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Sociologia generale

Il Pensiero Sociologico, Franco Crespi e Massimo Cerulo, riassunto male

N.B. = Le parti in rosso non sono da studiare, le ho fatte in più per sbaglio perché sono un Pirla.

In totale le pagine di riassunto, togliendo le parti in più, sono 35. Lascio comunque le pagine in più nel
pdf a testimonianza di quanto è profondo l’abisso della stupidità umana e, più nello specifico, dove riesce
ad arrivare la mia.

Capitolo 1: Karl Marx: conflitto e mutamento sociale

1. Biografia

Nato a Treviri, in Renania, nel 1818, Marx segue studi di diritto a Bonn e di filosofia a Berlino, dove conosce
Hegel. Nel 1843 Marx si trasferisce a Parigi, dove frequenta il socialista Pierre-Joseph Proudhon, il poeta
tedesco Heinrich Heine e l’anarchico russo Michail Bakunin. A Parigi scrive “Per la critica della filosofia del
diritto” (1843) e i “Manoscritti economico-filosofici (1844). Incontra Friedrich Engels (1820,1895), che aveva
scritto “Situazione della classe operaia in Inghilterra” (1844). Con Engels manterrà per tutta la vita un
rapporto di amicizia e collaborazione. Viene espulso dalla Francia a causa di pressioni del governo
prussiano. Va a Bruxelles, dove entra in contatto con la “Lega dei comunisti”. Nel 1848 pubblica con Engels
il famoso “Manifesto del partito comunista” e si trasferisce a Londra, dove abiterà fino alla morte nel 1883.

A Londra scrive “Per la critica dell’economia politica” (1859) e “Il capitale” (1867).

La grande diffusione de Il Capitale è dovuta alla sua fama come leader del socialismo internazionale.
Tradotto da subito in varie lingue, la sua influenza contribuirà ai movimenti rivoluzionari del 1917, alla
conquista del potere da parte dei bolscevichi di Lenin e alla dittatura comunista in Unione Sovietica.

Pur non avendo elaborato una teoria sociologica in senso stretto il suo contributo lo rende un punto di
riferimento obbligato anche per quanti non ne condividono le posizioni.

1. Il materialismo dialettico

Marx sviluppa una teoria scientifica delle leggi che presiedono a storia e dinamiche sociali. La scienza,
sapere oggettivo e neutrale che rispecchia la realtà, è simile a Comte, ma invece di vedere il progresso
come sviluppo unilineare Marx adotta il modello dialettico di Hegel per cui la storia evolve attraverso
costanti contraddizioni e conflitti. Il superamento parziale delle contraddizioni ne crea altre che secondo
Hegel culminano in un superamento definitivo, una sintesi finale. Secondo Marx invece la dialettica è un
principio attivo operante all’interno delle condizioni materiali e degli oggettivi rapporti economici e sociali.

L’evoluzione storica e sociale è determinata dalle contraddizioni oggettive legate alla disponibilità delle
risorse materiale e tecniche e ai rapporti di produzione. Il superamento delle contraddizioni ne produce
comunque altre, ma il climax di questo processo coincide con la fine del modo di produzione capitalista e
con l’avvento della società comunista, con l’eliminazione della proprietà privata e dei rapporti di potere ad
essa connessi, per giungere a una società egualitaria e perfettamente integrata.

Nella teoria dialettica di Marx troviamo al centro la dimensione conflittuale nelle dinamiche e nelle
relazioni sociali. Se il modello dialettico parte da un’idea di società come totalità esso concepisce tale
totalità non in modo sincronico, come sistema in equilibrio o immutabile, ma come diacronico, processo in
continua trasformazione il cui movimento è causato dall’emergenza delle contraddizioni oggettive tra
strutture materiali e rapporti sociali.

Le strutture materiali sono l’insieme delle forze e dei mezzi di produzione, nonché i rapporti di produzione
(proprietà dei mezzi, tipo di rapporti interni all’organizzazione produttiva) e il modo di produzione, ossia
insieme delle forze, dei mezzi e delle tipologie di produzione di una data società. Tali dimensioni
costituiscono la struttura del sistema sociale, la quale determina le forme della sovrastruttura, l’insieme
delle rappresentazioni culturali e dei sistemi normativi presenti nel sistema sociale, che si riflettono anche
nella coscienza individuale e in quella collettiva.

I cambiamenti che intervengono nelle forze di produzione portano a situazioni di scompenso tra la realtà
delle condizioni materiali ed economiche e le forme dei rapporti di produzione. Quando si presentano
nuove possibilità di produzione a causa dello sviluppo delle tecnologie i vecchi rapporti di produzione
devono essere trasformati così come mutano le forme sovrastrutturali. Il cambiamento sociale è quindi
l’esplodere delle contraddizioni create tra livello strutturale e sovrastrutturale.

Le condizioni di superamento del modo di produzione borghese moderno o capitalista sono rappresentate
da un lato dalla crescente socializzazione della produzione sotto il capitale, dall’altro dallo sviluppo di una
classe operaia sempre più numerosa e consapevole dello sfruttamento che subisce.

2. Le classi sociali

I veri protagonisti dei processi storici di trasformazione sociale sono le classi.

Marx intende la classe come l’insieme degli individui che, all’interno del sistema dei rapporti di produzione,
si trovano oggettivamente nella stessa posizione. I membri di una classe e le relazioni tra di essi sono
omogenei e si fondano sulle oggettive possibilità di accesso alle risorse economiche e sociali. Su questa
stessa base, si costituiscono anche le forme culturali o subculturali proprie della classe, che definiscono lo
stile di comportamento di un individuo e i suoi contenuti di coscienza.

L’appartenenza di classe è quindi determinata dalla nascita e dal processo di socializzazione dei primi anni
di vita e, secondariamente, dalle scelte, più o meno obbligate, che un individuo effettua riguardo alla sua
attività lavorativa.

La classe è una realtà che sussiste indipendentemente dalla coscienza che gli individui possono avere di
appartenervi: dall’osservatore esterno è una classe in sé; quando però gli individui che appartengono a una
stessa classe diventano coscienti della loro comune appartenenza e percepiscono i loro interessi si può
parlare di classe per sé.

Quando si sviluppa la coscienza di classe la classe può diventare un soggetto politico, promotore di
cambiamenti nell’ordine sociale.

Le contraddizioni oggettive tra grado di sviluppo delle forze di produzione e i rapporti di produzione si
riflettono nel rapporto conflittuale tra forze diverse. La lotta di classe viene percepita come antagonismo
tra coloro che possiedono i mezzi di produzione, i capitalisti, e coloro che possiedono solo il loro lavoro, i
proletari. Questo antagonismo è la forza motrice dei processi di trasformazione dei sistemi sociali e l’azione
rivoluzionaria si fonda sia sull’oggettivo contrasto di interessi sia sulla presa di coscienza soggettiva di una
comune appartenenza.

Il proletariato è la forza rivoluzionaria per eccellenza perché possedendo solo il proprio lavoro, è
incontaminato dalla proprietà privata.

Marx riconosce l’esistenza di altre classi oltre a capitalisti e proletari, l’economia classica divideva terra,
proprietari e rendita, capitale, capitalisti e profitto, lavoro, lavoratori e salario ma Marx ritiene che il ruolo
della rendita tenda a essere riassorbito nella classe dei capitalisti.

3. La critica delle ideologie

Marx sviluppa anche la sua critica delle ideologie. Il termine ideologia era stato usato verso la fine del XVIII
secolo da Destutt de Tracy per indicare l’insieme delle analisi sulle origini di idee, grammatica e logica. In
quello stesso periodo vengono chiamati ideologues quei filosofi che criticavano le teorie metafisiche dei
philosophes perché astratte e non basate su osservazione e calcolo.

Un significato diverso ha l’ideologia per Marx, che indica le rappresentazioni e razionalizzazioni illusorie che
occultano le contraddizioni e legittimano il potere costituito.

La religione, la filosofia, le teorie politiche, morali ed economiche sono i rivestimenti sovrastrutturali della
disuguaglianza. Giustificano l’ordine costituito, incanalano le frustrazioni verso ideali astratti al fine di
allentare le tensioni conflittuali e mantenere il consenso. Dietro ogni forma ideologica dominante è
possibile vedere l’interesse delle classi che sono al potere. Al pensiero ideologico Marx sovrappone il
sapere scientifico (la sua teoria), che basandosi sull’analisi empirica oggettiva coglie le dimensioni reali delle
forze realmente alla base di interessi e rapporti di potere.

4. L’alienazione

Nella dialettica hegeliana il termine alienazione stava a designare uno dei momenti essenziali del processo
di formazione dell’autocoscienza: il soggetto deve uscire da sé, estraniarsi nell’oggetto, farsi altro, prima di
ricomporsi tornando a sé stesso. Nella critica a Hegel di Ludwig Feuerbach il concetto di alienazione assume
il significato negativo di trasposizione illusoria a rappresentazione simbolica di qualità proprie dell’uomo.

Dio è la proiezione di alcune qualità proprie dell’uomo, che trasferendole a lui se ne disappropria e finisce
ad inseguire fantasmi che egli stesso ha creato. Per superare la condizione alienata occorre disvelare tale
meccanismo protettivo inconsapevole.

In Marx il concetto di alienazione va compreso tenendo a mente la sua teoria di attività produttiva come
essenza dell’uomo, del lavoro come oggettivazione della vita generica dell’uomo. Il giovane Marx coglieva il
rapporto uomo natura della vita produttiva come vita generica dell’uomo, se questa attività produttiva
diventa lavoro estraniato questo è dovuto alla presenza della proprietà privata.

La realizzazione dell’uomo è immediatamente nel suo lavoro, ed è questa immediatezza che va rispettata, il
lavoro non deve diventare mezzo di vita perché è la vita. Se la produzione viene espropriata dall’uomo,
all’uomo viene espropriato sé stesso. Sopprimendo la proprietà privata e l’economia di scambio si ripristina
questa immediatezza e si supera l’alienazione.

Il comunismo, visto da questa prospettiva diventa la vera soluzione del contrasto tra la natura e l’uomo, del
conflitto tra esistenza ed essenza.

La situazione di alienazione è quindi fondata sulla sostituzione del valore d’uso con il valore di scambio, che
toglie il carattere immediato del rapporto. Ciò che in un primo momento era il risultato dell’attività umana
diventa così forza autonoma che si serve dell’uomo.

5. L’influenza di Marx

L’influenza di Marx è presente, sin dalla fine dell’Ottocento, nel pensiero sociologico: comunità e società di
Ferdinand Tonnies, le note critiche di Emile Durkheim e anche parte dell’opera di Weber si può considerare
come critica dell’economicismo Marxiano; la filosofia del denaro di Simmel nasce anch’essa come riesame
dei complessi problemi del materialismo storico.

Lungo tutto il Novecento la teoria Marxiana costituirà la base delle diverse teorie sociologiche opposte al
funzionalismo, che metteranno al centro del problema i conflitti sociali.

Occorre tuttavia distinguere due diverse anime del Marxismo:


• Il materialismo dialettico, fondato sul rigido determinismo delle strutture economiche e sulle
sovrastrutture culturali e sociali, al quale si sono ispirate le teorie marxiste ortodosse (Lenin, Stalin,
Bucharin, Kautsky)
• Il materialismo storico, che sottolinea l’importanza dell’azione politica fondata sulla coscienza di
classe, cui si ispirano le teorie del marxismo revisionista, come Bauer, Luxemburg, Adler, Kortsch,
Gramsci; sono soprattutto le diverse posizioni di questi ultimi autori a sollecitare la riflessione
sociologica.
6. Considerazioni critiche

Il rapporto di causalità unilineare posto da Marx, il quale considera la struttura come determinante le
forme sovrastrutturali, solleva non pochi problemi; è difficile isolare il dato materiale da cultura e società.
Anche le risorse naturali infatti risultano sempre mediate e il petrolio o le energie rinnovabili si sono
costituite come tali a partire dal processo di trasformazione del nostro rapporto con la natura, in corso e
sempre suscettibile di mutamento. Ciò che per una cultura era l’espressione della potenza tellurica di un
Dio, diventa semplicemente energia da sfruttare. Questo mutamento implica una radicale trasformazione
dell’atteggiamento umano, risultato di un processo lungo in cui hanno un ruolo elementi culturali e
condizionamenti sociali. Solo arbitrariamente possiamo attribuire una priorità alla dimensione materiale,
che è in realtà parte di un processo di interdipendenza.

Marx ha avuto il grande merito di sottolineare l’impatto dei diversi elementi strutturali sui processi di
trasformazione e sui rapporti che intercorrono tra realtà economica e potere politico.

Un’altra considerazione critica è la doppia natura che può assumere la classe, in sé e per sé. Nella possibilità
di questa distinzione si manifesta la presenza di due anime nella concezione marxiana: l’anima positivista,
propria del materialismo dialettico, secondo cui l’evolversi dei processi storici è una fatalità indipendente
dalla volontà degli individui e l’anima storicista hegeliana del materialismo storico che attribuisce alla classe
per sé il ruolo di soggetto attivo nel cambiamento.

Merita riflessione anche la critica marziana dell’ideologia. Il concetto positivistico di scienza di cui fa uso
impedisce di riconoscere che anche la sua decisione di attribuire ai fattori materiali un ruolo determinante
nei fenomeni storico sociali deriva da presupposti legati a una ideologia. Nella critica contemporanea della
conoscenza il riconoscimento dell’assenza di fondamenti assoluti di validità del sapere scientifico e ha
rimesso in discussione la netta separazione tra scienza e ideologia. La critica delle ideologie inaugurata da
Marx resta un momento essenziale per lo studio delle relazioni tra prassi sociale e forme del sapere.

Domande di fine capitolo

• Come si differenzia la dialettica di Marx da quella di Hegel?


• Qual è la differenza tra materialismo dialettico e materialismo storico?
• Cosa si intende per struttura e sovrastruttura?
• A cosa si riferiscono i concetti di forze e mezzi di produzione, di rapporti di produzione, di modo di
produzione?
• Su cosa si basa la distinzione tra classe per sé e classe in sé?
• Quali diverse classi distingue Marx?
• Come si configura il conflitto di classe?
• Cosa intende Marx per ideologia?
• Quale concetto di alienazione viene usato da Marx?
• Quali sono i meriti della teoria di Marx e quali critiche possono esserle mosse?
Capitolo 2: Emile Durkheim, la società come realtà sui generis

Biografia

Emile Durkheim si forma sotto la guida dei suoi maestri, il filosofo Emile Boutroux e gli storici Gabriel
Monod e Fustel de Coulanges. Subisce l’influenza della scuola organicista (che studia la società
paragonandola a un organismo vivente) di Albert Schaffle e Renè Worms e dello psicologo Wundt,
fondatore della Volkerpsychologie.

Dopo aver insegnato all’università di Bordeaux, Durkheim si trasferisce nel 1902 alla Sorbona di Parigi, dove
insegnerà Storia e teoria dell’educazione, in seguito chiamata Educazione e sociologia. Durkheim
contribuirà in maniera decisiva al riconoscimento della sociologia come scienza e disciplina accademica.

1. Positivismo ed evoluzionismo

La teoria sociologica di Emile Durkheim si colloca tra quelle che vengono definite teorie olistiche, ovvero
che privilegiano il punto di vista della società come organismo o come un sistema dotato di vita propria.
Prima di considerare gli sviluppi della sua teoria occorre fare riferimento alla teoria positivista di Auguste
Comte, tra i primi studiosi ad aver utilizzato il termine sociologia e alla teoria evoluzionista di Herbert
Spencer, che costituiscono lo sfondo rispetto al quale la teoria durkheimiana viene differenziandosi pur
presentando per Comte alcuni elementi di continuità mentre nei confronti di Spencer Durkheim sarà
soprattutto critico verso le componenti utilitaristiche e individualistiche.

Derivando il concetto di società da modelli di tipo biologico, Auguste Comte considera la sociologia una
scienza sintetica che non può limitarsi ad analizzare aspetti isolati, ma deve riferire quest’ultimi a un’unità
organica che presenta dimensioni statiche e dinamiche. I concetti propri della biologia come ambiente,
condizioni di esistenza, organizzazione, gerarchia, funzione possono essere usati anche in sociologia. Le
parti possono essere comprese solo in relazione al tutto, come in biologia l’organismo umano è l’unità di
riferimento in sociologia l’unità è l’umanità nel suo insieme. Se la biologia studia ambiente e uomo come
parte della natura, la sociologia studia cultura e storia come parte della società.

La sociologia è dunque la conoscenza completa della società sia come ordine sia come progresso, totalità
attuale e processo in divenire.

La dinamica sociale viene studiata in base a due leggi fondamentali:

• La prima è la legge dei tre stadi della storia dell’umanità, lo stadio teologico sotto la guida dei
sacerdoti, quello metafisico sotto la guida dei filosofi e quello positivo, ultimo stadio in cui
predominano scienziati e industriali che abbandonando la ricerca delle cause prime si dedicano alla
conoscenza delle leggi che regolano i rapporti tra le cose
• La seconda legge dinamica considera invece le variazioni dell’attività pratica dell’umanità, ovvero il
rapporto tra le nostre esigenze materiali e le azioni volte a soddisfarle. Nel primo stadio l’attività
prevalente è quella della conquista, nel secondo quella della difesa e nel terzo quella del lavoro.

Il quadro dinamico è infine completato dall’affermarsi della dimensione morale, la cui funzione è di
condurre la dimensione intellettuale e quella pratica all’unità della sintesi suprema. Nella morale domina il
sentimento o l’istinto sociale che unifica i progressi di intelletto e attività.
Il quadro statico sociale può invece essere paragonato alla fisiologia umana, è analoga all’anatomia e studia
l’ordine umano come fosse immobile, analizzandone le componenti fondamentali. L’oggetto della statica
sociale è infatti lo studio delle leggi di coesistenza dei diversi elementi che compongono l’unità sociale e
delle costanti strutturali. Comte tende per lo più a considerare come immutabili e fondate quelle che sono
le caratteristiche storiche della società francese del suo tempo: indica come costanti strutturali le istituzioni
religiose e politiche, la proprietà e l’organizzazione della produzione, la famiglia come fonte della morale e
della politica e il linguaggio che, fondamento della comunicazione, è una pinea comunità di cui tutti
contribuiscono alla conservazione.

Tra queste componenti una delle funzioni più importanti è il potere politico, che ha funzione di controllo e
di coordinamento. Non esiste società senza governo e governo senza società e chi tenta di separarle cade
nell’illusione teorica o nell’anarchia pratica. Un’altra funzione è l’attività produttiva che Comte ritiene
ingiustamente sottovalutata nei periodi teologico e metafisico e invece riscoperta in quello positivo che ne
riconosce l’importanza.

Il lavoro e la divisione del lavoro hanno la funzione di conciliare la tendenza all’autonomia con l’esigenza di
associazione e di concorso nell’agire collettivo. Se la divisione del lavoro può essere causa di dissidio, il
governo assicura la necessaria cooperazione, dirigendo energie ed istinti individuali.

Comte accetta la concezione Hobbesiana della coercizione come base della società ma se la coercizione è il
fondamento di ogni organizzazione sociale da sola non basta a mantenere l’unità. Il potere deve agire
anche attraverso cultura e influenza morale.

Secondo Comte la natura dell’uomo si manifesta in tre modi fondamentali, sentimento, attività e
intelligenza e l’unità viene mantenuta da tre associazioni diverse: famiglia, retta da simpatia e amore, città
o stato che organizza attività produttiva e politica e società religiosa o morale, che abbracciando l’intero
sistema sociale crea il vincolo più universale nell’organismo.

Alle forme di associazione corrispondono tre diversi poteri sociali, quello materiale posseduto da ricchi e
potenti, fondato sulla forza, quello intellettuale, affidato a filosofi, scienziati, poeti e fondato sulla ragione e
quello morale, affidato alle donne e fondato sull’affetto.

La donna è considerata superiore all’uomo, più vicina alla natura e al sentimento e quindi più
spontaneamente aderente alle leggi che regolano la vita sociale. Anche il proletariato, in quanto filosofo
spontaneo, ha una maggiore affinità con il positivismo.

Il modello organicistico è portato in questa teoria alle sue estreme conseguenze, la società non deve essere
pensata come insieme di individui ma come formata da altri organismi sociali. Pur riconoscendo la presenza
di possibili tensioni Comte non dubita che la società evolvendo possa costituirsi in un insieme armonico,
purché sia mantenuta la distinzione tra un potere politico forte e un potere intellettuale in grado di
produrre il consenso collettivo. La divisione del lavoro e la gerarchia fondata sulla proprietà e sul potere
vengono viste come elementi di differenziazione a carattere funzionale.

L’ottimismo non arretra neppure di fronte alla constatazione dell’egoismo che sconvolge il mondo
economico e dei conflitti del lavoro: tali aspetti vengono visti come sintomi patologici transitori, legati alla
mancata piena affermazione dello spirito positivista. L’idea di una società totalmente razionalizzata ma che
nutre sentimento e morale è una vocazione sacerdotale che intende evitare gli abusi prodotti dall’egoismo
e rigenerare la società. Solo l’educazione nella religione positivista potrà far prevalere un’equilibrata
distribuzione dei doveri individuali e la diffusione dell’altruismo. Le stesse leggi economiche, secondo
Comte, fondano il principio della solidarietà sociale e la concentrazione del capitale in mano di pochi è
indispensabile per sviluppare la solidarietà nel lavoro e porteranno i singoli individui ad agire non solo nel
loro personale interesse ma anche in quello della società. L’attività materiale per Comte non è quindi
corruttrice, ma diverrà nel suo periodo industriale il motore principale del progresso materiale, intellettuale
e scientifico.

La scienza viene quindi concepita come un sapere neutrale in grado di fornire fondamenti certi e
omnicomprensivi, anche se in continua evoluzione. Da questa concezione idealizzata deriva il carattere
dogmatico e astratto della teoria comtiana.

L’elemento naturalistico già presente in Comte viene ancor più accentuato nella teoria sociale evoluzionista
del filosofo inglese Herbert Spencer. In Spencer l’idea di evoluzione viene compresa in un contesto
biologico. Il concetto di divenire, come fenomeno complesso non interpretabile in base a categorie era già
stato considerato da De Buffon e poi elaborato ulteriormente da Monet de Lamarck che sosteneva il
concetto di evoluzione da forme semplici e meno complesse a forme complesse più vicine alla perfezione.

Successivamente Darwin interpreta il processo evolutivo in termini di successo nella lotta per la vita e nella
selezione naturale e sessuale. Il pensiero evoluzionista di Spencer, creato precedentemente, resterà
influenzato soprattutto dall’importanza dell’aspetto conflittuale in Darwin.

L’idea di evoluzione diventa in Spencer una categoria filosofica generale per spiegare l’intera realtà,
secondo il principio del progressivo passaggio da forme di vita omogenee poco definite e incoerenti a forme
di vita sempre più differenziate e più integrate tra loro.

Per Spencer, la società è un insieme superorganico di strutture e funzioni per conoscere il quale occorre
analizzare le unità che lo compongono; esistono delle differenze tra società e organismi viventi. Gli
organismi viventi formano un insieme concreto, centralizzato e le società un insieme discreto, discontinuo
di elementi.

I membri dell’organismo sociale cooperano attraverso il linguaggio, lo scambio di segni. A differenza di


Comte, in Spencer l’unità non è la cellula familiare ma l’individuo.

L’unità sociale è condizionata da numerosi fattori di tipo esterno che compongono l’ambiente (natura,
clima, dimensione degli aggregati sociali) e da fattori interni (caratteri fisici, emotivi, intellettuali).
L’adattamento delle relazioni interne a quelle esterne nel tempo è sempre più complesso e integrato.

Anche in Spencer è presente un ottimismo rispetto l’esito dell’evoluzione: il processo di differenziazione,


connesso alla divisione del lavoro e alla specializzazione delle funzioni è un processo inarrestabile di
sviluppo verso forme più armoniche. Rispetto a Comte, tuttavia, viene accentuata la dimensione
deterministica del naturalismo. La ragione ha un carattere astratto che si sovrappone negativamente
all’ordine naturale, deformandolo. La coincidenza con l’energia vitale che opera nella realtà è invece meglio
garantita dal sentimento.

Ancora in senso contrario a Comte, è evidente in Spencer l’influenza dell’individualismo della tradizione
liberale e utilitaristica anglosassone. Il potere politico, lo stato e la burocrazia sono fonte di tutti i mali
mentre la società civile, composta da liberi individui e dalle leggi di libera concorrenza procede secondo le
linee naturali del processo evolutivo.

In Spencer la legge che regola realtà organica e superorganica è unica, non esiste reale contrasto tra finalità
individuali e sociali e il conflitto è un momento necessario e transitorio di un unico processo evolutivo.

2. Il metodo sociologico e il concetto di funzione

Tornando a Durkheim, in uno dei suoi lavori più noti, le regole del metodo sociologico, uno dei primi
tentativi di definire rigorosamente il metodo della ricerca empirica in sociologia, il filosofo formula il
seguente principio generale: quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna cercare
separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione che esso assolve.
Durkheim preferisce il termine funzione a quello di fine o scopo, perché i fenomeni sociali non esistono
generalmente che in vista dei risultati che essi producono. Bisogna determinare se c’è corrispondenza tra il
fatto considerato e i bisogni generali dell’organismo sociale e in che cosa consiste questa corrispondenza,
senza preoccuparsi della sua intenzionalità. Il termine funzione viene quindi preso direttamente dalla
biologia, indicando un’attività che si rende necessaria per la soddisfazione di un bisogno dell’organismo.

Durkheim intendeva formulare un criterio oggettivo di interpretazione dei fenomeni sociali,


indipendentemente dalle motivazioni di tipo psicologico degli individui che pongono in atto questi
fenomeni. A differenza di Gabriel Tarde, riteneva che la società fosse un’entità sui generis, dotata di un
carattere proprio non riducibile alla pura dimensione psicologica. La società forma l’individuo secondo i
valori e i modelli di comportamento che sono propri del contesto che abita e a cui appartiene.

Inoltre, osservava che le istituzioni sociali hanno una continuità che va molto al di là della durata della vita
dei singoli attori sociali. La società è quindi un sistema, in quanto realtà specifica con caratteri propri.

Per Durkheim la causa determinante di un fatto sociale va cercata nei fatti sociali precedenti e non negli
stati di coscienza degli individui. La funzione di un fatto sociale non può essere che sociale, producendo
effetti utili per la società. Il fatto sociale è quindi sempre legato a una finalità sociale.

La dimensione propria del sistema sociale si manifesta nel carattere coercitivo che assume il sociale nei
confronti dell’individuo: la società impone le proprie forme e leggi. Il sociale acquista quindi un primato
rispetto all’individuale perché è l’individuo a dover essere compreso a partire dal sociale mentre la società
va compresa a partire dalla società stessa.

Sulla base di questo concetto egli definisce fatto sociale le maniere di agire, pensare e sentire esterne
all’individuo dotate di un potere di coercizione per cui si impongono a lui.

Quando Durkheim sottolinea l’aspetto coercitivo ha soprattutto in mente le dimensioni culturale e


istituzionale di una società. La presenza di rappresentazioni, regole, norme e modelli di comportamento
culturalmente codificati contribuiscono a formare una coscienza collettiva che quando assume forme
concrete diventa una maniera d’essere collettiva, ovvero quei fatti sociali che non si manifestano nell’agire
ma che sono strutture stabili anatomiche e morfologiche, come la differenziazione delle parti di una
società, il grado di integrazione, la distribuzione della popolazione e numero e natura delle vie di
comunicazione.

3. Cultura, consenso, integrazione

Bisogna tenere a mente il predominio che assume nella visione durkheimiana la dimensione culturale e
normativa della realtà sociale. Il modello funzionalista tende sempre a presentare il problema sociale
soprattutto in termini del mantenimento dell’ordine e dell’integrazione dell’individuo nel sistema sociale.

Un ordine e un’integrazione ottenuti tramite l’assimilazione dei valori e delle norme morali e giuridiche
dominanti in quanto produttori di consenso collettivo.

Il momento attivo dell’agire passa in secondo piano, rispetto alla considerazione della dimensione di
adattamento dell’agire stesso agli ordini già costituiti.

La necessità di riferimento a un ordine già dato è del resto intrinseca al concetto di funzione derivato dalla
biologia. Possiamo infatti pensare la funzione solo se abbiamo bisogni identificabili in base a una struttura
già determinata.

Si iniziano a delineare dei presupposti fondamentali del funzionalismo:

• All’origine esiste un sistema rispetto al quale le varie parti sono subordinate


• Tale sistema deve sopravvivere, mantenendo le proprie unità e il proprio equilibrio
• Questa sopravvivenza richiede attività adeguate (funzioni)

La dinamica del sistema viene interpretata come problema dell’adeguatezza delle norme alle condizioni che
il sistema deve affrontare al suo interno e all’esterno, ovvero come problema di legittimazione di tali
norme, cioè della loro capacità di produrre consenso negli individui perché siano integrati.

Contrariamente ad Hobbes, la società è una realtà che si anticipa a ogni forma possibile di contratto, in
quanto è la fonte necessaria delle regole che presiedono la costituzione di accordi. Tuttavia, anche in
Durkheim ha una posizione centrale il problema dell’ordine, come struttura che si afferma contro le spinte
naturali verso uno stato di guerra universale.

Se nella società moderna si è sviluppato un vero culto dell’individuo ciò è dovuto a un fatto storico
culturale.

Durkheim, pur riconoscendo l’importanza assunta dall’individuo come valore culturale e morale prodotto
dalla società stessa, nega che l’individuo preesista alla società se non come entità psicofisica, mossa da
istinti e da desideri, che solo la società può trasformare in una persona dotata di vita morale.

Durkheim considera infatti gli individui tendenzialmente egoisti e orientati al perseguimento dei propri
desideri illimitati. La società si costituisce come fenomeno morale di solidarietà collettiva, imponendo valori
e norme che gli individui devono assimilare. Questi valori corrispondono a esigenze di ordine vitale e al
bisogno di una convivenza pacifica, ma il loro fondamento è nella natura sui generis della società stessa.
Solo quest’ultima, in quanto prodotto di un’elaborazione collettiva, può conoscere i veri bisogni sociali che
trovano espressione nella regolamentazione giuridica e morale. Viene ribadito da Durkheim lo stretto
rapporto tra scienza e morale in quanto la conoscenza scientifica permette di individuare le leggi oggettive
dello sviluppo sociale che permetteranno di formulare principi morali adeguati alle reali esigenze di una
società. Le leggi morali e giuridiche non hanno infatti un fondamento assoluto ma variano con il mutare del
tipo di società. Tali leggi, come principio generale di coesione e di regolarità e in quanto sistema di controllo
sostenuto da sanzioni orienteranno di volta in volta l’agire degli individui, delimitando l’ambito dei loro
desideri e indicando i fini concreti da perseguire. In questo modo viene eliminata la logica naturale della
sopraffazione viene meno l’antagonismo tra autorità sociale e libertà individuale.

Questi presupposti teorici mostrano una dicotomia tra dimensione di indeterminatezza, attribuita alla
natura dell’individuo umano e alla dimensione di determinatezza, che appartiene esclusivamente all’ordine
sociale. Durkheim le fa giocare l’una contro l’altra, perdendo di vista il carattere proprio del sociale che può
essere compreso solo a partire tra le contrapposte esigenze presenti negli individui stessi, di conferma della
propria identità e prevedibilità e di negazione delle oggettivazioni riduttive dall’altro.

4. Forme di solidarietà

L’accento posto sull’importanza dei valori e delle norme sociali tende ad aumentare in Durkheim quanto
più egli, nel corso delle due analisi empiriche, deve riconoscere la presenza del disordine e dell’anomia che
caratterizzano la società industriale del suo tempo. Il termine anomia sta a indicare situazioni nelle quali
per effetto di rapidi cambiamenti sociali i valori e i modelli di comportamento validi nella situazione
d’origine non sono più adeguati alla nuova situazione, determinando un diffuso disorientamento.

Nella sua prima grande opera, la divisione del lavoro sociale, Durkheim ritiene che la preponderanza della
coscienza collettiva, come insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una
stessa società caratterizzi la solidarietà meccanica propria delle società tradizionali, nelle quali gli individui
sono simili tra loro, condividendo valori e regole comuni. Con l’affermarsi della divisione del lavoro, alla
base della società industriale, viene a formarsi un diverso tipo di solidarietà, quella organica, nella quale
diventano preponderanti i vincoli funzionali che intercorrono tra individui che hanno reciprocamente
bisogno ciascuno dell’attività dell’altro. I valori e le regole condivise diventano meno importanti e può
essere lasciato più ampio spazio alle diversità degli attori sociali, favorendo l’esaltazione
dell’individualismo.

La percezione delle tensioni, dei conflitti e degli effetti di anomia che la divisione del lavoro può produrre
porterà Durkheim a ribadire l’importanza del consenso su valori e regole comuni. La trasformazione da
società tradizionale a società industriale non sarà più fondata sulla sostituzione della solidarietà meccanica
con quella organica, bensì sulla diversità dei contenuti della stessa coscienza collettiva. Nella prefazione alla
seconda edizione de La divisione del lavoro sociale Durkheim sottolinea l’esigenza di forme istituzionali più
adeguate, corporazioni professionali, per consolidare le nuove forme di solidarietà.

Anche l’aumento della divisione del lavoro acquista valore sociale solo in quanto si esprime attraverso
regole giuridiche e morali e forme istituzionali. Contro Spencer, sostiene infatti la tesi che la divisione del
lavoro fa aumentare anziché diminuire l’insieme delle regole giuridiche. Se da repressive, fondate su
sanzioni punitive, diventano restitutive, fondate su attribuzione e rispetto dei diritti, l’importanza della loro
funzione resta immutata.

Tutti i problemi che emergono dalle forme devianti e anomiche dell’agire sociale vengono attribuiti alle
deficienze venutesi a creare in tale sistema a fronte dei mutamenti della realtà sociale stessa.

5. La ricerca sul suicidio

Nell’opera il suicidio, uno dei primi esempi di ricerca empirica in sociologia, Durkheim, analizzando i dati
statistici pone in evidenza come esistano andamenti costanti a seconda di stagioni o rapidi cambiamenti
determinati da crisi o eventi bellici nel comportamento suicidario. Rileva inoltre che il tasso di suicidio è più
alto nei paesi a maggioranza protestante che in quelli a maggioranza cattolica.

Sulla base della definizione di suicidio come “morte procurata dalla stessa vittima” Durkheim identifica tre
tipi diversi:

• Suicidio egoistico, situazione di scarsa integrazione degli attori sociali


• Suicidio anomico, nelle situazioni di rapido cambiamento o di repentino passaggio da un contesto
sociale ad un altro
• Suicidio altruista, nel quale il suicidio è determinato dalla forza delle norme sociali e da una
eccessiva integrazione

Le diverse cause del suicidio per Durkheim non sono quindi da ricercare nelle motivazioni individuali e non
solo psicologiche ma legate a cause sociali e al diverso grado di integrazione degli individui.

Durkheim è soprattutto preoccupato degli effetti distruttivi di un vuoto normativo-valoriale, se ad esempio


l’assenza di una normativa istituzionale adeguati ai nuovi sviluppi della divisione del lavoro è la causa
principale delle tensioni sociali, allo stesso modo l’assenza di norme provocata da cambiamenti rapidi sia
positivi che negativi è alla radice del cronico moltiplicarsi della devianza e di situazioni di disorientamento.

Questa impostazione di fondo impedisce a Durkheim di cogliere l’ambivalenza dell’integrazione, ovvero il


fatto che possa avere anche effetti distruttivi. L’orientamento individualista della religione protestante isola
l’individuo e lo carica di responsabilità che non è in grado di affrontare. Se prendiamo per buono il
ragionamento di Durkheim dovremmo trovarci in un caso di distruttività altruista provocata dalle stesse
forme di mediazione, Durkheim tuttavia interpreta questa situazione sotto il profilo della carenza
istituzionale della religione protestante. La rimozione del problema della potenziale negatività della
determinazione è ancora più evidente quando Durkheim affronta il suicidio altruista, vedendolo solo come
prova dell’influenza dei valori sociali sull’agire individuale. Neppure quando analizza il tasso
sospettosamente alto di suicidi nei militari avverte la possibilità di un effetto negativo di un sistema di
norme troppo rigido nell’identità dei ruoli, che provoca forme autodistruttive di disagio e ribellione.
6. Il rapporto individuo-società

Durkheim considera la stessa dimensione dell’individualità come il prodotto del sistema dominante dei
valori e non come una capacità originaria di critica delle oggettivazioni. Egli non può utilizzare il riferimento
all’individuo come criterio per giudicare gli effetti provocati dal sistema delle norme. Non coglie quindi nel
rapporto individuo società il carattere ambivalente della funzione di determinatezza delle forme normative
e istituzionali, indispensabili per la sopravvivenza, ma anche potenzialmente distruttive a causa della loro
inevitabile riduttività rispetto alla complessità dell’esperienza vissuta. Tutto questo sfugge al paradigma
Durkheimiano, centrato sul problema dell’ordine e del controllo e volto a considerare negativamente le
dimensioni di indeterminatezza e di disordine. Le contraddizioni di ogni situazione sociale sono viste come
ciò che deve essere eliminato per realizzare un ordine armonico.

Perdono quindi di importanza anche le dimensioni di scelta e decisione proprie della funzione politica; la
scienza è per Durkheim fonte di conoscenze oggettive dei principi da applicare e il potere viene quindi
ridotto a una funzione volta all’applicazione di questi e al controllo della devianza. Lo stato non incarna la
coscienza collettiva ma è la sede di una coscienza specifica più ristretta anche se più alta e più chiara in
quanto ha lo scopo di promuovere la giustizia sociale e il concorso di tutte le volontà. Il socialismo
corporativo di Durkheim è animato da ideali di libertà collettiva e giustizia distributiva e la sottovalutazione
che egli fa del potere lo porta ad ignorare la possibilità che questa funzione, portata al suo estremo diventi
a sua volta fonte di distruttività sociale.

La dicotomia tra assoluta positività di determinatezza e ordine e la negatività dell’indeterminatezza e delle


aspirazioni infinite individuali rende problematica la stessa origine della società.

Durkheim parla di forza delle cose, di similitudine di situazioni, del formarsi di gruppi con interessi comuni
ma non spiega quali componenti originarie hanno permesso agli individui di incontrarsi, dal momento che
lo stesso desiderio di socializzazione è già causato dalla socializzazione stessa. È quindi evidente che non si
tenga in considerazione la costituzione ambivalente degli individui, che da un lato vogliono associarsi e
vedersi simili e dall’altro vogliono esprimere le proprie differenze e la loro individualità. Gli attori sociali non
sono mossi solo da egoismo illimitato, ma anche da un bisogno di identità.

Una valutazione positiva delle spinte a carattere indeterminato si può trovare nelle dirette conseguenze di
quelle che lui chiama rappresentazioni collettive. Le coscienze individuali riflettono infatti solo una minima
parte delle correnti collettive e quindi quest’ultime sono esterne agli individui. In questo contesto
Durkheim riconosce che non tutta la coscienza collettiva si traduce in forme determinate ed è quindi così
che giustifica il mutamento sociale al di là delle già citate crescente differenziazione delle funzioni e
aumento di complessità strutturale.

7. La dimensione religiosa

Nella sua ultima grande opera, le forme elementari della vita religiosa, si osserva come si possono dare
accanto a forme di ordine quotidiano e determinato situazioni di effervescenza a carattere eccezionale
nelle quali si manifestano forze più libere ma non prive di ordine.

L’analisi sulle forme religiose nelle società arcaiche parte dalla convinzione che un fenomeno così diffuso e
duraturo come la religione debba necessariamente avere origine sociale e che le rappresentazioni religiose
costituiscano rappresentazioni collettive che esprimono realtà collettive: i riti sono modi di agire che
suscitano, mantengono o riproducono determinati stati mentali in un gruppo.

Considerando le forme primitive di religione come quelle più semplici e meglio atte a rilevare i meccanismi
funzionali anche in quelle più complesse, Durkheim analizza il fenomeno della religione totemica degli
aborigeni australiani strutturata in clan. Il clan è fondato sull’identificazione di questi ultimi con un simbolo
sacro, il totem, che serve a qualificare il rapporto dei membri con l’ambiente e a regolare i rapporti con gli
altri clan, identificati ciascuno, a sua volta, con un totem particolare. Su questa base vengono definite le
compatibilità o le incompatibilità che forniscono anche i criteri allo scambio matrimoniale. Le cerimonie
rituali rafforzano il sentimento di appartenenza e lo attualizzano in danze, rappresentazioni e sacrifici che lo
rendono visibile ed emotivamente percepibile. Il fatto che la stessa idea di Dio sia, per Durkheim solo un
modo attraverso il quale gli individui si rappresentano la società lo porta ad attribuire alla società stessa
una dimensione di sacralità.

Durkheim ha posto le basi dello sviluppo della teoria delle rappresentazioni sociali che ha avuto notevole
incidenza sulla psicologia sociale e sulla sociologia contemporanea. Ha anche dato un importante
contributo alla sociologia della conoscenza, mostrano come l’intero complesso delle categorie conoscitive
abbia una genesi sociale.

8. Considerazioni critiche

Il modello teorico Durkheimiano ha il merito di aver sottolineato, nel carattere coercitivo del sociale, quella
dimensione di oggettivazione o di reificazione che sempre assumono le forme determinate dell’ordine
sociale, le quali finiscono per costituirsi come realtà indipendenti e fonti di produzione di identità e di
caratteri individuali. Il fatto che Durkheim lasci in ombra la dimensione attiva nella costruzione della realtà
sociale non toglie nulla alla validità del contributo per la messa in evidenza del ruolo essenziale svolto dalle
dimensioni sociali oggettivate.

Durkheim ha avuto il grande merito di attirare l’attenzione sull’importanza che le regole sociali e le
rappresentazioni della realtà sociale hanno sul comportamento individuale collettivo.

Un altro aspetto positivo è il superamento del modello razionalistico in base al quale l’illuminismo tendeva
a svalutare una serie di comportamenti umani come dovuti all’ignoranza. Posto invece il principio che ogni
fatto sociale ha la sua ragion d’essere l’impostazione di tipo funzionalistico permette di riconoscere il
significato interno a ogni contesto socioculturale. I fenomeni religiosi e le manifestazioni rituali delle società
primitive possono venire finalmente interpretati nel loro senso specifico anziché essere giudicati a priori,
superando così l’etnocentrismo. Diventa così possibile entrare nella logica interna di culture molto diverse
da quella occidentale, essenziale per comprendere i successivi sviluppi del funzionalismo in sociologia.

Domande di fine capitolo

Cosa intende Durkheim per carattere coercitivo del sociale?

Come definisce il concetto di fatto sociale?

Dove devono essere cercare le cause dei fatti sociali?

A quale concetto di funzione fa riferimento?

Cosa intende Durkheim con il concetto di coscienza collettiva?

Quali forme diverse di solidarietà egli distingue e perché?

Quali sono le cause sociali dei diversi tipi di suicidio?

Cosa si intende con il termine anomia e quali sono le condizioni in cui essa si verifica?

Come si configura il rapporto tra individuo e società?

Come interpreta il fenomeno religioso?

Cosa intende per totemismo?


Quali sono i principali pregi e le principali critiche che si possono rivolgere a Durkheim?

Capitolo 3: Max Weber, l’agire dotato di senso

Biografia

Max Weber (1864-1920) dopo aver studiato a Heidelberg, Strasburgo e Berlino conseguì nel 1889 il
dottorato in giurisprudenza a Gottingen a cui seguì l’abilitazione all’insegnamento nel 1891 a Berlino. Nel
1983 fu chiamato alla cattedra di economia dell’università di Friburgo e tre anni dopo, all’Università di
Heidelberg. Nel 1903 fu nominato codirettore della rivista “Archiv fur Sozialwissenschaft” che divenne la
più importante rivista delle scienze sociali di lingua tedesca. La vasta produzione è caratterizzata
soprattutto dall’interesse per i rapporti tra economia e sociologia, egli ha anche sviluppato importanti
analisi sulle religioni mondiali con una serie di saggi col titolo “Raccolta di saggi di sociologia della
religione”. Già nel 1905 era apparso “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, nel quale Weber
sosteneva l’influenza che lo sviluppo del protestantesimo avrebbe avuto sull’affermarsi dell’economia di
tipo capitalistico in Europa e negli Stati Uniti. Per l’importanza che assume l’agire individuale, la sua teoria si
colloca nell’individualismo metodologico che considera la società il risultato dell’agire congiunto degli
individui.

1. Spiegazione e comprensione

In economia e società (1922) lasciata incompiuta e pubblicata postuma da Marianne Weber, egli sintetizza i
risultati delle sue riflessioni metodologiche e teoriche e dei suoi studi. Fin dal principio è critico nei
confronti delle teorie che considerano la società come un sistema autonomo rispetto all’azione degli
individui, Weber osserva che in una sociologia che voglia interpretare l’azione umana tali concetti, anche se
utili in via preliminare a scopo di illustrazione pratica e di orientamento provvisorio rischiano di sfociare in
un falso realismo.

La specificità dell’apporto della sociologia rispetto alle scienze naturali sta proprio nel fatto che essa oltre
alla determinazione di connessioni funzionali e regole è volta alla comprensione dell’atteggiamento degli
individui che partecipano alle formazioni sociali. Weber riconosce però che questa impostazione
interpretativa ha come controindicazione il carattere necessariamente ipotetico e frammentario dei
risultati osservati. L’interpretazione comprendente non può portare a un sistema teorico globale fondato su
rigidi nessi causali, ma questo è un limite della scienza sociologica.

Mentre, nel caso delle società animali, un’analisi delle funzioni legate alla conservazione e riproduzione
della vita può essere adeguata, nel caso delle società umane ci troviamo di fronte ad azioni che sono il
prodotto di una razionalità cosciente. Questa particolare dimensione può essere messa in luce da una
sociologia che si proponga di intendere il senso in base al quale si determina il comportamento.

Weber definisce appunto la sociologia una scienza, la quale si propone di intendere in virtù di un
procedimento interpretativo l’agire sociale e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi
effetti.

2. Il concetto di agire sociale

Il concetto di agire nella sua accezione più ampia viene riferito da Weber a qualunque atteggiamento,
attivo o passivo, interno o esterno, che sia però specificamente congiunto a un senso soggettivo. Un agire
puramente meccanico di tipo reattivo o istintivo non rientra nel concetto di agire.

L’agire può essere definito sociale quando esso


• È riferito, secondo il senso soggettivamente intenzionato di colui che agisce all’atteggiamento di
altri individui
• È codeterminato nel suo corso in base a questo riferimento dotato di senso
• Può quindi essere spiegato in modo intellegibile in base a questo senso intenzionato

La socialità si presenta come il risultato delle azioni individuali dotate di senso, quale che sia il contenuto di
quest’ultimo, quando tali azioni si determinano reciprocamente, ovvero quando ciascun attore tiene conto
dell’agire dell’altro ed è un riferimento per l’agire altrui. Weber distingue l’agire sociale dall’agire
semplicemente uniforme o da quello passivamente influenzato dall’agire di altri. Nel caso in cui si abbia una
reazione uniforme di più individui ad un evento oggettivo (piove= apro ombrello) o in cui un individuo sia
passivamente condizionato da un agire collettivo (un individuo che si trova in una folla) non si può parlare
di vero e proprio agire sociale. Weber riconosce comunque che il confine tra agire sociale e agire
semplicemente uniforme o passivamente influenzato è assai fluido.

Può esser utile mantenerli concettualmente distinti, senza per questo attribuire una maggiore rilevanza a
uno di questi.

Il concetto di senso, di cui Weber non ha mai dato una definizione precisa, è da lui riferito a ogni significato
(rappresentazione, valore, sentimento, norma) elaborato dal soggetto cosciente che ne orienta l’agire. Il
soggetto cosciente è a sua volta un individuo relativamente autonomo, dotato di consapevolezza e
razionalità mosso da motivazioni e capace di compiere scelte.

Alla base del fenomeno del costituirsi di formazioni sociali sta il fatto che i singoli individui partecipano a
rappresentazioni comuni che orientano in modo omogeneo il loro agire.

Tali rappresentazioni di eventi, immagini del mondo, idee circa la famiglia, lo stato, il lavoro, regole morali o
giuridiche, pur orientando concretamente l’agire non sono necessariamente rispondenti a realtà oggettive.
Perché tali rappresentazioni producano effetti reali è sufficiente la credenza condivisa
intersoggettivamente che esse siano rispondenti a realtà. In questo contesto appare l’importanza della
prevedibilità dell’agire. Se infatti l’agire è sociale quando si riferisce all’agire altrui, questo riferimento
diventa possibile solo grazie a schemi di intelligibilità e modelli culturali comuni, che permettono di
comprendere e interpretare le azioni altrui. Weber definisce la relazione sociale con un comportamento di
più individui instaurato reciprocamente secondo il suo contenuto di senso e orientato in conformità. La
relazione sociale si fonda perciò esclusivamente sulla possibilità-probabilità che si agisca socialmente in un
dato modo. L’elemento della reciprocità mette in evidenza la dinamica delle interrelazioni sociali che è
fondata su un insieme di aspettative reciproche e su possibilità calcolate soggettivamente circa le
conseguenze del proprio agire. Le forme culturali o simboliche comuni, costituiscono forme codificate di
senso che forniscono la base del reciproco relazionarsi e codeterminarsi a partire dalla previsione delle loro
conseguenze. Qui l’origine del concetto di doppia contingenza che sarà poi formulato da Parsons.

Il problema per una sociologia che voglia partire dalla comprensione-interpretazione dell’agire in base al
senso proprio di quest’ultimo è quello di conoscere quali siano le forme codificate del senso, i motivi e le
condizioni che determinano l’agire degli individui. La spiegazione causale è possibile solo se si può stabilire
una connessione tra il senso effettivamente intenzionato dal soggetto e il suo comportamento manifesto. Il
senso soggettivo non è l’unica causa del comportamento, anche i condizionamenti materiali, sociali e
culturali, indipendenti dall’intenzionalità del soggetto giocano una parte ma in ultima analisi è sempre il
senso che attraverso mediazioni simboliche permette di comprendere l’agire.

3. Le uniformità empiriche dell’agire e i tipi ideali


Weber precisa giustamente che il fatto di riferirsi al senso soggettivo individuale non significa assumere una
valutazione individualistica né affermare il prevalere di motivi razionali o dare una valutazione positiva del
razionalismo. Il senso intenzionato non è il semplice risultato di una scelta individuale, ma è sempre anche
connesso alle forme simboliche codificate nel senso comune e alle esigenze concrete di conservazione. Il
senso non è mai solo puramente soggettivo, ma già da sempre anche sociale. È infatti impossibile riferirsi
nell’interpretazione del senso a criteri assoluti di valore o a condizioni oggettive determinanti in quanto ciò
che vale nel senso è la particolare attribuzione di significato alla realtà, non la realtà in sé. Non si può
analizzare l’agire sociale in termini di leggi immutabili, ma solo in quelli di uniformità empiriche, di costanti
statistiche dell’agire, da verificare di volta in volta.

Se si possono stabilire nessi causali tra un determinato senso intenzionato e un comportamento effettivo,
tale causalità non è riscontrabile in base a presupposti deterministici validi in assoluto ma deve essere ogni
volta interpretata nel riferimento alla particolare forma assunta dal senso. Dal momento che ogni analisi
dei fenomeni sociali parte da un punto di vista specifico dell’osservatore, il rapporto di causa effetto posto
in luce da tale punto di vista non è l’unico possibile. Da un punto di vista diverso, lo stesso fenomeno può
trovare una diversa spiegazione che non esclude la validità della prima in quanto può essere ad essa
complementare.

Weber non contesta la validità del contributo dato da Marx nel mettere in luce l’incidenza della struttura
economico-produttiva sulla realtà sociale, ma gli rimprovera di avere considerato tale struttura come il solo
fattore determinante. Weber pone in evidenza l’influenza che la religione protestante ha avuto sullo
sviluppo del capitalismo, ma vuole solo mostrare l’esistenza di un possibile nesso tra i due fenomeni, senza
l’esclusione di nessi diversi altrettanto validi. Mostrando l’importanza del punto di vista dell’osservatore,
Weber ha così inferto un colpo decisivo a ogni pretesa di spiegare i fenomeni sociali a partire da un solo
fattore. La nostra conoscenza non fa che ritagliare alcuni aspetti parziali che possono essere utili
all’interpretazione. Il riconoscimento della selettività dell’analisi scientifica pone fine all’idea positivista
della conoscenza come rispecchiamento oggettivo della realtà.

Weber, tuttavia, recupera la dimensione di avalutatività della sociologia, distinguendo il momento iniziale
in cui si formulano ipotesi necessariamente influenzate dai valori e dagli interessi dello scienziato sociale al
momento successivo impegnato nella verifica delle ipotesi stesse, nel quale seguendo uno schema logico
rigoroso, possono essere colti i nessi causali. Il riferimento ai valori propri della prima fase non si traduce in
un giudizio di valore, che resta estraneo agli scopi del sapere sociologico.

La possibilità di cogliere le uniformità dell’agire, tenendo conto delle particolarità storiche di quest’ultimo,
trova un valido strumento nelle formulazioni di tipi ideali dell’agire stesso.

I tipi ideali sono il risultato di un procedimento di astrazione concettuale di determinate caratteristiche


prevalenti nell’agire sociale. I tipi ideali infatti non esistono allo stato puro nella realtà, ma permettono di
cogliere certe costanti del comportamento e di interpretarlo in base a categorie generali. Mentre la storia
fonda la sua analisi sulla messa in evidenza dell’assoluta singolarità dell’evento, la sociologia procede
tramite la ricerca di modelli e regole generali dell’agire.

Rispetto all’agire sociale Weber distingue quattro tipi ideali:

• Razionale rispetto allo scopo, determinato da aspettative nei confronti del mondo esterno, in
relazione a scopi perseguiti razionalmente secondo il modello mezzi-fini (agire economico-tecnico)
• Razionale rispetto al valore, determinato da credenze consapevoli dell’incondizionato valore di una
azione a prescindere dalle conseguenze (comportamento dettato da valori morali)
• Affettivo, determinato da affetti, emozioni, stati attuali del sentire
• Tradizionale, quando l’agire è determinato da abitudini acquisite (buona educazione)
È importante sottolineare che nella definizione dei quattro tipi si afferma la razionalità di azioni al di fuori
dell’agire strumentale, anche in base a valori etici, estetici politici o religiosi. A differenza di Pareto che
distingue solo tra azione logica e non logica Weber non concepisce le razionalità unicamente secondo agire
economico-utilitaristico o tecnico-sperimentale, ma anche come la più ampia capacità di orientare in modo
coerente il proprio agire sulla base di principi ideali. Esistono infatti, secondo Weber, molte espressioni
diverse della razionalità.

I quattro tipi ideali non esauriscono tutti i modi di agire a raramente un agire sociale è orientato
esclusivamente a un modo, spesso sono di natura mista ma dal punto di vista dell’osservatore è quasi
sempre identificabile un tipo principale, quindi una prevalenza di orientamento. I tipi ideali non si applicano
solo ai comportamenti esterni, ma anche agli atteggiamenti interni. L’agire reale si svolge, nella gran massa
dei casi, in un’oscura semicoscienza o nell’incoscienza del suo senso intenzionato. L’orientamento che
determina l’agire non è quindi sempre chiaro all’attore sociale, il quale agisce “istintivamente o in
conformità all’abitudine”. L’agire pienamente consapevole per Weber è un caso limite ma la sociologia
opera attraverso concetti e sviluppa le sue interpretazioni mediante classificazioni del possibile senso
intenzionato.

4. Il punto di vista dell’osservatore: comprensione e prevedibilità dell’agire

A parte i problemi che nascono per l’osservatore dei comportamenti sociali dal fatto che egli possiede un
proprio universo di significato, i diversi orientamenti che determinano l’agire hanno anche gradi di evidenza
diversi:

• L’agire tradizionale potrà essere compreso da un osservatore esterno solo in base alla conoscenza
storica dei modelli codificati di comportamento, occorre riferirsi allo specifico contesto culturale
• L’agire affettivo è la forma più difficile da comprendere per chi non partecipa allo stesso vissuto: se
non si ama qualcuno è difficile capire le cose che si fanno per amore nei suoi confronti, se non si
prova una paura specifica è difficile comprenderla. Diventa in questo caso essenziale la capacità di
rivivere le esperienze altrui e di penetrazione simpatetica
• Per l’interpretazione dell’agire razionale rispetto al valore diventa essenziale la conoscenza
simpatetica del particolare rapporto con un determinato valore, cui si ispira il soggetto che
osserviamo
• L’agire razionale rispetto allo scopo è infine quello che, secondo Weber, è più evidente per
l’osservatore, una volta che si conoscono le finalità perseguite e i mezzi per raggiungerle.

Weber riconosce che l’agire orientato soggettivamente non coincide sempre necessariamente con l’agire
che, dal punto di vista dell’osservatore esterno, appare oggettivamente corretto ma tende ugualmente a
privilegiare il tipo ideale dell’agire rispetto allo scopo come tipo normale, o criterio per eccellenza di
riferimento e comparazione, utile a garantire un’intellegibilità sociologica dell’agire indipendentemente da
considerazioni di tipo psicologico.

Se si seguono fino in fondo i presupposti teorici weberiani non si può dare per scontata l’esistenza di un
fondamento oggettivo della spiegazione causale.

L’intellegibilità dell’agire può essere costruita nell’analisi del rapporto tra il senso intenzionato dell’agente e
gli ordini di senso codificati presenti nella situazione determinata nonché tra il senso intenzionato
dell’agente e il senso cui partecipa l’osservatore. Il mantenimento in Weber della posizione privilegiata del
tipo ideale rispetto allo scopo si rivela così come un estremo tentativo di salvare un criterio di oggettività
dell’interpretazione che è frutto di una scelta arbitraria.

Al diverso grado di evidenza dei diversi tipi di agire corrispondono ovviamente anche diversi gradi di
prevedibilità dell’agire. I comportamenti più evidenti, come quelli determinati da abitudini culturali o quelli
razionali rispetto allo scopo sono anche i più prevedibili mentre l’agire razionale rispetto al valore e quello
affettivo sono i più difficili e i meno prevedibili.

Più nello specifico la prevedibilità va valutata in riferimento al senso comune partecipato da diversi
individui che fonda la possibilità-probabilità chance che si dia un certo comportamento nell’ambito di un
determinato processo relazionale. Tale possibilità presenta infatti gradi diversi di prevedibilità a seconda
che sia fondata su semplici uniformità di fatto o sulla rappresentazione della sussistenza di un determinato
ordine legittimo.

• Nel caso delle uniformità di fatto, ci si riferisce alla presenza di usi, consuetudini, abitudini di lungo
tempo o orientamenti puramente razionali
• Nel caso delle rappresentazioni di un ordine legittimo si riferisce alla presenza di convenzioni, la cui
validità è garantita dal fatto che il non osservarle provocherebbe reazioni spontanee di
disapprovazione o la reazione di ordinamenti giuridici dotati di meccanismi coercitivi.

5. Forme di legittimazione e tipi ideali del potere

La forza del carattere impositivo degli ordinamenti varia a seconda dei fondamenti della loro legittimità e
dei fondamenti dell’attribuzione di un’effettiva validità (in base a tradizione, credenze affettive e razionali,
credenze nella legalità). Sulla base delle diverse forme di legittimazione, Weber costruisce anche i suoi tipi
ideali di potere, distinguendo tra:

• Potere tradizionale, legittimazione fondata su credenza nel carattere sacro delle tradizioni
• Potere carismatico, fondato sul carisma di un particolare individuo, ovvero alla credenza nel
carattere sacro o nella forza eroica o nel valore esemplare di egli.
• Potere legale, poggiato sulla credenza nella legalità di ordinamenti giuridici razionalmente costituiti
e nel diritto attribuito a determinate persone di esercitarlo sulla base degli ordinamenti stessi

La condizione di prevedibilità dell’agire presenta vari gradi di stabilità e certezza, a seconda del livello di
rigidità della codifica del senso partecipato e della presenza o meno di meccanismi di controllo. La moda
presenta un grado infimi di prevedibilità, in quanto è per sua natura mutevole mentre l’apparato statale,
con il suo sistema legale e i suoi organi amministrativi, assicuro un grado elevato di osservanza degli
orientamenti di senso codificati e quindi una massima prevedibilità.

Weber riconosce il carattere normale del conflitto, che definisce come relazione che emerge quando l’agire
è orientato in base al proposito di affermare il proprio volere contro la resistenza di uno o più individui. Il
conflitto può essere pacifico se privo di violenza o violento, quando si rifiutano le regole e viene meno la
dimensione della reciprocità.

L’unità sociale per Weber non va data per scontato, in quanto il coordinamento delle relazioni reciproche è
fondato sullo stabilirsi di ambiti comuni di senso, sempre minacciati da pluralità dei significati, presenza di
valori tra loro contrastanti e dal conflitto degli interessi di individui e gruppi sociali diversi. Weber, a
differenza di Durkheim, sottolinea anche il rischio che l’affermarsi di dimensioni codificate del senso risulti
in un irrigidimento costrittivo dell’agire dei soggetti. Nella società industriale l’affermarsi della razionalità
strumentale rischia di chiudere la complessità dell’azione e dell’esperienza individuale in una gabbia
d’acciaio.

Weber ha analizzato estesamente lo sviluppo che ha conosciuto l’apparato della burocrazia nella sua
connessione con il potere di tipo legale. La burocrazia è lo sviluppo delle forme di organizzazione delle
attività amministrative di un gran numero di individui, detti funzionari, secondo criteri ispirati alla
razionalità e all’efficienza. L’esistenza di servizi e competenze definiti da leggi e regolamenti, la gerarchia
delle funzioni e la separazione tra funzione e individuo caratterizzano la burocrazia come forma rigida e
anonima. In ambito lavorativo appaiono figure come il manager e il burocrate che hanno come principale
obiettivo quello di far rispettare regole e procedure. Nella valutazione dei lavoratori contano
esclusivamente criteri impersonali e la regola dell’efficienza e della produttività.

La burocrazia appare a Weber il risultato dell’estendersi dei principi di una razionalità strumentale che
rischia di limitare grandemente la libertà degli attori sociali.

6. Religione e secolarizzazione

Weber ha dato un importante contri buto all’analisi del rapporto tra religione e società nonché
all’interpretazione dei processi che hanno portato alla formazione della modernità. In termini generali,
Weber individua la funzione originaria del pensiero religioso quale risposta agli interrogativi fondamentali
della vita umana: l’individuo nel cosmo, il significato della vita, la sua finitezza, il dolore e la possibilità della
salvezza. La religione costituisce pertanto il sostrato fondante di ogni cultura e società. Se le forme
ancestrali di religione sono di tipo magico sacrale, successivamente, attraverso processi di progressiva
razionalizzazione si è pervenuti alle grandi formulazioni delle religioni della salvezza che, regolando la vita
quotidiana dei credenti in tutti i suoi aspetti hanno favorito l’affermarsi di una razionalità socializzata.

Nel 1905 Weber ha pubblicato “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” sostenendo la tesi che la
riforma protestante, specie quella calvinista, aveva avuto insieme ad altri fattori un’influenza rilevante nella
formazione dello spirito capitalista che caratterizza dal 600 in poi le attività economiche nel nord Europa. La
specificità del capitalismo, per Weber, è il fatto che la produzione economica è orientata a un profitto che
non serve solo a migliorare il proprio tenore di vita ma a produrre altri profitti in un meccanismo che invece
di soddisfare i bisogni degli individui ne crea di nuovi, orientato al valore di scambio e non al valore d’uso.

Secondo Weber il protestantesimo avrebbe favorito questa impostazione attraverso la rivalutazione del
valore religioso del lavoro considerato come Beruf, vocazione e professione. Nella sua analisi comparativa
di diverse religioni Weber mostra che il cristianesimo conteneva valori volti a promuovere l’individualismo e
l’atteggiamento attivo nei confronti del mondo. Il protestantesimo accentua questi due elementi in quanto
pone l’individuo in rapporto diretto con Dio e considera l’impegno nelle attività mondane come un dovere
connesso alla stessa condizione terrena. Tale dovere, ascesi intramondana, non da diritto ad alcuna
ricompensa da Dio dal momento che la salvezza non è la conseguenza delle proprie azioni ma è già
determinata alla propria nascita secondo il dogma della predestinazione delle anime. L’individuo quindi non
deve abbandonarsi all’edonismo ma deve utilizzare i proventi per migliorare l’attività produttiva e mentre
nella tradizione cattolica la ricchezza viene vista come un ostacolo alla salvezza in quella protestante
assume un valore di conferma indiretta dell’elezione divina. Tale segno non deve però rassicurare ma
invitare a dedicarsi maggiormente all’attività produttiva anche per combattere l’angoscia legata a questo
dubbio esistenziale sulla propria anima [Sigh].

Successivamente la secolarizzazione ha lentamente fatto perdere il nesso con la fede ascetico religiosa
favorendo l’affermarsi della razionalità strumentale che rischia di destinare il mondo a un disincanto
generalizzato riducendo la vita umana all’unica funzione dell’efficienza produttiva.

Dal punto di vista epistemologico Weber non intedne stabilire una relazione unidirezionale di causa effetto
opposta a quella di Marx, ma un’interdipendenza reciproca tra dimensioni materiali, sociali e culturali in cui
non è presente un solo fattore determinante.

7. Considerazioni critiche

La teoria dell’azione sociale di Weber presenta un’apertura maggiore rispetto a Durkheim, nei confronti del
riconoscimento del carattere ambivalente dell’agire nel rapporto con le forme della mediazione simbolica,
che se da un lato assicurano prevedibilità e coordinamento dall’altro possono diventare elementi alienanti
e distruttivi.

Mentre per Durkheim il problema più importante è quello di imbrigliare le tendenze centrifughe di tipo
individualistico per Weber l’analisi del rapporto azione cultura e dei processi attraverso cui si costituiscono
le condizioni di prevedibilità dell’agire apre il problema della conservazione dell’autonomia individuale.

La distanza che separa Weber dalla tradizione positivistica può esser valutata nella diversa impostazione
metodologica che egli deriva dalla problematica storicista ed ermeneutica di Dilthey e di Rickert, ma anche
nella contrapposizione tra Scienza e Azione.

Per Durkheim, la conoscenza scientifica doveva servire a individuare i principi morali e i criteri pratici di
orientamento dell’azione politica e social. Per Weber la scienza, in quanto orientata all’analisi di eventi
suscettibili di ripetizione, non potrà mai esaurire gli elementi di imprevedibilità e irripetibilità delle
situazioni concrete. Weber riconosce il contributo che la scienza sociale può dare a una migliore
comprensione dei processi sociali e a una più attiva comunicazione ma lascia questi ultimi la responsabilità
delle scelte sociali. Weber ha formulato la sua distinzione tra etica della responsabilità, che procede da
valutazioni concrete circa le conseguenze dell’agire sociale, ed etica della convinzione, che si determina in
base all’osservanza di principi, senza tenere conto delle conseguenze.

Domande di fine capitolo

Su cosa si basa la distinzione tra spiegazione e comprensione?

Come configura Weber l’avalutatività della scienza?

Che ruole svolge per Weber il punto di vista dell’osservatore?

Come definisce Weber l’agire sociale?

Cosa intende Weber con il termine senso?

Quale importanza assume in Weber la dimensione della prevedibilità e perché?

Come si configura nella sua teoria il rapporto tra individuo e società?

Cosa sono i tipi ideali?

Quali tipi ideali dell’agire sociale distingue Weber e su quali elementi?

Quali tipi ideali di potere vengono da lui distinti e su quali elementi?

Quali sono le caratteristiche della burocrazia?

Come interpreta Weber il rapporto tra religione e realtà sociale?

Cosa si intende con Beruf?

Cosa si intende con l’espressione ascesi intramondana?

Come si configura il rapporto tra religione e secolarizzazione?

Cosa si intende per dogma della predestinazione delle anime?

Quali critiche di tipo epistemologico Weber rivolge a Marx?

Quali sono i contributi di Weber alla teoria sociologica?


Capitolo 4: Georg Simmel, le forme sociali

Biografia

L’opera del filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel, ben nota a Max Weber, è andata assumendo una
crescente importanza in particolare per le teorie nell’ambito della sociologia fenomenologica,
dell’interazionismo simbolico e dell’etnometodologia.

Nato a Berlino da famiglia borghese di origine ebraica, Georg Simmel (1858-1918) dopo aver conseguito la
laurea in filosofia con una tesi su Kant ottenne l’abilitazione all’insegnamento universitario nel 1885.
Insegnò a Berlino e poi dal 1914 a Strasburgo.

Il carattere assai vario e poco sistematico della sua produzione, che coinvolge psicologia, sociologia,
filosofia ed estetica rende difficile una sua collocazione. Tuttavia Simmel, come Weber, critica le teorie del
positivismo organicista ed evoluzionista, avvicinandosi successivamente alle posizioni neokantiane dello
storicismo tedesco e della filosofia dei valori di Rickert e WindelBand, nonché della fenomenologia di
Husserl e della filosofia di Nietzsche e Bergson. Simmel ebbe rapporti con Max Weber, il fratello Alfred
Weber e con Ferdinand Tonnies.

Simmel, come Weber, rifiuta ogni tendenza a concepire la società come un tutto organico che precede gli
individui e resta pertanto estraneo al modello durkheimiano della società come entità sui generis.

La società per Simmel è il risultato delle relazioni reciproche degli individui, di un cosiddetto effetto di
reciprocità: l’azione sociale

La reciprocità sorge sempre da determinati impulsi o in vista di determinati scopi che fanno si che l’uomo
entri con altri in una coesistenza, in un agire l’uno per l’altro, con l’altro e contro l’altro. Queste azioni
reciproche significano che dai portatori individuali di quegli impulsi e scopi sorge un’unità, appunto la
società. L’unità sociale non deve essere intesa come il prodotto delle operazioni cognitive dell’osservatore,
bensì come realizzata dai suoi elementi coscienti e sinteticamente attivi.

1. I presupposti della conoscenza

Se le unità sociali sono il risultato diretto dell’agire individuale, per analizzare e conoscere tali unità il
sociologo deve procedere attraverso astrazioni e selezioni, facendo uso di categorie dell’intelletto umano. A
differenza di Kant che considerava gli a-priori della conoscenza come categorie universali e atemporali,
Simmel ritiene che le categorie mediante le quali noi abbiamo accesso all’esperienza sensibile e costruiamo
concetti siano variabili nel tempo e nello spazio e che abbiano un’origine pratica, nascendo da bisogni reali
ed esperienza iniziale del nostro rapporto con la realtà.

Pur riconoscendo che non hanno un’origine puramente sociale o convenzionale egli ritiene che siano
avallati dall’utilità pratica. Una concezione che richiama i pragmatisti americani che Simmel conosceva
bene.

Una volta formati gli apriori consentono di selezionare dalla grande complessità di sensazioni che nascono
dall’esperienza immediata gli aspetti per noi rilevanti, ordinandoli in un insieme di significati determinati.
Il riconoscimento della presenza degli apriori come una concezione non realista della conoscenza, ovvero
come non puro rispecchiamento neutrale e oggettivo della realtà esterna, li definisce quindi come risultato
parziale di un’attività costruttiva dell’individuo. Simmel non sposa tuttavia lo scetticismo perché il principio
di utilità nella selezione degli apriori fonda una teoria della selezione naturale delle conoscenze: la forma di
conoscenza che si afferma è sempre quella che ha la presa migliore sul reale.

Il rapporto tra idee e strutture si configura in Simmel nei termini di un’influenza reciproca tra le due
dimensioni: la conoscenza nasce all’interno di condizionamenti sia naturali sia sociali ma è anche il risultato
di un’attività soggettiva autonoma. I sistemi di idee possono influenzare profondamente la vita sociale e gli
stessi rapporti economici. Ma anche la struttura materiale può influenzare i sistemi di idee e gli stili di vita.
Simmel sottolinea che le idee hanno una dimensione creativa e non sono, come in Marx, un puro riflesso
die condizionamenti sociali, anche se questi possono incidere sulla possibilità o meno che le idee hanno di
affermarsi.

Il riferimento alla libertà dello spirito umano viene sempre mantenuto in Simmel, che ritiene che l’individuo
conservi sempre una relativa autonomia. Il fatto che l’individuo debba necessariamente compiere delle
riduzioni per significare il reale non vuol dire che tali significati siano necessariamente falsi o illusori, bensì
soltanto che essi non esauriscano la realtà-.

Contrariamente a Marx, Simmel ritiene quindi che le idologie non siano il prodotto illusorio di una falsa
coscienza. Un’ideologia può essere valutata positivamente nella misura in cui è il risultato di una scelta ed è
rilevante per l’interpretazione di una situazione specifica.

2. Le forme sociali

Coerentemente con i principi epistemologici sopra ricordati, Simmel ritiene che per analizzare e
comprendere le unità sociali, la sociologia debba necessariamente procedere attraverso astrazioni e
selezioni, ovvero costruire il suo oggetto. Simmel propone così di mettere in evidenza le forme di relazione
che si stabiliscono nei rapporti dinamici degli attori sociali.

Simmel distingue tra forma e contenuto della società:

• Il contenuto è tutto ciò che negli individui e nei luoghi è presente come impulso, interesse, scopo
inclinazione
• La forma è invece rappresentata dai diversi modi attraverso i quali i singoli individui stabiliscono le
loro interazioni. Se il contenuto costituisce la materia prima dell’associazione, le forme permettono
di strutturare tale materia in quelle unità che chiamiamo gruppi, istituzioni, società.

Simmel vuole mettere in evidenza i modi mediante i quali le unità sociali vengono a formarsi attraverso la
complessa dinamica di azioni e relazioni reciproche degli individui. Questi ultimi non vengono pensati come
nell’individualismo metodologico, in quanto elementi ultimi o atomi del mondo sociale ma sono anch’essi,
risultato delle relazioni sociali e come tali possono venire considerati parti di unità più ampie.

I fatti sociali per Simmel, come per Durkhheim, non sono legati solo a cause psicologiche, ma anche alle
forme sociali in quanto dotate di una dinamica propria. La società è strutturata in posizioni che prescindono
dagli aspetti personali e gli attori sociali stabiliscono le loro relazioni sulla base di aspettative socialmente
strutturate e di ruoli codificati. L’origine delle forme dell’interazione sociale non si trova nelle azioni
individuali ma nella struttura stabile delle relazioni che tendono a rendersi autonome dai contenuti. Non è
più la forma a nascere dalla vita, bensì è la forma a determinare i contenuti della vita.

Simmel sottolinea come l’individuo viva un’esperienza di vita che trascende il puro orizzonte sociale e non è
quindi mai totalmente riducibile alla sola dinamica dei ruoli sociali.
La tendenza delle forme a rendersi indipendenti spiega l’interesse di Simmel per le forme del gioco, dal
momento che queste, essendo disimpegnate dagli interessi, imitano le modalità delle relazioni umane,
mettendo in evidenza forme di relazione allo stato puro. La stessa cosa avviene anche in rapporti di tipo
mondano, nei quali stati d’animo e interessi vengono solo mimati. Aspetto che verrà poi ripreso da
Goffman.

Simmel analizza in particolare l’incidenza del numero degli individui nelle forme concrete di associazione, le
relazioni di dominanza e subordinazione, i rapporti con le minoranze, le relazioni di cooperazione e conflitto
e le forme di associazione fondate sul segreto. La complessa analisi simmeliana si sviluppa anche attraverso
determinati tipi sociali (lo straniero, il povero, la moda) nonché attraverso lo studio di emozioni intese
come forme di socialità.

3. La filosofia del denaro

Nella trazione critica inaugurata da Marx e da Nietzsche e portata avanti da Weber Simmel ha dato una sua
interpretazione della crisi della società moderna. Nell’importante opera la Filosofia del Denaro (1900) egli
analizza gli effetti culturali e sociali provocati dallo sviluppo dello scambio economico fondato sul denaro. Il
denaro è la migliore dimostrazione del carattere simbolico del sociale, fondato su credenze collettivamente
condivise.

L preminenza assunta dal denaro ha avuto dirette conseguenze sullo stile di vita, favorendo il carattere
astratto e anonimo dei rapporti intersoggettivi, la distanza nei confronti della natura e l’accelerazione dei
ritmi di vita e della mobilità spaziale. I rapporti non sono più legati alla realtà locale e appaiono
indipendenti dai vincoli familiari. Il denaro ha provocato un aumento della complessità sociale, crendo
insicurezza negli individui, che non sentono più di controllare le conseguenze delle loro azioni.

L’operaio industriale non conosce la destinazione ultima del prodotto del suo lavoro. Il denaro, che da un
lavoro favorisce l’affermarsi dell’individualismo, dall’altro provoca la continua oggettivazione dei rapporti,
rimuovendo ogni sfumatura personale da essi.

La preminenza dello scambio economico astratto ha inoltre una diretta influenza sulla percezione della
mancanza di qualcosa di definitivo, che spinge a cercare sempre nuove soddisfazioni momentanee, nuovi
stimoli ed emozioni, creando instabilità e incostanza nei gusti, nelle convinzioni e nei rapporti.

Gli oggetti del desiderio appaiono svuotati di ogni valore intrinseco e hanno solo il valore attribuito dal
denaro, per cui diventa più difficile percepire il valore tra nesso e desiderio, dato che viene oggettivato nel
prezzo di mercato. La relazione sociale tende a perdere molti dei significati e a trasformarsi in una realtà
senza copione, l’avvento della modernità e della vita metropolitana cancella antichi modi di manifestazione
delle emozioni per lasciare spazio a un intellettualismo moderno che si erge a dominatore nella gestione di
gran parte delle azioni individuali.

Si osserva una intensificazione della vita nervosa, un privilegiare, nelle azioni quotidiane, l’uso
dell’intelletto, la facoltà più superficiale della psiche, dal carattere logico-combinatorio che permette di
gestire molteplici attività anche contemporaneamente, adattandosi con disinvoltura ai ritmi frenetici della
modernità. Rispetto alla facoltà della coscienza al soggetto la possibilità di riflettere sul mondo e dargli un
senso e che quindi implica un confronto con le emozioni provate.

L’intelletto è la più adattabile delle nostre forze interiori: per venire a patti con i cambiamenti non richiede
quegli sconvolgimenti che la sentimentalità, a causa della sua natura conservatrice, richiederebbe
necessariamente. Così il tipo metropolitano crea un organo di difesa contro lo sradicamento di cui lo
minacciano i flussi e le discrepanze del suo ambiente esteriore. Anziché con l’insieme delle emozioni,
reagisce essenzialmente con l’intelletto.
Simmel ipotizza che gli abitanti delle metropoli divengano alla stregua di granelli di polvere, tra volti dal
bombardamento di stimoli che potrebbero inficiare la loro capacità di approfondire le interazioni.

Quello che potremmo definire intellettualismo della coscienza, unito alle caratteristiche dell’economia
monetaria, porta alla nascita del cosiddetto uomo blasè, la cui essenza consiste nell’attenuazione della
sensibilità rispetto alle differenze tra le cose, non perché non siano percepite ma perché il loro significato e
valore spesso vengono equiparati a causa dei ritmi frenetici imposti dalla quotidianità moderna. Il
comportamento blasè quindi è un atteggiamento difensivo attraverso cui l’individuo protegge la sua
capacità di riflessione e di emozionalità dalla onnipresenza di stimoli.

Rifiutando come Weber il modello causale unilineare, Simmel può mettere in evidenza il carattere
ambivalente dei fenomeni sociali e la reciprocità delle influenze tra fattori diversi. Reca un sostanziale
contributo all’analisi dei processi di oggettivazione interpretati da Marx con l’alienazione e da Weber come
razionalizzazione strumentale.

4. Il rapporto individuo-società e l’ambivalenza delle forme di determinazione culturale

Per Simmel la società è il prodotto incessante dei processi intersoggettivi di rappresentazione attraverso cui
si consolidano nel tempo le forme codificate delle relazioni reciproche:

i grandi sistemi e le organizzazioni plurindividuali non sono altro che forme di reciprocità fra individui,
protrattesi nel tempo e trasformatesi in formazioni stabili.

Il carattere relativamente autonomo assunto da tali formazioni spiega il fatto che l’individuo, come tale, pur
essendo originariamente orientato al rapporto intersoggettivo, non può mai essere completamente
integrato nell’ordine sociale. Vi è una dimensione non rivolta alla società. Questa dimensione, tuttavia, è
intimamente unita con essa e costituisce la condizione positiva della possibilità che l’individuo ha di
partecipare alla vita sociale. L’ambivalenza della modernità, fatta di tendenze e controtendenze, costringe i
soggetti a vivere una relazione essenzialmente tragica, presi in trappola da quello che Simmel definisce
dualismo dell’individualità: l’essere per sé e l’essere sociale.

Il soggetto moderno tende a rinchiudersi in se stesso, alla ricerca di nuovi spazi di individualizzazione e
riflessività ma non può fare a meno di sentire quel richiamo sociale che lo caratterizza in quanto
appartenente a una vita in comune con gli altri. L’ambivalenza esistenziale diventa principio di
socializzazione, veicolo moderno attraverso il quale cogliere le sfaccettature della realtà sociale.

Si evidenzia così la tensione sottesa tra individuo e società e la reazione ambivalente che l’attore sociale
stabilisce con le forme di rappresentazione simbolica e con i valori e le regole che assicurano la necessaria
prevedibilità nelle interazioni ma rischiano di alienarlo in forme di solitudine.

Più che in Weber l’ambivalenza delle forme di determinazione emerge con forza fino a diventare nucleo
centrale delle analisi di Simmel, influenzato dalla concezione della vita di Nietzsche. Egli sviluppa una
concezione tragica della cultura e del suo effetto inquietante, in quanto fissazione della vitalità in forme
oggettivate.

Se è vero che tali forme sono prodotto della creatività della vita essa mutando tende ad abbandonarle, non
riconoscendosi più in esse.

L’incommensurabilità della vita rispetto alle rappresentazioni di essa costituisce un presupposto essenziale
dei molteplici punti di vista con cui Simmel tenta di mostrare la natura complessa dei fenomeni sociali.

Al contrario di Nietzsche che tende a considerarle solo come forme repressive rispetto alla vita, Simmel non
demonizza le forme di oggettivazione culturale ma le riconosce come momenti necessari alla costruzione
della realtà sociale, riconoscimenti che avviene insieme alla comprensione della loro riduttività rispetto alla
vita, ritenendole conseguenza dell’infinità fecondità della vita e della profonda contraddizione tra l’eterno
divenire e mutarsi e l’obiettiva validità delle sue manifestazioni.

Simmel critica la tendenza presente nella cultura moderna a volersi liberare da ogni forma di
determinazione perché la vita deve sempre muoversi entro forme e non può manifestarsi nuda, ma sempre
mediata, semmai da una forma diversa.

Nel riferimento diretto al pragmatismo americano, Simmel riconosce il merito di aver strappato alla
conoscenza l’antica pretesa di essere libera e autogovernata da leggi ideali, dimostrando invece che la
dimensione cognitiva è cointessuta nella vita.

5. La crisi della modernità

Simmel persegue la sua critica della modernità interpretandola come epoca nella quale la situazione di crisi
assume un carattere di normalità dovuto alla predominanza dello spirito oggettivo su quello soggettivo, di
ipertrofia della cultura oggettiva e atrofia di quella soggettiva. Una immensa quantità di rappresentazioni,
significati culturale nasce velocemente e subito si oggettiva in cose e conoscenze, istituzioni e comodità
creando un regresso della cultura degli individui, che da attori sociali non sono in grado di fronteggiare lo
sviluppo della cultura oggettiva. Un granello di polvere rispetto a un’immensa organizzazione di cose e
forze che gli sottraggono tutti i progressi e li trasferiscono oggettivandoli. La modernità non è una semplice
fase storica ma l’epoca dell’epifania della condizione umana in cui si rivela la tensione del rapporto tra
individuo e società, che sembra perdere il suo rapporto di mediarsi con la vita individuale.

6. Considerazioni critiche

Fra i teorici classici Simmel è quello che meglio ha saputo mettere in evidenza la complessità degli elementi
in gioco nella dinamica sociale. Mentre Weber privilegia un modello di tipo razionale, Simmel tiene meglio
conto anche degli elementi emozionali e delle insicurezze che caratterizzano gli attori sociali.

Nella sua interpretazione della crisi della modernità, Simmel mostra tale ambivalenza nella tensione che
caratterizza il rapporto tra individuo e società, tra l’irriducibilità dell’ambito di senso e la pluralità e la
frammentazione dei sistemi di determinazione. Così l’ambivalenza non è presente solo nel rapporto tra
l’agire soggettivo e le forme di determinazione, ma anche all’interno di quest’ultime. L’eccesso di
oggettivazione provoca la distruzione della sua funzione di mediazione.

7. L’eredità di Weber e Simmel

Max Weber e Georg Simmel hanno lasciato un’eredità che è stata accolta in modo più diretto da alcuni
autori:

• Ferdinand Tonnies è noto per la sua distinzione tra comunità e società; la società preindustriale era
di tipi comunitario, caratterizzata dalla volontà organica, ovvero dal predominio di vincoli naturali
connessi alla vita biologico, all’istinto, al piacere a memorie e sentimenti. La famiglia aveva un ruolo
centrale ed era anche sede di attività economico produttive; le norme erano fondate su costume,
tradizione e religione. Nella società invece prevale la volontà convenzionale, il prodotto delle
intenzionalità individuali riflessive ed egocentriche, razionalità di tipo strumentale e dagli interessi
e dal principio della concorrenza. Le relazioni sono artificiali, basate su contratto e diritto, sullo
scambio di mercato. Prevalgono la separazione dei beni, i valori utilitaristici, il calcolo e la
speculazione. La famiglia perde il suo primato e lentamente vanno disgregandosi le forme di vita
comunitaria.
• Werner Sombart sviluppa una critica del mondo capitalistico e della borghesia industriale.
Collegandosi alla distinzione di Simmel di cultura soggettiva e cultura oggettiva rileva come nella
costruzione della cultura personale ogni individuo subisca una grande influenza dalla cultura
oggettiva, comprendente elementi sia ideali sia materiali, fra i quali la tecnica. Lo sviluppo della
tecnica spiega molti dei processi e influenza gli stili di vita. Sombart ha il merito di coniare, nel
1902, il termine capitalismo.
• Karl Mannheim ha il merito di sviluppare la cosiddetta sociologia della conoscenza, analisi tra
rapporto tra le forme del sapere e le condizioni della realtà sociale. Mannheim affronta il problema
del relativismo, sottolineando il fatto che epoche diverse sono caratterizzate da rappresentazioni
del mondo differenti. Lo storicismo aveva delegittimato ogni pretesa di giungere a verità di tipo
assoluto. Nel tentativo di ritrovare un criterio non relativistico Mannheim ricorre al concetto di
relazionismo per indicare il rapporto che collega i contenuti della cultura alla situazione esistenziale
degli attori sociali. Mannheim sottolinea come ogni individuo tende a interpretare la realtà secondo
un punto di vista che esprime gli interessi, la cultura, la particolare sensibilità del gruppo stesso. La
verità non viene più concepita come una certezza ma come qualcosa verso cui si deve tendere
costantemente. Influenzato dalla caratterizzazione simmeliana dell’intellettuale come figura
distaccata egli lo identifica come principale responsabile di questa tendenza alla verità.
• Norbert Elias si ricollega a Weber e Simmel nelle sue analisi storiche. Per Elias è possibile fare
sociologia solo se si procede a un’analisi diacronica e transtemporale dei fenomeni. È una costante
nelle sue analisi che vengono definite sociologia storica e caratterizzate da una prospettiva
evolutiva che si richiama anche a Freud; Elias analizza il processo culturale e sociale attraverso il
quale la violenza è stata progressivamente estromessa dalla vita civile grazie allo sviluppo delle
buone maniere. Elias discute tale tesi nella sua opera principale, il processo di civilizzazione, dove è
teorizzato uno sviluppo psicologico-sociale nei comportamenti individuali e di gruppo che tendono
a un’interiorizzazione delle forme di violenza. Secondo il sociologo attraverso lo studio dei
comportamenti che prendono forma nelle corti reali dei secoli passati è possibile cogliere come
l’etichetta, i cerimoniali, i comportamenti sociali spesso normati in base al ceto rappresentino e
vadano a influire sulla struttura della società di riferimento. Elias individua una forte e crescente
pressione della società sul singolo e parla di Super Io a livello sociale per spiegare il percorso di
controllo, gestione e formalizzazione di comportamenti ed emozioni che la società sempre più
spesso impone al singolo. Si apre qui una questione che ha a che fare con l’interiorità dell’individuo;
se si è costretti a controllare o reprimere le proprie manifestazioni emotive nella vita pubblica e
professionale si trasforma in una sorta di attore che si distacca dalla propria interiorità.
Nel suo libro più poetico, La solitudine del morente, utilizza l’esempio delle persone molto anziane
per evidenziare gli alti costi in termini affettivi richiesti dal processo di civilizzazione. Poiché la
società richiede un sempre maggiore controllo delle emozioni il rapporto con il defunto diventa
problematico perché capace di liberare forti emozioni in deroga al controllo richiesto dal contesto
sociale. Per questo si marginalizza il morente chiudendolo in centri più o meno ospitali in cui tirare
le cuoia senza destabilizzare emotivamente gli attori sociali. Si anestetizzano così gli effetti sociali
della morte, non negandone l’importanza ma riconoscendone la pericolosità per le dinamiche
sociali.

Domande di fine capitolo

Quali influenze prevalenti sono presenti nel pensiero di Simmel?


Come si configura la conoscenza nella teoria di Simmel?
Cosa intende Simmel con il concetto di forme sociali?
In che cosa consiste ciò che Simmel chiama tragedia della cultura?
Quali caratteristiche e quali ambivalenze presenta la diffusione degli scambi fondati sul denaro?
Quali caratteristiche e quali ambivalenze presenta il fenomeno dell’ampliarsi della vita delle grandi
città?
Cosa intende Simmel con il concetto di uomo blasè?
Come si configura in Simmel il rapporto tra individuo e società?
Come interpreta Simmel la crisi della modernità?
Quali autori hanno in particolare accolto l’eredità di Weber e Simmel? Quali teorie hanno
sviluppato?

Capitolo 5: Wilfredo Pareto, sistema sociale e agire irrazionale

Biografia

Il sociologo italiano Vilfredo Pareto si colloca nella tradizione del positivismo anche se egli può essere
considerato un positivista scettico, come mostrano la sua critica nei confronti sia di Comte che di Spencer e
la sua accusa a entrambi di essere andati oltre la scienza empirica. Il modello di sistema sociale di Pareto ha
avuto una notevole influenza su Talcott Parsons.

Il sociologo ed economista italiano Vilfredo Pareto occupa una posizione a sé rispetto alla tradizione
sociologica dei suoi contemporanei. La ragione di tale isolamento va cercata nella particolare formazione di
Pareto che arriva alla sociologia solo nell’ultima fase della sua vita, dopo essersi dedicato per lungo tempo
alla teoria economica. Nato a Parigi da padre italiano di antica nobiltà genovese e madre francese, studia al
Politecnico di Torino dove, nel 1870, si laurea in ingegneria civile. Diventerà direttore della compagnia
ferroviaria di Roma e successivamente amministratore delegato di una società di prodotti in ferro a Firenze.
Fautore del principio del libero scambio, si oppone alla politica protezionista e di intervento pubblico del
governo della sinistra moderata di Depretis. Nel 1889 lascia la sua attività di dirigente industriale e sposa
una giovane donna russa, andando a vivere in una casa di campagna vicino a Firenze. In quel periodo si
dedica soprattutto alla lettura dei classici greci e latini e inizia un’intensa attività giornalistica a favore della
libertà di mercato.

Avendo stretto rapporto con il noto economista liberale Maffeo Pantaleoni, inizia studi di economia e nel
1891 viene presentato a Leon Walras, titolare della cattedra di economia politica all’università di Losanna.
Trasferitosi lì, Pareto succede nel 1893 nella cattedra a Walras e pubblica il suo corso di economia politica
che lo rende famoso. In tale opera, Pareto adotta il modello di sistema in equilibrio di Walras, per cui ogni
sistema economico tende al proprio mantenimento, reagendo alle forze che minacciano il suo equilibrio in
modo da ricostituirsi, anche se all’interno delle nuove condizioni provocate dal mutamento.

Pur avendo, in un primo momento, mostrato simpatie per la sinistra liberale, a partire dal 1989 Pareto
assume un atteggiamento di crescente pessimismo nei confronti della democrazia e critica violentemente I
sistemi socialisti e le componenti utopistiche e non scientifiche che a suo parere caratterizzano le ideologie
socialiste. Ritiratosi in una villa a Losanna, nel 1907 lascia l’insegnamento universitario. Pubblica nel 1916 la
sua opera più importante, il trattato di sociologia generale, la cui fama gli attirerà le simpatie di Mussolini,
che lo nominerà senatore del Regno pochi mesi prima della sua scomparsa, nel 1923. Occorre tuttavia
ricordare che Pareto aveva criticato vigorosamente la limitazione della libertà di parola e il controllo
esercitato dal fascismo sulle società italiane.

La ragione per cui Pareto passa dall’economia alla sociologia è dovuta alla sua convinzione che l’agire
umano sia per la maggior parte dettato da impulsi non razionali che egli chiamerà, nel suo trattato di
sociologia generale, le azioni non logiche. La conoscenza scientifico-sperimentale dei molteplici aspetti
dell’agire delle masse è per Pareto uno strumento prezioso di governo delle masse. Influenzato dagli studi
di Gabriel Tarde sul fenomeno dell’imitazione e da quelli di Le Bon sulla psicologia delle folle, è convinto
che si possano efficacemente orientare gli individui solo se si tiene conto delle componenti emozionali del
loro comportamento.
Pareto nutre un radicale scetticismo circa la possibilità di una riforma radicale della società ed è convinto
che la concentrazione del potere nelle mani di pochi sia un dato ineliminabile. Pareto tende a considerare la
funzione del potere secondo i principi strumentali di Machiavelli: la responsabilità del governo va affidata a
élite illuminate garantendo così il mantenimento dell’ordine sociale. Egli intende la sociologia, liberata dalle
componenti utopistiche e ideologiche, come un sapere utile alla politica, proprio perché consente di
scoprire i veri meccanismi dell’agire umano.

1. Le azioni logiche e non logiche

Malgrado faccia uso del modello sistemico, al quale poi si ispirerà anche Parsons, Pareto riconosce
un’importanza determinante agli elementi psicologici non razionali o irrazionali presenti negli attori sociali,
il cui comportamento si propone di osservare da un punto di vista empirico-sperimentale. Pareto è
particolarmente preoccupato di tenere distinto, nelle scienze sociali, il criterio sperimentale da quello non
sperimentale filosofico-metafisico.

Nel suo trattato di sociologia generale Pareto formula i presupposti metodologici della sua teoria:

• La sociologia non cerca verità assolute, le teorie filosofiche, politiche, etiche e religiose vanno
considerate come fatti sociali. Occorre quindi evitare la confusione tra analisi e giudizio di un fatto
sociale.
• La sociologia è fondata sull’esperienza e l’osservazione dei fatti a partire da un’assoluta distinzione
tra i dati dell’esperienza e principi teorici. Le teorie devono attenersi a proposizioni descrittive e
uniformità empiriche. Ogni proposizione scientifica è relativa e valida solo entro i limiti di spazio e
tempo a noi noti.
• La sociologia deve attenersi a considerazioni di tipo quantitativo e statistico anche se tra numero e
peso dei fatti quest’ultimo conta maggiormente.
• L’analisi dei fatti oggetto di studio pone il problema delle fonti, occorre distinguere tra fenomeno
oggettivo e momento soggettivo e tenere presente che colui che osserva è a sua volta
condizionato.
• Nello studio dei fatti sociali si possono cogliere uniformità in base alle classificazioni dei fatti stessi e
per analizzare i processi sociali possono essere utilizzati concetti quali movimenti reali e virtuali,
sistema ed equilibrio

Nell’imponente Trattato, che malgrado i principi in esso affermati contiene spesso giudizi di valore,
l’assunzione quasi fideistica della validità del metodo empirico appare ingenua e ignara dei complessi
problemi connessi al rapporto tra teoria e ricerca empirica e si riflette direttamente nel concetto di azione
logica quale modello di un agire rispondente ai criteri della verifica sperimentale.

L’azione umana viene considerata sintesi di elementi soggettivi connessi alle percezioni e di elementi
oggettivi, propri del fenomeno in sé. Pareto considera le azioni logiche come quelle che presentano una
perfetta corrispondenza tra percezione soggettiva e realtà oggettiva empiricamente determinabile.

L’azione logica appare come un agire che si orienta in modo adeguato al raggiungimento del fine che si
propone. Se il mio fine soggettivo è quello di costruire un ponte e intraprendo tutte le azioni necessarie,
conseguirò effettivamente il fine oggettivo della costruzione del ponte stesso.

Se tutte le azioni sono logiche soggettivamente, oggettivamente capita di rado che lo siano e infatti il
concetto di azione logica serve a Pareto come riferimento per le azioni non logiche, ovvero che non
presentano coincidenza tra fine soggettivo e oggettivo.

• Il primo tipo è quello nel quale non si hanno fini, né oggettivi ne soggettivi, azioni abitudinarie,
meccaniche
• Il secondo tipo ha un fine soggettivo, ma nessuna corrispondenza oggettiva. Azioni per le quali
vengono addotte logiche insensate, come la magia
• Il terzo tipo comprende il tipo puro dell’azione non logica, pur essendoci un fine oggettivo, manca
quello soggettivo, sono azioni istintive, le più simili a quelle animali. Né esistono di due sottospecie
a seconda che il fine oggettivo sia accettato o respinto
• Il quarto tipo di azione non logica comprende quel gran numero di azioni nelle quali vi sono fine
soggettivo e fine oggettivo, ma non coincidono tra loro, come quando mi impegno in una
rivoluzione per un mondo egualitario e ne creo uno totalitario (facile come inciampare, da come la
pone il libro)

Alle azioni non logiche si possono ricondurre tutti quei comportamenti che non nascono da una precisa e
cosciente celta dell’individuo in ordine a un fine concreto, finendo per produrre effetti oggettivi che da lui
potrebbero essere soggettivamente indesiderati.

Talvolta tuttavia l’azione non logica, come la religione, si può usare per fini concreti, come la produzione di
consenso sociale: si parla in questo caso di utilizzazione logica di un’azione non logica.

2. I residui e le derivazioni

Una caratteristica delle azioni non logiche è che non vengono mai riconosciute come tali, perché l’uomo
tende a rivestire di una apparente logicità tutti i suoi comportamenti. Pareto indica tali razionalizzazioni
illusorie con il termine derivazioni, che a suo parere vengono confuse da chi studia il sociale con le vere
cause, site nella psicologia profonda, dei fenomeni. Il rapporto tra momento teorico espressivo e concrete
pulsioni è considerato debole e manca quindi un nesso diretto tra essi. Per influenzare le azioni bisogna
agire sugli impulsi profondi e non sulle derivazioni.

Pareto giunge alle seguenti conclusioni:

• Vi sono nuclei non logici composti di atti e parole


• Da questi nuclei si diramano interpretazioni logiche
• Tali interpretazioni assumono le forme maggiormente in uso nel tempo in cui si producono ma è
difficile indagarne i nessi causali
• Non è per artificio logico che si impongono le azioni non logiche, ma queste impongono gli artifici a
posteriori per giustificarsi.

L’interesse polemico che anima Pareto contro le teorie sociali che non seguono i suoi criteri empirici, in
particolare quelle utopiche socialiste, lo porta a evidenziare la rilevanza che il non razionale ha nella
vita sociale. Il concetto che permette a Pareto di ricondurre ad alcune tendenze costanti la complessa
fenomenologia dell’agire non logico è quello di residuo. I residui non sono riconducibili unicamente a
una base naturale, ma sono ricoperti da ragionamento e come tali, vanno tenuti distinti da gusti,
appetiti, disposizioni naturali.

I residui sono modi di fare consolidati culturalmente ma radicati in una bse istintuale.

Pareto ne distingue sei classi (ed ecco che arriva l’ennesimo elenco puntato):

• Istinto delle combinazioni, o tendenza a porre in relazione fattori diversi


• Persistenza degli aggregati, o tendenza a conservare le relazioni già in essere
• Bisogno di manifestare con atti esterni i propri sentimenti
• Residui in relazione con la socialità
• Residui legati all’integrità dell’individuo
• Residui sessuali

Nella dinamica sociale sono le prime due classi a essere operanti: l’istinto delle combinazioni
rappresenta l’elemento creativo, la persistenza degli aggregati quello conservatore. Pareto percepisce
così indirettamente l’ambivalenza dell’agire sociale.

I residui costituiscono la base reale soggiacente alle derivazioni, la cultura non è quindi per Pareto che
la copertura sovrastrutturale di una realtà più profonda. Tutte le forme culturali non riferibili a teorie
logico sperimentali vengono viste come sciocchezze che però rivestendo inclinazioni e sentimenti reali
hanno una grande influenza. Nelle derivazioni sono compresi ragionamenti, sofisti, manifestazioni di
sentimenti e nella dinamica del sistema sociale, retta secondo il mantenimento dell’equilibrio, la parte
più importante, secondo Pareto, è svolta dai residui, necessari per comprendere l’agire sociale a
differenza delle derivazioni, che non agiscono direttamente sull’equilibrio sociale ma sono indizi di altre
forze.

3. Considerazioni critiche

Pareto ha dato un importante contributo sottolineando le componenti emozionali, non razionali e


irrazionali che agiscono nella dinamica sociale. Tuttavia il suo scetticismo riguardo alla riforma della società
lo porta a non riconoscere le forme simboliche come qualcosa di più di puri rivestimenti di elementi
psicologici, quindi rifiutando la possibilità che siano espressioni della complessità dell’esperienza umana.
Pareto toglie significato all’analisi delle specificità delle forme culturali e impedisce di cogliere la loro
rilevanza nella costruzione della realtà sociale. Il ruolo secondario che da alle derivazioni contraddice il
riconoscimento della loro utilità pratica. Se il ragionamento può portare a livello della pratica a conclusioni
molto vicine ai fatti magari esiste una corrispondenza obiettiva tra derivazioni e realtà. Pareto sembra
notare questa contraddizione ma insiste ad indicare nei residui l’unico fondamento oggettivo dell’efficacia
dei ragionamenti non logici. L’errore paretiano è aver attribuito alle componenti psicologiche un carattere
determinante, in quanto cause delle manifestazioni culturali, senza cogliere che queste sono fattori
costitutivi dell’esperienza psicologica. Si pone così in evidenza il limite di quelle teorie che attribuiscono a
un solo fattore la capacità di determinare i processi sociali.

I rigidi presupposti positivistici incastrano Pareto in un’importanza eccessiva data all’agire razionale
strumentale allo scopo e lo schema riduttivo della razionalità utilitaristica, che Pareto poteva superare con
l’agire non logico, rimane così alla base dell’agire sociale. Il mutamento Sociale in pareto non è mai dovuto
a una trasformazione culturale ma a una diversa dosatura dei residui, nonché dei bisogni funzionali del
sistema. La dinamica sociale è quindi prevalentemente dettata dalle esigenze del sistema.

Domande di fine capitolo

Quale tipo di formazione ha avuto Pareto?

Come si configura in Pareto il rapporto tra economia e sociologia?

Come configura Pareto il sistema sociale e le dinamiche che si esprimono in esso?

Come intende Pareto il rapporto tra individuo e società?

Cosa intende Pareto con il concetto di azioni logiche?

Cosa intende Pareto con il concetto di azioni non logiche e quali tipi esistono?

Cosa sono per Pareto i residui, quanti ne distingue?

Cosa sono le derivazioni e qual è la loro funzione?

Come si spiega il successo di Pareto nel periodo fascista? (Mica l’ha detto nel Capitolo)
Quali valutazioni e quali critiche possono essere formulate rispetto alla teoria Paretiana?

Capitolo 6: Talcott Parsons, la teoria funzionalista

1. Le origini della teoria struttural-funzionalista

Émile Durkheim per indicare la corrispondenza tra un determinato fenomeno sociale e i bisogni generali del
sistema aveva fatto ricorso al concetto di funzione per analogia dalle scienze biologiche. La teoria struttural
funzionalista, formulata da Talcott Parsons prende le mosse dallo stesso concetto. Prima di esporre la sua
teoria dobbiamo ricordare il contributo dato allo sviluppo della teoria funzionalista da due antropologi
culturali anche loro influenzati da Durkheim. L’antropologia cultura studia le forme della cultura umana, i
diversi modi di rappresentare e comprendere la realtà in unità sociali determinate. Insieme all’etnologia, ha
in passato rivolto il suo interesse soprattutto a società “primitive” o “arcaiche” [sigh] basate su
un’economia di sopravvivenza e sulla difesa dall’ambiente e da altre realtà sociali. Ciò spiega perché i
funzionalisti pongono l’accento sul problema dell’ordine e dell’integrazione.

2. La teoria scientifica della cultura

Nella sua opera Teoria scientifica della cultura, l’antropologo inglese Bronislaw Malinowski considerando la
cultura come un tutto coerente, la definisce apparato strumentale atto a risolvere i problemi specifici che
gli individui e le collettività incontrato nella loro ricerca di soddisfare i bisogni.

In questa prospettiva le norme, le consuetudini, le tradizioni culturali sono concepite come risultato
dell’interazione tra bisogni naturali e attività di manipolazione e rifacimento dell’ambiente dall’uomo. Ogni
forma simbolica è quindi una modificazione dell’organismo originario.

Il concetto di funzione viene definito come il soddisfacimento di un bisogno tramite un’attività in cui gli
umani cooperano.

La struttura dei bisogni ha come base ultima l’esigenza della sopravvivenza, che trova espressione negli
imperativi biologici primari: nutrizione, riproduzione, igiene, ecc. Tali imperativi trovano soddisfazione
tramite l’organizzazione culturale e le istituzioni sociali, le quali tuttavia assumono la forma di organismi
sociali con bisogni loro propri, derivati o culturali.

Dal sistema culturale e sociale nascono imperativi strumentali e integrativi, connessi alla produzione
economica, alle attività sociali di controllo e alle attività politiche necessarie alle istituzioni.

Diventa possibile determinare il contesto pragmatico di ogni forma simbolica e definire la funzione di
quest’ultima in relazione alla struttura generale dei bisogni primari e dei bisogni derivati.

Per Malinowski la dipendenza dalle regole culturali è altrettanto forte quanto la sua dipendenza dal
determinismo biologico: la dipendenza dall’apparato culturale diviene la condizione sine qua non, il venir
meno della cooperazione sociale significa distruzione immediata o a lungo andare del senso biologico.

Un modello diverso di funzionalismo è quello di Alfred R. Radcliffe-Brown che, in polemica con Malinowski,
negava di appartenere alla scuola funzionalista. In Radcliffe Brown la funzione viene considerata in modo
più diretto nella sua relazione con il sistema sociale: la funzione è il contributo di un’attività parziale
all’attività totale di cui è parte.
In questa direzione anche Parsons svilupperà la sua teoria struttural-funzionalista. Ogni elemento
particolare della realtà sociale trova la sua spiegazione nel quadro delle attività finalizzate al funzionamento
del sistema. Radcliffe-Brown preferisce usare al posto di cultura il termine struttura sociale, elemento
necessario per il funzionamento del sistema stesso. Il concetto di struttura rinvia all’insieme delle relazioni
sociali in quanto fondate su obblighi normativi propri di una determinata società.

In questo modo Radcliffe-Brown modifica l’elemento più debole della costruzione di Malinowski, ossia il
riferimento causale alla struttura dei bisogni biologici. Il bisogno biologico non appare mai come dato
immediato e univoco ma è sempre in parte il prodotto di una mediazione simbolica. Il bisogno nasce
sempre all’interno di un insieme di significati culturali complessi, fissando il modo del suo soddisfacimento,
secondo criteri non solo strumentali ma anche espressivi, collegati alle rappresentazioni collettive.

Il rapporto natura cultura non è di causa effetto, ma relazione circolare interdipendente.

Se è vero che in Malinowski viene riconosciuta la specificità degli effetti prodotti dal sistema culturale,
quest’ultimo è però sempre interpretato come prodotto derivato dalla base biologica. Oltretutto il
soddisfacimento di un bisogno può essere ottenuto tramite una pluralità di forme diverse, secondo il
principio dell’equivalenza funzionale uno stesso bisogno può essere soddisfatto da funzioni diverse. La
complessità del sistema sociale rende impossibile cogliere nessi univoci di causalità.

Malinowski poi osserva come il venir meno del momento normativo sia sempre distruttivo a lungo andare
sul corpo sociale ma ignora la ambivalenza della struttura sociale, che in forme eccessivamente rigide di
mediazione simbolica crea effetti altrettanto distruttivi.

Il funzionamento di un’istituzione può quindi diventare fine a sé stesso e non più funzionale.

3. L’itinerario intellettuale di Talcott Parsons

Talcott Parsons ha dedicato l’intera vita all’ambizioso disegno di sviluppare una teoria generale dell’azione
sociale. Egli intendeva dare un’impostazione sistematica alla sociologia, pur riconoscendo che la sua teoria
era solamente una tappa nella sua evoluzione. Riteneva di aver consolidato in maniera decisiva le basi per i
futuri sviluppi della disciplina.

Nato nel 1902 a Colorado Spring, figlio di un pastore protestante, ha avuto una formazione profondamente
puritana. Nel periodo dei suoi studi universitari egli si orienta inizialmente verso lo studio della biologia e la
professione medica ma a partire dal 1923 si interessa alle scienze sociali e all’economia, leggendo le opere
di sociologi americani quali Veblen, Sumner, Cooley, nonché quelle di sociologi europei come Durkheim e
Weber. Finita l’università, Parsons i reca alla London school of economics dove insegnavano Morris
Ginsberg, Leonard Hobhouse, Harold Laski, Malinowski e Radcliffe Brown, da cui Parsons fu attratto
particolarmente. Nel 1925, ottenuta una borsa di studio a Heidelberg, egli approfondisce Weber, Marx,
Sombart e Kant attraverso Jaspers, dal quale si ispirerà per le indicazioni epistemologiche.

La sua prima importante opera viene pubblicata nel 1937 e si chiama La struttura dell’azione sociale.

Al suo ritorno negli stati uniti, Parsons ottiene un posto di docente nella prestigiosa università di Harvard
dove nel 1931 viene creato il dipartimento di sociologia sotto la direzione di Pitirim Sorokin, con la quale
non sarà mai in sintonia. Il dipartimento diventa presto un importante centro di studi e attorno a Parsons si
raccolgono numerosi giovani sociologi. Nel 1946 viene istituito a Harvard il dipartimento di relazioni sociali
diretto da Parsons che nel 1949 verrà eletto presidente dell’American Sociological Association.

Nel 1951 Parsons pubblica il sistema sociale e toward a general theory of action. Quest’ultimo raccoglie i
diversi contributi di alcuni noti sociologi, psicologi e antropologi culturali. Tra gli anni Cinquanta e il 1979,
anno della sua scomparsa, Parsons ha prodotto un vasto insieme di libri e di saggi. Nella corposa
produzione di Parsons vengono distinti tre periodi:
• Nel primo periodo Parsons si ricollega alla grande tradizione teorica della sociologia Europea, con
riferimento a Durkheim, Weber, Pareto e all’economista Alfred Marshall, riprendendo anche il
funzionalismo di Malinowski e di Radcliffe-Brown, sviluppando la teoria volontarista dell’azione
sociale.
• Nel secondo egli formula la teoria generale dell’azione e del sistema sociale, individuando in
particolare quattro imperativi funzionali di ogni sistema sociale e le variabili dei modelli.
• Nel terzo periodo, applica il suo schema teorico a vari aspetti della realtà sociale come l’economia,
la socializzazione, la famiglia e la politica, ispirandosi anche a Freud.

Cerca anche di conciliare la sua teoria con la cibernetica e sviluppa un’analisi di tipo evolutivo delle
trasformazioni intervenute nella società, riprendendo Herbert Spencer che aveva in passato criticato.

4. La teoria generale dell’azione sociale

Parsons ha percepito sin dall’inizio la necessità di ricondurre l’analisi dei fenomeni a un paradigma
concettuale generale di riferimento che creasse continuità tra i risultati del gran numero di ricerche
empiriche che erano nate negli Stati Uniti. Secondo Parsons, l’osservazione della realtà sociale può
progredire solo se è orientata da uno schema teorico ampio abbastanza da consentire l’interpretazione di
fatti sociali. La teoria indica gli aspetti che si devono approfondire quando si vuole comprendere la
dinamica dei processi sociali e svolge quindi un ruolo attivo di promozione e chiarimento. Non esiste alcuna
conoscenza empirica che non sia formata attraverso concetti. Questa impostazione viene definita realismo
analitico ed è ispirata a Kant; rifiuta l’idea della conoscenza come rispecchiamento oggettivo. Parsons tende
a considerare le categorie concettuali che formula come universali e immutabili, ciò ha comportato una
certa rigidità dello schema concettuale e la sua tendenza a sottovalutare le ambivalenze.

Nel suo intento di sviluppare una teoria generale dell’azione sociale, Parsons denuncia i limiti del modello
behaviorista o comportamentista, ovvero le teorie che analizzavano l’agire umano nei termini etologici
dello stimolo-risposta. Assume una posizione critica tanto della tradizione utilitarista che vede l’individuo
mosso dal calcolo razionale quanto del determinismo proprio delle teorie marxiste che consideravano
l’agire umano riflesso di condizionamenti economici. Parsons definisce volontarista la sua teoria dell’azione,
perché tiene conto sia delle condizioni ambientali oggettive sia delle componenti psicologiche fondate non
solo su interessi ma anche su valori morali ed estetici.

Nell’opera la struttura dell’azione sociale Parsons trae dalla teoria di Weber il concetto di azione sociale
come agire dotato di senso che tiene conto dell’agire altrui. L’agire è quindi considerato sotto una lente
finalistica (razionale da scopo). Come in Weber, anche Parsons riconosce però il condizionamento dell’agire
dai modelli sociali del contesto di appartenenza. D’altra parte, concepisce anche l’agire individuale come in
Durkheim, che lo considerava originariamente asociale ed egoista. Da qui l’importanza del tema del
controllo e dell’orientamento dell’agire in base a valori sociali interiorizzati.

Parsons definisce l’azione sociale nei seguenti elementi:

• Il soggetto o attore sociale, motivato dai significati che scopre nel mondo esterno. Individuo,
gruppo, collettività
• La finalità dell’azione, il risultato verso cui è orientata
• La situazione, condizioni oggettive e mezzi entro i quali si sviluppa l’azione. Le condizioni non
possono essere influenzate dagli attori, i mezzi si
• L’ordine simbolico, insieme di rappresentazioni e modelli culturali che orientano l’agire

Il sistema dell’azione è costituito dai rapporti tra attore, situazione materiale, forme simboliche e altri
attori. Il rapporto con le condizioni ambientali e con le risorse può essere analizzato dall’attività che il
soggetto sviluppa nei processi di trasformazione e produzione nel modo attivo e dall’adattamento
all’ambiente esterno nel modo passivo. La stabilità dei rapporti è assicurata dall’insieme dei modelli di
comportamento che, istituzionalizzati a livello sociale e interiorizzati a livello individuale sono alla base
dell’integrazione e fondano la possibilità di regolare le aspettative in base a un sistema di doppia
contingenza.

5. Sistemi d’azione: sistema della personalità, della cultura, sistema sociale

Per analizzare l’agire sociale Parsons ricorre al concetto di sistema, che ricalca sul modello del sistema in
equilibrio di Pareto. Un sistema si costituisce quando vengono a stabilirsi relazioni privilegiate di
interdipendenza tra più elementi, in modo tale che l’insieme di questi elementi possa essere distinto da un
altro insieme o da un altro sistema. Una nazione come un gruppo hanno relazioni particolari e si orientano
verso finalità specifiche, distinguendosi.

Secondo il presupposto paretiano, ogni sistema è orientato alla propria conservazione e al mantenimento
della propria coesione nel rapporto con l’ambiente esterno, rappresento dall’ambiente naturale e da altri
sistemi. La dimensione strutturale va riferita alle relazioni relativamente stabili tra quegli elementi
essenziali, nonché alle relazioni codificate all’interno del sistema. Le funzioni riguardano invece le attività
che assicurano il mantenimento delle strutture. Un determinato sistema d’azione può essere analizzato
come unità dal punto di vista del rapporto con l’esterno, sia da quello dei problemi che nascono
dall’esigenza della sua organizzazione interna. Inoltre, può essere considerato nei termini degli scopi che
persegue e dei mezzi di cui dispone.

A partire dalle quattro categorie esterno/interno, scopi/mezzi perviene alla definizione dei quattro
imperativi o prerequisiti funzionali che ogni sistema d’azione deve risolvere per potersi mantenere in vita.
Tali imperativi rappresentano la dimensione strutturale di base.

I quattro imperativi funzionali sono:

• L’adattamento, l’insieme dei rapporti tra il sistema e l’ambiente esterno, attraverso cui si traggono
le risorse dall’esterno che si indirizzano verso i propri scopi e si producono oggetti o attività che
possono essere scambiate con l’esterno. Comprende tutte le attività volte a controllare e
modificare l’ambiente esterno.
• Conseguimento degli scopi, connesso con il variare del rapporto tra sistema e ambiente o dei
rapporti interni all’organizzazione del sistema, con lo scopo di indirizzarlo verso i suoi scopi.
Rientrano le capacità volte a mobilitare energie e risorse del sistema
• Mantenimento delle strutture latenti, che assicura valori e significati necessari ad orientare l’azione
garantendone la stabilità attraverso norme e modelli istituzionalizzati. Comprende i meccanismi
fondamentali di socializzazione degli attori e si parla di strutture latenti in quanto possono operare
indipendentemente dalla coscienza che se ne ha; una volta introiettate possono sembrare
comportamenti istintuali.
• Integrazione, che permette di equilibrare i diversi comportamenti del sistema e i suoi sottosistemi,
armonizzandoli coerentemente e controllando, anche attraverso sanzioni, le spinte perturbanti che
si presentano al suo interno.

Questo modello è chiamato AGIL (Adaptation, Goal, Integration, Latency)

All’interno del sistema generale dell’azione Parsons distingue inoltre quattro sottosistemi:

• Organismo biologico comportamentale, energia fisica di base del sistema nel rapporto con
l’ambiente naturale, funzione di adattamento
• Sistema delle personalità, capace di organizzare le risorse disponibili per raggiungere le finalità,
conseguimento degli scopi
• Sistema della cultura, insieme delle rappresentazioni, collegato al mantenimento dei modelli
• Sistema sociale, insieme di status e ruoli all’interno dei quali viene definito l’agire sociale,
corrispondente all’integrazione.

L’organismo biologico è oggetto delle scienze biologiche, il sistema delle personalità della psicologia sociale,
il sistema della cultura l’antropologia sociale e quello del sistema sociale della sociologia.

Ognuno di questi sottosistemi deve risolvere a sua volta i quattro imperativi funzionali e pertanto ciascuno
di essi ha quattro sottosistemi.

Quelli del sistema sociale sono:

• Il sottosistema economico, adattamento


• Il sottosistema politico, conseguimento degli scopi
• Il sottosistema della socializzazione, mantenimento dei modelli
• Il sottosistema della comunità societaria, integrazione

La dinamica dei rapporti si basa sullo scambio di prestazioni e comunicazioni tra i vari sistemi e degli
eventuali conflitti che possono sorgere tra di essi. Il sistema della personalità è per quello sociale una fonte
di energia, l’orientamento delle attività individuali viene ottenuto tramite il sistema della cultura che ha i
modelli necessari per l’integrazione dei comportamenti.

Secondo questa prospettiva, il sistema sociale appare come una costellazione di posizioni (status) connesse
ai ruoli tramite i quali l’energia del sistema viene incanalata in modo funzionale al mantenimento del
sistema. Il ruolo, insieme coerente di modelli di comportamento diventa in Parsons punto d’incontro del
sistema delle personalità con quello della cultura.

6. Le variabili dei modelli

Parsons ha voluto arricchire il modello in base agli imperativi funzionali con alcune categorie tratte
dall’individuazione di modalità fondamentali di ogni tipo di agire, a partire dal presupposto che le scelte
dell’attore sono sempre effettuate in un clima di rarità ogni attore deve distribuire le proprie azioni tra
diversi tipi di aspettative e diverse opportunità. Occorre sempre scegliere tra una serie di possibilità, che
Parsons ritiene di poter esaurire in cinque alternative fondamentali:

• Affettività/neutralità affettiva, a seconda che l’azione comporti dimensioni emotive o sia


caratterizzata in senso formale
• Orientamento verso il sé o verso la collettività, a seconda che l’attore si orienti verso finalità
personali o di interesse collettivo
• Universalismo/particolarismo, a seconda che l’attore scelga criteri di carattere generale o invece
criteri connessi a situazioni di tipo particolare
• Realizzazione/attribuzione a seconda che l’attore sia mosso da considerazioni di efficacia e utilità
dell’oggetto perseguito oppure di qualità
• Specificità/diffusione a seconda che l’attore instauri rapporti con altri in considerazione delle loro
particolari capacità, oppure in modo globale.

Le variabili dei modelli permettono di articolare una complessa tipologia delle varie forme di azione e dei
diversi tipi di aspettative nonché di differenti tipi di società a seconda della prevalenza delle stesse. In
riferimento a tali variabili è possibile individuare scompensi o tensioni presenti nelle interazioni e nello
scambio comunicativo, nel caso in cui la scelta vada in contrasto con le aspettative e i modelli codificati.

7. L’evoluzione della società moderna

Nella sua analisi dei processi di cambiamento sociale intervenuti nella società moderna, ho voluto collegare
la teoria dell’evoluzione socioculturale con la moderna teoria dell’evoluzione naturale. Secondo Parsons è
infatti possibile individuare alcune tendenze evolutive universali analoghe a quelle presenti nell’ambito
biologico. Il progressivo affermarsi nella società moderna di forme universali del diritto, lo sviluppo
dell’economia di mercato e dell’organizzazione di tipo burocratico costituiscono tendenze evolutive
universali, che possono essere studiate anche stabilendo un parallelo con i processi biologici di
riproduzione e variazione dei genotipi e di costruzione e selezione dei fenotipi.

Come la teoria della selezione biologica costituisce la base dell’evoluzione naturale, così la teoria
dell’istituzionalizzazione e dell’interiorizzazione dei valori costituisce la base della teoria dell’evoluzione
socioculturale nella quale la selezione è attuata dal sistema dei valori e dalla definizione degli scopi. In tale
modello emerge anche la dimensione volontarista dell’azione che opera nella formazione delle comunità e
nei processi di fondazione delle norme. Sulla base del presupposto dell’interscambio tra i quattro
sottosistemi (economico, politico, socializzazione, comunità societaria) Parsons tende a definire i processi
di cambiamento nei termini di una crescente universalizzazione dei valori di base, come il modello
democratico e il riconoscimento dei diritti, la parità dei sessi. Una progressiva differenziazione strutturale e
un incremento adatti.

Con differenziazione intende l’accentuarsi dell’autonomia di ciascuno degli ambiti di significato: mentre
nelle società premoderne c’era una stretta unione e disposizione gerarchica tra religione, sapere, politica,
diritto ed economia, nelle società moderne ciascuno di questi viene a specializzarsi nelle sue funzioni,
sviluppando rappresentazioni relativamente indipendenti. Ciò comporta tuttavia anche un incremento
adattivo nei rapporti di scambio reciproco tra i vari sottosistemi, nel senso che ogni sistema deve adattarsi
a rispettare la relativa autonomia degli altri sistemi.

Tale processo è senz’altro positivo per l’aumento delle libertà individuali e dell’uguaglianza sociale, pur
riconoscendo i problemi dell’aumento di complessità delle società universalistiche e differenziate come
deprivazione affettiva, socializzazione inadeguata, formazione delle identità, aumento della devianza.

Parsons sembra nutrire una fondamentale fiducia nella capacità della società di superare queste possibili
deformazioni psicologiche.

8. Considerazioni critiche

La teoria di Parsons si rivela una descrizione molto ricca dei diversi elementi in gioco nella realtà sociale e
può costituire uno strumento assai utile per orientare la ricerca empirica. Il limite della teoria è insito nel
suo carattere prevalentemente descrittivo-concettuale e nel carattere riduttivo dei suoi modelli esplicativi
che riproducono gli inconvenienti di Malinowski e Radcliffe-Brown, relativi al problema del rapporto di
causalità instaurato tra funzioni e strutture costitutive del sistema. Ciò che sembra mancare è il riferimento
ai processi che generano sia le strutture del sistema sociale sia i significati e i valori del sistema della
cultura. Parsons considera l’agire sociale nei termini del problema dell’adattamento e dell’integrazione di
individui dal comportamento potenzialmente disordinato e distruttivo. La soluzione di tale problema viene
indicata nell’interiorizzazione di valori e modelli culturali definiti. La mancata tematizzazione del momento
genetico provoca in Parsons l’assolutizzazione degli imperativi funzionali del sistema mentre anche il
sistema è prodotto di rappresentazioni culturali.

Parsons finisce per dare prevalenza al sistema sociale come tale. L’azione viene a essere concepita come
semplice energia da incanalare in senso funzionale. Il tentativo di stabilire un raccordo tra teoria sistemica e
teoria dell’azione può dirsi fallito, perché le istanzi presenti nella prima finiscono per eliminare le
dimensioni specifiche dell’azione.

Come in Durkheim il punto focale di tutta l’analisi sociologica è il problema dell’ordine e del mantenimento
della determinatezza, senza che vengano presi in considerazione gli aspetti distruttivi che possono derivare
dall’assolutizzazione dell’ordine.
L’individuo appare sempre come fonte di energie tendenzialmente centrifughe costrette, attraverso premi
e punizioni, in direzioni funzionali per il sistema.

Stabilendo un parallelo fra potere e denaro, Parsons concepisce il potere come garanzia dell’efficienza del
sistema. Se a differenza di Durkheim pone in rilievo la dimensione Weberiana di decisione e di eccezionalità
del potere l’accento da lui posto sul problema del mantenimento del sistema gli impedisce di cogliere la
dimensione negativa contenuta nel cristallizzarsi di istituzioni politiche. Avendo inteso l’integrazione in
senso unicamente positivo, senza mostrare che le forme di determinazione sono esse stesse causa di
continui conflitti. Nel rapporto tra forme di mediazione e agire non è soltanto quest’ultimo a provocare
disordine, ma la stessa forma di mediazione per il suo carattere riduttivo, induce al disordine.

Ogni comportamento deviante rispetto agli ordini costituiti tende a essere considerato un elemento
soltanto negativo e non un momento di apertura verso eventuali processi di trasformazione. L’ottimismo
che Parsons nutre circa lo sviluppo della società deriva dall’unidimensionalità della sua teoria che
sottovaluta le tensioni nel rapporto tra l’ordine delle determinazioni simbolico normative e le istanze
presenti a livello dell’azione sociale.

Il sociologo statunitense Merton ha sviluppato la sua critica nei confronti del funzionalismo di Malinowski e
Radcliffe Brown, mettendo in evidenza tre postulati alla base delle loro teorie:

• Il postulato dell’unità funzionale per cui ogni attività e ogni forma culturale standardizzata hanno
un significato funzionale sia per la società che per l’individuo, contraddetto da società con diversi
livelli di integrazione, da valenze contradditorie che all’interno di una società può avere la stessa
funzione.
• Il postulato del funzionalismo universale, per cui ogniqualvolta incontriamo una forma sociale o
culturale standardizzata questa deve avere una funzione positiva per la vita del sistema,
contraddetta dal fatto che esistono forme residue da situazioni storiche precedenti e non più
funzionali
• Il postulato dell’indispensabilità, ogni funzione vitale rappresenta una parte indispensabile. È
possibile invece dimostrare che storicamente le funzioni necessarie per la sopravvivenza del
sistema possono essere assicurate da strutture diverse per il principio di equivalenza funzionale.

L’analisi funzionalista non comporta di per sé necessariamente un impegno ideologico conservatore o


progressista e Merton propone l’importante distinzione tra funzioni manifeste e latenti, che evidenziano il
divario tra motivazioni soggettive e conseguenze oggettive. Occorre quindi distinguere tra ciò che viene
coscientemente perseguito e ciò che un’istituzione dice ufficialmente di essere da ciò che rappresenta
conseguenze non conosciute ma oggettivamente funzionali.

Un determinato elemento può avere conseguenze funzionali e disfunzionali, a seconda degli aspetti
attraverso cui viene riferito. La devianza può essere indotta da un troppo forte divario tra le mete ideali e i
mezzi effettivi che quest’ultimo è in grado di fornire.

Merton promuove teorie a medio raggio, ovvero limitate ma applicabili ad aspetti specifici, senza negare la
possibilità che una futura codificazione omogenea dei risultati ottenuti permetta di approdare a modelli
teorici più ampi.

9. Il neofunzionalismo

A partire dagli anni ottanta del novecento si è assistito al tentativo di alcuni sociologi di riprendere la
prospettiva teorica parsoniana, cercando di attenuare i limiti e di correggerne i difetti , in particolare
riguardo alla dimensione del cambiamento sociale, alla pluralità delle risorse culturali e alle contraddizioni
presenti nella dinamica sociale. Parsons ha costituito un riferimento importante per Jurgen Habermas e
Niklas Luhmann. Quest’ultimo, ribaltando il paradigma dando primato alla funzione rispetto alla struttura
passa da struttural funzionalista a funzional-strutturalista. È stato definito neostrutturalista, ma la
complessità delle sue teorie mal si sposa con questa definizione.

La continuità e il rinnovamento della prospettiva teorica di Parsons vanno ricercate in Jeffrey Alexander, un
sociologo americano che ha dedicato a una rilettura di Parsons un volume chiamato The Modern
Reconstruction of Classical Thought: Talcott Parsons. Alexander si è proposto di sviluppare una logica
teoretica in grado di chiarire gli equivoci di fondo ancora presenti nella teoria, partendo dalla convinzione
che una teoria solida sia necessaria a una sociologia solida.

La conoscenza scientifica si colloca lungo un continuum avente per estremi la metafisica e l’osservazione
empirica. Tra i due estremi esiste interdipendenza, ma occorre individuare dei livelli intermedi: presupposti
generali, orientamenti ideologici, modelli teorici, concetti, definizioni, classificazioni, proposizioni semplici e
complesse, assunzioni metodologiche, rilevazioni empiriche.

La confusione tra questi diversi livelli ha creato profondi equivoci. Alexander ripropone i concetti di azione
e di ordine sociale in un approccio multidimensionale che tenga conto del carattere razionale e non
razionale dell’azione, della dimensione volontarista e dei condizionamenti esterni.

La rilettura critica che Alexander fa di Parson tende a utilizzare il paradigma concettuale di quest’ultimo,
eliminando le connessioni causali troppo rigide per renderlo più aperto alla complessità e alla contingenza
storica.

Domande di fine capitolo

Quali sono gli autori che hanno maggiormente influenzato il pensiero di Parsons?

Come configura Parsons il concetto di funzione e quali sono le origini di questo concetto?

Come definisce il concetto di azione sociale e quali elementi sono presi in considerazione?

Qual è il concetto di sistema di cui fa uso Parsons e quali tipi di sistema e di sottosistemi egli prende in
considerazione?

Quali tipi di rapporto intercorrono tra i diversi sistemi e sottosistemi?

Cosa intende Parsons per imperativi funzionali del sistema e come caratterizza ciascuno di essi?

Qual è la funzione analitica delle variabili dei modelli e quante ne distingue Parsons?

Cosa intende Parsons per doppia contingenza?

Come si sviluppa il processo di progressiva differenziazione che ha investito la società moderna?

Quali riconoscimenti ha avuto la teoria parsonsiana e quali critiche sono state mosse a essa?
Capitolo 7: Lo strutturalismo
7. Il poststrutturalismo nella teoria sociologica: Michel Foucault

La posizione teorica del filosofo e sociologo francese Michel Foucault può essere vista come un tentativo di
applicazione del modello strutturalista all’analisi dei fenomeni sociali e alle dinamiche del potere.

Il punto di partenza può essere individuato nella critica di Nietzsche al razionalismo e in quella di Heidegger
all’umanesimo, nonché in una radicalizzazione del relativismo dello storicismo tedesco. Il problema che
Foucault affronta è il rapporto che intercorre tra pensiero e linguaggio e la situazione del soggetto parlante.

Il concetto essenziale p l’episteme, sistema coerente di concetti e d i valori tramite il quale una determinata
epoca storica interpreta sé stessa. L’ordine del discorso si costituisce con la pratica economica, politica e
istituzionale propria di un determinato contesto. L’episteme non è solo la matrice delle modalità di
enunciazione dei concetti particolari, ma è anche la fonte di produzione degli oggetti e dei soggetti. A
differenza chè in Levi Strauss, non vi è in Foucault alcuna struttura universale dello spirito umano, ma
esistono solo particolari di epistemai storiche determinate. Rispetto a Levi strauss resta invariato il primato
della struttura sulle diverse modalità concrete.

Foucalt intende dimostrare che l’individuo non è che il prodotto recente del razionalismo sviluppatosi nel
seicento mentre l’epoca contemporanea vede la fine dell’individuo.

L’idea di una continuità della storia è legata all’idea del soggetto, ma sono entrambe fittizie dal momento
che il passaggio dall’una all’altra avviene per fratture epistemologiche che non danno spiegazione del
succedersi delle epistemai stesse. Il divenire dell’umanità è una serie di interpretazioni, a storia non è
quindi un processo unilineare e Foucault preferisce parlare di archeologia del sapere. I dati storici appaiono
come reperti. Nello storicismo anti-individualistico le forme del sapere si riproducono in modo autonomo,
indipendentemente dal soggetto umano, dando luogo a forme di realtà discontinue tra loro. L’individuo
stesso è visto come prodotto del linguaggio, da cui siamo dominati.

Non vi è alcuna possibilità di riferimento a una razionalità assoluta, ma esistono diverse forme di razionalità
a seconda delle epoche. Nell’epoca del razionalismo classico la ragione comincia a aessere intesa secondo il
modello strumentale dell’operare conforme a un fine. Tae concetto di razionalità viene affermandosi a
partire dalla scissione tra razionalità e follia. La prima viene collegata a criteri di efficienza produttiva, la
seconda viene identificata con un divagare senza senso.

Questa rigida distinzione da luogo alle istituzioni manicomiali che sotto l’etichetta di assistenza pubblica
costituiscono forme di rimozione e di controllo della devianza, orientate a normalizzare l’integrazione dei
diversi nell’ambito dell’efficienza produttiva.

La sua critica della razionalità strumentale ne denuncia il carattere riduttivo e violento e i diversi e gli
esclusi, estranei all’efficienza produttiva, appaiono come i proletari in Marx gli unici capaci di sviluppare
un’alternativa. Questa critica si viene poi a riconfermare nella sua critica del potere, considerato principio
attivo che non solo crea forme del sapere ma determina modalità di produzione economica.

L’analisi della genealogia del potere è una forma di storia che renda conto della costituzione dei saperi e dei
campi senza doversi riferire a un soggetto trascendente. Criticando le concezioni giuridiche del potere
Foucault propone di sviluppare un’analisi dell’insieme delle pratiche e delle procedure che costituiscono il
potere come sistema di controllo interno alle forme del sapere. Si possono così mettere in evidenza i
dispositivi del potere, quei meccanismo che la microfisica del potere rivela e che sono tanto più efficaci
quanto interni al tessuto stesso della socialità. Il controllo della sessualità che è al tempo stesso produzione
della sessualità mostra il corpo come punto privilegiato di attacco al potere.

Il potere in se non è una forma di interdizione, né solo istituzione o struttura ma qualcosa che circola
attraverso un’organizzazione reticolare; non solo elemento negativo di repressione ma rete produttiva che
attraversa i corpi senza che sia possibile individuare un centro o un responsabile diretto della repressione. È
quindi diffuso e le relazioni che crea non sono mai esterne rispetto ad altri tipi di rapporto. Il potere è
immanente e non si esprime solo in una relazione tra dominante e dominato ma in multipli di relazioni in
cui non esiste un esterno assoluto.

Per l’analisi del potere non è più sufficiente studiare solo l’apparato dello stato, né soltanto le strutture
economiche della proprietà ma occorre cogliere i meccanismi polivalenti di controllo nei documenti degli
enti, nei processi, negli apparati scolastici e nelle forme organizzative di ospedali, carceri e manicomi. Lo
stato è il punto di appoggio della tecnologia del potere, ma anche risultato delle strategie di governo.
Foucault si oppone a ogni forma di potere ma la lotta contro il potere non è libera: la logica del potere è
presente anche nei suoi antagonisti. Per Foucault a differenza di Marx, non esiste un possibile salvatore e
non esiste vera contestazione del potere. Poiché la lotta contro il potere ha per scopo renderlo visibile e
attaccarlo dove è più invisibile e insidioso Foucalt pensa la contestazione del potere come destrutturazione
continua dei suoi dispositivi, senza sostitutivi ristrutturanti o riformismi. La destrutturazione deve colpire i
processi di costituzione dei discorsi, le forme istituzionali, i soggetti. Vista la natura onnipresente del potere
l’unica via d’uscita è una negatività distruttiva che sia pura è permetta di uscire dai processi di produzione
della verità, impedendo al potere di transitarvi.

Il discorso sulla genealogia del potere di Foucault tende a sfociare in una sorta di esaltazione di tipo mistico
anarchico dell’indeterminato contro il determinato, diametralmente opposta a quella di Durkheim che
vuole preservare l’ordine contro l’instabilità.

Domande di fine capitolo

Qual è la definizione di episteme in Foucault e come concepisce egli il processo storico?

In che modo Foucault elabora il concetto di potere?


Capitolo 11: L’interazionismo simbolico

1. George H. Mead

Nella teoria dell’azione sociale di Weber il riferimento al senso soggettivamente intenzionato e alle forme
culturali in cui il senso comune viene codificato ha un’importanza essenziale per la comprensione dell’agire
e per stabilite uniformità empiriche (tipi ideali) del comportamento sociale. Weber non aveva approfondito
il problema dei modi attraverso i quali si costituiscono i significati condivisi. George Herbert Mead (1863-
1931) svilupperà la teoria poi definita interazionismo simbolico, che ha elementi che si avvicinano sia al
funzionalismo sia allo strutturalismo. Egli analizza l’analisi dei processi di costituzione della soggettività e
dei significati simbolici ed essa può essere considerata in continuità con la teoria weberiana dell’agire
sociale. L’insegnamento di Mead era venuto sviluppandosi nell’università di Chicago, dove era attivo sin dal
1892 il dipartimento di sociologia fondato da Albion Small. Ci lavoravano Robert E. Park e William T.
Thomas, che aveva impostato la ricerca sociale come analisi degli atteggiamenti e dei valori che
influenzavano il comportamento sociale, sulla base del concetto di attenzione come atteggiamento
mentale che prende nota del mondo esterno e lo manipola e della definizione della situazione ossia delle
rappresentazioni in base a cui gli individui valutano una determinata situazione e si preparano ad agire.

Secondo Thomas, per interpretare l’agire sociale non è importante cercare dati oggettivi di una situazione
sociale, ma conoscere le percezioni soggettive in base alle quali un certo aspetto viene ritenuto reale: se gli
uomini definiscono certe situazioni come reali, esse saranno reali nelle loro conseguenze.

Un altro sociologo, Charles Horton Cooley, sottolinea l’importanza delle immagini che gli individui hanno di
sé e degli altri, in quanto elementi costitutivi della realtà sociale. Analizzando la dinamica dei rapporti che
egli definisce primari, ovvero dei gruppi in cui le relazioni sono di tipo diretto e personalizzato, Cooley aveva
mostrato che l’esperienza aveva un’importanza determinante riguardo al modo in cui gli individui
percepivano sé stessi e gli altri. Mead sviluppa la teoria dei processi di interazione in un contesto culturale
caratterizzato dal prevalere, in psicologia, della teoria comportamentista di John B. Watson e di quella
pragmatista di William James e in filosofia del pensiero pragmatista di Charles S. Peirce e di John Dewey.

Mead aveva studiato durante un viaggio in Germania nel laboratorio di psicologia di Wundt, fondatore della
Volkerpsychologie e aveva avuto contatti con Wilhelm Dilthey. È inoltre influenzato dalle ricerche sullo
sviluppo infantile di James Baldwin, dalla Gestaltpsychologie di Alexius von Meinong e di Wolfgang Kolher,
dalla teoria dell’imitazione di Gabriel Tarde.

Pur definendo la sua teoria comportamentismo sociale, Mead assume una posizione critica nei confonti del
riduzionismo behaviorista, che limitava l’analisi scientifica solo alle manifestazioni esterno. Già William
James aveva dimostrato che il rapporto tra soggetto e oggetto deve essere considerato come un processo
di interazione tra dimensioni non separabili. Il comportamento osservabile ha sempre anche una
dimensione interna all’individuo che è in rapporto di continuità con quelle esterne. Mead ritiene che il sé
soggettivo debba essere spiegato a partire dal processo sociale.

2. Mente, sé, società

Al centro della riflessione di Mead è il problema dei processi in base ai quali si creano i soggetti sociali (self),
emerge la dimensione della mente e del pensiero (mind) e si forma l’organizzazione sociale (society).
Queste tre dimensioni sono aspetti di un tutto unico, senza che si possano considerare separatamente. La
percezione non è solo organizzazione di elementi separati, ma esperienza unitaria e il rapporto individuo
mondo, interno esterno ha la sua fase iniziale negli atteggiamenti interni, che hanno però a loro volta
elementi originati dall’esterno.

Gli stessi significati e atti individuali vanno compresi nel più ampio contesto relazionale costituito
dall’insieme dei rapporti sociali. La società come totalità è anteriore all’individuo, non ne è parte.

Mead considera l’atto sociale come un tutto, non come nel comportamentismo in base al solo schema
stimolo-risposta ma anche come processo organico complesso, in cui ogni elemento può essere compreso
solo nella sua interazione circolare.

Mead imposta la sua teoria considerando il fenomeno della gestualità, già studiato da Wundt. La vita
sociale è resa possibile dall’interazione tra individui a sua volta resa possibile dalla comunicazione di
significati comuni. L’espressione più elementare della comunicazione è il gesto. Attraverso un gesto si
esegue un comportamento e si attende una reazione, un altro gesto, dall’esterno, al quale poi segue una
nostra reazione gestuale. Questo ambito interattivo è la realizzazione di un atto sociale comune che può
essere considerato fatto primario dal quale si possono spiegare i comportamenti.

Il gesto è al tempo un atteggiamento esterno osservabile e uno interno che però, in quanto reazione a uno
stimolo, ha un carattere automatico non intenzionale. Anche l’uomo può avere gesti non intenzionali ma
secondo Mead il gesto umano è quasi sempre connesso a un comportamento cosciente e quindi a una
intenzionalità riflessiva: il gesto esprime significato e diventa simbolo, trasformandosi in linguaggio.

Se il gesto è un adattamento reciproco di tipo automatico la comunicazione cosciente e significativa prende


la forma del linguaggio. Quando un individuo indica con un suo gesto ciò che si attende da lui egli diventa
consapevole del significato che il suo gesto ha per l’altro e quindi è in grado di applicare il significato
riflessivamente anche al suo gesto, fatto determinante per la comprensione dei processi attraverso cui si
creano senso comune e attività riflessiva della mente. Il pensiero nasce quando l’individuò può sviluppare
con sé stesso una conversazione interiorizzata. Senza rapporto sociale o linguaggio non vi sarebbe neppure
pensiero, Mead dimostra così il suo assunto iniziale, ovvero l’intima connessione tra interno ed esterno che
caratterizza l’agire umano. La base del senso comune è l’interazione sociale, ma il fatto che io possa
coscientemente oggettivare tale significato, astraendolo dalla reazione immediata dell’altro, mi consente di
universalizzare il significato e di elaborarlo autonomamente, sullo sfondo di un contesto generale di
riferimento, che Mead chiama l’altro generalizzato. Il gesto simbolico o linguaggio permette di scegliere i
significati e controllare la comunicazione, modificandola: è questo il fenomeno che Mead definisce mente o
intelletto, risultato di un processo sociale di interazione mediato simbolicamente.

L’analisi del processo in base a cui nasce il significato cosciente permette di comprendere anche la
personalità individuale. Nell’interazione con l’altro, la mente emerge in quanto capacità di oggettivare il
senso . Il Se è per Mead il risultato dell’oggettivazione che l’individuo opera di sé stesso quando si considera
nel modo in cui lo considerano gli altri. Il sé si costituisce anzitutto attraverso i rapporti concreti che
l’individuo ha con gli altri. In una prima fase organizza semplicemente gli atteggiamenti particolari che gli
altri assumono nei propri confronti e in un secondo momento li sintetizza in quelli dell’”altro
generalizzato”.

Mead pone in evidneza la funzione del gioco per la costruzione del sé, attraverso cui i bambini assumono
ruoli diversi, imitando quegli degli adulti. In questo stadio il bambino vive in modo scisso i ruoli che
interpreta ma col tempo, aderendo a regole di gruppo convenzionali, percepisce sé stesso come unità,
oggettivando il suo sé.
L’atteggiamento della comunità come tale o “altro generalizzato” e il controllo che esercita sul
comportamento dei suoi membri diventano un fattore determinante riguardo al tipo di rapporto che il
soggetto intrattiene con il suo sé, la struttura che fonda il carattere della personalità e l’autocoscienza.

Mead distingue coscienza, semplice campo dell’esperienza, e autocoscienza, capacità di sollecitare in noi un
insieme di risposte determinate proprio degli altri individui del gruppo.

3. Il rapporto tra io e me

Il sé comprende due momenti distinti: Io e Me.

L’io è un principio attivo che sfugge ai nostri tentativi di definizione, lo percepiamo solo come personaggio
storico, come io di un me e non nella sua immediatezza, il me è l’insieme organizzato degli atteggiamenti
degli altri che un individuo assume. L’io è la risposta dell’organismo a questi comportamenti, dal forte
carattere creativo e dalla capacità di ridurre al minimo la forma convenzionale del Me, modificando la
società stessa.

La società umana è per Mead un fenomeno di comunicazione, mediante forme simboliche codificate
dell’agire che garantiscono l’ordine sociale. Il punto di incontro tra individuo e società è il ruolo, come
insieme dei modelli di comportamento organizzati in vista dell’espletamento di funzioni specifiche,
concetto usato anche da Talcott Parsons. Mead vede la società ideale come comunità democratica
integrata in cui esistono numerosi gruppi sociali differenziati funzionalmente. Condizione fondamnetale per
una società non conflittuale e non competitiva è un’adeguata organizzazione degli atteggiamenti comuni.

4. Erving Goffman: Il sociale come rappresentazione scenica

Per il sociologo canadese Erving Goffman l’influenza di Mead e di Parsons è evidente. Il sé appare però
privo di ogni consistenza interiore, senza continuità tra sfera esterna e sfera interna, che viene considerata
pura maschera di una scena esclusivamente sociale.

Goffman, pur distinguendo l’attore dal personaggio, non attribuisce ad essi alcun carattere attivo, ma lo
considera per la sua capacità di apprendere e come insieme di sentimenti, materia prima per la creazione
dei ruoli, priva di ogni intenzionalità e quindi ogni sua forma e struttura risultano dal gioco mutevole delle
interazioni sociali.

Abbandonando le distinzioni tra Io e Me di Mead, Goffman afferma che il sé non ha origine nella persona
del soggetto ma nel complesso della scena della sua azione. Il sé è un prodotto di una scena e non sua
causa, mero effetto drammatico. L’individuo è solo un gancio al quale viene fissato il prodotto di una azione
collettiva.

Ciò che mantiene il sé è il contesto istituzionalizzato, ovvero il sistema nel quale di volta in volta si
costituisce il personaggio e il pubblico, che con la sua attività interpretativa è parte integrante e necessaria
per la rappresentazione.

Goffman descrive l’interazione sociale come sistema autonomo di comunicazione che usa immagini,
sentimenti e atteggiamenti individuali che devono essere compresi a partire da essa.

I rituali che regolano queste interazioni hanno una funzione essenziale nella costituzione degli individui e
dei gruppi. Si spiega così perché si formi una spontanea collaborazione per mantenere la rappresentazione
e perché si generino meccanismi spontanei di controllo nei confronti di chi si discosta dai ruoli previsi.
Goffman non identifica totalmente il soggetto con il proprio ruolo, individuando una distanza dal ruolo che
lascia al soggetto un certo grado di imprevedibilità e quindi di potere. Egli cerca di trovare i rapporti tra
condizioni organizzative e strutture cognitive, prendendo in prestito concetti di psicologia cognitiva da
Gregory Bateson.
Bateson, studioso della pragmatica della comunicazione umana, ha dimostrato come ogni comunicazione
contenga a sua volta anche metacomunicazioni che permettono al messaggio di essere interpretato nel
modo giusto. Sguardo, sorriso o smorfia, intonazione indicano come deve essere interpretato il messaggio.

In Goffman, la ricerca di queste regole latenti che presiedono ai rapporti si esprime in un interesse verso
quelle situazioni in cui le regole date per scontate vengono messe in discussione. Nella teoria di Goffman la
devianza non è espressione della volontà del soggetto, ma comportamento indotto da una situazione,
particolarmente utile a rivelare le caratteristiche specifiche delle regole che presiedono a determinate
organizzazioni sociali.

5. L’etnometodologia e l’analisi delle procedure sociali

Schutz aveva riconosciuto che lo scienziato sociale ha nei confronti della realtà sociale un atteggiamento
essenzialmente simile a quello di ogni altro membro della società: anch’egli partecipa alla continua attività
di interpretazione di tale realtà; lo specifico del sapere scientifico era per lui il fatto che il sociologo assume
un atteggiamento critico circa il modo in cui colui che vive la situazione la rappresenta.

Richiamandosi alla problematica aperta da Schultz, Harold Garfinkel, esponente della etnometodologia,
assume una posizione radicalmente critica nei confronti delle teorie e dei metodi della sociologia
tradizionale. Secondo Garfinkel gli schemi interpretativi degli scienziati sono finora pesantemente debitori
delle conoscenze legate al mondo della vita quotidiana, analizzandole secondo criteri i cui presupposti non
vengono interamente esplicitati. Distinguendo tra oggetto di indagine e risorsa Don H. Zimmerman e
Melvin Pollner hanno sostenuto che non si deve confondere ciò che deve costituire il vero e proprio
oggetto di analisi scientifica con gli strumenti o risorse che vengono generalmente utilizzati nel contesto
sociale per definire oggetti o fenomeni sociali. Lo scienziato sociale deve sottoporre a indagine proprio le
procedure in base alle quali tali oggetti o fenomeni vengono a costituirsi come solide realtà date per
scontate. Il demografo costruirà le sue statistiche accettando come buone le pratiche di etichettatura in
corso nel suo ambiente sociale.

Il sociologo tradizionale o volgare non si pone problemi circa le procedure di definizione dei dati ma li
assume come semplici fatti a partire dai quali ricercare le cause sociali dei fenomeni osservati. Tali cause,
inoltre, saranno quasi sempre rinvenute in altri fatti, a loro volta definiti in base a nozioni di senso comune.
Il sociologo tradizionale partecipa al generale processo di costruzione senza porsi a un livello conoscitivo
diverso da quello corrente.

La sociologia dovrà evidenziare il modo in cui i membri di una società sono pervenuti ad attribuire un
significato specifico ai fenomeni stessi per liberarsi di questi schemi, ossia comprendere i meccanismi di
base nei processi di interazione e comunicazione sociale. Lo scienziato sociale non dovrà dare per scontato
nessuno dei suoi propri criteri o presupposti teorici, ma dovrà analizzare anche il modo in cui egli stesso
procede. Non sono solo infatti le credenze o le interpretazioni a diventare oggetto di analisi, ma anche le
stesse interpretazioni degli scienziati e gli stessi dati, in quanto prodotto delle strategie convenzionali di
definizione da parte dei soggetti sociali. Diventano oggetto di interesse specifico solo le procedure in base
alle quali la realtà sociale viene costruita. Il termine etnometodologia nasce perché l’oggetto della disciplina
sono i metodi usati dagli individui sociali nel definire la realtà.

Presupposto di base è la riflessività: le attività attraverso cui i membri della società producono e gestiscono
situazioni di relazioni quotidiane organizzate sono identiche ai procedimenti usati dai membri per renderle
spiegabili.

Garfunkel sottolinea inoltre l’indicalità, ovvero che la spiegazione dei fatti sono attività di costituzione dei
fatti, in analogia con i concetti linguistici di atti performativi e atti linguistici, per cui il dire si mostra come
un fare.
Si accentua nell’etnometodologia il processo di dissoluzione dell’interiorità e dell’intenzionalità già visto in
Goffman. Il soggetto, per gli etnometodologi, è un punto di incontro delle reti cognitive e comunicazionali,
costitutive dell’identità del sé.

In base al principio dell’indicalità, ossia del fatto che ogni significato può essere inteso solo nel contesto in
cui viene riprodotto, ogni forma di interpretazione deve essere compresa in base a essi.

Nelle sue prime ricerche Garfinkel pone l’accento sulla presenza di regole per la costituzione di quella
fiducia in base alla quale si sviluppano i rapporti di comunicazione e si articolano le reciproche prospettive.

Nelle sue prime ricerche Garfinkel pone l’accento sulla presenza di regole per la costituzione di quella
fiducia in base alla quale si sviluppano i rapporti di comunicazione e si articolano le reciproche aspettative,
fondata sull’interiorizzazione di norme che vengono ritenute accettate senza discussione da tutti i membri
del loro gruppo di appartenenza. In tal modo si costituisce quello schema interpretativo certo, cui riferire di
volta in volta i singoli eventi.

Quando un evento sfida ogni analogia si ha una rottura della congruenza delle rilevanze che può rimettere
in discussione l’ordine normativo costituito. Garfinkel insiste sulle analisi delle pratiche, come meglio atte a
fornire criteri interpretativi. I criteri e i presupposti sono oggetto di continue negoziazioni e rinegoziazioni e
occorre quindi verificarli di volta in volta. Per questa ragione, l’etnometodologia studia situazioni di tipo
microsociologico.

Come in Goffman, la trasgressione delle regole normali costituiva un momento privilegiato per la messa in
evidenza della loro effettiva funzione ed è uno dei modi per far emergere i meccanismi di costruzione del
senso. Un esempio è far risultare strane le pratiche abituali e far saltare le regole di un contesto
determinato, non analizzare deroghe spontanee, ma provocarle attivamente.

Un altro oggetto di interesse è l’analisi della conversazione e dei sistemi di scambio nel parlare, fondate
sulla convinzione che i discorsi siano determinanti rispetto all’azione dei parlanti.

6. Considerazioni critiche

La teoria di Mead reca un contributo fondamentale alla comprensione della complessa natura del soggetto
sociale, che appare in quanto Me, il prodotto dei processi della comunicazione sociale e delle forme di
mediazione simbolica presenti in un dato contesto socioculturale e dall’altro, in quanto io, principio attivo
di trasformazione ed elaborazione creativa.

L’importanza del contributo teorico di Mead è cresciuta per merito di Herbert Blumer, che tende ad
accentuare l’importanza dell’attività interpretativa dei singoli soggetti nella situazione particolare,
attenuando la dimensione strutturale. L’organizzazione di una società umana è la cornice entro cui ha luogo
l’azione e non la determinante dell’azione stessa. Tale organizzazione e i suoi mutamenti sono il risultato
dell’attività di unità agenti e non quello di forze che ignorano tali unità.

Per quanto riguarda Goffman, si possono rinvenire elementi derivanti dal behaviorismo e dal funzionalismo
parsonsiano. Malgrado l’accentuato riduzionismo, le analisi di Goffman sono risultate di estremo interesse
per la messa in evidenza delle regole che presiedono alle relazioni faccia a faccia e il fatto di prescindere dai
contenuti delle interazioni ha permesso di cogliere una serie di isomorfismi per cui ad esempio il
comportamento di un direttore di banca e di una sex worker presentano sorprendenti analogie formali.

Tutte le diverse interazioni sociali sono governate dalla necessità di definire la situazione ossia di assicurare
basi di prevedibilità dell’agire reciproco.

Più problematica appare in Goffman la spiegazione della presenza di atteggiamenti differenziati dei soggetti
nei confronti dei propri ruoli.
Goffman non riesce a evitare del tutto il riferimento a calcoli individuali, vi è infatti alla base dell’individuo
goffmaniano una volontà di salvare il proprio Sé.

Goffman spiega questa volontà con le esigenze della rappresentazione sociale e motiva così anche la
necessità di definire la situazione, pur di non ammettere la natura psicologico esistenziale di queste spinte
e quindi negare il rapporto tra coscienza e mediazione simbolica.

Per quanto riguarda l’etnometodologia invece essa ha indubbiamente riproposto il problema delle basi
epistemologiche della conoscenza scientifica e la ricerca sociale risulta un incontro tra forme interpretative
diverse, nessuna delle quali può pretendere di essere definitiva. Ogni forma di sapere si costruisce
attraverso scelte e assunzioni relativamente arbitrarie di indici e di criteri.

Appare tuttavia infondata la pretesa di costituirsi come il solo metodo scientificamente valido di analisi
della realtà sociale e come metodo diverso da tutti gli altri. Non si vede perché debba essere accettato
come dogma il nominalismo esasperato: se è vero che ogni fenomeno presenta una dimensione costruita
ed è senza dubbio un prodotto delle definizioni sociali è anche vero che può anche essere considerato
come un problema nato nell’esperienza interazionale e comunicativa.

Lo stesso Cicourel, attraverso il concetto di moltiplicazione infinita, ha riconosciuto che ogni elaborazione
delle circostanze e dei caratteri particolari di un evento può essere sempre sottoposta a nuove
elaborazioni.

Se la sua analisi potrà essere più sofisticata di quella di un sociologo volgare essa non ha natura
completamente diversa da quella di ogni altro procedimento empirico di osservazione.

Gli etnometodologici hanno incontrato difficoltà insormontabili nel mantenersi coerenti con il principio
dell’indicalità. In assenza di ogni possibilità di riferimento a strutture generali, il principio dell’assoluta
contestualità dei significati porta a una serie di interpretazioni tutte inverificabili.

Sia Garfinkel sia Cicourel hanno cercato una via d’uscita attraverso forme invarianti o procedure di base,
che fornissero principi di riferimento intrinseco ai processi studiati.

La specificità dell’etnometodologia viene rivendicata da Cicourel nel fatto che essa fa diretto riferimento al
contesto del vissuto. L’esperienza dell’etnometodologia sembra dover sfociare nel riconoscimento dei limiti
di ogni comprensione finita di significato come nell’impossibilità di cogliere direttamente nel vivo i
meccanismi di costruzione della realtà sociale. Nel fallimento delle sue ambizioni iniziali, l’etnometodologia
sembra aver dato, anche suo malgrado, un importante contributo alla chiarificazione dei problemi
epistemologici. Resta valida l’obiezione già sollevata per Goffman circa il presupposto della ricerca di
sicurezza di ordini certi che muovono l’agire sociale.

Capitolo 14: Gli interpreti della società contemporanea II

1. Ulrich Beck: la società del rischio

Il sociologo tedesco Ulrich Beck è stato un acuto osservatore della società contemporanea, interpretandola
come seconda modernità le cui caratteristiche consistono in una particolare apertura nei confronti dei
rischi connessi alla globalizzazione, generati dal successo dei processi di modernizzazione. Modernizzazione
riflessiva significa non meno, ma più modernità, una modernità radicalizzata contro le vie e le categorie del
quadro industriale classico. Beck sottolinea come gli individui siano sempre più indipendenti da quelle
certezze sociali del passato come la famiglia, le istituzioni sociali, gli enti lavorativi, la positività del
progresso. Questi ambiti vanno in crisi con l’avanzare della fase seconda della modernità che genera nuovi
rischi sociali.
Chi come Colombo si mise in viaggio per scoprire nuove terre metteva certamente in conto anche dei rischi,
ma rischi personali, non globali come la fissione dell’atomo o lo stoccaggio delle sostanze radioattive. Se
all’epoca i rischi erano qualcosa di naturale, oggi diventano sociali, generati dall’ingordigia dell’uomo e dalla
sua presunzione di poter controllare la natura. La caratteristica di questi rischi è racchiusa nella loro natura,
generale, complessiva e universale. Tuttavia, quello che conta in tale situazione è il ruolo svolto dal sapere.
Chi più conosce le caratteristiche specifiche dei rischi tende a scaricarli, a gettarli su altre persone. Fermo
restando che vige un’ignoranza diffusa, poiché la società è talmente differenziata che la nostra conoscenza
è ridotta a piccolissime parti di un immenso universo quotidiano.

Diviene così fondamentale elaborare un nuovo sapere dei rischi: non scientifico in senso stretto, ma
sempre più legato a una scelta che gli individui devono compiere inerente a cosa sia meglio fare rispetto a
una questione specifica. Sempre all’interno di tale analisi della seconda modernità Beck sostiene che il
carattere sovranazionale ed extraterritoriale dei rischi crei una serie di comunità di pericolo, ovvero un
gruppo più o meno ampio di persone che si trova costretto a far fronte a rischi generati da scelte umane. In
tal senso, secondo Beck, risulterà evidente come, in un mondo globale in cui il capitalismo finanziario la fa
spesso da padrone, i nuovi rischi possono addirittura diventare opportunità di mercato. La politica perde di
importanza e diventa subpolitica, vittima dei macropoteri economici e industriali ma anche aperta alle
influenze dell’associazionismo.

Notevole di Beck anche lo studio de Il normale caso dell’amore, in cui evidenzia la carica ambivalente
dell’amore a causa del suo duplice valore: un’emozione istantanea e un sentimento di lunga durata che
crea coesione. Beck dialoga con Elisabeth Beck Gernsheim, psicosociologa che è anche sua moglie e non
presentata al contrario, come fa il libro, attraverso uno scambio di domande. Cosa motiva gli esseri umani a
crearsi una famiglia e rinunciare a parte della propria libertà? E perché in molti decidono di abbandonare il
nido alla ricerca di nuove esperienze? I due sostengono che nella seconda modernità l’amore svolga una
funzione necessaria al raggiungimento sia del riconoscimento sociale sia di quel senso della vita tanto
bramato dagli individui contemporanei. Un ruolo dirimente è svolto dal processo di individualizzazione, il
quale situa gli individui al di fuori delle regole sociali tradizionali, donando loro libertà di scelta e
esponendoli a forti rischi sociali. Una maggiore libertà che si traduce in maggiore insicurezza.

2. Zygmunt Bauman: la modernità liquida

Anche il sociologo di origine polacca Zygmunt Bauman ha concentrato gran parte della sua analisi sulle
caratteristiche e sui difetti sociali della contemporaneità. Il concetto principale è quello di modernità
liquida. Partendo infatti dall’analisi di Marx ed Engels sulla modernità avanzante Bauman sostiene che il
continuo e irrefrenabile cambiamento che caratterizza la fine del novecento faccia apparire tutto come
privo di sostanza e inafferabile, Liquido. Tuttavia egli non pensa che la società sia priva di sostanza ma che
sia caratterizzata da mutamento continuo e accelerato, egli da per assodate le strutture portanti della
società e cerca di comprendere perché producano processi interazionali e lavorativi talmente liquidi da
avere vita breve.

Nel libro modernità liquida Bauman analizza il rapporto tra struttura e sovrastruttura all’alba del III
millennio. Lo stesso aggettivo sarà affiancato a una serie di ambiti, amore, vita, paura, sorveglianza e
l’intuizione teorica dello studioso correrà così il rischio di vedere svalutata e commercializzata la sua
portata sostanziale. Bauman si fa una serie di domande:

la modernità globalizzata è in grado di mantenere la promessa di un mondo migliore? E si risponde


negativamente, il dominio dei campi dell’economia e della reazionalità strumentale ha illuso gli individui di
essere liberi, nonostante siano fortemente oppressi da politiche capitalistiche di deregolamentazione,
liberalizzazione, flessibilità, accresciuta fluidità, totale apertura dei mercati finanziari, immobiliari e del
lavoro che hanno portato gli individui a sfuggire a qualsiasi forma di coinvolgimento. Bauman individua una
serie di pericoli veicolati da tale modernità liquidita: la libertà dei soggetto che invece di essere a
disposizione dei soggetti diviene una concessione fornita dal sistema globale a coloro che saranno
maggiormente in sintonia con le loro esigenze. Tale tendenza priva l’individuo delle sue capacità di
immaginare e lavorare ad altre potenzialità poiché vincolato a rigide regole strutturali. Verrebbe dunque
meno la possibilità di impegnarsi in processi di emancipazione individuale, anche perché è lo stesso
conflitto a perdere di importanza in quanto travolto dalla velocità.

La disintegrazione della rete sociale viene osservata con notevole preoccupazione e considerata
l’imprevisto effetto collaterale della nuova leggerezza e fluidità. Ma la disintegrazione sociale è una
condizione e il risultato della nuova tecnica di potere.

Il concetto di libertà viene oggi schiacciato da una tensione irrisolvibile tra le possibilità di aspirare a forme
di libertà e la necessità di prendere coscienza delle richieste e degli obblighi della società flessibile e
precaria. Ciascun soggetto è libero di sognare, desiderare ,immaginare ma tale libertà si infrange contro le
necessità collettive che impongono al soggetto di ridimensionare le proprie aspirazioni. Risulta evidente il
problema del rapporto tra desideri individuali e costrizione sociale. Una delle domande che pone Bauman
è: quale equilibrio può realizzarsi tra desiderio e capacità di agire? In linea di principio, la società attuale si
basa sulla liberazione del desiderio; in sostanza però non consente di realizzare ciò che promette, creando
un divario tra individualità sempre maggiore in quanto sorte decretata e invidiaulità in quanto capacità
pratica e realistica di autoaffermazione. L’attuale modernità liquida l’idea moderna di emancipazione,
liquidando al contempo la fiducia nell’altro sia in termini generali, sia in termini di relazione amorosa.

Mentre il principio del togliersi le voglie è inculcato a fondo nella condotta quotidiana, il coltivare un
desiderio sembra inquietantemente propendere dalla parte dell’impegno amoroso, l’intento di mantenere
l’affinità viva e vegete presagisce una lotta quotidiana e promette una costante vigilanza.

I concetti di spazio e tempo svolgono un ruolo decisivo perché anch’essi conoscono possibilità di
ampiamenti o riduzioni mai viste prima, anche grazie agli strumenti tecnologici. Oggi non si parla più di
spazio ma di spazi e di come il tempo sia un concetto relativo, in mano all’utente che può decidere di vivere
simultaneamente spazi e tempi differenti. Il sociologo polacco mostra un’evidente vena pessimistica sul
futuro della società, la ricetta che propone ha direttamente a che vedere con la sfera pubblica e il potere
pubblico. Necessario è provare a riscoprire la centralità del legame sociale e impegnarsi in forme di
partecipazione all’interno dello spazio pubblico. Per farlo potrebbe essere necessario però volgere lo
sguardo verso il passato.

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