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Poggi Sciortino - Incontri con il pensiero sociologico

Introduzione:

Il libro propone le idee di un ristretto numero di autori che hanno dato contributi profondi e
originali alla teoria sociale moderna, ovvero quel complesso di riflessioni scientificamente
orientate sulla natura dell'esperienza sociale che si è venuto formando tra la prima metà
dell'Ottocento e il secolo successivo.

Gli autori vengono discussi ciascuno in un capitolo diverso, senza esaminare


sistematicamente i rapporti intellettuali tra loro. Ciò che interessa è spiegare le posizioni che
i vari autori hanno assunto su problematiche di teoria sociale tuttora aperte, e in particolare
ciascun capitolo parte dalla risposta più significativa che ogni autore ha dato, in maniera più
o meno espressa, a una questione centrale, ovvero la sua “antropologia filosofica” (la sua
immagine dell'essere umano, delle possibilità che assistono o ostacolano gli individui nel
costruire e gestire i loro rapporti reciproci).

Il ricollegarsi ai classici è importante perché, a differenza delle scienze “mature” (a partire da


quelle naturali, ma anche l'economia), caratterizzate da uno spiccato cumulativismo
(ciascuna operazione di ricerca si fonda sui risultati validi e rilevanti di quelle
immediatamente precedenti, e così via), e sebbene anche la ricerca sociologica stessa
abbia una sua dimensione cumulativa piuttosto marcata, la sociologia è caratterizzata da
una dimensione non cumulativa, che porta a riflettere sui suoi stessi presupposti,
riprendendo occasionalmente le trattazioni di autori abbastanza remoti nel tempo,
proponendo un confronto più o meno diretto con il loro pensiero.

Inoltre, si tratta di opere che rivelano la futilità del settarismo disciplinare: degli autori
studiati, interessati a far progredire la disciplina sociologica, tutti sono disposti a valicare i
“confini” della disciplina quando questo risulta necessario per comprendere meglio il
problema con cui si confrontano.

Il libro in ogni caso non si propone di ricostruire l'intera biografia intellettuale degli autori: non
tutto ciò che gli autori hanno prodotto è da considerare rilevante.

➔ Marx, Weber, Durkheim e Simmel: universalmente riconosciuti come appartenenti


al “canone” della teoria sociale moderna.

➔ Parsons: centralità innegabile nel dibattito sociologico.

➔ Mead: le sue posizioni, un tempo eclissate, sono tornate a stimolare discussioni


nell'ambiente sociologico moderno.

➔ Garfinkel e Goffman: rispetto ai contemporanei hanno avuto un impatto più


significativo sulla sociologia moderna.
KARL MARX

Filosofo ed economista tedesco, trascorre gran parte della sua esistenza come esule
politico, in Francia e soprattutto in Inghilterra.

Molto attivo come ideologo e come leader del movimento operaio europeo entro
l'Associazione Internazionale dei lavoratori (prima internazionale) si impegna in
molteplici studi su temi diversi, soprattutto nella critica all'economia politica, nell'intento di
offrire un fondamento scientifico alla lotta operaia.

Questa sua attività teorica ha vasta eco, e a essa si riallaccia, in vari paesi, una
componente primaria di organizzazioni e partiti socialisti denominati “marxisti”, termine che
si applica a una ricchissima produzione teorica e sociologica.

➢ Manoscritti Economico-Filosofici (1844)

➢ L'ideologia tedesca (1846)

➢ Manifesto del partito comunista (1848)

➢ Il capitale (1867)

Antropologia filosofica:

L'intero pensiero di Marx viene elaborato sullo sfondo di una concezione, più o meno
esplicita, della natura degli esseri umani: Marx in particolare aderisce a una concezione
dell'essere umano spesso associata con l'espressione latina homo faber (uomo artefice).
In questa concezione, la natura umana si fonda su una peculiare attività vitale che possiamo
chiamare produzione.

In questa attività, che consiste nell’intervenire sulla natura piegandola al proprio servizio per
estrarne risorse che soddisfino i propri bisogni basilari (sopravvivere per riprodursi), gli
uomini si rapportano alla natura tramite oggetti che la natura stessa non fornisce loro, ma
che essi stessi mettono a punto per piegarla al servizio delle proprie necessità.
Gli esseri umani in altre parole possono manipolare i dati naturali e aggiungere a questi i
risultati delle proprie attività, facendone le premesse di attività future diverse da quelle
presenti.

Lo possono fare perché sono capaci di operazioni soggettive (accertare le condizioni


esistenti, formulare giudizi e preferenze in merito a queste, orientare i propri sforzi verso
condizioni solo immaginate) non programmate dalla natura, e per questa ragione diverse da
un gruppo umano all'altro, da un momento storico all'altro (essere umano dotato di
creatività).

Marx deriva questa consapevolezza dalla tradizione idealistica tedesca e dal pensiero
romantico: a differenza di quelle visioni egli non accentua gli aspetti più nobili e elevati (la
costruzione di istituzioni, espressione estetica ecc...), ma quelli riguardanti la riproduzione
dell'esistenza fisica degli individui e dei gruppi.

Egli sottolinea infatti l'importanza fondamentale che hanno nell'esistenza umana i processi
relativi alla produzione della vita materiale (importanza spesso ignorata dalla filosofia), il
ruolo che svolgono in questi processi i mezzi di produzione e la possibilità che essi cadano
sotto il controllo privilegiato di soggetti diversi da quelli impegnati nella produzione, tramite
specifiche istituzioni delle quali la più significativa è la proprietà privata.

Questi due gruppi sono caratterizzati da una natura essenzialmente antagonista, che porta
le società ad essere attraversate (tutte, più o meno scopertamente) da una scissione
fondamentale legata ai processi produttivi. Marx denomina classi le collettività più importanti
che emergono nel contesto dei processi di produzione e distribuzione.

Il rapporto antagonistico deriva dal fatto che una classe consumi più di quanto non produca,
e può farlo perchè l'altra produce più di quanto non consumi. La prima mantiene questa
posizione di vantaggio perché controlla i mezzi di produzione e se ne serve per stabilire e
gestire con l'altra un rapporto di sfruttamento.

Ne consegue un contrasto fondamentale tra l'interesse di una classe a mantenere e


accrescere queste disuguaglianze, e l'interesse dell'altra a sopprimerle o moderarle.

Nel pensiero Marxiano tuttavia i processi che fanno capo al funzionamento e al


mantenimento di una determinata società sono gli stessi che a lungo andare presiedono
anche al suo mutamento: le diseguaglianze inducono la maggioranza a cercare di sovvertire
il rapporto che sistematicamente la danneggia, perché la esclude dal godimento della
ricchezza prodotta dai suoi stessi sforzi.

Spesso tuttavia, gli interessi della maggioranza rimangono subordinati a quelli antitetici della
minoranza. Anzi, spesso la maggioranza non è consapevole dei propri interessi e non
oppone quindi serie resistenze alla propria condizione di inferiorità.

In termini generici, questo fenomeno si può ricondurre al principio stesso, affermato da Marx
contro la tradizione idealistica, del carattere fondamentale dei processi di produzione della
vita materiale rispetto a ogni altro processo: in parole povere, chi controlla la produzione
della ricchezza controlla tutto.

Il modo in cui in ogni società vengono organizzate e gestite la produzione e la distribuzione


della ricchezza influenza e in qualche modo determina ogni altro aspetto dell'esperienza
sociale (religione, arte, vita familiare, politica, diritto etc...). Tali aspetti non possono che
rispettare e in qualche modo assecondare gli interessi della classe che possiede i mezzi di
produzione.

1. La religione ad esempio, secondo Marx, esprime un senso di insoddisfazione e di


disagio nei confronti dell'esistenza, un desiderio verso un modo più coerente e giusto
verso cui il mondo potrebbe operare, e che l'esperienza quotidiana esclude. Ogni
religione sostanzialmente trasfigura queste aspirazioni verso un aldilà immaginario,
per raggiungere il quale il credente si astiene dal realizzare quelle aspirazioni qui ed
ora.
In questo modo la religione si fa complice dell'esistente, anche quando si appella a
valori che la realtà esistente nega alla grande maggioranza degli individui.

2. Nello stesso modo, il diritto di una determinata società costituisce un punto di


riferimento a cui gli individui fanno capo per gestire la propria esistenza, per
orientare il proprio agire. Ma gli assetti giuridici di ogni società proteggono e
realizzano in primo luogo gli interessi della classe dominante, e quel senso di
sicurezza e prevedibilità che viene conferito alla classe dominata non ne nega la
sostanziale condizione di subordinazione, anzi la garantisce.
3. Infine, il potere politico ha in tutte le sue forme la funzione di mettere a disposizione
di un centro decisionale un insieme di risorse organizzative e materiali per istituire e
sanzionare, se necessario con la forza, un ordinamento vincolante dei rapporti
sociali. Ma questo ordinamento si fonda sul controllo che la classe dominante
esercita sugli assetti produttivi e distributivi della ricchezza.

Lo stesso potere politico quindi, anche laddove le istituzioni politiche sono distinte da
quelle relative alla produzione materiale, necessariamente le protegge.

Questo discorso potrebbe estendersi alle pratiche estetiche di una determinata società, alle
sue forme di conoscenza e a tutti i processi sociali e culturali che non attengono
direttamente alla produzione e alla distribuzione delle risorse materiali della società.

Marx formula questa sua posizione distinguendo fra la struttura economica della società e la
sua sovrastruttura ideologica.

Le componenti di quest'ultima possono affermare la superiorità della classe dominante, o


rendere per quella subordinata meno intollerabile la propria posizione, permettendo a chi ne
fa parte di gestire in maniera relativamente prevedibile la propria esistenza, vivendola in
riferimento a valori e norme che in qualche misura le attribuiscano un significato.

Come si spiegano allora gli episodi di radicale mutamento del dominio di una classe su
un'altra?

La risposta di Marx a questa domanda potrebbe essere ricondotta al concetto di homo faber,
a un'espressione della costituzionale creatività umana che porta alla capacità di progettare
sempre nuovi modi di controllare la natura.

Le espressioni più immediatamente percepibili di questa capacità riguardano lo sviluppo


della tecnologia: tipicamente l'adozione di nuove tecniche richiede rapporti diversi fra coloro
che le impiegano.

L'ipotesi marxiana è che ogni nuova tecnica e ogni nuovo sistema di rapporti costituisca
un'espressione più ampia e matura della creatività umana, accrescendo la ricchezza che di
volta in volta è messa a disposizione.

La sopravvivenza delle modalità esistenti di produzione è quindi messa in discussione


dell'introduzione di nuove tecniche: le forme istituzionali e culturali esistenti iniziano ad
apparire inadeguate proprio perchè parte di una condizione produttiva ormai superata.

Questi sviluppi minacciano la scala gerarchica costituita, tendendo a privare di legittimità la


gestione del processo da parte della classe dominante: è inevitabile quindi che essa
reagisca cercando di riaffermare i suoi privilegi, opponendosi all'adozione di nuovi processi
produttivi. Queste forme di resistenza al cambiamento possono protrarsi a lungo, ora
giovando di strumenti politici, ora appellandosi a valori e consuetudini che creano un
attaccamento alle condizioni esistenti.

Una svolta massiccia del processo produttivo è dunque possibile a due condizioni:

1. Divario ampio fra la situazione esistente e le nuove potenzialità tecniche

2. I gruppi che si identificano in quelle nuove potenzialità devono essere in grado di


sfidare efficacemente coloro che si oppongono alla loro realizzazione.
Inoltre, ogni svolta comporta l'elaborazione di nuovi aspetti istituzionali e prospettive culturali
che rimpiazzino quelle esistenti.

È per questo che gli snodi storici fondamentali sono episodici e comportano, vere e proprie
rivoluzioni: si liberano forze produttive precedentemente ignorate, e si va a formare una
nuova classe dominante. Le classi sono infatti sempre motivate dal proprio interesse
personale, andando a formare nuove forme di sfruttamento e divisione sociale, sebbene agli
occhi di Marx quei cambiamenti hanno affermato bisogni e capacità propri dell'essere
umano in quanto tale, trascendendo i condizionamenti e le limitazioni della situazione
esistente.

È necessario chiarire inoltre che, tra un momento di cambiamento e l'altro, la storia non si
arresta: innovazioni minori vengono spesso introdotte e la classe dominata resiste in vario
modo al proprio sfruttamento senza farlo effettivamente cessare.

Inoltre vengono continuamente elaborati nuovi contenuti e nuove forme nelle sfere della
religione, dell'arte, della scienza ecc..., e la composizione sociale si fa molto più varia di
quanto non risulti dalla semplice contrapposizione classe dominante-classe dominata.

Marx è consapevole di tutte queste manifestazioni della storicità umana e ne riconosce il


significato, ma afferma risolutamente la priorità della scansione che innovazioni relative alle
strutture e ai processi produttivi impartiscono all'esperienza storica, facendone un tutto
coerente segnato dal progresso (sebbene sia un progresso spinto dall'antagonismo).

Nel suo insieme l'esperienza umana, una volta uscita dalla sua fase più primitiva, mostra il
successivo affermarsi di tre modi di produzione:

Modo “antico” Modo “feudale” Modo “capitalistico-


borghese”

I produttori sono schiavi, che I produttori (tipicamente servi I rapporti fra produttori e
vengono venduti e comprati della gleba) sono “padroni” sono contrattuali,
come fossero strumenti politicamente sottomessi ai in quanto i primi vendono ai
materiali. I prodotti di tale loro “padroni”, signori che secondi il proprio lavoro a
attività sono controllati impongono di mettere a prezzo di mercato, in una
completamente dai padroni. propria disposizione una condizione di oggettiva
parte del prodotto. inferiorità (forma
relativamente occulta di
sfruttamento).

Si tratta di una narrazione storica brutalmente riduttiva, in cui si tratta solo dell'Occidente
(Marx aggiunge un accenno al modo di produzione “asiatico”, del quale si dice assai poco).

La teoria marxiana è orientata infatti più che altro a descrivere gli aspetti caratteristici,
storicamente unici, della condizione moderna affermatasi per la prima volta in Europa con
l'avvento del capitalismo, e in particolare nella sua più recente fase industriale.

Marx concepisce la sua produzione più che altro come uno strumento intellettuale della
rivoluzione socialista, che avrebbe sconfitto il sistema capitalistico e posto per la prima volta
nella storia l'idea di una società non scissa.
Questo suo sforzo prende forma soprattutto come “critica dell'economia politica” ovvero
critica delle conoscenze relative a quegli stessi fenomeni generalmente accettati dai
contemporanei di Marx. Egli vuole soprattutto dimostrare che anche se il rapporto di lavoro
si presenta come uno scambio contrattuale di forza lavoro per salario, e quindi un rapporto
volontario e paritetico tra lavoratore e capitalista, esso in realtà comporta una soggezione
del primo al secondo comparabile a quelle fra padrone e schiavo o signore e servo, e in
quanto tale va riconosciuta come un processo di sfruttamento.

Tutti i ragionamenti sviluppati da Marx a tal proposito appartengono, in sostanza, alla storia
del pensiero economico piuttosto che quello sociologico.

Anche se come si è visto nel pensiero di Marx il modo di produzione capitalistico è l'essenza
stessa della società moderna, si cercherà di riassumere una sua concezione più sociologica
della società moderna.

Le classe dominante della società moderna è la borghesia, composta da individui


direttamente impegnati nell'attività produttiva, non come produttori ma come proprietari di
capitale. La loro proprietà, a differenza di quella delle classi dominanti delle società
premoderne, si configura come un insieme di risorse produttive che si accresce tramite
attività gestite dai proprietari stessi in qualità di imprenditori, orientate al mercato e intese a
generare profitto.

L'insieme della ricchezza borghese appare come “un insieme di merci”: per merci Marx
intende non solo gli oggetti che il sistema produce, ma anche quelli messi insieme dal
proprietario per il processo produttivo (i mezzi di produzione) e la forza lavoro stessa.

Per questa ragione l'intero sistema si può ricondurre a una particolare configurazione del
rapporto tra Merce (M) e Denaro (D).

In altri sistemi, D interviene per mediare il rapporto fra una merce M1 e una merce M2,
acquisita dopo aver venduto M1.

Nel sistema capitalistico si parte da una somma D1 che viene spesa per acquisire M, al fine
di arrivare a una somma D2. Ma dato che il denaro, a differenza delle merci, non presenta
differenze qualitative, questa sequenza D1-M-D2 ha senso solo se D2 è D+, ovvero da più
denaro rispetto al punto di partenza.

D1-M-D2, è un rapporto destinato a ripetersi in una progressione potenzialmente infinita.

Secondo Marx la merce che permette il passaggio da D a D+ può essere solo la forza
lavoro: si tratta di un passaggio economico che qui lasciamo da parte, ma in sede
sociologica possiamo chiederci entro quali condizioni i capitalisti trovino sul mercato la forza
lavoro .

La risposta è che i proprietari della forza lavoro sono proprietari soltanto di forza lavoro, e le
risorse produttive sono tutte in mano ai capitalisti.

Questa condizione presuppone un processo di accumulazione delle risorse nel quale


l'innovazione svolge un ruolo centrale che “svalutano” le fonti di ricchezza tradizionali. Le
risorse monetarie iniziano ad essere investite in attività commerciali o artigianali piuttosto
che a quelle fondiarie, sopprimendo antiche pratiche tradizionali dell'uso della terra e
costringendo gli abitanti dei villaggi, privati dei propri mezzi di sussistenza, a vendere la
propria forza lavoro.
È in questo modo che si svolge la dinamica del ciclo D-M-D+, attraverso un processo
incessante di “distruzione creativa”: vengono distrutte continuamente modalità di
produzione, di attività lavorativa, di consumo, e al contempo se ne generano di nuove, con
un massiccio mutamento in molteplici aspetti sociali e culturali. Ceti tradizionalmente
privilegiati (nobili e corporazioni) sono soppiantati da quelli della produzione industriale, la
popolazione si muove dalle campagne alle città ecc...

La tradizione perde rapidamente di prestigio, e ciò si deve alla crescente centralità che
assumono nuove forme di sapere, a loro volta prodotte soprattutto nelle città e fondate
sull'alfabetizzazione di massa, sulla diffusione della stampa, sulla costruzione di nuove
istituzioni per l'educazione e la ricerca. Tutto questo a sua volta genera nuovi modi di
comprendere la realtà e di valutare i comportamenti sociali che pregiudicano la credibilità
delle istituzioni ecclesiastiche.

Le strutture politiche e amministrative subiscono a loro volta eccezionali modifiche


costituzionali: i processi politici si aprono alla rappresentanza e alla partecipazione di strati
sempre più ampi della popolazione, producono nuove regole del vivere civile, orientano le
azioni a nuovi gruppi dirigenti, nascono nuovi bisogni e opportunità.

Infine, le società occidentali interagiscono le une con le altre sempre più apertamente,
soprattutto tramite l'ampliamento dei mercati e il traffico incessante di beni, conoscenze,
individui.

Questo processo trasmette inoltre al resto del mondo i modelli della moderna cultura
occidentale.

Marx dà il merito di tutti questi mutamenti alla nuova classe dominante, la borghesia, che
avrebbe sviluppato potenzialità umane sempre più ampie, diverse e autentiche. La
borghesia, sebbene stia liberando forze produttive immani, capaci di tornare a beneficio
dell'umanità intera, lo fa in vista dei propri interessi di classe, e di conseguenza le sue
conquiste possono dare un apporto limitato a un'autentica emancipazione. Ad esempio, le
innovazioni costituzionali in corso in Occidente attribuiscono ai cittadini in quanto tali
opportunità di partecipazione politica, le quali però non vanno a incidere effettivamente sulla
disuguaglianze economiche e sulla posizione di subordinazione della maggioranza.

La cultura moderna libera la mentalità collettiva dalle illusioni caratteristiche del pensiero
religioso, ma spesso le rimpiazza con altre illusioni relative a realtà come lo stato, il denaro,
il mercato.

Nella mentalità che si afferma c'è molto egoismo e sempre meno posto per sentimenti di
solidarietà, per atteggiamenti disinteressati.

Quindi, anche se agli occhi di Marx la società borghese moderna rappresenta un progresso
innegabile rispetto alle società storiche che l'hanno preceduta, molti suoi aspetti si prestano
ad essere condannati. Le forme di sfruttamento della società moderna, sebbene innovative,
rimangono comunque forme di sfruttamento: il lavoratore salariato ha il permesso di lavorare
per la propria sussistenza, vale a dire ha il permesso di vivere, solo se per una certa parte
del tempo lavora per il capitalista gratis.

Motivato da una profonda avversione nei confronti degli assetti sociali e politici che il
dominio borghese impone, Marx si associa vigorosamente nei suoi scritti con le lotte
operaie, cercando di guidarle e di argomentarne le ragioni.

Questo compito ha due fasi fondamentali:


1. La prima, rappresentata soprattutto da scritti che risalgono al soggiorno di Marx a
Parigi, concerne quella che potremmo chiamare la dimensione soggettiva della
condizione operaia in regime capitalistico. Per descriverla, Marx usa
soprattutto l'espressione “alienazione”, che riprende dal linguaggio filosofico
Hegeliano: se da un lato la capacità umana di produrre si manifesta sempre più
apertamente, dall'altro gli operai si sentono alienati rispetto all'oggetto prodotto,
alla propria attività, a sé stessi e agli individui con cui collaborano.

2. Nella seconda fase Marx si impegna in una elaborata ricostruzione storica e


sociologica della formazione della classe operaia, il rovescio della medaglia della
formazione della classe borghese. Marx si interesserà molto di più della classe
operaia, innanzitutto per solidarietà morale, perché è la classe che genera “valore” e
perchè sarà quella a compiere il decisivo passo verso l'inizio della vera storia
dell'umanità.

La ricostruzione delle vicende che hanno condotto alla formazione della classe
operaia (a partire dall'espulsione di parte della classe contadina dai terreni comuni) è
accompagnata da un'accurata descrizione delle condizioni opprimenti e mortificanti
in cui il proletariato è costretto a vivere e operare nel nascente sistema della
fabbrica.

In questo contesto le riflessioni sostanzialmente filosofiche sull'alienazione lasciano il


posto a un discorso empiricamente fondato sull'abuso di manodopera femminile e
minorile, sulle resistenze dei padroni nell'accorciare la giornata lavorativa ecc...

Marx non è il primo a dedicarsi alla rilevazione di questi fenomeni (Engels), ma


l'ampiezza e la profondità del suo discorso restano ineguagliate.

Questo discorso fa da sfondo a un ulteriore argomento sociologico, ovvero la giustificazione


delle proteste da parte di Marx, che promuove attivamente la lotta di classe, in cui un
soggetto collettivo, la classe operaia, organizzata in sindacati e partiti, prepari la rivoluzione
contro la borghesia.

In tal senso, Marx esamina magistralmente le ragioni per cui lo sviluppo capitalistico rende
inevitabile la propria caduta.

Innanzitutto, Marx sostiene che le pratiche della borghesia intese all'accumulazione del
capitale hanno l'effetto collaterale di raggruppare in aggregati urbani sempre più vasti un
numero crescente di lavoratori: questi vengono sottratti dalle loro diverse comunità di
origine, rendendo meno significative tali appartenenze e rendendoli invece consapevoli della
loro appartenenza di classe, riconoscendo di avere interessi opposti da quelli dei propri
datori di lavoro.

Quest'aspetto è favorito ulteriormente da altri processi tipicamente capitalistici, che rendono


secondo Marx sempre più visibile il divario fra le condizioni economiche delle due classi.

L'inevitabilità di una rivoluzione socialista viene a questo punto analizzata da Marx partendo
da due prospettive differenti:

1. Da una parte accentua gli aspetti “soggettivi” della prospettiva rivoluzionaria: si


attende che la lotta di classe acquisisca sempre di più un aspetto politico e che,
invece di cercare puramente un miglioramento delle condizioni immediate
della classe operaia, sfidi l'intero ordine sociale borghese. Un compito che
porterebbe, come in ogni precedente rivoluzione, alla violenza collettiva.

2. Dall'altro, le contraddizioni interne del sistema capitalistico lo rendono incapace di


proseguire la propria esistenza: la contraddizione fondamentale è che il processo
capitalistico coinvolge tutte le risorse sociali, in maniera spesso distruttiva, in base a
contrasti fra interessi privati e controllo dall'alto.

Le economie capitalistiche in particolare, subiscono crisi cicliche, in cui la ricchezza


viene distrutta invece che prodotta, c'è, ovvero, un sovrappiù di merci rispetto alla
capacità di acquisto delle masse, che porta alla disoccupazione.

Tutte queste tendenze sono esaminate da Marx nell'ambito di un tema che ricorre
soprattutto nei suoi scritti più tardi, il tema del Zusammenbruch, l'inevitabile collasso finale
(più o meno imminente) del sistema capitalista.

Il problema sta nel fatto che l'inevitabilità di questo collasso renderebbe in un certo senso
superfluo affaticarsi teoricamente o praticamente nell'aspetto “soggettivo”. Questo contrasto
sarà destinato a manifestarsi ripetutamente nella storia del movimento operaio d'ispirazione
marxista.

Da notare è infine la scarsa attenzione di Marx, a differenza di altri pensatori della tradizione
socialista, per il tema della natura della società a cui avrebbe dato luogo lo Zusammenbruch:
egli non intende impegnarsi in una riflessione utopistica su una società di cui sarebbe ozioso
cercare di delineare il profilo istituzionale.

Certo è che nella società nata dalla rivoluzione il rapporto fondamentale fra uomo e natura
avrebbe smesso di dipendere da interessi contrastanti e sarebbe stato gestito in maniera
consapevole e unitaria. Questo, come già detto, avrebbe portato al pieno dispiegamento
delle infinite potenzialità umane.

Le uniche immagini che Marx ci lascia della condizione futura dell'umanità sono:

● Una nel L'ideologia tedesca, in cui Marx ed Engels prospettano una condizione in cui
si è abolita la condizione del lavoro, in quanto la società stessa regola la produzione
generale e chiunque ha modo di dedicarsi all'attività che preferisce.

● Marx caratterizzerà poi quest'immagine con lo slogan “da ciascuno secondo le sue
capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Manca comunque la riflessione su come la società futura avrebbe potuto gestire l'intero
processo sociale, e in particolare che ruolo avrebbero assunto la politica e il diritto.
EMILE DURKHEIM

Nato da una famiglia ebrea, dopo lunghi studi di filosofia dedica la sua esistenza ad
affermare l'autonomia scientifica della sociologia, a porne le basi metodologiche e
concettuali e a favorire l'inserimento nel sistema universitario francese attraverso
un'intensa attività di leader accademico.

Uomo di forti sentimenti repubblicani, aspira a ricavare dai risultati della ricerca sociologica
indicazioni per riforme pubbliche che pongano rimedio a quelle che gli appaiono come
debolezze strutturali della società contemporanea.

➢ La divisione del lavoro sociale (1893)

➢ Le regole del metodo sociologico (1895)

➢ Il suicido, studio di sociologia (1897)

➢ Le forme elementari della vita religiosa (1912)

Antropologia filosofica:

Durkheim ha espresso chiaramente la propria immagine dell'uomo, pur senza farne un tema
ricorrente della propria opera. Egli parla del "dualismo della natura umana" e dell'essere
umano come homo duplex.

In ciascun individuo infatti, esisterebbero due componenti:


➔ una componente direttamente radicata nel corpo e impegnata in attività tese
innanzitutto a soddisfare i bisogni naturali (dimensione istintuale)

➔ una componente fatta di aspettative, aspirazioni, valori, modalità di relazione con gli
altri individui, sentimenti di appartenenza o ostilità (dimensione sociale)

Si possono individuare nel pensiero di Durkheim quattro principi relativi a questo dualismo
della natura umana:

1. La seconda componente è intrinsecamente sociale: deve ovvero la sua esistenza al


fatto che più di ogni altro animale ogni essere umano è necessariamente coinvolto in
rapporti con i propri simili. Da questi rapporti derivano gran parte dei contenuti nella
propria mente.

2. Per la stessa ragione questi contenuti sono inevitabilmente storici (variano nel tempo
e nello spazio)

3. La seconda componente non “convive” con la prima, radicata invece nel corpo: essa
cerca continuamente di affermare la propria superiorità sulla prima (che di per sé non
ha un limite), di imporsi ad essa, e orientare istinti e pulsioni verso bisogni non
strettamente relativi alla sopravvivenza dell'individuo.
4. Questa superiorità è però problematica: non si esprime infatti tramite un processo
spontaneo e naturale, ma avviene tramite la negazione e repressione proprio di
quelle tendenze che, radicate nella dimensione corporea dell'individuo, si oppongono
e resistono spontaneamente al “disciplinamento” della seconda componente.

Il rapporto fra le due parti è quindi contingente, perché non è detto quali delle due, in ogni
determinato caso, riesca ad affermare la propria superiorità sull'altra.

Per Durkheim, chiaramente, è necessario che la seconda componente abbia la meglio sulla
prima, anche se non occorre che questo succeda sempre e ovunque: è necessario perché,
anche se l'uomo è un essere intrinsecamente sociale, la sua socialità può affermarsi solo se
la grande maggioranza degli individui orienta il proprio comportamento in base ad
aspettative, rette da codici, criteri, sentimenti, che inducono ciascuno a tener conto
dell'esistenza degli altri e a sentirsi accomunato ad essi da appartenenze tali da indurlo, se
necessario, ad anteporre gli interessi condivisi a quelli individuali.

Anche se Durkheim evoca di rado questa tematica dell'homo duplex, a essa si allacciano
molti nodi del suo pensiero.

I fatti sociali:

Nelle Regole del metodo sociologico, Durkheim sostiene l'autonomia della sociologia come
disciplina distinta, in particolare, dalla filosofia e dalla psicologia, assegnandole come
obiettivo lo studio dei fatti sociali.
I fatti sociali consistono in quelle “maniere d'agire, di pensare, di sentire” che una società fa
proprie e rende vincolanti per gli individui che ne fanno parte, assicurando la loro
disposizione a perseguire fini comuni.

I fatti sociali esistono e riescono a incidere sulle attività degli individui non per un
meccanismo di natura psicofisica, ma poiché la società conferisce loro un ruolo privilegiato,
conferendo loro un carattere “sanzionato”: ciò significa che, più o meno esplicitamente,
minaccia di punire chi agisca o pensi diversamente da essi, mentre promette di
ricompensare chi lo fa in conformità di essi.

Le norme relative a conseguenze negative o positive di un certo comportamento che


derivano direttamente dalla natura di esso (disattivare un circuito elettrico prima di toccarlo,
poiché come conseguenza si ha una scossa) non rientrano nell'ambito dei fatti sociali.
Si tratta di quelle che Durkheim chiama norme tecniche.

I fatti sociali sono invece collegati a norme morali, norme relative a conseguenze di un certo
comportamento che derivano da una costruzione artificialmente creata dalla società (il
divieto di non uccidere): la loro attuazione dipende interamente da processi sociali (non
naturali) che comprendono, oltre alle norme giuridiche, altre aspettative sanzionate che
sfociano nella riprovazione sociale (altrettanto vale per i premi).

Sono dunque i fatti sociali, queste maniere sanzionate, di natura mentale, pubblicamente
valide, di agire e di pensare che regolano e disciplinano la condotta e il pensiero degli
individui (e che compongono la seconda componente dell'homo duplex) impedendo che essi
siano dettati unicamente da esperienze, preferenze e interessi individuali (che compongono
la prima parte dell'homo duplex), rendendo possibile l’ordinata cooperazione degli individui.

Il carattere di queste maniere d'agire, essendo quindi intrinsecamente sociale, è in quanto


tale storicamente variabile.

In molti casi è difficile ricostruire i processi collettivi che hanno determinato tale carattere, ed
è altrettanto difficile individuare gli interessi a cui esso è collegato una volta che esso si sia
cristallizzato in un costume, una legge, un modo scontato di definire la realtà.

Tuttavia, Durkheim vede una stretta correlazione fra le maniere d'agire fatte proprie da una
società e alcune caratteristiche di essa che lui definisce morfologiche (dimensioni del
territorio, densità demografica, strumentario produttivo, differenziazione dei ruoli ecc...). In
questo modo Durkheim, pur affermando ripetutamente che la società è una dimensione
intrinsecamente mentale, considera aspetti di carattere essenzialmente materiale che vanno
a influenzarla.

Durkheim si accontenta per lo più di mettere a confronto due tipi morfologici

➢ Società semplici (primitive)

➢ Società complesse (avanzate)

facendo rientrare all'interno di questi gruppi esperienze storiche molto diverse. Questo è un
limite del suo lavoro.

La divisione del lavoro sociale:

La prima grande opera di Durkheim, La divisione del lavoro sociale, sviluppa tuttavia questa
dualità, comparandola con alcuni caratteri dell'evoluzione biologica.

Come infatti nell'evoluzione hanno origine specie sempre più numerose e diverse, e le
specie emergenti sono solitamente più complesse di quelle primitive; così le società
sviluppate sono più differenziate delle società primitive (vi sono ad esempio sempre più
spazi che distinguono sempre più attività diverse, e gli individui che occupano quegli spazi si
specializzano in quell'attività).

Differenziazione e complessità crescente sono caratteri tipici sia in natura che nella società.
Ma a cosa serve tale tendenza nella società?

Prospettiva utilitaristica:

Questa spiegazione appartiene alla tradizione del pensiero liberale, che celebra la sempre
crescente importanza e dinamicità dei rapporti di mercato.
Questo sviluppo risulterebbe spontaneamente dagli sforzi che i singoli individui fanno per il
proprio interesse privato: in particolare, specializzando le proprie attività e differenziando i
propri prodotti.
Il perseguimento dell'interesse individuale serve dunque da motore dell'evoluzione sociale,
facendo emergere la sua differenziazione e complessità.

Prospettiva Durkheimiana:

Durkheim obietta che l'individuo così come lo intendono gli utilitaristi non era presente nelle
società primitive: il comportamento e il pensiero degli individui era infatti in larga parte
orientato da rappresentazioni collettive (ovvero condivise da tutti i membri della collettività,
venendo concepite come giuste e corrette, e che inducevano tutti gli individui a svolgere le
stesse attività, a pensare nello stesso modo, condannando e punendo modalità di pensiero
alternative).
Una società così costituita era tenuta insieme (resa “solidale”) meccanicamente, riducendo
al minimo l'incidenza di rappresentazioni individuali.

A loro volta, le unità di cui si componeva ciascuna società si rassomigliavano moltissimo, ed


essendo autosufficienti non si scambiavano prodotti diversi, ma si radunavano
periodicamente in occasioni rituali, per rafforzare la presa delle rappresentazioni collettive
sull'intera società.

In questo contesto, potenzialmente stabile, la divisione del lavoro non poteva essere dovuta
alla competizione fra i singoli individui, ma soltanto a mutamenti spontaneamente emersi nel
contesto stesso (ad esempio, dice Durkheim, un aumento demografico che compromette il
tradizionale equilibrio fra risorse e bisogni).

In questi casi, uno degli esiti tipici era appunto l'avvio di un processo di divisione del lavoro:
con la messa a punto di pratiche e strumenti innovativi, parti diverse della società si
identificavano e specializzavano in attività diverse, dando luogo a rapporti di scambio con i
prodotti delle altre parti.
In questo modo, si andava accrescendo la molteplicità delle posizioni sociali differenziate.

Con l'evoluzione degli assetti societari, la rilevanza delle rappresentazioni collettive fondata
sui valori tradizionali diminuisce, e la società passa da una solidarietà meccanica a una
solidarietà organica, risultante dall'accentuata interdipendenza (con rapporti di scambio e di
servizio) fra le parti della società ora molto differenziate.
Questo renderebbe plausibile la visione utilitaristica in cui individui intraprendenti, orientati
ciascuno al proprio interesse, sono legati gli uni agli altri da rapporti contrattuali che servono
scopi specifici.

Ma la plausibilità di quest'immagine è un prodotto (molto tardo peraltro) della divisione del


lavoro, non un suo presupposto.

La visione utilitaristica è inoltre in errore poiché non tiene conto che gli individui possono
entrare in rapporti contrattuali solo se un'autorità pubblica predispone schemi generali di
contratto: per questo Durkheim si schiera contro la tesi liberale secondo cui lo stato
dovrebbe ridurre drasticamente la propria presenza.

Con l'avanzare del lavoro per Durkheim la componente mentale dell'homo duplex si sviluppa
in due sensi
➢ Si arricchisce, poiché la mente può attingere a molti più contenuti e stimoli interattivi
in un bacino sempre più vasto

➢ Cambia il rapporto fra i contenuti che l'individuo condivide con tutti i membri della
società (sempre meno numerosi) e quelli risultanti da specifiche appartenenze o
dalla sua stessa individualità. Per questo le società con una più avanzata divisione
del lavoro sono anche caratterizzate da una maggiore individualizzazione.

In questa nuova situazione, il carattere punitivo delle sanzioni diventa meno rilevante, poiché
legato a norme e valori generalmente condivisi (meno comuni), mentre emerge quello
restitutivo, che reintegra ovvero interessi indebitamente lesi, soltanto su iniziativa del titolare
di quegli interessi.
Per semplificare: il diritto penale perde terreno rispetto al diritto privato.

Ma come si armonizza la visione Durkheimiana della vita in società con la constatazione di


una solidarietà di tipo organico?

Nelle sue Lezioni di sociologia, Durkheim suggerisce che la società moderna, caratterizzata
da alta differenziazione e complessità, abbia bisogno di “democrazia”. Il ruolo dello stato
deve “allargarsi” deve ovvero far fronte efficacemente ai bisogni, molteplici e mutevoli, che
queste caratteristiche generano aprendosi a input da parte della cittadinanza tramite la
rappresentanza politica e i partiti.

Dato che inoltre quei bisogni derivano sempre più dall'economia, il compito di rilevarli e
gestirli dovrebbe essere affidato non direttamente al governo, ma a un certo numero di
“corporazioni”, enti pubblicamente riconosciuti che raggruppano i cittadini a seconda del
settore economico in cui sono occupati. Lo stato deve conferire alle corporazioni poteri
ufficiali di cui servirsi per alimentare nei loro appartenenti un senso di responsabilità verso la
generalità dei cittadini, e per regolare ciascun settore dell'economia a vantaggio di tutti,
invece che abbandonarli completamente ai rapporti di mercato.

Questa proposta, che vede la democrazia come meccanismo per trasmettere dal centro
politico alla società decisioni in grado di regolarne efficacemente i processi e viceversa,
risponde al posto sempre più importante nel pensiero di Durkheim occupato dal concetto di
“norma”.

Come abbiamo visto, per Durkheim è necessario che la parte più alta dell'homo duplex
abbia fra i suoi riferimenti delle regole, aspettative socialmente sanzionate che limitano gli
impulsi dell'altra componente. Ogni volta che la società si evolve (principalmente come
abbiamo visto per crescente divisione del lavoro) è necessario che norme spontaneamente
condivise e trasmesse di generazione in generazione siano sostituite da nuove norme
adeguate al nuovo assetto.

Attualmente, secondo Durkheim, il bisogno di regolazione sociale non trova risposta


adeguata, e troppi processi sociali, a partire da quelli economici, procedono in maniera
disordinata perché in assenza di norme, cioè in condizione di anomia. (DEVIANZA)
Lo stato di anomia della società moderna risulta non solo dalla mancanza di norme scritte,
ma anche da atteggiamenti collettivi che la cultura prevalente rende predominanti. (Vedi più
avanti)

Ogni società deve, secondo Durkheim, a soddisfare tre requisiti diversi, ciascuno
indispensabile per la sopravvivenza della società stessa

1. Deve insegnare agli individui a riconoscere la propria dipendenza dalla società,


inculcando la disposizione a sacrificare gli interessi individuali per quelli collettivi

2. Deve esortare allo stesso tempo ad acquisire un certo distacco da essa, a


inseguire interessi propri sotto la propria responsabilità, in base a valutazioni
e preferenze proprie. Gli individui devono essere auto-regolanti

3. Deve permettere agli individui di sperimentare, entro certi limiti, nuovi pensieri e
nuove azioni, avventurandosi al di là delle conoscenze consolidate. Solo così una
società può affrontare momenti di cambiamento imprevisto.

Chiaramente fra questi tre orientamenti c'è un forte contrasto, ma la complessità dei
fenomeni sociali impone, secondo Durkheim, che si faccia spazio a tutti e tre.

Inoltre, egli suggerisce che le società differiscono anche in quanto ciascuna pone l'accento
su questo o quell'orientamento (e la stessa cosa vale per i gruppi e le categorie in cui si
articola), carattere dato anche dalle circostanze diverse che rendono temporaneamente
prevalente uno dei tre.
(L’ordine di importanza attribuita a un determinato requisito rispetto agli altri determina la
“costituzione morale” di una società)

Il suicidio

Un altro aspetto della complessità dei fenomeni sociali è al centro della terza grande opera
di Durkheim, Il suicidio.

Come abbiamo visto, i fatti sociali possono indirizzare il comportamento degli individui solo
tramite una mediazione soggettiva: spetta infatti agli individui accogliere tali
rappresentazioni, e decidere di farle prevalere su altre di natura individuale, che fanno parte
dell’altra componente.

Nel Suicidio Durkhiem si interroga sulle condizioni soicali in cui questo “far prevalere” non si
verifica, in quanto un numero consistente di individui diviene, come diremmo oggi, deviante.
In particolare, Durkheim analizza e indaga le condizioni del contesto sociale in cui l’individuo
viene meno alla rappresentazione socialmente sanzionata che vieta agli individui di togliersi
la vita: ciò accade quando l’individuo non riesce a superare un momento di “melanconia”
molto profonda, che può dipendere da vari aspetti. Ma perchè ciò accade?

Le risposte che a cui Durkheim perviene sono assai elaborate sia nell’analisi dei dati
statistici sul fenomeno, sia nella loro interpretazione teorica, e questi due piani si intersecano
nell’opera in maniera esemplare.
Durkheim parte dalle differenze nella costituzione morale di alcune categorie sociali,
comparandole con rispettivi tassi di suicidio. Ad, esempio, la propensione al suicidio è
notevolmente più alta fra i protestanti che fra i cattolici, tra i celibi che tra i coniugati, tra i
coniugati senza figli che tra i coniugati con figli.
Queste e altre “generalizzazioni empiriche” (termine non di Durkheim) possono essere
riassunte in una sola, secondo la quale il tasso di suicidio varia inversamente rispetto alla
coesione sociale di categorie o gruppi.

La coesione sociale risulta minore tanto più una costituzione morale pone l’accento sul
secondo requisito, quello di auto-regolazione dell’individuo, autorizzandolo a orientare il
proprio agire prima di tutto su sé stesso e sulle proprie esigenze piuttosto che su quelle del
gruppo. Inevitabilmente, i suoi legami con altri individui saranno meno significativi,
vincolando meno i suoi sentimenti e offrendo minor sostegno all’individuo nel momento di
melanconia.
Durkheim caratterizza come “egoistico” il suicidio chene risulta.

Paradossalmente tuttavia, tassi di suicidio relativamente alti possono essere riscontrati


anche in contesti sociali in cui c’è una forte insistenza sul primo requisito, quello di
dipendenza dell’individuo dalla società. Questo accade perché l’individuo, essendo portato a
sacrificare le proprie esigenze per quelle del gruppo, sarà portato a sentirsi insignificante,
una quantité négligeable: questo sentimento lo porta a non riuscire a superare la situazione
di melanconia. Durkheim definisce “altruistico” questo tipo di suicidio.

Il suicidio altruistico è tipico di alcune società primitive, ma anche di alcuni gruppi che, entro
la società moderna, contraddicendo la tendenza generale, tendono a anteporre l’interesse
del gruppo a quello privato: in particolare, l’incidenza particolarmente alta di suicidio tra i
militari di professione comprova questa ipotesi, soprattutto perchè il tasso di suicidio risulta
più alto per ufficiali superiori che per quelli di rango meno elevato (cosa che va a smentire
un’interpretazione utilitaristica del dato per cui ha maggiore probabilità di suicidarsi chi vuole
sottrarsi a un esperienza più disagiata, mentre è chiaro che il suicidio va a colpire chi è stato
sottoposto più a lungo alle norme e ai valori della professione militare.

Infine, Durkheim chiama “anomico” il suicidio di una società che, come quella moderna,
accentua il terzo requisito, inducendo l’individuo ad avventurarsi in situazioni dove non
esistono regole e criteri di giudizio che conferiscano un significato alla loro esistenza.
Se da una parte infatti l’accentuazione del terzo requisito porta a una maggiore capacità di
innovazione degli individui, tende allo stesso tempo a scolorire la loro esistenza: ciò li mette
a repentaglio se le circostanze li inducono a una forte melanconia.

Durkheim riconduce questa terza forma di suicidio all’elevato tasso che si rileva fra i maschi
divorziati: il divorzio li “anomizza” perchè li sottrae ai limiti che il matrimonio aveva loro
imposto, che però orientavano l’individuo (la loro mancanza li porta a non trovare più un
significato).

Suicidio egoistico Incidenza sul secondo principio

Suicidio altruistico Incidenza sul primo principio


Suicidio anomico Incidenza sul terzo principio

Secondo i dati statistici raccolti da Durkheim, le società moderne mostrano un’incidenza


particolarmente alta di suicidio egoistico e anomico, dovuti a deficit di coesione e
normazione sociale: come già detto, a causa della crescente differenziazione del lavoro, gli
individui sono disancorati da appartenenze forti, i legami sono più deboli, meno permanenti.

Durkheim e la religione:

In un primo momento questo non induce Durkheim a condannare l’attuale situazione sociale,
in cui rientrano fenomeni che trovano il suo assenso, come l’affermarsi di diritti individuali e
democrazia, crescente prestigio della scienza, i progressi verso l’uguaglianza ecc…
Inoltre per Durkheim i problemi della società moderna trovano le loro cause nel fatto che
ancora non si è costituita una vera e propria solidarietà organica, cardine della modernità.

In opere successive tuttavia si avverte secondo molti interpreti una crescente perplessità e
inquietudine, che si esprime nella proposta degli assetti corporativi di cui si parlava.
Durkheim si rende conto in un secondo momento dello stato di anomia della società
moderna, che concede sempre più spazio ai processi della sfera economica, sempre più
preponderantemente al centro della vita sociale, fomentando l’individualismo dei soggetti.
Per tornare alla tematica dell’homo duplex, si potrebbe dire che nella mente degli individui
contemporanei i contenuti propriamente sociali (collettivi, pubblici, morali) trovano sempre
più difficile sovrapporsi a quelli privati.

La consapevolezza di questa situazione induce in Durkheim quello che chiameremmo un


“senso di pathos”, che da un certo punto in poi non si indirizza più soltanto alla società
moderna, ma addirittura alla natura stessa di ogni società.

Il rapporto fra società e individuo e l’obbedienza del secondo alle norme della prima è visto
da Durkheim come dipendente da processi di carattere soggettivo e contingente.
In questo senso la sopravvivenza stessa della società è affidata alla volontà degli individui,
agli “spiriti individuali”. Ciò è dovuto alla natura stessa della norma: che essa si realizzi nelle
azioni degli individui può essere, nella migliore delle ipotesi, altamente probabile, mai certo.
La norma è un programma, una “richiesta” (sanzionata, certo) ma è necessario che l’agire
individuale sia orientato da un senso persistente di autorità morale della norma, della
doverosità dell’obbedienza ad essa, che appare fortemente inficiata dall’utilitarismo
individualista.

Ma si può davvero dire che la norma possiede questo prestigio intrinsecamente? O gli è
conferito proprio dalle preferenze degli individui stessi?
Durkheim risponde a queste domande soprattutto nella sua originale teoria sociologica della
religione, proposta in più testi ma elaborata nella maniera più compiuta nella sua ultima
grande opera, Le forme elementari della vita religiosa.

Durkheim innanzitutto definisce il fenomeno religioso in termini universali, in base alla


distinzione fra sacro e profano: sono sacri gli aspetti del reale concepiti come distinti dagli
aspetti ordinari, in quanto spiccatamente potenti e pericolosi.
Gli individui possono infatti avvicinare gli aspetti sacri solo con un atteggiamento di timore,
rispetto, cautela, attraverso azioni pregne di significato simbolico (rituali).
Culture differenti considerano sacri o profani aspetti della realtà assai diversi.

Durkheim si chiede a cosa si debba il fatto che la distinzione tra sacro e profano sia
universale, sia nel senso che è comune ad ogni cultura, sia nel senso che divide l’intera
realtà in due parti contrapposte.

Affinché la società esista infatti, secondo Durkheim deve esserci un’esperienza, universale
appunto, che generi negli individui un complesso di potenti “sentimenti collettivi” quali timore,
rispetto, cautela, sottomissione. Questi sentimenti sono riconducibili all’esperienza primaria
fra individuo e società.

In sostanza, se chiamiamo “Dio” una realtà intrinsecamente superiore, rispetto alla quale gli
uomini si sentono inferiori e dipendenti, dobbiamo concludere che Dio non è altro che una
rappresentazione simbolica della società stessa.
La religione cessa così di apparire, come nella tradizione illuministica, un complesso di
credenze fuorvianti, ingannevoli, prive di senso. Rappresenterebbe invece una realtà
rispetto alla quale gli individui non possono che sentirsi deboli e alla quale chiedono di
proteggerli, ispirarli, accomunarli.

La religione è infatti l’istituzione sociale primordiale, da cui hanno origine tutte le altre: il mito
è il prototipo di ogni conoscenza collettiva, il rito il prototipo di ogni attività collettiva.
Questo perché soltanto attraverso la sacralizzazione certi modi di concepire la realtà
vengono fissati e stabilizzati, generalizzati, così da trascendere singole situazioni, singoli
individui, singole generazioni, sottraendo quei modi alle volontà e ai giudizi privati degli
individui (modi di concepire che poi vanno a iscriversi in altre istituzioni).

La religione è capace di attivare negli individui sentimenti di appartenenza sociale e


identificazione collettiva, che conferiscono autorevolezza ai comandi che la società o il
gruppo gli indirizza.

Tuttavia fino a qui, l’argomento non elimina il pathos durkheimiano: sono sempre gli individui
a decidere se conformarsi o non conformarsi a tale istituzione.
Tuttavia il rituale religioso, grazie al senso fortissimo di identità collettiva che produce, fa sì
che ciascun partecipante si senta non più soltanto un destinatario dei comandamenti del
gruppo, ma una loro fonte, un loro coautore.
I processi religiosi aiutano in questo senso l’individuo ad autotrascendersi, passando da uti
singuli a uti universi, assumendo un'identità condivisa con tutti gli altri partecipanti. Diventa
così possibile che la componente più alta dell’homo duplex si esprima nell’applicazione di
norme, evitando che queste vengano percepite dalla componente più bassa come un
vincolo arbitrario e frustrante.

Che dire allora di una società, come quella moderna, in cui la secolarizzazione sembrerebbe
aver marginalizzato l’esperienza religiosa? In vari scritti, Durkheim propone una soluzione
che consiste nell’attribuzione di un supremo valore di sacralità alla persona umana: gli
uomini moderni sono egoisti, e riconoscono questo valore solo a sé stessi.
Istituzioni tipicamente moderne come i diritti alla persona, la cittadinanza, la democrazia,
richiedono tuttavia di riconoscere lo stesso valore anche agli altri, alla loro libertà e alla loro
autoaffermazione
Si tratterebbe di una religione in cui l’uomo è contemporaneamente fedele e Dio, equivalente
dal punto di vista funzionale a quelle tradizionali.
MAX WEBER

Di origine altoborghese tedesca, Weber si forma come storico dell’economia antica e


medievale e come giurista, conducendo ricerche sulle condizioni sociali dell’economia
fondiaria in Prussia, che lo portano a diventare professore di economia politica prima a
Friburgo, poi a Heidelberg, poi a Monaco.

Weber concepisce la sociologia come disciplina impegnata a elaborare espressamente


strumenti concettuali ricavati dalla ricerca storica e discutere i rapporti tra sfere diverse del
sociale.

Ha forti interessi politici, che si esprimono sia in studi scientifici sia nella partecipazione al
dibattito dell’epoca.

➢ L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1903-1904)

➢ Sociologia della religione (1920-1921)

➢ Scritti politici (1921)

➢ Il metodo delle scienze storico sociali (1922)

➢ Economia e società (1922)

Premesse metodologiche:

Spesso la critica post-weberiana ha attribuito all’autore un capovolgimento dell’ottica


marxiana, partendo principalmente dall’opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo:
se Marx vede infatti nella struttura economica dei rapporti di produzione il motore della storia
e come fattore determinante degli assetti culturali di un contesto storico, alcuni hanno
interpretato l’opera di Weber come un capovolgimento di questa prospettiva, e quindi
dell’interpretazione dei fattori culturali come determinanti della struttura economica e quindi
del mutamento storico.

In realtà non è così, in quanto in Weber troviamo un differente punto di vista e uno
spostamento metodologico rispetto a Marx.
In Marx e più in generale nelle filosofie della storia (Hegel) c’è l’idea di cercare un principio
interpretativo di base per spiegare i mutamenti delle dinamiche storiche, una chiave di
lettura generale della realtà che Boudon definisce “pregiudizio ontologico”.
Weber abbandona questo pregiudizio ontologico: riprendendo l’esempio dell’Etica
protestante, l’autore prende in considerazione un aspetto del capitalismo (la redditività del
capitale) e lo ricollega a un ragionamento di tipo dogmatico contenuto nella dottrina
calvinista. Tuttavia, quando Weber cerca le cause di un determinato fenomeno storico, non
lo fa ricercando un principio di base, ma compiendo una determinata scelta analitica che lo
porta a individuare cause via via differenti per ogni fenomeno analizzato.
La conoscenza della storia è per Weber una conoscenza delle individualità storiche e non
una conoscenza dei meccanismi della storia nella loro totalità.
Weber pone infatti l’attenzione sui processi soggettivi alla quale vanno ricondotti i fenomeni
storici che tra l’altro, come vedremo, riguardano anche lo studio stesso del ricercatore, il
quale è in grado di studiare tali fenomeni solo da una determinata prospettiva, senza poter
cogliere un senso generale (ciò non significa, come vedremo, che gli studi storici non
abbiano alcuna validità oggettiva).

Qual è dunque il senso dello studio della storia? Secondo Weber, per analizzare
concettualmente l’enorme varietà dell’esperienza storica, ed è questo secondo lui lo scopo
della sociologia, bisogna ridurre le individualità storiche a delle categorie, costruite a partire
da delle uniformità empiriche individuate sul campo di indagine (regolarità che appunto
definiscono le categorie). Il fine del sapere nomologico nella storia, è dunque un fine
strumentale, non finalistico, in quanto serve a categorizzare e catalogare tali individualità
empiriche, rendendole intelligibili.
La conoscenza storica si baserà su una riduzione della complessità dell’infinita varietà delle
individualità storiche, tramite l’individuazione di caratteristiche che le riconducano a questa o
quella determinata categoria.

Il metodo di Weber si baserà quindi per un determinato problema storico, sull’individuazione


di una raggiera di soluzioni possibili, ovvero una tipologia.
Ogni tipologia conterrà al suo interno soluzioni non troppo numerose, formulate in maniera
rigorosa ma astratta (“ideal-tipica”), a cui poi andranno rimandate le molteplici e
infinitamente varie condizioni concrete.
Weber chiama tipi ideali i concetti che compongono le sue tipologie, e non cessa di ricordare
al lettore che nessuno di essi si applica nella sua interezza a realtà storiche concrete.

Facciamo qualche esempio di tipo ideale: in entrambi i casi, Weber elabora concettualmente
una raggiera di soluzioni di massima (molto distinte le une dalle altre) che dovrebbe coprire
l’intero ambito delle soluzioni concrete della storia.

➢ Per quanto riguarda il problema della teodicea, ovvero il problema della


giustificazione del male in una religione che concepisca la divinità come onnisciente,
onnipotente e benevola, le soluzioni esposte da Weber sono che una teodicea può
ispirarsi alla tradizione manichea, secondo cui il dio benevolo deve affrontare un dio
del male; oppure teorizzare che una stessa anima può incarnarsi più volte e in
ciascuna esistenza esperire le condizioni che si è meritata in una condizione
precedente.

➢ Riguardo al problema del come uno stato può procurarsi le risorse economiche di cui
ha bisogno, le soluzioni vanno dal bottino ricavato da occasioni di pirateria, al tributo
per le popolazioni assoggettate a quello della tassazione.

Ci si può meglio rendere conto della portata del lavoro di elaborazione concettuale
weberiana tenendo conto di alcune caratteristiche:

➢ Weber conduce questo lavoro su ambiti dell’esistenza molto diversi, ma tutti di forte
importanza storica e, si potrebbe dire, significato esistenziale: il diritto, l’economia, la
religione, la politica, l’esperienza estetica.
In ciascuno di questi ambiti Weber basa le sue elaborazioni su vastissime
conoscenze storiche, acquisite talora di prima mano, tramite ricerche specialistiche,
talora di seconda mano, giovandosi di ricerche altrui.

➢ Come ogni tipologia contiene diversi tipi ideali, allo stesso modo alcuni di essi
presentano ulteriori sottotipi, e così via, introducendo a ciascun livello specificazioni
che avvicinano i relativi concetti ai dettagli della realtà storica.
(La città)

➢ In molti passi della sua opera più importante, Economia e società, Weber pone le
tipologie relative a un ambito (ad esempio l’economia) in relazione a quelle relative a
un altro (ad esempio la politica, il diritto o la morale), specificando alcuni vincoli di
affinità o di inibizione che esistono fra fenomeni proprio di un ambito e di quelli propri
di un altro.

Antropologia filosofica:

Possiamo dire che Weber concepisce l’uomo come un essere interpretativo, che gestisce la
propria esistenza soltanto attribuendo significato alla realtà naturale e sociale in cui si trova
collocato.
La mente umana infatti non può cogliere quella realtà nella sua pienezza, poichè essa è
troppo molteplice e variabile, e per interpretarla ha bisogno quindi di
1. Selezionare determinati suoi elementi tralasciandone altri
2. Valutare gli elementi selezionati alla luce di determinati criteri di giudizio
Queste attività servono proprio a evitare che la realtà ci soverchi, rendendoci incapace di
agire e pensare (e quindi sopravvivere)

Entrambe le attività sono di natura mentale e quindi inevitabilmente soggettiva (e per questo
sono processi essenzialmente arbitrari, nel senso che non è possibile fornire una prova
inequivocabile della loro validità).
I soggetti per lo più non si rendono conto di questa arbitrarietà, e questo è necessario
affinché gli individui abbiano l’illusione di orientarsi in base a significati che leggono nella
realtà, anche se sono essi stessi a iscrivere sulla realtà quei significati. Senza questa
convinzione, si andrebbe a perdere la capacità di orientare il pensiero coerentemente e
durevolmente.

Inoltre, le interpretazioni soggettive della realtà sono oggetto di comunicazione tra soggetti, il
che le rende intersoggettive: in questo modo possono orientare l’interpretare della persona a
cui sono comunicate, rendendo capaci gli individui di attività collettive. Tramite la
comunicazione intergenerazionale, le interpretazioni possono resistere nel tempo,
strutturando durevolmente l’agire e il pensare individuale e collettivo.

I fenomeni sociali di grande portata come i costumi, le convenzioni, le regole, le leggi, le


istituzioni vanno ricondotti a interpretazioni fatte proprie da gruppi (e in qualche modo, per
assicurarne la condivisione, sanzionate tramite ricompense e punizioni).
Questi fenomeni cercano in vario modo di nascondere o sopprimere la loro intrinseca
arbitrarietà, affermando di dovere il proprio contenuto dalla natura stessa delle cose, dal
volere di esseri trascendenti, dallo “spirito del popolo” o dalle “leggi della storia”. (Vedi più
avanti stato)
Inevitabilmente però l’intrinseca soggettività delle interpretazioni date alla realtà da
determinati individui o gruppi le rendono diverse da quelle fatte proprie da altri individui o
gruppi: le interpretazioni da un lato conferiscono significato all’esperienza in modo
spiccatamente individuale, dall’altro strutturano la coesistenza di molteplici individui, e
questa contraddizione genera contrasto tra di essi: gli individui si mobiliteranno infatti per
affermare le proprie interpretazioni, o quanto meno per impedire che siano quelle altrui a
strutturare la propria esistenza.

Possiamo interrogarci su alcune conseguenze metodologiche di questa visione:

➔ Lo studioso dei fatti umani non deve soltanto scrivere dei fatti in questione, ma deve
comprenderli: ciò significa riferirsi sempre ai processi cognitivi soggettivi che
presiedono alle attività degli individui, e che ne fanno delle azioni piuttosto che dei
comportamenti. (sociologia comprendente, vedi modi di agire)

Questa posizione, che connette il pensiero di Weber con una tradizione fortemente presente
nell’ambiente intellettuale tedesco dei suoi tempi, la tradizione ermeneutica, solleva un serio
problema metodologico: anche le interpretazioni del sociologo sono inevitabilmente
soggettive, e questo può compromettere l’obiettività dei risultati delle sue indagini.

Rifacendoci a una distinzione operata da Kant possiamo distinguere tra giudizi di valore e
giudizi di fatto

Giudizi di valore Giudizi di fatto

Rispondono alla domanda “come devo Rispondono alla domanda “come posso
agire”? Non appartengono alla logica della conoscere”? Sono quelli su cui la
conoscenza scientifica conoscenza scientifica si deve basare
Non possono essere qualificati come veri o Possono essere qualificati come veri o falsi
falsi ma possono essere solo accettati o
rifiutati

Tuttavia, come dicevamo, l’essere umano, in quanto interpretativo, non può prescindere dai
giudizi di valore: anche gli scienziati sono immersi in determinate condizioni storiche e
culturali che li portano ad avere una propensione soggettiva per determinati valori. Per non
compromettere l’obiettività della ricerca scientifica tuttavia, tali giudizi di valore vanno
relegati alla selezione di un fenomeno, di una prospettiva, a un tratto della realtà a cui,
appunto, dare valore.
Quando si entra nella conoscenza scientifica di quell’aspetto bisogna basarsi solo sui giudizi
di fatto, e lo studioso deve rifarsi a un criterio di avalutatività (che non implica la neutralità
della scienza).

Con questa tesi, Weber si colloca a metà fra le due posizioni estreme del Methodenstreit,
dissociandosi sia da chi assolutizza le differenze sia da chi assolutizza le somiglianze fra
scienze naturali e scienze umane.
I valori per Weber:
Il concetto di valore in Weber viene interpretato in senso antropologico (non solo in senso
filosofico derivante dalla tradizione neokantiana): i valori sono modelli di comportamento
culturali (che non coincidono quindi con i singoli comportamenti, ma sono delle categorie a
cui le singole individualità vanno confrontate), schemi di riferimento della condotta con un
maggior grado di generalità (nel senso che accomunano tutti i soggetti a prescindere dalle
specifiche professioni o caratteristiche).

I valori si concretizzano in due etiche


➢ L’etica della convinzione, per cui un individuo si muove in base a un principio o un
obiettivo inamovibile in cui crede (non sostituibile)
➢ L’etica della responsabilità, per cui un individuo si muove in un’ottica
consequenzialista (gli obiettivi e i mezzi sono ricalibrabili)

I modi di agire:

In linea di principio, la soluzione di tutti i problemi sociali e culturali viene ricondotta a


un’alternativa fra quattro modi fondamentali di orientare la condotta umana, in qualsiasi
ambito dell’esistenza. La sociologia comprendente, per cogliere i processi soggettivi alla
base dei fenomeni, deve sempre individuare infatti la razionalità interna al soggetto, che si
esprime nei quattro modi di agire (e che va ricostruita in senso metodologico e non morale).

I quattro modi di agire sono:


Tradizionalmente Privilegiando le modalità suggerite dalla sua memoria del passato, in base
all’assunto che quanto è sempre stato merita di essere ripetuto

Emotivamente Privilegiando ciò che gli impulsi irriflessi suscitati in lui da sensazioni e
sentimenti gli impongono di fare

Razionalmente Formulando degli Rispetto ai valori Orientato da un valore o


obiettivi rispetto ai (etica della una credenza
quali l’individuo convinzione) considerato assoluta,
finalizza la sua azione indipendentemente dalla
sua attuabilità (non c’è
problema dei mezzi) e
dalle sue conseguenze

Rispetto agli strumenti Determinato rispetto ai


o agli scopi mezzi ritenuti adeguati
(etica della per la realizzazione di
responsabilità) uno scopo

Questi modi di agire possono essere ordinati secondo quattro gradi di razionalità e quattro
gradi di intelligibilità.

Non si presuppone tuttavia che ciascun individuo eserciti effettivamente in ogni momento
una scelta fra queste modalità di agire: nell’analisi Weberiana infatti, i richiami ai processi di
natura soggettiva si alternano alla disamina di strutture e assetti collettivi che in un certo
senso pregiudicano questo processo di scelta, rendendo altamente probabile che i soggetti
agiscano rispetto ad essi in un modo specifico.
Questo perché queste realtà collettive gli propongono o impongono quella scelta come
scontata, appropriata (ciò avviene sotto forma di istituzioni iscritte, valori accettati come
unicamente validi, convinzioni diffuse, definizioni della realtà condivise), come un fatto di
”routine”.
All’interno dell’opera di Weber troviamo alcuni esempi:

Weber definisce ad esempio l’autorità come la possibilità di trovare obbedienza, presso


certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuta.
Weber si riferisce a situazioni formali in cui l’obbedienza è motivata non da considerazioni di
pura convenienza ma da un senso di doverosità, di sentita obbligazione morale, in quanto gli
ordini vengono percepiti non come richieste personali ma in quanto esigenze che si fondano
su un potere istituzionalizzato e legittimo.

Rifacendosi alla tipologia degli orientamenti di agire, Weber sostiene che quel senso di
doverosità può essere motivato:
➢ tradizionalmente, fondato su consuetudini e costumi (un monarca sui propri
sudditi o una suocera su una giovane sposa)
➢ carismaticamente, in quanto il dominante ha dato prova di possedere qualità
straordinarie, che attivano nei dominati sentimenti di devozione, dipendenza,
ammirazione (Cristo, Gandhi, Hitler)
➢ razionalmente, fondato su regole formali ritenute corrette e necessarie, a cui
tutti sono vincolati e che garantiscono il funzionamento dell’organizzazione
(amministrazione pubblica, Stato, impresa)

Anche se quindi Weber lega ognuna di queste tipologie a un processo di scelta soggettivo
(che avviene sulla base dei quattro modi di agire) il fenomeno si basa sempre su una realtà
collettiva percepita come legittima che induce la stragrande maggioranza delle persone ad
reagire (sia accettandole o non accettandole, in questo caso rifiutando o accettando quel
senso di doverosità) in un modo specifico.

La critica tecnica dei valori:

In una produzione successiva Weber si avvicina a una visione più Paretiana, introducendo il
tema della critica tecnica (e quindi non morale) dei valori: Pareto aveva infatti specificato la
differenza fra un punto di vista soggettivo dell’attore (per cui colui che agisce ha sempre un
buon motivo e per tanto va compreso) e il punto di vista oggettivo dell’osservatore interprete
(che con un metodo logico-sperimentale guarda all’adeguatezza dei mezzi rispetto
all’azione). In questa nuova visione più “oggettiva” i modi di agire weberiani passano da
quattro a sei
Weber introduce due tipi in più che sono adeguati dal punto di vista oggettivo.
La disuguaglianza:

Weber fino ad un certo punto è d’accordo con Marx, in quanto per entrambi la
disuguaglianza sociale non ha rilievo solo nel descrivere una società ma ha a che fare, in
tutte le sue forme, con la questione del potere.
Weber però propone una visione pluridimensionale invece che monodimensionale della
disuguaglianza: affianca infatti alle classi (cioè ai raggruppamenti che si costituiscono sulle
disuguaglianze relative alla distribuzione delle risorse economiche) altri due tipi di
raggruppamento: i ceti, che si costituiscono in base alla distribuzione dello status (fondato su
differenze relative a onore, stime o prestigio) e i partiti, che si costituiscono sulla
distribuzione del controllo del potere politico.
Inoltre, anche se Weber ritiene che i rapporti fra questi raggruppamenti siano spesso
conflittuali, non considera ineluttabile questa tendenza e non vede nel conflitto fra questi
raggruppamenti il “motore della storia”.

Questa tripartizione dei fattori di disuguaglianza mette in evidenza l’esistenza di tre forme
diverse di potere:
1. Economico (classi)
2. Politico (partiti)
3. Ideologico (ceti)
Ciò che ne consegue, nella proposta Weberiana è che il conflitto possa essere non solo tra
raggruppamenti derivanti da una sola forma di potere, ma anche fra ciascuna forma di
potere.
Weber concorda con Marx rispetto al fatto che nella società moderna le classi e i loro
rapporti siano dominanti, ma rispetto a Marx accorda molta più importanza ai partiti, in
quanto in Weber i fenomeni politici hanno molta più rilevanza (mentre in M. erano il risultato
di processi economici).

La religione:

Allo stesso modo, Marx non presta molta attenzione ai fenomeni religiosi, a differenza di
Weber. Egli dedica alla religione un’intera serie di saggi sociologici raccolti in tre grossi
volumi, e un’intera sezione di Economia e società.
Il primo di questi saggi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, è considerato da molti
come il suo scritto più significativo.

Per Weber la religione permette all’uomo di collocarsi nel cosmo attribuendo un significato
alla propria esistenza: tuttavia, religioni diverse svolgono questo compito in misura e in
modo radicalmente diverso (questa concezione allontana Weber dal pensiero Durkheimiano
sulla religione).

Weber concorda con Marx nel dire che l’organizzazione dei processi sociali possa
influenzare vari aspetti dell’esperienza religiosa, ma era estranea alla visione marxiana la
questione inversa, ovvero che gli effetti della pratiche religiose potessero effettivamente
influenzare a loro volta l’organizzazione della società e della produzione.
Weber intende provare questa tesi in riferimento all’affermarsi del capitalismo moderno.
C’è un notevole accordo tra i due autori sia sulle caratteristiche peculiari del capitalismo (il
ruolo dell’impresa privata, dell’accumulazione, del profitto e il rapporto fra detentori dei mezzi
di produzione e manodopera, che genera una massiccia disuguaglianza tra le parti) sia sulla
genesi del capitalismo, che ha per entrambi come protagonista una componente del ceto
borghese che si è ribellata agli assetti corporativi tradizionali.

A questo proposito però Weber si pone un quesito che a Marx non interessava e che
riguarda un fenomeno di natura religiosa: a suo modo di vedere infatti, soltanto ispirando il
proprio operare quotidiano a uno spirito nuovo la nascente borghesia imprenditoriale si era
potuta avvalere delle condizioni presenti nella prima modernità per generare le nuove
strutture tipiche del capitalismo.
Questo spirito motivava i singoli imprenditori a una ricerca assidua di occasioni di guadagno,
con l’obiettivo di accumulare, investire, prendere iniziativa e adottare pratiche produttive
sempre aperte all’innovazione.
Per riprendere la generale classificazione weberiana degli orientamenti di agire, possiamo
dire che la borghesia imprenditoriale aveva respinto quello tradizionale per adottarne uno
razionale rispetto agli scopi che richiedeva una continua revisione dei mezzi in riferimento
alla loro capacità di massimizzare il fine (ovvero il profitto). Tuttavia questo criterio non era
assimilabile alla mera avidità: la differenza stava nel fatto che il nuovo spirito imponeva agli
imprenditori la ricerca del profitto come un dovere, e ne faceva l’oggetto di una dedizione
sistematica, rispetto alla quale la ricerca del godimento immediato rappresentava una
tentazione da respingere.

Ma come aveva potuto formarsi questo spirito?


Weber conviene con molti studiosi che a formare questa dedizione per il profitto era stato
compito della grandissima innovazione religiosa rappresentata dalla Riforma protestante, ma
nega che in questa vicenda avesse svolto un ruolo decisivo il pensiero di Lutero (che aveva
investito di significato religioso l’occupazione degli individui, intesa tuttavia ancora in senso
tradizionale, come lo scrupoloso adempimento a particolari doveri assegnati a molteplici
ranghi di un ordine corporativo).

La dedizione imprenditoriale avrebbe invece le proprie radici nel messaggio di un altro


grande riformatore, Calvino: secondo il dogma calvinista della predestinazione infatti, un
imperscrutabile decisione divina determina irrevocabilmente la destinazione di un individuo
alla salvezza o alla dannazione. Da questo deriva un’ansia circa il proprio destino, che non è
dato conoscere né modificare, che induce il fedele a condurre la propria esistenza in
maniera estremamente impegnata in un agire mondano instancabile che costituirebbe una
sorta di “prova” psicologica della sua futura salvezza (è quello che Weber definisce
ascetismo mondano).

L’argomentazione Weberiana è complessa e sotto vari punti discutibile: le controversie che


ne scaturirono indussero l’autore a rivedere molteplici passi del saggio. Weber cercò inoltre
di argomentare il fatto che in altre circostanze storiche (impero cinese) in cui vari fattori
materiali avrebbero potuto permettere al capitalismo moderno di emergere, le concezioni
religiose avevano reso impossibili questo fenomeno.

Ovviamente, una volta generatosi in Europa, il capitalismo aveva potuto affrancarsi dal
proprio originario spirito, espandendosi in tutto il mondo.
Nell’ambito della sociologia della religione, Weber affronta inoltre la questione di cosa
distingue la società occidentale da quelle delle altre grandi civiltà, e cosa ha permesso
all’Occidente di imporre, da un certo momento storico in poi, i propri modi di interpretare e
gestire diversi aspetti dell’esistenza.
Weber spiega che l’Occidente avrebbe sistematicamente sperimentato e promosso, nei
campi più diversi, l’adozione di modalità razionali dell’agire individuale e collettivo, modalità,
cioè, intese a ottimizzare il rapporto tra mezzi e fini dell’azione (non c’entra nulla la
superiorità morale).

Il potere politico:

Nello svolgere questa tesi, Weber affianca la tematica economica a quella politica:
l’Occidente, oltre che del capitalismo, è anche il luogo d’origine di due grandi esperienze
relative alla gestione del potere politico, che come il capitalismo si sono poi affermate in tutto
il resto del mondo: la città e lo stato moderno.

Lo Stato nasce in quanto alcuni centri riescono ad impossessarsi dell’autorità politica


debellando la competizione di altri centri e affermando la propria autonomia nei confronti
della Chiesa e dell’Impero. Acquisita la propria sovranità, ogni Stato, con tempi e modalità
diverse, si è dedicato a gestirla in maniera sempre più razionale, sviluppando le burocrazie,
apparati politici, militari, amministrativi in cui il personale agisce entro strutture progettate
secondo un modello piramidale che si articola variamente dall’alto al basso ma al contempo
conduce i propri affari in maniera il più possibile coordinata e unitaria.
(La burocrazia rientra in una più ampia tipologia di come un centro politico può articolarsi per
rendere efficienti le proprie attività).

Eterogenesi dei fini=differenza tra attore che agisce intenzionalmente (4 tipi di agire,
ricostruzione partendo dall’attore, individualismo che poi ha effetti a livello macro)
spaccatura tra intenzionalità delle mie azioni e effetti inintenzionali che si possono formare a
livello macro
Eterogenesi dei fini approfondisce gli effetti che si ottengono e che non coincidono con le
intenzioni.
GEORG SIMMEL

Studioso tedesco di filosofia, la sua produzione investe una vastissima tematica


intellettuale, entro la quale si colloca anche la sociologia, la cui missione scientifica è
secondo Simmel lo studio dei fenomeni storico-sociali e delle forme che assume
l’interazione tra soggetti individuali e collettivi.

➢ Filosofia del denaro (1900)

➢ Sociologia (1908)

Premesse metodologiche:

Parte della critica ha avvicinato Simmel a Durkheim per l’attenzione che entrambi gli autori
riservano alla struttura sociale. Tuttavia va tenuto ben presente che Simmel NON è uno
strutturalista e che i suoi ragionamenti prendono anzi sempre le mosse da una prospettiva
individualista, con uno spiccato interesse per i processi sociali di natura microsociologica.

Antropologia filosofica:

Possiamo parlare dell’antropologia filosofica sottintesa al pensiero sociologico di Simmel


partendo da una frase in cui Kant attribuisce all’essere umano un “insocievole socievolezza”
(ungesellige geselligkeit), espressione che trova molteplici echi nell’opera di Simmel.

Nel pensiero di Simmel infatti gli individui si trovano sempre in qualche misura coinvolti gli
uni con gli altri ma nel farlo ciascuno mantiene sempre una certa distanza, cercando di
conservare una quantità di autonomia e indipendenza che gli permetta di determinare più
dell’altro l’andamento della relazione.
Per quanto infatti forti siano in un soggetto il bisogno dell’altro (geselligkeit), questo è
sempre controbilanciato da un’aspirazione al controllo su di esso o quantomeno sulla
riduzione della sua influenza nella relazione, da cui dipende la possibilità stessa di sentirsi
autonomamente un individuo (ungeselligkeit).

Il soggetto ha quindi una relazione ambivalente con l’altro (attaccamento/repulsione).


Questa posizione da un lato riflette la complessità, l’ambivalenza e la contraddittorietà di
tutta la produzione intellettuale di Simmel, dall’altro esprime la tendenza dell’autore ad
accentuare, in particolare nei suoi scritti sociologici, i paradossi della realtà sociale tramite
formulazioni controintuitive.
(ad esempio, Simmel definisce lo straniero non come “colui che oggi viene e domani va” ma
come “colui che oggi viene e domani rimane”; Simmel suggerisce che il fenomeno della
moda sia caratterizzato dall’aspirazione dell’individuo a differenziarsi dagli altri, cosa che lo
induce paradossalmente a conformarsi; Simmel definisce lo scambio riferendosi alla volontà
dell’individuo non di acquisire qualcosa che non ha, ma di rinunciare a qualcosa che ha;
Simmel vede la lotta come una forma di associazione).

La riflessione di Simmel oltre a comprendere tutti questi aspetti tratti dai contesti più vasti si
concentra soprattutto sul tema delle relazioni sociali che coinvolgono individui ma anche
gruppi e entità collettive (interi Stati). L’intuizione fondamentale di Simmel è che le relazioni
comportino sempre un “effetto reciproco” (Wechselwirkung) che orienta entrambe le parti
coinvolte e riguarda sia aspetti conflittuali che componenti condivise.
Simmel ne dà un esempio: se due persone si recano insieme a visitare una pinacoteca è
possibile che concentrino l’attenzione sugli aspetti condivisi o sulle preferenze estetiche
differenti.
Se A privilegia gli aspetti x e y e B privilegia invece x e z, per mantenere la sintonia fra le
due parti basterà che essi comunichino soltanto la soddisfazione che ricevano da x.

La possibilità di una condivisione soddisfacente dell'esperienza (che dipende quindi dalla


condivisione di determinati aspetti) deriva però secondo Simmel principalmente dall’aspetto
formale di tale esperienza, e in particolare, come vedremo, dal numero di parti coinvolte.
(“sociologia formale”)
Formale nel senso che non riguarda il contenuto della relazione, ovvero gli interessi che le
parti perseguono nelle varie situazioni concrete: A e B non vanno in pinacoteca per essere
in due, semplicemente si ritrovano ad essere in due e questo per Simmel ammette o esclude
determinate esperienze condivise e incide quindi sull’appagamento della relazione che si
genera.
Il piano formale non va dunque inteso come separato da quello dei contenuti (potrebbe
essere interpretato infatti come un piano “metafisico” a parte) ma riguarda invece la struttura
formale che tali contenuti assumono.

La distinzione fra forma e contenuto è particolarmente importante in quanto molte discipline,


come il diritto o l’economia, esaminano le relazioni tra individui o entità collettive proprie del
rispettivo ambito in riferimento al loro contenuto (ovvero agli interessi per i quali sono
concretamente orientate): anche la sociologia si trova ad esaminare relazioni giuridiche o
economiche, ma lo fa prendendo in considerazione le forme diverse che esse
inevitabilmente assumono (fattore che può apparire irrilevante dal punto di vista prettamente
giuridico o economico ma che incide profondamente, come abbiamo spiegato, sull’esito
delle relazioni stesse).

La sociologia è dunque per Simmel l’indagine degli aspetti formali dei rapporti sociali.
Simmel richiama una metafora che esprime chiaramente questa concezione: la sociologia si
deve occupare della geometria degli accadimenti storico-sociali.
Le proprietà geometriche del triangolo sono le stesse per i triangoli più diversi, astraendo dal
fatto che si tratti concretamente di una fetta di pizza o di un appezzamento fondiario.

Per fare un esempio, tornando alla questione del numero, Simmel specifica che

➔ Una diade è una forma particolarmente fragile (che deriva proprio dall’insocievole
socievolezza delle relazioni umane), in quanto le parti coinvolte devono trovare un
equilibrio fra il proprio interesse e l’interesse altrui.
Un’altra particolarità della diade è l’intimità che la caratterizza, ossia la tendenza a
diventare veicolo di emozioni, interessi e intenti che le parti normalmente lasciano
fuori da altre forme di relazioni.

➔ Con il passaggio a una triade la relazione può risultare rafforzata o minata.


L’ungeselligkeit può manifestarsi infatti nella triade come l’aspirazione di ciascuna
parte a stabilire la propria autonomia servendosi del terzo in diversi modi: in
particolare, il terzo può assumere diversi comportamenti in riferimento a questo
contrasto
➢ Mediatore neutrale (cercando di negoziare un accomodamento fra le due
parti)
➢ Opportunista (avvantaggiandosi del contrasto per aumentare le proprie
risorse)
➢ Tattico (colui che “divide et impera” alimentando di proposito il contrasto)

Simmel offre numerosi esempi di tali configurazioni, sia a livello interpersonale (con
l’arrivo ad esempio di un figlio entro una coppia coniugale) sia a livello politico (la
monarchia inglese che si rafforza nella guerra delle Due Rose).

Simmel prospetta dunque il compito della sociologia come quello di classificare le varie
forme che i rapporti sociali possono assumere, indicandone le proprietà e le tendenze di
sviluppo. In realtà Simmel non si dedicherà a questo compito in maniera sistematica nei
infatti vari fenomeni sociali che elenca (dominio, coesione, divisione del lavoro…), tuttavia
ne dimostra la possibilità in due saggi La determinatezza quantitativa del gruppo e
L’intersezione delle cerchie sociali.

L’intersezione delle cerchie sociali:

In questo saggio Simmel analizza il fenomeno della crescente autonomia dell’individuo nella
società moderna: egli non crede che tale fenomeno comporti un’effettiva atomizzazione della
società in quanto, come abbiamo visto, la geselligkeit rimane uno degli elementi costitutivi
dell’essere umano, tuttavia la società moderna produce diverse nuove dimensioni
significative della ungeselligkeit.

Ciò che cambia, nella modernità, è essenzialmente il modo in cui i gruppi si posizionano gli
uni rispetto agli altri all’interno dello spazio sociale.

Nelle società premoderne l’individuo si trovava inserito in delle cerchie concentriche: un dato
fondamentale (la nascita) lo collocava all’interno di esse (famiglia- gruppo parentale-
vicinato- religione- istruzione -occupazione ecc…). Questo rendeva l’individuo
coerentemente osservabile e facilmente premiabile o punibile.

Nelle società moderne le appartenenze non si dispongono in maniera coerente ma si


accavallano, intersecandosi casualmente. Ogni individuo, in pratica, ha un pacchetto di
appartenenze che gli è proprio ed esclusivo.
Questo perchè nella modernità è sempre più concesso al soggetto di scegliere le proprie
appartenenze, ed è dunque più probabile che il soggetto si integri ed entri in contatto con
vari gruppi costituiti di volta in volta da individui diversi. Ne deriva una certa “anonimità” nei
rapporti che a sua volta aumenta il senso di autonomia alla base della ungeselligkeit.

In realtà però Simmel, per quanto consapevole dei suoi rischi, valuta positivamente tale
fenomeno, distanziandosi peraltro da un atteggiamento assai comune tra gli studiosi della
Germania del suo tempo, rappresentanti di un “pessimismo culturale” che rilevava solo gli
aspetti negativi di esso. Complessivamente, per Simmel, la possibilità di “partecipare” a
diversi gruppi della società moderna lascia uno spazio crescente alla realizzazione
individuale, alla possibilità di sottrarsi alla presa di appartenenze pressanti e soffocanti e di
mettere in dubbio norme prevalenti.

Si afferma dunque con la società moderna un valore centrale: la libertà individuale. A questo
tema e alle sue caratteristiche Simmel dedica un ampio capitolo della Filosofia del denaro.

La filosofia del denaro:

Quest’opera, malgrado il titolo, costituisce un’esemplare trattazione sociologica del denaro,


considerato (sociologicamente, appunto) come istituzione: in altre parole, il denaro è
considerato un’espressione fondamentale della capacità di gruppi sociali di produrre oggetti
materiali e immateriali (per esempio sistemi di regole) che servono a gestire aspetti diversi
del loro rapporto con la natura e con altri gruppi sociali. In particolare, per il denaro, questo
aspetto è lo scambio.

Lo scambio è, come tutte le interazioni tra esseri umani, dominato da una logica di
insocievole socievolezza: attraverso gli scambi individui diversi si avvicinano per mettere a
disposizione beni e servizi che soddisfino i bisogni dell’altro, ma nel farlo sono motivati
dall’intento di soddisfare a loro volta dei propri bisogni.
Le relazioni di scambio sono rese più efficienti con l’introduzione del denaro, che commisura
questo aspetto di rinuncia/acquisizione.

L’intera opera di Simmel analizza le conseguenze sociali, politiche e culturali dell’esistenza


del denaro: come accennavamo, il quarto capitolo discute il rapporto che l’economia
monetaria ha con la libertà individuale (da intendersi come libertà di realizzazione individuale
di sottrarsi da particolari appartenenze ecc… da ascriversi a una particolare configurazione
della geometria delle relazioni sociali). La libertà individuale deriva e genera, secondo
Simmel, anche da un un particolare tipo di rapporto dell’individuo con la realtà sociale che
potremmo definire di “disimpegno” nel senso che l’altro viene trattato in maniera
indeterminata, in riferimento alle sue qualità astratte, mantenendo una certa distanza.
Vediamo come il denaro rende possibile o quantomeno facilita questo tipo di rapporto
dell’individuo con la realtà.

Innanzitutto a differenza di altre risorse che si prestano ad essere scambiate come la


proprietà terriera o la quantità di lavoro, il denaro, in quanto oggetto astratto, non qualifica
l’individuo in alcun modo (in altre parole l’individuo viene visto solo astrattamente, come una
“quantità di denaro”, senza determinazioni costrittive mentre con il lavoro sei legato a
determinazioni concrete).
Questo può avere certamente dei vantaggi dal punto di vista della flessibilità degli scambi:
nell’Europa della prima modernità, esemplifica Simmel, i signori fondiari cessarono di
esigere dai propri possidenti prestazioni in natura o lavoro (un certo numero di ore di lavoro
non retribuito o la consegna di certe quantità di derrate) e lo convertirono in prestazioni
monetarie: in tal modo i dipendenti si trovarono liberi di decidere per proprio conto cosa
coltivare al fine di acquisire sul mercato le quantità di denaro che dovevano al signore.
La prima forma di ricchezza, inoltre, è più “vulnerabile”, in quanto immobiliare alla minaccia
di essere in qualche modo espropriata, mentre una ricchezza astratta come quella
monetaria protegge il proprietario da chi gliela vorrebbe sottrarre.
L’effetto di disimpegno da cui deriva e che genera la libertà individuale ha inoltre a che fare
con lo strettissimo rapporto del denaro con il mercato: a questo proposito Simmel spiega che
paradossalmente quanto più è ampia la rete delle dipendenze dell’individuo, tanto più essa
lo disimpegna rispetto a ciascuna particolare dipendenza.
Ovviamente più fornitori indeterminati ci sono per ogni servizio meno si è dipendenti dal
singolo fornitore determinato.

Infine, il denaro può “trasportare” una quantità anche enorme di valore economico (libertà
individuale): questo vale se si confrontano tutti i tipi di denaro con i beni materiali, ma anche
se si considera la carta moneta in confronto al denaro metallico e ancora di più per altri
strumenti tra i quali quelli noti a Simmel erano la cambiale e il titolo azionario e ad oggi la
carta di credito o il denaro elettronico.

Simmel segnala che, per svolgere la sua funzione, il denaro deve operare come un “motore
immobile”: deve esserci la certezza che il denaro che ora si accetta possa venir speso in
seguito con lo stesso valore (Simmel non conosceva l’inflazione).
Senza questo patto (“fiducia”) tra uomini (del fatto che il denaro sarà accettato con lo stesso
valore), che non è verificabile in quanto i rapporti non si fondano su elementi concreti, la
società si disintegrerebbe.

Questo passo può ricordare quello di Durkheim in cui viene spiegato che nel momento in cui
le credenze e le tradizioni e le aspirazioni della collettività muoiono, la società muore.

Fino a che punto è giusto assimilarle?


Innanzitutto c’è una notevole differenza tra “morire” e “disintegrarsi”: la prima suggerisce una
concezione organica della società mentre la seconda ci fa pensare a una costruzione che
può essere scomposta.
Inoltre c’è una differenza fra “gli uomini” di Simmel e “la collettività” di Durkheim, che ha
sempre a che vedere con una concezione olistica della società. Allo stesso modo in
Durkheim c’è una visione dall’alto (gli uomini devono credere) mentre in Simmel dal basso
(gli uomini devono avere fiducia fra di loro).

La tragedia della cultura:

La centralità del denaro nella società moderna si rivela nella sua tempra materialistica e
utilitaristica. Se infatti Simmel non condivide il “pessimismo culturale” di molti studiosi suoi
contemporanei, possiamo vedere in alcuni suoi giudizi una particolare sensibilità per le
contraddizioni dei suoi tempi. Un’inquietudine che certamente si fa più acuta nei suoi scritti
più tardi: gli individui stanno rischiando di perdere il controllo sulla realtà in cui si muovono,
che perdano la capacità di metterla effettivamente al proprio servizio (alienazione di Marx).

Quest’inquietudine si manifesta inizialmente nel suo scritto La grande città e la vita mentale
(e poi sviluppato nel La tragedia della cultura) aveva descritto la metropoli come
un’incarnazione delle contraddizioni della sua epoca.
Una metropoli è infatti per Simmel il luogo per eccellenza della sperimentazione, che offre
una varietà enorme di gruppi sociali, forme culturali, espressioni dell’esistenza quotidiana,
della creatività ecc… e il luogo dunque dov’è più facile per l’individuo trovare la propria
realizzazione personale.
Per le stesse ragioni tuttavia chi vive nella metropoli è inevitabilmente esposto al rischio di
un eccessivo disimpegno nelle proprie relazioni, che soffoca il suo bisogno emotivo di
rapporti umani (è costretto a un atteggiamento che Simmel chiama blasè, che consiste nel
ridurre le proprie reazioni ai propri stimoli).
Il discorso si allarga ovviamente all’intera società moderna.
GEORGE HERBERT MEAD

Filosofo statunitense pubblicamente impegnato nella promozione di politiche progressiste


in campo educativo, dedica ampia parte della propria attività di insegnante (Chicago) alla
psicologia sociale.
Mead dà un'interpretazione del comportamentismo che sarà alla base dell’orientamento
successivamente chiamato “interazionismo simbolico”.

➢ La filosofia del presente (1932)

➢ Mente, Sé e Società (1934)

Antropologia filosofica:

Le ricerche di Mead scaturiscono da alcuni interrogativi tradizionalmente confinati in ambito


antropologico (come l’origine della consapevolezza di sè, la differenza tra umani e animali)
ed epistemologico (il rapporto soggetto-oggetto, la possibilità di conoscere effettivamente la
realtà esterna).
Nel corso delle sue ricerche, Mead si è convinto che essi potessero essere risolti solo in una
visione degli individui che accentuasse fortemente la loro natura intrinsecamente sociale.

La tesi di Mead, attorno alla quale ruotano tutte le sue teorie è che per essere sé stesse, le
persone devono essere pienamente socializzate: essere immersi in sistemi di relazioni
sociali è la condizione per esprimere effettivamente la libertà individuale.

Consapevolezza di sé:

Per Mead gli esseri umani si distinguono dagli altri animali principalmente per la capacità di
osservarsi dall’esterno, di riuscire a considerarsi non solo soggetti ma anche oggetti della
propria riflessione (quindi di oggettivarsi).
Questa capacità è considerata da Mead come una discontinuità evolutiva paragonabile a
quella tra oggetti inanimati e organismi, che scinde il mondo umano da quello animale.

Questa consapevolezza di sé tuttavia non è una proprietà stabile dell’agire.


Gran parte della nostra vita trascorre in un flusso continuo di attività e percezioni all’interno
del quale non rientra alcun atteggiamento riflessivo: non c’è consapevolezza di noi stessi
fintanto che l’ambiente nel quale agiamo è “dato per scontato”, nel senso che calza
perfettamente l’idea che ci siamo fatti di esso.
Quando invece questo flusso di esperienza viene perturbato da uno stimolo “imprevisto” si
attiva un particolare processo riflessivo che porta, in ultima analisi, all’oggettivazione di sé.
È come quando travolti dall’acqua diveniamo consapevoli del nostro respiro, che non è più
dato più per scontato o quando un’interruzione stradale ci fa pensare a dove vogliamo
andare.
Questo processo di avviene in questo modo:

➢ Lo stimolo (interno o esterno) costringe l’individuo a riflettere su di esso, a cercare di


interpretarlo. Negli animali quest’interpretazione avviene sulla base di schemi
trasmessi geneticamente, e quindi comuni all’intera specie. Nell’essere umano la
componente genetica è relativamente limitata, mentre un ruolo importante è svolto
da schemi che derivano dall’apprendimento e quindi altamente variabili.
Questa variabilità fa sì che uno stesso stimolo possa essere interpretato in maniera
molto diversa da più individui e che quindi non sia possibile prevedere come un
individuo reagirà a quel determinato stimolo.

➢ Gli esseri umani sono consapevoli di tale molteplicità: alla base di questa
straordinaria capacità di intuire la parzialità delle proprie percezioni deriva
l’autocoscienza, quindi l’attitudine a distanziarsi da sé stessi, a oggettivarsi.
Gli esseri umani in questo modo possono interrogarsi sul significato di ciò che si
osserva, sulla limitatezza della propria interpretazione e sulla possibilità di dare una
nuova interpretazione, migliore, di noi stessi, degli altri o della natura delle cose, a
riflettere, appunto.

Questo processo mentale si basa quindi sul dialogo tra due prospettive, quella cosciente,
inserita nel corso d’azione in cui siamo immersi e quella auto-cosciente, fondata sulla
consapevolezza che tale prospettiva è solo parziale.

La riflessività è infatti un’interazione tra un Sè che opera come soggetto (che Mead chiama
“Io”) e un Sé oggetto della riflessione (che Mead chiama “Me”).
Non si tratta di due parti separate del nostro cervello, ma di due dimensioni funzionali di un
processo continuo di interpretazione della realtà interna ed esterna.
La risposta dell’attore alle sue azioni oggettivate, la relazione tra Io e Me non è secondo
Mead di natura diversa da quella che lega due individui che interagiscono fra di loro. Anzi,
come vedremo, la dinamica tra Io e Me è funzionalmente simile all’interazione sociale tra
due o più partecipanti.

Non dobbiamo infatti immaginarci una visione solipsistica in cui ognuno vive nel proprio
mondo privato: per mantenere il proprio ordine mentale, gli individui hanno bisogno di uno
stretto contatto sociale. La mente può svilupparsi solo quando c’è un’interazione: senza
l’accesso alla comunicazione, gli individui, semplicemente, non sarebbero.

Se è vero infatti che gli schemi interpretativi variano da individuo a individuo è vero anche
che è possibile rintracciare in essi moltissimi significati comuni, modi di pensare e di agire
condivisi, prospettive che accomunano individui anche molto lontani nello spazio e nel
tempo.
Mead parla a tal proposito di continuo adattamento dei significati, nel senso che alla
capacità di oggettivarsi e di osservare le proprie azioni dall’esterno va accompagnata quella
di guardare le proprie azioni con la prospettiva di un altro: in questo modo gli individui
tentano di comprendere il significato socialmente attribuito alle proprie azioni, grazie alla
possibilità di assumere il ruolo dell’altro, di guardare dal punto di vista della persona con la
quale si interagisce.
Questa capacità di assumere il ruolo dell’altro non solo è alla base dell’interazione sociale
ma ha un ruolo fondamentale nell’apprendimento sociale (di cui si parlava prima, che è alla
base degli schemi interpretativi): è infatti ciò che consente all’individuo di apprendere le
caratteristiche delle condotte altrui, ed è in sintesi il modo in cui i modelli societari entrano
nei processi mentali e negli schemi interpretativi degli individui.

Grande peso hanno in particolare, nell’andare a costruire gli schemi interpretativi alla base
dei processi riflessivi, quelle che Mead chiama istituzioni, presenze complesse, abituali e
influenti che costituiscono la struttura della società e, al tempo stesso, strutturano il Sé dei
partecipanti. Negli schemi interpretativi degli individui esse rappresentano il punto di vista
della collettività (o delle collettività alle quali l’individuo partecipa), e secondo Mead, la loro
presenza spiega come gli esseri umani riescano a conseguire un elevato grado di
coordinamento, raggiunto proprio grazie a scambi comunicativi (senza fare ricorso a
un’autorità centrale che definisca un’interpretazione univoca della realtà).

La socializzazione di Mead:

Ma in che modo avviene l’apprendimento di tali schemi?


Nella prima infanzia ha importanza cruciale il comportamento ludico: qui Mead identifica i
principali processi di trasformazione del neonato in un membro competente della comunità.

L’inizio dell’apprendimento avviene tramite “conversazioni di gesti”.


Sin dalla prima infanzia, il neonato è inserito in delle sequenze di gesti che lo inducono a
riflettere sia sul significato del gesto precedente, sia sulle conseguenze che avrà un gesto
piuttosto che un altro, diventando consapevole quindi dell’interdipendenza tra i gesti prodotti
(causa-conseguenza).

In questa prima fase il bambino impersona individui concreti del proprio ambiente,
sperimentando una vasta gamma di risposte e reazioni alle proprie azioni.

Con la crescita ci si sposta a forme di interazione più complesse in cui il bambino lega i
propri gesti alle reazioni di altri: questo richiede una capacità quantomeno rudimentale di
adottare la prospettiva dell’altro.
Con lo sviluppo di questa capacità, alcuni gesti iniziano ad essere intenzionalmente utilizzati
per comunicare, ovvero vengono utilizzati come simboli (i gesti degli umani comprendono
anche il linguaggio, e la crescita del bambino che coincide proprio con un aumento della
necessità di acquisire controllo sulla comunicazione simbolica lo porta a sviluppare il
linguaggio).

In una seconda fase, detta del play, il bambino esplora sequenze di ruoli (tutti svolti da lui),
giocando ad esempio con dei pupazzi.
Il bambino affronta un primo processo di generalizzazione simbolica, identificando come
simili reazioni provenienti da figure diverse.

L’interazione come sappiamo è per Mead anche alla base della consapevolezza di sé stessi,
e il bambino sviluppa parallelamente infatti maggiore riflessività e consapevolezza di sé.
Nel corso della crescita, all’esplorazione giocosa si affianca il gioco strutturato, basato su
regole condivise: è la fase del game.
In questi giochi non è sufficiente immedesimarsi in una persona concreta, è necessario
identificarsi con un ruolo tra tanti. In altre parole, la partecipazione a un gioco strutturato
richiede la capacità di osservare sé stessi da una molteplicità di punti di vista allo stesso
tempo, e in particolare Mead parla di altri generalizzati (collettività).

Nel corso del processo di socializzazione dunque il bambino attraversa queste differenti fasi,
caratterizzate da diversi livelli di complessità relazionale e simbolica, sviluppando le proprie
capacità riflessive e riuscendo ad assumere il punto di vista di entità collettive e astratte, sia
di tipo organizzato (esperienza diretta, gruppi sociali concreti) sia di tipo funzionale (gruppi
definiti funzionalmente, come “gli amanti di film western”).

Le posizioni di Mead possono suscitare qualche perplessità: la tesi secondo cui i


meccanismi di coordinamento sociale favoriscono sistematicamente il punto di vista pià
diffuso potrebbe sembrare un’esaltazione del conformismo.
Mead è interessato infatti soprattutto a comprendere il modo in cui i modelli societari entrano
a far parte del processo mentale degli individui, ed è indubbio che egli consideri una forma
elevata di moralità e di razionalità la capacità di seguire la voce più ampiamente condivisa
all’interno della comunità.
Tuttavia va ricordato che per Mead le abitudini e le tradizioni della conformità vengono
costantemente sfidate da “perturbazioni” di vario genere, che spesso derivano da nuove
prospettive interpretative da parte degli individui, che hanno la capacità di contribuire a
formulare nuovi criteri morali. La presenza di “altri generalizzati" nei processi mentali, serve
proprio a far sì che sia possibile aprire una prospettiva critica su tale ordine sociale che non
appaia aliena ad essa, che sia capace di partecipare alla comunicazione interna a quella
comunità.

ù
TALCOTT PARSONS

Sociologo statunitense, dopo aver studiato in Inghilterra e Germania si dedicherà,


utilizzando un’approfondita familiarità con la biologia e l’economia, all’elaborazione di una
teoria specificamente sociologica poi denominata “funzionalismo strutturale”.
Questo sforzo teorico fa di Parsons una figura centrale della sociologia americana e il
leader di un movimento disciplinare di portata internazionale.

➢ La struttura dell’azione sociale (1937)

➢ Il sistema sociale (1951)

➢ Famiglia e socializzazione (1955)

➢ Sistemi di società (1966)

➢ Comunità societaria e pluralismo (1994)

Antropologia filosofica:

Le analisi sociologiche di Parsons si basano su una concezione normativa dell’azione


umana: ogni azione è infatti vista come il tentativo di intervenire sullo scarto tra quello che la
realtà in cui l’individuo si trova è (situazione) e quello che tale realtà secondo l’individuo
dovrebbe essere.

L’attore agisce quindi in un contesto definito sempre dalla presenza di elementi condizionali
e normativi, ma la sua azione non è mai l’effetto automatico di queste condizioni (come
vorrebbe una visione deterministica), ma ha sempre un margine di autonomia: l’individuo si
trova continuamente a dover scegliere i mezzi più adeguati per il raggiungimento di un
determinato scopo, districandosi tra pressioni contrastanti, sforzi, energie ed emozioni che
derivano dalla propria soggettività.

Se si cerca altresì di spiegare la vita sociale utilizzando come unico parametro il


comportamento individuale, si finisce inevitabilmente per descriverla come una miriade di
interazioni imprevedibili e conflittuali (prospettiva che Parsons definisce atomistica), una
descrizione che non è in grado di spiegare come sia possibile il mondo sociale
(relativamente) ordinato del quale facciamo quotidianamente esperienza.

Secondo Parsons, se la teoria sociale vuole veramente riconoscere l’autonomia degli attori
deve spiegare adeguatamente il funzionamento dei meccanismi di regolazione istituzionale
che rendono possibile l’interazione fra di essi, senza negare l’autonomia delle azioni
individuali: si tratta quindi di una visione decisamente più complessa, detta individualismo
istituzionalizzato.

Vediamo quindi come la teoria di Parsons si colloca a metà tra la tradizione Pareto-
Weberiana e quella Durkheimiana: egli riprende da Weber la teoria dell’azione sociale
(mezzi-fini) che però inserisce all’interno di un concetto di struttura prettamente
Durkheimiano.
La teoria dell’azione e la struttura:

Parsons sostiene innanzitutto che i meccanismi di coordinamento sociale non possono


essere basati sull’accettazione cosciente e razionale delle regole da parte degli attori (come
una sorta di contratto sociale) in quanto un individuo dotato di autonomia si renderebbe
presto conto che in molte occasioni i propri obiettivi possono essere meglio raggiunti
violando le regole invece che rispettandole.
Secondo Parsons invece, i meccanismi alla base di tale ordine sono generati continuamente
dagli attori in modo indiretto durante l’interazione.

L’interazione sociale fra esseri umani è caratterizzata infatti dal fatto che l’oggetto con cui
interagiamo crea un condizionamento su di noi. Parsons chiama la situazione che si crea
una situazione di doppia contingenza in quanto il soggetto si trova a dover anticipare gli
obiettivi dell’oggetto con cui ha a che fare (ed è quindi condizionato) ma a sua volta deve
essere consapevole che anche l’oggetto dell’interazione sarà condizionato da analoghe
interpretazioni nei suoi confronti.

Quest’anticipazione è resa possibile da un margine di prevedibilità (senza il quale non


potremmo calcolare tutte le possibilità dell’interazione) che è dato da meccanismi meta-
individuali fondati su delle aspettative che si creano in base ai ruoli.
Secondo Parsons queste aspettative sono regolate da un ordine normativo condiviso,
radicato in una cultura comune e sostenuto da un sistema condiviso di sanzioni, positive o
negative, riconosciuto da un'ampia parte dei partecipanti. (Influenza di Freud: i processi
mentali attingono dall’esperienza, Parsons nel suo schema d’azione ci dice che attingono
dalla cultura)..

Parsons sostiene infatti che nei passaggi cruciali dell’interazione gli attori sociali si basino su
un ordine normativo che gli attori si sentono tenuti a considerare valido, che si basa sulla
condivisione di una stessa definizione della situazione in termini di priorità generalizzate
(valori) e di aspettative specifiche, riferite a comportamenti attribuibili a specifici ruoli
(norme). è la cultura.
(Riduzione della complessità dell’interazione tramite un margine di prevedibilità)

I processi per cui, secondo Parsons, questi modelli culturali si riproducano in un ordine
sociale stabile sono:
➢ Socializzazione, attraverso la quale i modelli culturali vengono incorporati nelle
strutture psicologiche degli attori, un processo che si avvia alla nascita per cui
impariamo a interagire con gli altri (se manca si arriva alla devianza).
L’interazione è sia condizione della socializzazione sia un’esperienza situazionale
determinata dal processo di socializzazione (devianza/conformità, teoria dell’azione
scegliere i mezzi rispetto agli scopi)
➢ Istituzionalizzazione, attraverso la quale i modelli culturali vengono incorporati nel
sistema delle ricompense sociali

L’analisi sociologica può partire da un caso ideale nel quale questi due processi sono
perfettamente coerenti fra di loro (e quindi in cui gli attori aspirano a obiettivi socialmente
desiderabili cercando di conseguirli utilizzando mezzi socialmente leciti): si tratta di una
situazione ipotetica e astratta, in cui c’è un isoformismo tra cultura e personalità, un modello
di riferimento che svolge nella teoria sociologica un ruolo simile a quello svolto nella teoria
economica dal concetto di concorrenza perfetta.
Ogni situazione concreta può poi essere confrontata con questo modello.

I centri di integrazione del sistema sociale:

Per riassumere, ogni sistema sociale si muove secondo Parsons attraverso tre centri
d’integrazione

➔ La cultura: quel sistema di modelli di condotta e schemi interpretativi condivisi che


vanno a caratterizzare il modo in cui un soggetto agisce (valori e norme)

➔ La personalità: tutti quegli elementi disposizionali nell’individuo

➔ La struttura sociale: tutti gli elementi posizionali nell’individuo, i ruoli, i sistemi di


opportunità ecc…

Possiamo immaginare la struttura sociale come un sistema di strade, la cultura come il


codice di norme da seguire per muoversi al suo interno e la personalità come la nostra
macchina.

➔ Variabili modello o pattern variables, qualificano il profilo di un sistema sociale.

Schema piramidale di Parsons:

La stratificazione ordinata del sistema sociale rispecchia questa concezione di personalità e


cultura che si interpenetrano.

Valori: Elementi di base della cultura che rimangono sempre Appresi in un’epoca
gli stessi, attraversano tutti gli altri elementi della cultura (si remota (fase di
ripetono in tutti gli elementi del contesto, come un filo rosso). socializzazione primaria, li
Hanno carattere formale, nel senso che sono applicabili a facciamo con meccanismi
tutto freudiani,senza rifletterci)

Norme: Realizzazione dei valori

Collettività/Istituzioni:

Ruoli Appresi con natura


decisionale (Weber)
➢ Generalità decrescente
➢ Differenziazione crescente (moltissimi ruoli)
➢ Riflessività crescente

Se non introducessimo la riflessività sarebbe una concezione uguale a quella di Durkheim:


più si scende più c’è autonomia.
Secondo Parsons, ogni sistema sociale (qualsiasi) deve far fronte a quattro problemi
fondamentali, noti con l’acronimo AGIL:
➔ Adattamento: acquisire e utilizzare le risorse provenienti dall’ambiente naturale
➔ Conseguimento degli scopi: stabilire un certo equilibrio tra scopi comuni del sistema
e scopi specifici dei singoli individui
➔ Integrazione: gestire le relazioni tra gli individui del sistema, definendo le
appartenenze e risolvendo i conflitti
➔ Mantenimento dei modelli latenti: indurre gli individui a mantenere il proprio impegno
nei confronti dei valori culturali condivisi

Parsons sostiene che nessun sistema sociale può prescindere da nessuna di queste quattro
esigenze. Egli utilizzerà questo schema per analizzare specifici sistemi sociali, ad esempio
le società moderne
➔ Alla funzione di adattamento provvede il sistema economico, che trasforma le risorse
in beni e servizi consumabili
➔ Alla funzione di conseguimento degli scopi provvede il sistema politico, che stabilisce
il rapporto tra scopi “privati” e scopi collettivi
➔ Alla funzione di integrazione provvede la comunità societaria, ovvero tutte quelle
attività che impegnano i cittadini in varie forme di solidarietà (sistema giuridico)
➔ Alla funzione di mantenimento dei modelli latenti provvedono le istituzioni fiduciarie
ovvero quelle culturali, educative e religiose che garantiscono la trasmissione dei
modelli culturali

Ovviamente quest’analisi, sottolinea Parsons, va attentamente gestita: le stesse strutture


possono, in epoche o luoghi diversi, svolgere funzioni molto diverse.
Identificare certi sottoinsiemi con complessi istituzionali può essere fatto in termini funzionali
(guardando effettivamente alla funzione che esercitano) non invece ricostruendo il significato
che i partecipanti gli attribuiscono (la famiglia).
In secondo luogo, ogni attività è a sua volta un sistema che deve gestire tutti e quattro i
problemi funzionali identificati.
In terzo luogo, l’efficienza di questi sistemi dipende da quella degli altri, che devono fornire in
misura adeguata le loro prestazioni funzionali. Inoltre, ognuno dei quattro sistemi deve
essere integrato con gli altri, nel senso che deve contenere la propria tendenza ad
assolutizzare il proprio criterio di valore (tendenza che Parsons definisce fondamentalismo).

Ma com’è possibile che questi sistemi sociali divengano vincoli e opportunità per gli
individui?
➢ Attraverso un sistema di sanzioni (positive o negative)
➢ Attraverso dei canali (utilizzati per ottenere delle reazioni)
In particolare
ERVING GOFFMAN

Sociologo canadese di formazione antropologica, inizialmente associato con


l’interazionismo simbolico, sviluppa rapidamente una prospettiva originale, con spunti
anche da diverse discipline.
Le sue opere sono il prodotto di ricerche prolungate e ravvicinate su aspetti della vita
quotidiana di gruppi assai diversi, ma anche da riflessioni che prendono spunto dalla
letteratura, dai programmi televisivi, dalla pubblicità.

Antropologia filosofica:

Le analisi di Goffman prendono le mosse da una caratteristica ben nota ma poco esplorata
della socialità umana: non sappiamo mai veramente con chi abbiamo a che fare.
Sebbene per gran parte della nostra vita le interazioni nelle quali siamo coinvolti risultano
prevedibili, non è possibile sapere con certezza quali siano le intenzioni degli individui o
prevedere il loro agire, anche in rapporti molto prolungati o in contesti chiaramente delimitati
(barista). L’attore sociale, in altre parole, non è trasparente.

In realtà però come dicevamo gli attori tendono quasi sempre a interagire secondo delle
aspettative, e la maggior parte delle volte le interazioni che li coinvolgono sono prevedibili e
interpretabili.
Ciò è possibile grazie a un insieme di informazioni relative alle posizioni sociali, e quindi di
aspettative riguardo all’autorità, alla considerazione e all’influenza cui un individuo ritiene di
aver diritto: queste informazioni ci permettono di classificare un individuo in una categoria,
anticipando le sue possibili reazioni alle nostre azioni. Per comprendere l’interazione dunque
bisogna capire come queste informazioni diventano disponibili nel corso di essa.

Esse non sono infatti immediatamente disponibili nell’interazione, ma bisogna ricavarle con
la “lettura” di molteplici segnali. Ogni attore inoltre ha interesse a controllare le informazioni
circa il suo status sociale, per apparire “migliore”: esiste quindi uno spesso cospicuo scarto
tra le identità personali e sociali degli individui che potrebbe cogliere un ipotetico osservatore
pienamente informato e le identità personali e sociali che possono essere colte dagli attori
coinvolti nell’interazione concreta.

Comunicare significa infatti collegare la propria azione sociale a un complesso di


presupposti extra-internazionali condivisi con chi percepisce tale azione in modo da renderla
interpretabile alla luce di tali presupposti: in questo modo possono essere rese percepibili le
proprie condizioni, emozioni e intenzioni. Goffman chiama questo processo definizione della
situazione, un modo per esprimere una serie di aspettative condivise tra i partecipanti.
La risposta a tale azione ovviamente dovrà tenere in considerazione i presupposti condivisi
che richiama.

L’interazione sociale è in questo senso simile a un teatro, in cui ogni attore ha l’obbligo di
recitare una parte: ognuno di noi vive immerso in una densa rete di situazioni nei quali
adotta costantemente comportamenti che acquistano significato alla luce di quel contesto e
delle aspettative che ne derivano.
Un comportamento estremamente informale susciterà delle perplessità se adottato da un
notaio, mentre verrà approvato nel caso di un animatore turistico.

Ogni attore manterrà dunque una faccia, un’immagine di sé modellata sui comportamenti
che gli altri partecipanti all’interazione approvano e ritengono pertinenti, un modello ideale
che non corrisponde a ciò che veramente si è. Si tratta a tutti gli effetti, secondo Goffman, di
una realizzazione drammaturgica, che appartiene a tutte le interazioni umane.

Questa è una caratteristica abbastanza nota agli umani e da secoli preoccupa i filosofi
morali. Tuttavia Goffman offre una valutazione radicalmente diversa: l’esistenza di questa
rappresentazione non è per lui una forma di inganno o di negazione del proprio sé autentico,
ma è anzi una condizione di possibilità del sé individuale.
Gli attori adottano di fatto un comportamento rituale che ha il compito di confermare l’ordine
morale che regola una determinata società. Il sé stesso non è una proprietà della persona,
ma un modello di relazione che comprende anche la convalida da parte degli altri attori.

L’interazione sociale per di più, non va considerata come una semplice successione di
prestazioni individuali: ovunque vi sia compresenza fisica, non importa se l’attore voglia o no
comunicare, tutti gli altri partecipanti penseranno comunque che lo stia facendo (prestazione
obbligata).

Goffman ha studiato in particolare le interazioni in un ospedale psichiatrico, facente parte di


quelle che lui chiama “istituzioni totali”, ovvero quelle organizzazioni caratterizzate
dall’isolamento e dalla rigida regolazione di tutti gli aspetti della vita allo scopo di produrre un
cambiamento forzato nella personalità degli internati.
In questo contesto, mantenere un’immagine dignitosa diventa difficile e pericoloso

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