valori condivisi, spontaneità,
tradizioni, ecc.) ed esso a sua volta permette la compartecipazione
in una società dialogica ed integrata, tramite un insieme di pratiche
attraverso le quali la società si riproduce nel tempo (razionalità
dialogativa). Per Weber la razionalizzazione è perlopiù negativa
(gabbia d’acciaio) mentre per Habermas è positiva: questo perché
enfatizza la razionalità comunicativa che permette l’intesa (consenso
fra gli attori); tanto è migliore l’argomentazione e altrettanto è
produttiva la comprensione (“testa e non pancia”). Il mondo della
vita è fatto di cultura, società e personalità (maggior coesione
sociale) che però può far esasperare il passato se condizionato dal
conservatorismo (negativo poiché strumentalizzabile, vedi il
populismo). Il sistema di Habermas si basa sul denaro e il potere,
inoltre è rigidamente disciplinato dall’agire tecnico, strumentale e
strategico: il sistema sociale riguarda il modo in cui le strutture e gli
imperativi funzionali della società condizionano l’agire individuale e
collettivo attraverso il potere ed il denaro; anche con l’influenza del
mondo della vita, d’altronde ha delle radici nello stesso nonostante il
processo di modernizzazione ha complicato la relazione reciproca con
la formazione di caratteristiche proprie e indipendenti. La
razionalizzazione del sistema comporta differenziazione, complessità
e autoreferenzialità: queste conseguentemente ne aumentano il
potere di controllo sul mondo vitale, finendo per esercitare un mero
controllo esterno (arretramento del mondo vitale); la
modernizzazione ha reso autonomo il sistema rispetto al mondo
vitale, questo fattore ha compromesso e schiacciato l’esistenza di
quest’ultimo; il potere e il denaro non comunicano, anzi creano
sudditanza e passività; in ultima analisi, il sistema ha colonizzato il
mondo della vita, con i meccanismi sistemici retti da potere e denaro,
che determinano la riproduzione sociale al posto della comunicazione
del mondo vitale. Tale colonizzazione comporta dei rischi: 1) la
perdita di senso (anomia); 2) la perdita della libertà (estrema
tecnicizzazione); 3) la formazione di una falsa coscienza (estrema
razionalizzazione e neutralità). La razionalità diventa sempre più
indipendente rispetto alle tradizioni culturali, tramite lo sviluppo del
calcolo utilitaristico, che sopprime la razionalità comunicativa e
produce delle conseguenze drammatiche: 1) disuguaglianze
economiche e sociali; 2) estremizzazione tecnicistica e dominio
tecnico; 3) crisi sistemiche. Quest’ultime sono molto importanti, tali
perché determinano un irrigidirsi del mondo della vita: la razionalità
tecnocratica, con una vita monetizzata e una crescente
burocratizzazione, entra in contrasto con la razionalità comunicativa;
questa è positiva e rafforza le volontà sociali permettendo un
alleviamento delle condizioni negative provocate dalla
razionalizzazione sistemica, per questo è centrale il ruolo del
linguaggio (maggior comunicazione che porta ad una maggior
integrazione). Il linguaggio può assumere diverse forme: 1)
cognitivo, che garantisce la comprensione della situazione; 2)
performativo, che trasmette valori e conferisce consenso; 3)
espressivo; che serve a proporre la propria personalità. Il linguaggio
esprime l’agire: teleologico/strumentale, che corrisponde all’agire
razionale rispetto allo scopo di Weber (non c’è comunicazione
effettiva); regolato da norme, quindi ritenuto giusto dalle normative
(c’è un’intesa, potremmo dire, legale); drammaturgico, che è
necessario a raggiungere il fine dopo aver ottenuto i mezzi
(caratterizzato dall’indipendenza). A seconda del grado della
comunicazione è possibile riscontrare un risultato migliore/peggiore
dell’agire, e questo perché il libero scambio tra soggetti razionali, che
discutono riguardo le scelte che informano il loro mondo della vita,
necessità anche di comprensione, ovvero di una “situazione
discorsiva ideale”, la quale permette la cooperazione (vi sono, però,
dei punti critici, dati dalla relatività della comunicazione, e quindi la
differenza tra lingue e culture, e le differenze di puro capitale
culturale e risorse educative). Per Habermas persiste una circolarità:
mondo vitale e sistema devono superare le loro forme originali di
razionalità (comunicativa e strumentale) e trovare una mediazione
tra le parti; il sistema deve rimanere subordinato al mondo vitale e
questi deve comunque concedergli operatività; l’unità tra le due
realtà permette così di evitare conflitti e la degenerazione sociale.
17. Teoria critica di Francoforte
La scuola critica di Francoforte è una delle scuole di sociologia più
importanti del XIX secolo: essa segue la scia degli studi di Habermas,
affiliando l’approccio marxista e quello psicoanalista; il primo per i
concetti di sfruttamento e di dominio di classe, pur osteggiando il
concetto di centralità dell’economia; il secondo al fine di cogliere
determinati contesti sociali importanti per le ricerche da condurre.
Insieme i due metodi permettono a studiosi e teorici di Francoforte
di fondare la scuola critica omonima nel 1923, di cui ne ricordiamo le
figure di: Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, Lowenthal e
Benjamin; a causa delle persecuzioni razziali perpetuate dai nazisti,
questi personaggi illustri e molti altri al loro seguito dovranno
rifugiarsi negli USA, dove condurranno il continuo dei loro studi. I
punti di partenza necessari da esaminare per comprendere questi
studi sono: 1) le riflessioni sul fallimento della lotta operaia e la
rivoluzione bolscevica come “fallimento rivoluzionario”; 2) le
riflessioni sull’ascesa dei totalitarismi in nazioni avanzate come la
Germania; questo perché la domanda che ci si pone è come può Marx
chiarire le evoluzioni sociali che non aveva previsto, dato che è
necessario studiare l’impulso soggettivo. Questa concezione ultima
ha dato modo di superare i principi marxisti e di migliorarli,
fondendoli con le teorie di Freud.
18. Theodore Adorno (1903-1969)
Sociologo della scuola di Francoforte che ha dedicato particolare
sforzo allo studio della personalità autoritaria e del fascismo
potenziale: quest’ultimo si manifesta attraverso un insieme coerente
di valori, opinioni e atteggiamenti che originano da strutture
profonde della personalità (antisemitismo, etnocentrismo, animo
conservatore, fascismo potenziale). Il mondo moderno isola, aliena
l’individuo che cerca di rifugiarsi nelle società autoritarie: questo a
causa dell’alta burocratizzazione e del disfacimento delle gerarchie,
che sviluppa ansia e insicurezza nell’individuo, il quale
conseguentemente non può che dar sfogo al proprio impulso
soggettivo, ciò avvicina l’individuo alle società autoritarie che,
proponendo una semplificazione della vita e una linea di comando
solida e diretta, necessarie all’individuo spaventato e disorientato.
L’individuo che si rifugia nelle società autoritarie, dà vita a una nuova
“specie antropologica” tutta da studiare e comprendere: c’è la
necessità di comprenderne i fattori socio-psicologici che hanno
consentito più volte alla personalità autoritaria di sostituirsi alla
personalità democratica. C’è una metodologia dietro a questo studio:
sono necessarie ricerche rivolte ad individui della classe media
inseriti in organizzazioni più o meno prestigiose; i soggetti che
vennero presi in considerazione da Adorno e i suoi colleghi, furono
sottoposti a questionari con domande di collocazione sociale e di
storia personale e mentalità; inoltre, bisogna costruire delle scale
valutative in base al grado di antisemitismo, di etnocentrismo, di
tendenza conservatrice e di tendenza antidemocratica. Vengono così
a costituirsi due modelli, non necessariamente assoluti, da
comparare: il primo è il modello democratico in tutte le sue
sfaccettature, caratterizzato da rapporti particolarmente affettuosi e
da personalità flessibili e aperte, oltre che tendenti al futuro e
all’innovazione; il secondo è il modello antidemocratico, o autoritario,
delineato da rapporti gerarchici e con una tendenza al dominio e alla
dipendenza, oltre che ad un forte senso di conservatorismo. Inoltre
dobbiamo considerare che i campi sotto analisi sono molteplici: la
famiglia, il lavoro, la scuola, ecc.; campi legati al sociale. L’individuo
autoritario è: convenzionalista, poiché aderisce rigidamente ai valori
della classe media; aggressivo, dato che condanna chi non segue ciò
che è convenzionale; potere e durezza, accentuato dalla divisione tra
forte e debole; sottomesso, perché omette la propria volontà in
favore dell’autorità superiore; chiuso e conservatore, a causa della
sua opposizione agli animi teneri e aperti e alla sua avversione verso
la vita sessuale; superstizioso e stereotipo, data la necessità di
creare categorie o forme sociali rigide e di credere nel destino
dell’uomo; proiettivo, dovuto al suo desiderio di credere nei
complotti; cinico e distruttivo, poiché la familiarità genera disprezzo.
Studiando ciò sorge spontanea la necessità di curare il “sintomo”
della persona autoritaria, ma questo non è possibile: la soluzione
ottimale è agire sulla struttura della personalità quando questa
manifesta i primi sentori anti-democratici; quindi, prima che il
processo di sviluppo dell’identità abbia fine, bisogna agire nei
processi educativi, in particolar modo dobbiamo agire sulla famiglia;
la crescita del bambino deve essere riformata e in questo hanno la
responsabilità principale i genitori, poi segue l’educazione; bisogna
motivare l’individualità e costruire il carattere, non incentivare la
necessità di un ordine gerarchico e di una dipendenza all’autorità; di
fatto, un rapporto genitore-figlio insoddisfacente permette
l’emergere della personalità autoritaria. È quindi chiaro che bisogna
far leva sulle caratteristiche tipiche dell’individuo e togliere ogni
necessità riguardo la forma autoritaria e la dipendenza ad essa. I
meccanismi autoritari devono essere sventati cercando di mutare la
società, ponendo gli individui nella facoltà di guardare liberamente e
autonomamente a se stessi, e quindi evitare le discriminazioni sociali.
19. La dialettica dell’illuminismo
Adorno e Horkheimer svilupparono un concetto introduttivo al tema
dell’industria culturale: la dialettica dell’illuminismo, sulla base della
domanda riguardo la tendenza a sprofondare nelle barbarie. Questo
perché è venuto meno il programma culturale dell’illuminismo basato
su uno stretto legame tra scienza e tecnica, facendo così cadere il
sogno relativo: la natura è stata devastata con l’industrializzazione;
lo sfruttamento è cresciuto e ha continuato a crescere; le ingiustizie
e le disuguaglianze sono moltiplicate. Basti pensare alle guerre
mondiali, ai loro genocidi e alle carneficine conseguite, come esempi
più che chiari. L’individuo, così, non è più ritenuto libero ma sempre
più agognato. Il rapporto servi-padroni non ha una dialettica
dinamica né tantomeno un autocoscienza dei lavoratori. Il capitalista
ha separato il lavoro intellettuale da quello manuale, ponendoli
entrambi al servizio del dominio della natura: secondo il mito della
razionalità, gli uomini pagano l’accrescimento del proprio potere con
la estraniazione da ciò su cui lo esercitano; questo determina non
solo un dominio dell’uomo sulla natura ma anche un dominio
dell’uomo sull’uomo, permettendo a certi individui, i dittatori, di
dominare e manipolare gli altri individui. L’illuminismo, invece di
rovesciare i miti ha finito per crearne di nuovi: l’uomo si estranea
dalla natura e segue un processo di spersonalizzazione, facilmente
sfruttabile da parte sia dei totalitarismi sia delle democrazie,
attraverso l’industria della cultura. Essa è un sistema integrato e
compatto all’interno del sistema, al cui interno avvengono dei
processi di comunicazione unidirezionali: il valore di sacralità ed
unicità dell’oggetto artistico viene sostituito dalla standardizzazione
e dalla ripetizione (es.: l’industria di stampo taylorista e fordista); il
complesso di strumenti quali arte, mass media, moda, o altri, non
sono imparziali, bensì esaltano l’efficientismo tecnico e aboliscono le
novità; i proprietari di tali strumenti veicolano un determinato
insieme di valori e un modello di comportamento attraverso la
pubblicità, la quale trasmette ideologia pura. Quando cerchiamo di
rompere con questi meccanismi, cerchiamo di andare
controtendenza e quindi, di conseguenza, creiamo delle correnti anti-
sistemiche (tipo il rock, il punk, i vestiti, i comportamenti, ecc.), però,
le stesse sono sfruttabili e strumentalizzabili dal sistema, il quale le
utilizza per accrescere la propria stabilità interna, e questo comporta
un’integrazione delle correnti anti-sistemiche stesse che diventano,
infine, sistema: avviene una vera e propria “colonizzazione”
dell’industria culturale in campi e riguardi non di sua competenza,
questo perché l’apparato che la compone è così forte da penetrare
ogni tessuto, per poi assoggettarlo completamente; si lascia apparire
del nuovo che in verità diventa uguale e sistemico. Il tutto avviene
esattamente come un procedimento industriale, attraverso la
produzione, la distribuzione e il consumo dei prodotti culturali nel
loro insieme: il consumatore non è sovrano ma è oggetto della stessa
industria; inoltre, lo spettatore non deve lavorare di testa propria, in
quanto ogni prodotto evita le connessioni logiche. La strategia di
dominio sulla quale si basa questo controllo onnipresente e
oppressivo, è il genere: attraverso gli stereotipi, ovvero formule fisse
che determinano le modalità di percezione del contenuto da parte
dello spettatore; si induce passivamente qualcosa nello spettatore,
condizionandolo. L’industria culturale avvia una vera e propria
feticizzazione della cultura: i prodotti culturali diventano dei veri e
propri prodotti di consumo, si esclude il nuovo e ci si basa sulla
fissazione che tutto debba essere pressoché sempre uguale; il
mercato riesce a occultare le uguaglianze attraverso apposite
strategie e finge accuratamente nel far partecipare il consumatore
nel processo, così da minimizzare il senso critico dello stesso; i
prodotti culturali vengono standardizzati e questo porta il
consumatore a credere che gli venga soddisfatto sempre un bisogno;
si effettua una vera e propria manipolazione del pubblico, attraverso
soprattutto la pubblicità. La manipolazione è una strategia perseguita
attraverso l’azione contemporanea di tutti i sistemi di comunicazione;
i media hanno lo scopo latente o manifesto di entrare nel cervello
degli spettatori; l’offerta mediale è una riproduzione della mediocrità
e dell’inerzia intellettuale. In tutto ciò, è impossibile per l’individuo
sottrarsi a questi meccanismi: infatti, il processo minimizza il senso
critico del consumatore, azzerandogli l’autonomia (soprattutto
intellettuale) e costringendolo a pensare che tutto ciò che gli venga
servito non sia uguale, bensì utile a soddisfare un determinato
bisogno indotto dal sistema: qui si pone il problema di effettuare la
ricerca empirica; che senso può avere una ricerca condotta su degli
individui, i quali non hanno autonomia e senso critico nel vedere le
cose? La ricerca empirica diventa, così, inutile, dato l’intervento
dell’industria culturale atto ad agire sull’autonomia del consumatore
e sulla qualità del consumo: il sistema promette ma non mantiene,
bensì illude e nel fare ciò riesce ad annichilire la volontà del
consumatore ad esso sottomesso; infatti, divertirsi significa andare
d’accordo, è molto più vantaggioso e gratificante abbandonare le
sofferenze, anche momentanee, o i disaccordi, pur di divertirsi ed
essere felici nel breve termine, perdendo così di vista il vero
significato del lungo termine nei suoi progressi e nelle sue
innovazioni. L’industria culturale, quindi, sottomette il consumatore,
crea in questi un senso fortissimo di impotenza ed è,
sostanzialmente, una fabbrica del consenso, che promette ma non
mantiene e, soprattutto, illude.
20. Herbert Marcuse (1898-1979)
Un altro importante sociologo della scuola critica di Francoforte,
Marcuse analizza l’uomo “a una dimensione”: sotto l’illusione della
razionalità di un mondo sempre più plasmato dalla tecnologia e dalla
scienza, si manifesta l’irrazionalità di un modello organizzativo della
società che sottomette l’uomo; la razionalità tecnica ha ridotto il
discorso e il pensiero ad un’unica dimensione, che riesce a far
coincidere, ad esempio, la realtà con l’apparenza; inoltre, questa
società “unidimensionale” ha annullato lo spazio del pensiero critico.
La tecnologia non può essere neutrale, dato che essa è un sistema
complesso di dominio che opera sin dal momento in cui le tecniche
vengono concepite ed elaborate, rendendo l’istintività, il piacere
come asserviti al “principio della prestazione”, ovvero la direttiva di
impiegare tutte le energie psico-fisiche dell’individuo per scopi
produttivi e lavorativi. L’unica dimensione ha alienato l’uomo: ha
creato un distacco tra ciò che deve e che non deve essere e così non
ci sono alternative; il sistema tecnologico ha la capacità di far
apparire razionale ciò che è irrazionale, stordendo l’individuo in un
frenetico universo cosmico nel quale si mimetizza; il sistema si
ammanta di forme pluralistiche e democratiche che, però, sono
puramente illusorie in quanto sono sempre nelle mani di pochi; la
stessa tolleranza di cui si vanta il sistema è repressiva, poiché valida
solamente riguardo ciò che non mette in discussione il sistema
stesso. Il risultato è l’emarginazione delle possibilità dell’individuo di
esteriorizzare la molteplicità del proprio essere interiore in modo
drastico: la negazione avviene sotto forma di rinuncia inconsapevole
e ingenua che viene resa possibile grazie alle illusorie libertà di cui
può godere l’individuo e delle quali l’intera società si rende garante;
quindi la società produce illusioni che inducono l’individuo a
sottomettersi e a negarsi; questa libertà ha la mera funzione di
“ammansire” l’uomo in una “civiltà del consumo”, la quale ha
affermato la propria supremazia ideologicamente. Le libertà sono
amministrate ed erogate direttamente dalla società: vi è una più che
totale istituzionalizzazione e resa nel mercato delle esigenze e dei
desideri; il falso permissivismo della società conduce l’uomo moderno
ad accondiscendere a ridursi a mero strumento; quindi l’individuo,
distratto e inconsapevole in parte, non riconosce il fatto che siano
assoggettate le sue passioni e i suoi istinti ad un sistema omologante
e repressivo. Quel che avviene è una “desublimazione”:
un’alienazione dell’uomo dalla propria interiorità artistica e sensuale,
producendo un vero e proprio disincanto; è necessario recidere le
catene che legano l’individuo ad una società che mira a reprimerne
gli impulsi creativi sostituendoli con godimenti ingannevoli ed
effimeri; è opportuno, dunque, passare dalla falsa coscienza alla
coscienza autentica, dall’interessa immediato all’interesse reale;
l’individuo deve avvertire il bisogno di mutare modo di vita, di negare
il positivo e di rifiutarlo, in quanto la società tecnologica non può
imbavagliare tutti i problemi sociali; rimane la contraddizione di
fondo, però, dello scarto tra il potenziale possesso dei mezzi e
l’indirizzo conservatore della politica.
21. Norbert Elias (1897-1990)
Sociologo tedesco importante per la sua analisi del processo di
civilizzazione/decivilizzazione sociale: tale processo si è rivelato
naturale e automatico, che come è cominciato ha proseguito in
maniera costante e precisa. Si tratta del raffinamento dei costumi al
fine di essere sempre più civili; si cerca di contenere la violenza e gli
sfoghi eccessivi, definendo il lecito e l’illecito sulla base di regole
come il galateo; Elias procede analizzando l’evoluzione dei movimenti
civili nel tempo, affiancando quindi la ricerca storica a quella
sociologica. Esempio: il guerriero medioevale deve essere furioso in
battaglia e saper essere più violento possibile, poiché accettato;
invece, il nobile dell’evo moderno è costretto a contenersi e ad essere
più freddo possibile, soprattutto in contesti politici. Il processo è
legato anche alle cosiddette catene di dipendenza, esse possono
corte o lunghe: le prime sono le catene più distanti, temporalmente
parlando, dati i pochi legami che caratterizzavano e condizionavano
le persone (ad es.: i guerrieri medioevali); le secondo sono le catene
più recenti e maggiormente influenti, dato il maggior numero di
legami e quindi la possibilità che tutti sappiano tutto (es.: i nobili
dell’evo moderno). Con l’ascesa della borghesia, inoltre, un nuovo
ceto nasce sulla scia dei costumi e dei modi della nobiltà e compete
con essa al fine di superarla e dimostrarsi superiore: questo
determina il passaggio da una primazia delle armi ad una primazia
delle buone condotte; inoltre, le due componenti (nobili e borghesi)
alla fine si mescolano, dando vita ad un processo di “curializzazione”
della società; vi è uno stretto rapporto tra dimensione psicologica e
dimensione sociale, dato che la formazione e lo sviluppo determinano
una trasformazione, e viceversa. Viene così superata la tradizionale
divisione tra individuo e società, dato che la costruzione e il
consolidamento dello Stato moderno sono accompagnati e motivati
da nuove moralità proprie degli individui: questo però porta
l’individuo a provare una pressione crescente ed invasiva, per volontà
della società stessa, costringendosi infine a reprimersi; i meccanismi
di inibizione e autocontrollo propri dell’individuo, determinano un
mutamento dell’equilibrio tra eterocostrizione e autocostrizione
individuale; l’autocostrizione diventa sempre più automatica senza
necessità di un appoggio degli organi della società, sopprimendo
quindi l’eterocostrizione; si manifesta, dunque, una paura instillata,
che produce e manifesta a sua volta senso di disgusto, di vergogna
e di pena. Il risultato del processo non è considerabile totalmente
negativo, né tantomeno totalmente positivo: la civilizzazione di per
sé è positiva e produce sicurezza collettiva; quando però il grado
della stessa raggiunge l’ipercivilizzazione, produce repressione
nell’individuo. Un altro tema importante molto toccato dalla
civilizzazione è la morte: precedentemente, la gente moriva in casa
e circondata dai propri cari, il tema stesso della morte era sentito
quotidianamente; gradualmente, in concomitanza con
l’allungamento della vita, la civilizzazione ha “rimosso” la morte ed
essa assieme ai morti viene occultata, così facendo si muore soli. Ciò
dovuto sia alla paura sia soprattutto all’indifferenza. Gli individui
sottraggono i bambini ai morenti e alle sofferenze poiché se ne teme
il trauma: mancano quindi riti ed empatia. Il grado di civilizzazione
ci muta al cospetto del moribondo, per vergogna e per pena: siamo
incapaci di toccarli, di prendergli la mano e di parlargli; manca il
sentimento. Questo dovuto, in gran parte, al processo di
razionalizzazione del mondo: la morte è sempre più spesso affidata
a tecnici e specialisti (dotti, infermieri, medici, ditte funebri); la
routine degli ospedali costituisce l’unico rito di accompagnamento per
il morto; le operazioni di sepoltura e le cure non sono più eseguite
dai parenti, bensì da ditte esterne ad essi e che ci lucrano sopra.
Infine, dobbiamo considerare che la società moderna ha permesso
l’allungamento della vita, condizionando così la morte che viene
sempre più vista come un difetto, per questo moriamo in solitudine
e costantemente cerchiamo di rimanere in vita il più possibile.

In sintesi, la sociologia non è altro che un pugno nello stomaco bello


e buono che ci fa sputare il cotechino e le lenticchie di fine anno ’89.

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