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Le questioni dell eta contemporanea a m banti

Lettere (Università degli Studi di Catania)

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RIASSUNTO QUARTO LIBRO DI STORIA CONTEMPORANEA

“LE QUESTIONI DELL’ETÀ MODERNA”

1) – “5°” - CAPITOLO: Lo studio storico delle classi sociali

2. Classe e coscienza di classe (Marx)

L’impostazione teorica di Karl Marx – basata sulla valorizzazione dei dati di fatto “materiali” –
ricorda in molti punti i coevi orientamenti positivisti. Spia di quest’affinità è il lessico da lui stesso
usato: il suo sarebbe un “materialismo storico” che fonda una nuova visione filosofica e politica,
denominata “socialismo scientifico”. Tanto le opere più politicamente impegnate – come il
“Manifesto del partito comunista”, scritto con Friedrich Engels – quanto quelle teoricamente più
ambiziose – come “Il Capitale” – si basano su un assunto teorico molto preciso: che l’indagine della
morfologia sociale, cioè delle forme della società, debba partire dall’identificazione del ruolo che
un individuo ha nel processo di produzione, i “mezzi di produzione (cioè le risorse finanziarie) e
dopo aver constatato quale sia la sua collocazione all’interno del processo di produzione
(imprenditore capitalista etc.), si può capire quali siano i suoi orientamento sociali, le sue preferenze
ideali e le sue scelte politiche. Marx definisce l’insieme di queste preferenze individuali usando
l’espressione “coscienza di classe”; tale dimensione soggettiva è – secondo lui – “determinata”
dall’“essere sociale” di un individuo, cioè dalla sua posizione nel processo di produzione. Appare
chiaro che per Marx le strutture produttive (e gli interessi materiali che esse suscitano) non solo
soltanto i fattori che determinano la “coscienza di classe”, ma sono anche gli elementi che
determinano l’intera sovrastruttura, poiché politica etc. nel “Manifesto del partito comunista”, Marx
ed Engels illustrano con grandissimo vigore una loro visione duale della struttura sociale. Se il
conflitto tra le classi è sempre stato il principale fattore di cambiamento storico, nelle epoche
passare, con l’avvento della moderna società industriale, invece, si ha un’enorme semplificazione
della struttura sociale, nel corso della quale emergono 2 classi soltanto, la borghesia e il proletariato.
Per Marx ed Engels “borghesia” è un termine che designa tutti coloro che possiedono i mezzi di
produzione: i borghesi sono essenzialmente gli imprenditori, i veri protagonisti della rivoluzione
industriale. Simmetricamente, col termine “proletariato” i 2 autori vogliono indicare l’insieme degli
operai che lavorano nelle nuove imprese produttive a tecnologia avanzata, le fabbriche: usano
quella parola, derivata dal latino, per sottolineare che la povertà di questi soggetti sociali è tale che
l’unica cosa che possiedono, oltre alla loro vita e al loro lavoro, sono i loro figli, la prole appunto; è
un’esagerazione retorica, che serve ai 2 autori per dire che il contrasto tra le 2 classi provoca un
conflitto che prelude a una rivoluzione sociale che – secondo loro – abbatterà il dominio della
borghesia. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver
semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in 2 grandi campi
nemici, in 2 grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. Le
spese che causa l’operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha
bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie. Lo schema presentato nel
“Manifesto” ha una grandissima forza visionaria. In altri scritti dedicati all’attualità politica, Marx
abbandona questa netta immagine duale e offre una visione più articolata della struttura sociale.
Nell’ultimo capitolo del terzo volume de “Il Capitale”, poi, proprio nella pagina dedicata alla teoria
delle classi, quest’ultime sembrano diventare 2: operai salariati, capitalisti (cioè imprenditori) e

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proprietari fondiari. È comunque vero che lo schema duale del Manifesto resta cruciale in ogni sua
analisi. Il cuore pulsante della società moderna, dunque, sta lì nelle fabbriche, nel fronteggiarsi delle
2 nuove classi. Ogni altro gruppo sociale non gioca che un ruolo temporaneo. Qualunque sia la
soluzione da dare al numero delle classi, ciò che resta costante, nel pensiero di Marx, è il rapporto
gerarchico tra “struttura” e “sovrastruttura”: per capire la morfologia di una società, che di norma
appare enormemente complessa, non si deve far altro che studiarne le forme di produzione.

3) Classi e ceti (Weber)


Un’impostazione di questo tipo non viene accettata da tutti; e una risposta particolarmente efficace
al determinismo marxista arriva – all’inizio del XX secolo – dagli scritti di un altro studioso
tedesco, Max Weber. Un primo netto scostamento dall’economicismo marxiano Weber lo compie
nel libro sull’“Etica protestante e lo spirito del capitalismo”, nel quale propone un modello analitico
che considera i fattori culturali (in questo caso, la mentalità religiosa) come “la chiave” per spiegare
le modalità di comportamento di uno specifico gruppo sociale (cioè gli imprenditori capitalisti),
descritti attraverso lo strumento concettuale dell’idealtipo. “Economia e società”: nel primo e quarto
volume di quest’opera Weber sostiene che la collocazione sociale di un individuo può essere
osservata da 2 punti di vista complementari: indagandone da un lato la sua “situazione di classe” e
dall’altro la sua “situazione di ceto”. La situazione di classe identifica la posizione economica di un
individuo, e per Weber, la posizione economica di un individuo non dipende tanto dalla
collocazione che costui ha nel processo di produzione quanto dalle risorse che può offrire sul
mercato: le situazioni di classe si differenziano, da un lato a seconda del genere del processo
utilizzabile per il profitto, e dall’altro a seconda delle prestazioni da offrire sul mercato. Si può
trattare del processo di edifici di abitazione, o del processo di officine, magazzini, negozi, o del
possesso fondiario di terreno agricolo. Altrettanto fortemente coloro che, privi di possesso, offrono
prestazioni di lavoro, vengono a differenziarsi a seconda del genere di queste, e anche a seconda che
essi le valorizzino in una relazione continuativa con un cliente oppure caso per caso. Un quadro di
questo genere invita intanto a moltiplicare di molto le classi rispetto allo schema marxiano; ma
soprattutto è un quadro che non implica alcun rapporto casuale necessario tra situazioni di classe e
azione di classe. Già questo percorso porta Weber piuttosto lontano da Marx. Ancor più egli se ne
allontana quando precisa che cosa voglia dire “situazione di ceto”: il termine “ceto”, in Weber, non
fa alcun riferimento ai gruppi sociali denominati in questo modo nell’epoca moderna (gruppi che
vengono chiamati anche “stati” o “ordini”. Ricorrendo al termine ceto, Weber vuol dire che, per
definire la posizione degli individui in una società, non può bastare solo l’osservazione dei loro
connotati economico materiali, ma è indispensabile studiare pure i fattori immateriali che
caratterizzano la loro esperienza sociale; tali fattori immateriali sono riassunto da Weber col termine
“onore”, non usato con lo stesso significato. L’onore o il prestigio dipendono dalla “condotta di
vita”, dalla professione svolta, dalla discendenza familiare. Anche la situazione di ceto non è in
alcun modo determinata dalla situazione di classe: anzi, possono darsi casi concreti di gruppi sociali
che, pur essendo considerati meno prestigiosi, abbiano tuttavia una collocazione economica
modesta. Questo squilibrio tra situazione di classe e situazione di ceto è stato in seguito chiamato
“incongruenza di status”. Naturalmente, l’incongruenza di status non è una regola, è una possibilità:
ci sono, infatti, molti altri gruppi che mostrano una perfetta congruenza tra situazione di classe e
situazione di ceto. Proseguendo per questa strada, l’analisi potrebbe farsi molto sofisticata e
approfondita.

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4. Ricerche di storia della borghesia ottocentesca (Labrousse, Daumard)


Nel XX secolo tanto le indicazioni di Marx quanto quelle di Weber hanno esercitato una grande
influenza sull’elaborazione sociologica e sul lavoro storico. La proposta di Weber, dal suo canto, ha
stimolato una fiorente elaborazione sociologica (di tipo sia teorico sia empirico) che ha applicato un
metodo “multifattoriale” di analisi, capace cioè di combinare tanto il profilo di classe di un
individuo quanto il suo profilo di status. L’idea che la struttura della società non è polarizzata in
pochi grandi raggruppamenti, ma è connotata da una vasta dispersione degli individui su una sorta
di “continuum” sociale che va, in genere senza interruzione, da chi è poverissimo e privo di ogni
prestigio a chi è ricco, potente e prestigiosissimo. Per analisi di questo tipo è essenziale definire
bene la forma della stratificazione ed è altrettanto essenziale capire se, in questa scala continua di
condizioni sociali, si distinguano più grandi aggregati di individui (gli “strati sociali”) che –
disponendo di una medesima “situazione di classe e di ceto” – si comportino anche in modo
relativamente omogeneo. Nel ’55, tuttavia, in un intervento presentato al Congresso internazionale
di scienze storiche tenutosi a Roma, Ernest Labrousse, uno storico economico che si era interessato
di storia della rivoluzione francese, presenta una relazione, “Per una nuova storia della borghesia
occidentale nei secoli XVIII e XIX”, nella quale pone con semplicità e chiarezza una questione
rilevante: si è molto discusso sinora sul carattere più o meno “borghese” della rivoluzione francese,
senza che siano state condotte ricerche empiriche precise su questo gruppo sociale: ma chi fa
davvero parte della borghesia? Come si comporta? Cosa possiede? Cosa pensa? Con interrogativi di
questo tipo Labrousse vuole invitare gli storici a non essere più dipendenti dai sociologi per quanto
riguarda le analisi di storia sociale, offrendo finalmente un contributo autonomo allo studio delle
classi. Questo programma di ricerca è stato raccolto in primo luogo da Adeline Daumard, che ha
compiuto un’imponente ricerca sulla borghesia parigina del XIX secolo. Con il suo lavoro l’arco
cronologico si è dunque spostato rispetto agli interessi di Labrousse e con esso è cambiata anche la
problematica. Per identificare la borghesia parigina Daumard ha usato un criterio tipicamente
economico (ma del genere weberiano, più che marxiano); ha studiato una grande quantità di
dichiarazioni di successione redatte dagli eredi alla morte di un possessore di un patrimonio,
documenti fiscali attraverso i quali si può stimare il valore complessivo di un patrimonio e se ne
può ricostruire la composizione interna: quindi, essenzialmente, ha usato la ricchezza come codice
identificativo primario. Da questa poderosa ricerca sono emerse indicazioni importanti: intanto che i
ricchi non sono solo borghesi, poi che tra i super-ricchi non ci sono solo imprenditori, che talora
hanno patrimoni assai inferiori a quelli dei proprietari terrieri di origine nobiliare; infine, che le
strutture sociali di Parigi e della Francia nel XIX secolo sembrano essere caratterizzate non certo
dalla presenza di 2 sole grandi classi, ma da una vasta pluralità di gruppi sociali che possiedono
tratti simili.

5. Nobili e borghesi (Kocka, Wehler, Mayer)


I lavori di Adeline Daumard hanno effettivamente aperto vie nuove allo studio della borghesia
occidentale; difatti il suo metodo è stato utilizzato anche per l’analisi delle borghesie ottocentesche
di Gran Bretagna, Italia e Germania. Tra gli storici che hanno posto le basi della cosiddetta “neue
Sozialgeschichte”, cioè della “nuova storia sociale”, Hans-Ulrich Wehler e Jurgen Kocka hanno un
posto di speciale rilievo. Riflettendo sul processo di formazione delle borghesie europee nell’800,
Kocka ha osservato che vi si possono identificare almeno 2 grandi fasi differenziate: 1) una prima,
che va dalla fine del XVIII secolo all’inizio del XIX, in cui i gruppi borghesi hanno un problema
principale: quello di combattere contro i gruppi nobiliari e contro i poteri monarchici, per abbatterne

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i privilegi e insidiarne il prestigio e il potere: in questa fase i borghesi possono trovarsi affiancati
alle classi inferiori; 2) successivamente, una volta ridimensionati o distrutti i privilegi aristocratici,
il fronte di tensione comincia a spostarsi in un altro punto dello spazio sociale. Per definire il
processo che conduce alla formazione di una borghesia consapevole di se stessa, spiega
ulteriormente Kocka, si deve far riferimento ai fronti sociali ai quali la borghesia si opponeva.
Spesso, infatti, è solo nel corso di un conflitto che le categorie sociali acquistano la natura di un
vero e proprio gruppo sociale: solo differenziandosi dagli altri ci si costruisce un’identità autonoma.
Nella seconda metà del XVIII secolo, e all’inizio del XIX, quando la borghesia moderna assunse i
tratti di una formazione sovra-locale, post-cetuale, presente in ogni aspetto della struttura sociale, i
commercianti, i negozianti etc. si trovarono a condividere uno straniamento critico nei confronti
degli antichi centri di potere, la nobiltà, da un lato, la monarchia, dall’altro. Nel corso del XIX
secolo questa linea di frontiera, pur senza scomparire del tutto. Già del tutto assente agli inizi del
secolo, e tuttavia a quell’epoca nient’affatto attuale, un’altra linea di frontiera attirò, a poco a poco,
a partire dagli anni ’30-’40 dell’800, le attenzioni dei borghesi: si trattò del confine “verso il basso”,
della differenziazione nei confronti degli strati subalterni non borghesi (e talvolta anche nei
confronti dei ceti medi inferiori). Seguendo uno schema simile e applicandolo al caso tedesco,
Wehler ha elaborato una proposta interpretativa nota sotto l’etichetta di “Sonderweg” (cioè di “via
alternativa” alla modernità). Che cosa dice quest’interpretazione? Che in Germania, in virtù tanto
della recente origine della borghesia quanto del notevole potere e prestigio della nobiltà, il processo
di riavvicinamento tra gruppi borghesi ed élites aristocratiche ebbe come esito una sorta di “ri-
feudalizzazione” della borghesia tedesca. Nel tardo ‘800, dal loro intransigente conservatorismo, la
borghesia tedesca abbandonò gli ideali democratici o liberali che l’avevano caratterizzata nella
prima metà dell’800. La società tedesca, molto dinamica dal punto di vista economico, rimase
condizionata dagli ideali politici e sociali condivisi dalle sue élites: la tensione che ne derivò,
rafforzata dalla contrapposizione tra una classe operaia e questo insieme di élites sarebbe una delle
chiavi interpretative essenziali per capire perché sia nato e si sia imposto un movimento politico
come il nazismo. Estendendo ulteriormente questo quadro a tutta l’Europa ottocentesca, uno storico
americano, Arno Mayer, ha sostenuto che tutta la storia dell’Europa ottocentesca fu in realtà
caratterizzata da processi simili a quelli identificati dagli storici sociali tedeschi per la Germania.
Non una debordante modernità capitalistica era ciò che si poteva vedere nell’800 europeo, dice
Mayer, ma una tenace “persistenza dell’antico regime”. L’interpretazione di Mayer è risultata utile
nell’invitare gli storici della società ottocentesca a differenziare meglio il quadro, senza presentare
le trasformazioni che vi hanno avuto luogo come altrettante tappe di un’inarrestabile “trionfo della
borghesia”.

6. Nuovi orientamenti nello studio delle classi operaie (Thompson, Stedman-Jones)


Parallelamente a questi sviluppi negli studi sulle classi alte (borghesie, nobiltà) i primi anni ’60 del
XX secolo tengono a battesimo un significativo rinnovamento degli studi sulle classi operaie.
Questo tipo d’indagine viene inaugurato da un poderoso studio, intitolato, in italiano, “Rivoluzione
industriale e classe operaia in Inghilterra”, pubblicato nel ’63 dallo storico inglese Edward P.
Thompson. Di convinzioni marxiste, ma di un marxismo critico e libero da ortodossie, Thompson,
oltre a offrire un largo e importante affresco del processo di formazione della classe operaia inglese
nel momento di avvio della rivoluzione industriale. Intanto, afferma Thompson, la classe operaia
non è un dato di fatto naturale, né un frutto spontaneo delle trasformazioni provocate dalla
rivoluzione industriale, ma è un processo (making) che implica la deliberata costruzione di rapporti

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sociali e politici tra individui che hanno simili esperienze di vita. inoltre, per meglio capire i
caratteri di questo processo, gli sembra necessario rompere il ferreo nesso che Marx aveva stretto
tra classe e coscienza di classe. “Io vedo la classe non come una “struttura”, né come una
“categoria”, ma come qualcosa che avviene in realtà nei rapporti umani. E la classe nasce quando
un gruppo d’uomini, per effetto di comuni esperienze (ereditate o vissute), sentono ed esprimono
un’identità d’interessi sia fra loro che non. L’esperienza di classe è determinata, in larga misura, dai
rapporti di produzione nel cui ambito gli uomini sono nati – o vengono involontariamente a trovarsi.
In una raccolta di saggi dell’83, “Languages of Class, Studies in English Working Class History”,
Gareth Stedman-Jones ha ulteriormente elaborato l’accenno di decostruzione del lessico marxiano
presente nel libro di Thompson, constatando che non solo la coscienza di classe è il prodotto di una
costruzione concettuale, ma che lo stesso concetto di classe dovrebbe essere studiato nelle sue
determinazioni linguistiche. E che non solo essa è un “farsi” che chiama in causa il modo in cui gli
individui costruiscono relazioni tra loro; ma che è essa stessa un concetto sottoposto a un processo
di costruzione lessicale.

7. Dalla classe al linguaggio (Furbank, Wahrman)


Lavorando intorno all’idea secondo la quale il concetto di classe è – come ogni altro concetto – una
costruzione artificiale, Philip N. Furbank ha sostenuto che in un’analisi sociale l’unica cosa che ha
veramente importanza è come e per quale fine sono state costruite le categorie che vi sono
impiegate, mentre i risultati empirici che tale analisi proclama di aver raggiunto sono del tutto
inattendibili in quanto basati su criteri che per la definizione sono arbitrari. Infatti, se si accetta di
considerare le categorie sociali come costruzioni concettuali, si deve anche ammettere che esse
hanno una natura necessariamente arbitraria. In effetti, prosegue Furbank, si può facilmente
constatare che gli usi più efficaci del linguaggio di classe mostrano che esso ha un preminente
obiettivo politico. Il compito di Marx, quando parla delle classi, non è identificare le “classi” ma
quello di crearle. Lo scopo di tutta la sua vita è quello di creare un proletariato dotato di coscienza
rivoluzionaria, e tutti i mezzi sono consentiti a questo scopo. Il problema è fare in modo che tutti i
non privilegiati si pensino come “classe”, il proletariato; e un aiuto essenziale in questo compito
consisterà nel dar vita a un nemico per questa classe, e cioè un’altra “classe”, la borghesia. Queste
classi sono finzioni necessarie: il fine di Marx e dei marxisti è farle diventare vere. Muovendo da
queste premesse Furbank giunge a conclusioni radicali, che negano ogni valore allo studio delle
morfologie sociali: “dopo tutto, la classe media non è un oggetto, ma una nozione e una nozione
decisamente tendenziosa, che implica un giudizio di valore per cui alcune persone sono socialmente
“superiori”, in una “posizione di mezzo” e “inferiori”. La verità è che quando si studia il concetto di
“classe sociale”, si studia o si dovrebbe studiare, una cosa sola, cioè i modi in cui le persone comuni
applicano, o hanno applicato, quelle categorie sociali a sé stesse e agli altri. Va da sé che le società
possono essere studiate sotto vari altri aspetti. Non è possibile, tuttavia, andare oltre l’analisi delle
idee sviluppate in proposito dalle società a essi contemporanee.”. Furbank, dunque propone di
dissolvere la realtà sociale nel puro linguaggio sociale. Ci sono storici i quali, muovendosi in questa
direzione, hanno ottenuto splendidi risultati analitici: per es., Dror Wahrman, in un libro del ’95
intitolato “Imagining che Middle Class. The Political Representation of Class in Britain”, ha
mostrato che l’espressione “middle class” entrò nel lessico degli speaker del parlamento inglese o
dei quotidiani e delle riviste politiche negli anni ’20 del XIX secolo. Coloro i quali inventarono
l’espressione erano i capi dello schieramento whig: usando questa nuova espressione, crearono una
nuova immagine della struttura sociale, articolata in 3 sezioni (classe superiore, media e inferiore),

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ciò che per l’epoca costituì una notevole innovazione. 1) All’epoca, la nuova descrizione sociale
tripartita sembrò del tutto plausibile nel far riferimento a mutamenti socio-economici; 2) da un punti
di vista strettamente sociologico quella era una descrizione largamente imprecisa: l’importante era
far credere che questa classe esistesse, non spiegare come si fosse formata o come fosse composta;
3) al contrario, i politici whig misero tutto il loro impegno nel dare una connotazione etica positiva
alla categoria che stavano usando; 4) di conseguenza, il raggruppamento whig, che si proponeva
come il rappresentante della classe media, era il gruppo politico britannico più saggio e più
onorevole; 5) ciò che in questo modo i capi whig stavano costruendo non era una descrizione
accurata della realtà sociale britannica; stavano cercando di inventare un’immagine retorica che
fosse quanto più convincente e plausibile possibile, per ampliare il loro sostegno elettorale. il punto
chiave, molto chiaro nell’analisi di Hunt è che non è affatto necessario assumere che debba esserci
una perfetta coerenza tra realtà di classe e linguaggi di classe: e che l’analisi delle incoerenze tra
strutture sociali e mondi mentali offre prospettive significative per l’analisi storico-sociale. Per
tornare ancora a Wahrman: se nella Gran Bretagna degli anni ’20 dell’800 alcuni politici
inventarono, per loro fini specifici, un’immaginaria articolazione della società in 3 classi, e perciò
coniarono una locuzione di grande successo, “classe media”, ciò non significa che le diseguaglianze
di classe all’epoca non ci fossero.

2) – “6°” – CAPITOLO: Imperialismo/colonialismo

1. Tra economia e politica (Hobson, Lenin, Schumpeter)


Il controllo politico o economico di terre lontane caratterizza la storia dell’occidente almeno sin dai
grandi viaggi e dalle grandi scoperte del XV e XVI secolo. È proprio per rimarcare e spiegare la
diversa natura del nuovo sistema di dominio che nel 1902 un economista britannico, John A.
Hobson, pubblica un libro, “L’imperialismo”, che provoca subito un intenso dibattito politico ed
economico. A suo parere, la causa della recente espansione europea dev’essere cercata nella sovra-
accumulazione di capitali in cerca d’investimento, che è propria delle economie occidentali dagli
anni ’80 dell’800 in avanti. La linea segnata da Hobson viene ripresa da un socialdemocratico
austriaco, Rudolf Hilferding, che nel suo libro “Il capitalismo finanziario” sostiene che la
caratteristica essenziale dell’imperialismo sta nell’accordo triangolare che si crea tra banche, grandi
imprese e governi dei paesi che le ospitano, uniti nella ricerca di nuovi mercati e nuovi spazi per
l’investimento dei capitali eccedenti. E nella stessa direzione di Hobson e Hilferding si muove
anche Lenin, il quale ritiene che la ricerca e il dominio di nuovi mercati sia l’ultima fase di sviluppo
del capitalismo: tale fase è caratterizzata dalla piena saturazione dei mercati interni dei paesi
occidentali, ragione per cui gli operatori economico-finanziari, sostenuti dai governi, cercano
soluzioni d’investimento in aree meno sviluppate. “L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a
quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario.”.
Questa ricerca non richiede sempre e necessariamente l’occupazione militare delle aree che si
vogliono controllare, poiché possono esserci anche forme di dominio indiretto, fondato sulla
subordinazione economica dei paesi meno sviluppati. La stessa Grande Guerra è per Lenin la
manifestazione più chiara dell’aggressività del capitalismo. L’interpretazione leninista, secondo la
quale l’imperialismo rappresenterebbe una fase necessaria dello sviluppo del capitalismo
monopolistico, viene criticata dall’economista Joseph A. Schumpeter in un suo saggio del ’19,
“Sociologia degli imperialismi”. L’imperialismo, per Schumpeter, è qualcosa di ben diverso: un

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retaggio evidente della società militarista, un residuo del passato premoderno che, dal punto di vista
sociologico, rappresenta la manifestazione di forse irrazionali nella società, che poco hanno a che
fare con le modalità di funzionamento del capitalismo.

2. Dall’economia alla politica (Robinson, Gallagher, Fieldhouse, Wehler)


Si tratta di una fase del lavoro storiografico nella quale domina una prospettiva eurocentrica, nel
senso che le questioni collegate alla dominazione coloniale sono osservate con riferimento
immediato agli interessi dei paesi occidentali. Un es. classico delle nuove prospettive che si aprono
alla storiografia che lavora dopo la fine della seconda guerra mondiale è dato da “The Imperialism
of Free Trade”, un fortunato articolo pubblicato nel ’53 da 2 storici inglesi, John Gallagher e Ronald
Robinson, secondo i quali la spinta all’espansione territoriale. È evidente anche se si osserva la
politica coloniale dei decenni precedenti. Da questo punto di vista il caso britannico è
particolarmente istruttivo: se si esamina la politica coloniale britannica tra 1841 e 1871, si può
facilmente constatare che è proprio in quel periodo che i britannici occupano o annettono la Nuova
Zelanda, la Costa d’Oro etc. “L’espansione economica tenderà a spingersi verso le regioni
economicamente più appetibili, ma tale appetibilità dipende tanto da considerazioni politiche
relative alla sicurezza quanto da questioni di profitto”. “Il medio periodo vittoriano ci appare come
un’epoca di espansione su larga scala, mentre la tarda epoca vittoriana non sembra introdurre alcuna
significativa novità in questo processo di espansione. Che l’Africa sia stata l’ultimo campo della
penetrazione europea non significa che sia stato il più importante. Lo storico che voglia trovare il
significato più profondo dell’espansione avvenuta alla fine del XIX secolo deve guardare non
all’inglobamento delle giungle e della savana africana, ma all’efficace sfruttamento dell’impero, sia
formale che uniformale, che allora era già in atto in India, in America Latina, in Canada e altrove.”.
La proposta interpretativa di Robinson e Gallagher, da loro ulteriormente sviluppata in un libro
pubblicato nel ’61 con la collaborazione di Alice Denny, “Africa and the Victorians. The Offical
Mind of Imperialism”, viene ulteriormente rielaborata qualche anno più tardi da David K.
Fieldhouse, che tuttavia nel suo affresco di sintesi, “L’età dell’imperialismo”, pubblicato nel ’73,
attribuisce al fattore “politica” un maggior rilievo esplicativo. “Se adottiamo questa interpretazione
generale c’è poco da discutere sulla relativa importanza causale dei fattori “eurocentrici” o
“periferici” nel produrre l’espansione coloniale. Anche se gli atteggiamenti europei vennero spesso
influenzati da forze interne, i fatti suggeriscono che gli interventi di solito iniziarono piuttosto come
reazione a problemi od occasioni determinatisi alla periferia, che non come il risultato di una
deliberata politica imperialistica. Il legame vitale tra economia e colonizzazione non fu dunque né
la necessità economica di colonie da parte delle metropoli né le esigenze degli interessi economici
privati, ma la conseguenza secondaria dei problemi creati alla periferia dell’attività economica o
extraeconomica europea e per i quali non esisteva una semplice soluzione economica. Fieldhouse,
dunque, attribuisce l’espansione materialista a circostanze congiunturali di natura politica più che
economica; inoltre, in un certo senso, propone una lettura eurocentrica “rivista e corretta”, che,
mentre intende spiegare le ragioni dell’imperialismo, al tempo stesso offre anche nuove
giustificazioni a quell’esperienza. Anche lo storico Hans-Ulrich Wehler che nel caso tedesco le
spiegazioni economiche siano di particolare aiuto; propone, però, un’interpretazione molto diversa
da quella di Fieldhouse, giacché a suo parere sono le tensioni socio politiche interne al neonato
impero tedesco il campo di forze fondamentale che spinge Bismarck e il fronte socio-politico
conservatore che lo sostiene verso l’avventura coloniale. Con Wehler la prospettiva analitica
originaria di Hobson, Hilferding e Lenin, saldamente ancorata nell’individuazione di specifiche

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cause economiche si ribalta completamente: nella sua analisi, non l’economia ma la politica, e per
di più la politica interna di una potenza imperialista, diventa la dimensione esplicativa principale,
almeno per quanto riguarda il caso dell’impero tedesco.

3. Cultura e imperialismo (Said)


Sin dai primi anni ’70, accanto ai lavori di storici che sono guidati da un rinnovato interesse per le
componenti politiche dell’esperienza imperiale, cominciano a essere pubblicati anche lavori che
studiosi che esaminano il significato e il rilievo dei miti e delle culture che danno sostegno alle
avventure imperiali. Tuttavia, la vera svolta culturale negli studi dell’imperialismo ha inizio davvero
solo con la pubblicazione di “Orientalismo”, un libro che un brillante studioso di letture comparate,
Edward W. Said, fece uscire nel ’78. L’orientamento inteso come insieme organico di discipline
scientifiche, di narrazioni letterarie e di rappresentazioni popolari che veicolano un’immagine
stereotipata e rigida applicata a civiltà a volte infinitamente diverse tra loro, si consolida solo a
partire dalla fine del ‘700, a partire dall’importantissima esperienza culturale quale fu l’invasione
napoleonica d’Egitto. Nell’800, quando si guarda all’“Oriente”, alle sue credenze religiose, tutto
sembra strano, primitivo, barbaro, che è quanto dire inferiore rispetto alle credenze, alle istituzioni o
alle pratiche europee. Razzismo popolare o pseudo scientifico, nel corso del’800 occuparono un
posto rilevante nella cultura europea. Che tutto questo approccio all’oriente dia una descrizione
infondata sulle varie civiltà orientali è una parte integrante del gioco politico e culturale che
alimenta l’orientalismo. “Limitarsi a dire che l’orientalismo è una razionalizzazione del dominio
coloniale significa ignorare che esso spesso lo precedette, costituendone più un incentivo che una
giustificazione.”. Si tratta di un incentivo abbastanza forte, perché fondato su ciò che appare come
un riconoscimento “scientifico” delle differenze tra le razze: “l’occidentale bianco della classe
media ritiene sua inalienabile umana prerogativa non solo il governare le popolazioni non bianche,
ma anche possederle, perché per definizione “esse” non sono del tutto umane nel senso in cui “noi”
lo siamo, bensì solo in un senso più lato, dotato di uno status etico inferiore. Un buon es. di come in
generale funzioni ogni ideologia disumanizzante.”. Said, con brillante intuizione, non si lascia
sfuggire la dimensione sessuale che abita la cultura imperialista: “l’orientalismo latente incoraggia
una visione del mondo peculiarmente maschile. La donna è quasi sempre una creazione delle
fantasie di predominio dell’uomo; esprime un’illimitata sensualità, è più o meno stupida e,
soprattutto, disponibile. La Kuchuk Hanem di Flaubert è il prototipo di tali caricature.”. Negli scritti
dei geografi o degli antropologi europei che nell’800 e nel ‘900 viaggiano nei paesi orientali prende
corpo l’immagine dell’oriente come spazio geografico da coltivare o da cui trarre frutti: e
nell’alimentare immagini di questo tipo le metafore agricole si intrecciano sistematicamente con le
metafore di tipo sessuale. Né si tratta solo di metafore: “Ciò che essi in genere cercavano era un
altro tipo di sessualità, più libertina, per così dire, e meno gravata da sensi di colpa. Col tempo, la
sensualità orientale è diventata una merce come un’altra, dispensata senza difficoltà dalla cultura di
massa, col risultato che lettori e autori potrebbero, volendo, procurarsela senza neppure il bisogno
di andare in oriente.”. La forza della proposta contenuta in “Orientalismo” risulta peraltro
ulteriormente potenziata da uno studio successivo. “Cultura e imperialismo”, che Said pubblica nel
’93, e che proietta su tutto l’universo coloniale il metodo e le interpretazioni sperimentate
nell’analisi della rappresentazione del solo oriente. In quest’ottica, il prodotto culturale che più
palesa il rapporto tra cultura e storia coloniale è il romanzo. Said non ha intenzione di attaccare i
testi classici della letteratura occidentale, e neppure sminuire il “canone occidentale”. Egli, al
contrario, si chiede come sia potuto succedere che personalità così eminenti della cultura, scrittori

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illuminati e progressisti, non abbiano contestato le teorie di classificazione delle razze umane che
necessariamente tentavano di dimostrare l’esistenza di razze inferiori. La sua importante lezione
analitica – che si giova dei suggerimenti teorici tratti dagli scritti di pensatori assai diversi tra di
loro, come Antonio Gramsci o Michel Foucault – invita a decostruire gli stereotipi come primo
passo necessario per la riconquista di una verità scientificamente provata: “nessuno oggi è
esclusivamente una “cosa sola”. Etichette come indiano, donna, musulmano, o americano sono solo
dei punti di partenza che, se per un momento vengono seguiti nell’esperienza diffusa, sono poi
preso abbandonati. L’imperialismo ha consolidato su scala globale una miscela di culture e identità.
È più gratificante – e più difficile – pensare in modo concreto e comprensivo, contrappuntistico,
agli altri di quanto non lo sia pensare esclusivamente a “noi”. Ma ciò significa anche non cercare di
dominare gli altri, non cercare di classificarli o inserirli a forza in un ordine gerarchico e,
soprattutto, non ripetere continuamente che la nostra cultura (o il nostro paese) è la prima fra tutte
(o che non lo è, per quel che conta). L’intellettuale ha ben altri e più validi compiti da svolgere.”.

4. “Subaltern Studies”/”Post-Colonial Studies” (Guha, Spivak)


In “Cultura” e “Imperialismo” Said traccia una chiara differenza concettuale tra “imperialismo” e
“colonialismo”: mentre il primo termine ha una netta localizzazione occidentale, e indica le teorie e
le pratiche di dominio sviluppate dalle élites economiche e politiche dei centri metropolitani che
dominano lontane periferie, il secondo termine dovrebbe indicare la concreta interazione tra gli
occidentali e le popolazioni locali. In altri periodi di quest’osservazione di Said sarebbe, con tutta
probabilità, passata senza lasciare traccia. Ma in una fase in cui i processi di decolonizzazione
infrangono l’“incanto” dell’indiscussa superiorità dell’occidente, anche gli storici occidentali
cominciano ad avvertire l’impellenza di una questione a lungo trascurata, realizzando che la
dinamica dell’imperialismo ha coinvolto milioni di persone con occidentali, uomini e donne alle
quali gli occidentali hanno voluto imporre il loro dominio. La revisione all’impianto eurocentrico
degli studi sull’imperialismo deve molto al lavoro di Robinson e Gallagher. Per loro, peraltro, il
mutamento di prospettiva non è imposto tanto da ragioni etico-politiche, quanto da una mera
necessità conoscitiva: “sarebbe dovuto risultare evidente fin dall’inizio che l’imperialismo era il
prodotto di un’interazione tra politiche europee e politiche non europee. L’espansione economica e
strategica europea assunse forme imperiali quando queste 2 componenti vennero a incontrarsi con la
terza componente non europea: quella della collaborazione e della resistenza indigena. Senza la
collaborazione volontaria o imposta dalle élites al governo dei paesi non europei, non sarebbe stato
possibile il trasferimento di risorse, non avrebbero potuto essere salvaguardati gli interessi strategici
delle potenze europee e difficilmente avrebbero potuto essere strategici delle potenze europee e
difficilmente avrebbero potuto essere evitate relazioni di xenofobia e manifestazioni di resistenza. E
d’altra parte senza la collaborazione indigena, le potenze europee non avrebbero potuto, quando se
ne pose l’esigenza, conquistare e dominare i loro imperi non europei.”. La vera sfida
dell’eurocentrismo negli studi sull’imperialismo non viene tanto da contributi di accademici
euroamericani, quanto da lavori di studiosi non occidentali che – a contatto diretto con Said e con le
sue proposte teoriche, elaborano uno sguardo dall’interno delle società coloniali, a partire dalle
soggettività delle popolazioni che l’imperialismo l’hanno subito. Questa prospettiva è stata
promossa con particolare efficacia dal “Subaltern Studies Group”, una sorta di collettivo composto
da studiosi indiani, che negli anni ’80 propone un approccio nuovo allo studio dei mondi coloniali.
Di riferimento fu Antonio Gramsci e la sua riflessione sui gruppi subalterni. Le storie precedenti,
anche quelle scritte da storici indiani, avevano centrato le loro narrazioni intorno agli orientamenti e

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ai progetti delle élites indiane occidentalizzate. Così facendo, avevano del tutto trascurato le culture
e le pratiche dei gruppi marginali, i subalterni, per l’appunto, marginali ma quantitativamente e
culturalmente fondamentali nella storia dell’India contemporanea. Il capofila di quest’orientamento,
Ranajit Guha, definisce come “subalterni” “tutti i gruppi subordinati per ragioni storiche, classe,
genere, cultura, lingua e religione”, vale a dire – osserva in una polemica precisazione – tutti coloro
che costituiscono “la differenza demografica tra la popolazione indiana totale e l’élite dominante
indigena e straniera. Il gruppo ha attirato be presto l’attenzione di studiosi occidentali, specialmente
angloamericani, ma anche subito un fruttuoso attacco critico “dall’interno”, che ha, a sua volta,
stimolato la gemmazione di nuovi percorsi analitici. L’attacco è stato portato da Gayatri
Chakravorty Spivak, la quale si è chiesta se “i subalterni possano davvero parlare”. Ciò che Spivak
vuole suggerire è che è impossibile identificare un “universo subalterno” completamente separato
dai circuiti comunicativi attivati dagli occidentali e dalle élites occidentalizzate; cioè, non è
possibile immaginare una perfetta autonomia dei gruppi marginali. Essi hanno orizzonti culturali
propri, proprie pratiche. Il loro linguaggio è quindi un linguaggio complesso, che rielabora, in forma
creativa, la commistione tra linguaggi locali e linguaggi dall’esterno. Questa complessità, che
secondo Spivak rischia di sfuggire alla griglia analitica predisposta dal Subaltern Studies Group,
appare anche più evidente nel caso delle componenti femminili delle società coloniali. La loro
plurima subalternità complica evidentemente le mappe culturali e linguistiche che connotano la loro
esperienza, poiché la multiforme complessità delle culture subalterne nel loro caso è ulteriormente
articolata dalla componente del “genere”. Appartenenze religiose, professionali, di casta o di
località interferiscono con questa già alta complessità prodotta dall’interazione tra dominatori
occidentali, élites locali e mondi subalterni. “Post-Colonial Studies”: il termine, impiegato dalla
stessa Spivak, può risultare fuorviante quando inteso nella sua più banale e intuitiva accezione
cronologica, relativa, cioè, a ciò che viene dopo la fine del colonialismo. In realtà, i “Post-Colonial
Studies” non si dedicano solo allo studio delle società nate dal processo di decolonizzazione, ma
intendono ricostruire la stratificata topografia degli scambi culturali che si snoda lungo un arco
spesso plurisecolare.

5. Ricerche sul colonialismo italiano (Del Boca, Labanca, Sòrgoni)


Nel contesto dell’imperialismo occidentale, l’espansionismo coloniale italiano non riveste che un
ruolo piuttosto marginale: ultimo arrivato tra le grandi potenze, il Regno d’Italia si conquista spazi
coloniali in Eritrea, in Libia e in Etiopia solo con grandi difficoltà militari e politiche. A ciò si
aggiunga che la letteratura sull’argomento, specie durante il fascismo, è dominata da scritti di
geografi, antropologi o storici diplomatici e militari, che, oltre a fornire materiali informativi,
avevano anche l’obiettivo dichiarato di giustificare o legittimare le tardive avventure dello stato
italiano. Il quadro è cambiato profondamente con la pubblicazione di un’importante serie di studi. Il
capofila di questa nuova storiografia è senza dubbio Angelo Del Boca, che tra il ’76 e l’84 pubblica
in 4 volumi l’opera “Gli italiani in Africa Orientale”, e tra l’86 e l’88 “Gli italiani in Libia”, opera in
2 volumi. Come suggerisce il titolo dell’opera, è piuttosto la storia degli italiani in Africa Orientale,
la storia di un popolo povero spinto da minoranze irresponsabili e da un insano concetto del
prestigio internazionale ad aggredire e sottomettere popoli ancora più poveri. Essa si propone di
dimostrare, essenzialmente, che il colonialismo italiano dell’ultimo quarto dell’800 e dei primi 2
decenni del ‘900 non è stato diverso, cioè più umano, più illuminato, più tollerante degli altri
colonialismi europei coevi e del tardo colonialismo fascista. Intende anche provare che lo stato
liberale, che è l’artefice dell’espansionismo italiano in Africa, ha trasmesso senza ombra di dubbio

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alcune pericolose eredità al fascismo. Del Boca ha curato anche un importante volume collettaneo,
“Le guerre coloniali del fascismo”, che raccoglie i contributi di molti storici italiani e stranieri che
hanno inteso scandagliare da diverse angolature le caratteristiche del colonialismo fascista. Del
Boca stesso contribuisce al volume con un capitolo sui crimini fascisti. Lo storico procede nel suo
esame mettendo in evidenza quello che risulta essere un punto focale per rispondere organicamente
al quesito iniziale. Già in epoca liberale le conquiste coloniali e l’amministrazione delle terre
conquistate sono caratterizzate da innumerevoli abusi, soprusi, atti di violenza. Ciò che cambia con
il fascismo non è tanto la modalità della dominazione coloniale, quanto piuttosto la gestione
dell’informazione: la censura e la manipolazione degli organi di stampa o dei giornali radio
contribuiscono in modo decisivo a nascondere le reali caratteristiche del colonialismo fascista. Con
l’avvento del fascismo, la condizione dei sudditi delle colonie si fa ancora più precaria, innanzitutto
perché viene posta a tacere l’opposizione, tanto in parlamento che negli organi d’informazione.
Diventa così possibile, per il regime, esercitare la più severa censura su tutto ciò che accade nelle
colonie. Quel poco che filtra, attraverso la stampa e l’Eiar, è generalmente destinato a rassicurare
l’opinione pubblica oppure si traduce in una continua e crescente esaltazione della missione
civilizzatrice dell’Italia fascista in Africa. Anche i metodi repressivi, come l’impiego di gas, oppure
i campi di concentramento, rappresentano caratteristiche basilari della tecnica di dominio del
colonialismo italiano. Si proietta il mito autoassolutorio degli “italiani brava gente”. L’esperienza
coloniale italiana è al centro anche delle ricerche di Nicola Labanca, che, più giovane di Del Boca,
ne segue e ne approfondisce il percorso di ricerca. Il lavoro di Labanca è connotato da 3 aspetti
principali: un’accurata ricerca d’archivio; il recupero della memoria dei protagonisti minori
dell’avventura coloniale italiana; e un fitto e costante dialogo con la storiografia internazionale su
imperialismo e colonialismo. Secondo Labanca, sono ragioni di politica interna che inducono Crispi
e la classe dirigente della sinistra liberale a sostenere con decisione le imprese coloniali: l’obiettivo
era quello di attenuare le tensioni sociali interne, con operazioni che distraessero l’attenzione
dell’opinione pubblica, e soprattutto che dessero impulso al sentimento di appartenenza nazionale,
che proprio Crispi, nella sua azione di governo, cerca d’incoraggiare e diffondere. L’azione di
Crispi trova immediato sostegno presso la maggior parte dei vertici dell’esercito, che vedono
nell’espansione coloniale un’occasione per consolidare il loro peso negli equilibri istituzionali del
Regno d’Italia. Ricordare che, da parte italiana, la guerra d’Etiopia fu una guerra nazionale,
moderna di massa ed essenziale, poiché l’urgenza di archiviare una storia imbarazzante che voleva
fare dell’“Italietta” un impero si era dimostrata vincente. Il volume vuole essere, quindi, al tempo
stesso “ricerca di storia militare, ma anche sull’espansione coloniale e sulla sua memoria; è un libro
sul fascismo ma anche sulla repubblica e su come essa (non) abbia fatto i conti con il passato
regime. Inoltre è un’indagine sulle modalità d’informazione di un’identità collettiva. Generazione di
storiche e storici ha raccolto le suggestioni che vengono dalla storia di genere e dalle indicazioni di
studiose come Gayatri Chakravorty Spivak, e hanno cominciato a esplorare il rapporto tra coloni
italiani e popolazioni locali, esaminando anche la natura delle relazioni sessuali in colonia.
Particolarmente importante, da questo punto di vista, è il libro di Barbara Sòrgoni, “Parole e corpi”.
Come ha osservato Said, e come accade in molti altri casi, anche la retorica coloniale italiana fa
ampio ricorso alla metafora sessuale per rappresentare in forma immediata il senso
dell’appropriazione delle terre africane desiderate, metafora di natura chiaramente virilista. La
metafora della Venere Nera, utilizzata per indicare contemporaneamente tanto la donna africana
quanto la terra Africa, consente di presentare il possesso dell’una come il corollario della conquista
dell’altra. Nel caso dell’Eritrea il rapporto asimmetrico – e non di rado violento – tra colono bianco

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e donna locale si colloca in una cornice istituzionale piuttosto particolare, che è quella del
“madamato”. Il termine indica la convivenza “more uxorio” di un colono italiano con una donna
eritrea, in un rapporto di coppia che molto spesso si completa con la nascita di figli. La relazione è
giustificata con l’esistenza, in alcune zone dell’Eritrea, di una specifica istituzione matrimoniale, il
demoz, che è un complesso contratto matrimoniale a termine, che prevede che l’uomo paghi alla
donna un compenso annuo, compreso il riconoscimento dei figli nati all’interno del rapporto. Le
convivenze stabili che coinvolgono coloni italiani e donne eritree interpretano tuttavia il demoz in
una forma peculiare (ovviamente a tutto vantaggio dell’uomo bianco): in qualche caso di demoz
trasformato in madamato viene considerato una forma di concubinaggio, senza che l’uomo sia
sottoposto ad alcun obbligo legale di nessun tipo: in qualche altro caso, il madamato è considerato
una variante della prostituzione, in ragione del compenso che l’uomo deve pagare alla donna. Che
prevalga l’una o l’altra interpretazione, solo pochissime convivenze si trasformano in matrimoni
legittimi; e, allo stesso modo, pochissimi sono i figli nati da una relazione di madamato che siano
poi stati riconosciuti dai padri italiani. L’atteggiamento dei coloni bianchi è animato da un
consapevole senso di superiorità: una doppia superiorità, nel caso di relazioni come quelle
incorporate nel madamato: la superiorità sugli “altri”; la superiorità del maschio sulla femmina. Il
regime fascista nei tardi anni ’30 irrigidisce in modo netto il confine tra “cittadini italiani” e “sudditi
eritrei ed etiopi”, da 2 punti di vista; da un lato accogliendo in forma esplicita l’ideologia razzista;
dall’altro proibendo i rapporti matrimoniali o sessuali razzisti. La legge per la difesa della razza
italiana del ’38 proibisce, in forma più generale, e con intenti antisemiti, “il matrimonio del
cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza”.

3) – “7°” – Disciplinamento del desiderio, disciplinamento dei corpi

1. Grande storia, piccola storia


La storiografia si occupa prevalentemente di politica, di economia, di guerre. In larga misura è
giusto che sia così: il potere, la ricchezza, la violenza organizzata sono certamente aspetti essenziali
della storia dell’occidente. L’amore, la sessualità, le distinzioni di genere, l’immaginario, l’impiego
del tempo libero, le emozioni potrebbero sembrare questioni irrilevanti. Ma irrilevanti non lo sono
per davvero, da almeno 2 punti di vista. In primo luogo perché una buona parte della vita affettiva
di ognuno, oggi come nel passato, è attraversata proprio da quelle esperienze, da quei sentimenti,
dalle gioie o dalle inquietudini che suscitano. In secondo luogo perché un’analisi della
trasformazione storica di quelle esperienze o di quei sentimenti può avere molto da dire sulla natura
dei rapporti di potere. Questo è almeno ciò che hanno pensato studiosi di altissima statura che
hanno, tuttavia, osservato, nel corso del loro lavoro il modo di operare delle passioni, dei desideri e
dei sentimenti del passato.

2. il dialogo della civiltà (Freud)


A Vienna, nel ‘900, uno psichiatra, all’epoca ancora non molto conosciuto, dà alle stampe uno dei
grandi capolavori della cultura occidentale: il medico è Sigmund Freud e il libro in questione è
“L’interpretazione dei sogni”. Smonta le teorie in vigore sul significato dei sogni, siano dotte o
popolari, per far spazio al suo pensiero, radicalmente innovativo, su come leggere i sogni e come
farne un uso terapeutico per la cura delle nevrosi. È l’inaugurazione della psicanalisi. Freud ritiene
di poter descrivere in modo nuovo il funzionamento della psiche umana e l’origine di una parte

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almeno dei disturbi psichici. Al di là della vita cosciente, dominata dalla consapevolezza di sé, che
Freud chiama Io, egli ritiene che esista una sfera inaccessibile (o difficilmente accessibile) della
psiche umana, nella quale ciascuno soffoca i desideri o le pulsioni: è l’area dell’Inconscio. Ciò che
consente di tracciare un confine approssimativamente stabile tra Inconscio e Io l’insieme degli
insegnamenti morali e normativi che un individuo ha appreso, organizzati in un’area psichica che
Freud chiama Super-Io; si tratta di una dimensione che, inconsapevolmente, indica a ciascun
individuo quale parte dei suoi desideri e delle sue pulsioni sia ammissibile, e quale, invece, debba
essere rimossa, dimenticata nell’inconsapevolezza dell’Inconscio. Nondimeno, le pulsioni e i
desideri nascosti sono parti indocili della psiche umana e cercano di riemergere alla
consapevolezza, infrangendo i divieti del Super-Io. Tuttavia, proprio la pressione del Super-Io fa sì
che tali desideri proibiti riemergano in forma mascherata, per es. nei sogni. La ragione per cui i
sogni vengono subito dimenticati è che essi – più o meno pericolosamente carichi di pulsioni
indesiderabili – devono essere cancellati insieme con quelle. Ma il sogno è una realtà normale del
funzionamento della psiche di un individuo; è una sorta di valvola di sfogo, la quale tuttavia
contiene materiali che lo psicanalista può leggere quando ci sia bisogno di curare una forma
patologica di manifestazione dei desideri inconsci, la nevrosi, che si manifesta quando insorge
qualche evidente disturbo del comportamento. Un comportamento nevrotico è il segno che il
difficile rapporto di equilibrio che lega Io, Super-Io e Inconscio si è rotto e che i desideri proibiti
riemergono alla coscienza; tuttavia essi, in un ultimo tentativo di mascheramento, non appaiono in
forma evidente ma mimetizzati proprio attraverso quei disturbi di comportamento. Freud ragiona
sempre come se le leggi di funzionamento della psiche, che lui ritiene di aver scoperto,
appartengano alla sfera degli “universali umani”, cioè a modelli eterni e assoluti di funzionamento
della psiche, come materiali interpretativi, tanto ciò che un qualche antropologo ha scritto su una
lontana civiltà africana e oceanica quanto l’“Edipo” di Sofocle, tanto l’“Amleto” di Shakespeare
quanto i resoconti dei suoi casi clinici riguardanti donne e uomini che vivono nella Vienna di fine
secolo. Questo quadro di assoluta destoricizzazione viene infranto in almeno un caso importante: un
saggio, “Il disagio della civiltà”, si apre proponendo una domanda semplice ed enorme: qual è
l’obiettivo di fondo che le società umane cercano di raggiungere nell’organizzare la propria vita?
non si può sbagliare, dice Freud: “la sofferenza ci minaccia da 3 parti: dal nostro corpo che,
destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali d’allarme che sono il dolore e
l’angoscia, dal mondo esterno che contro noi può infierire con strapotenti spietate forze distruttive,
e infine dalle nostre relazioni con altri uomini.”. Oggi gli uomini dispongono di talmente tante
innovazioni tecnologiche – scrive Freud, che possono anche quasi sentirsi delle divinità: eppure, un
senso di sorda infelicità continua a correre attraverso la società contemporanea. Perché? Il punto è
che nel processo d’incivilimento c’è stato anche il controllo e il dominio del desiderio sessuale, che
dev’essere chiuso entro schemi precisi affinché le società possano costruirsi in modo ordinato e
armonico, identificando chiaramente quali sono le relazioni sessuali assolutamente proibite e quali
sono le relazioni ammesse; il problema è che la serie di norme e proibizioni, scritte o non scritte, ha
fatto sì che, specie negli ultimi decenni, lo spazio riservato alle relazioni sessuali ritenute
ammissibili si sia estremamente ridotto: “cioè che non è stato messo al bando, e cioè l’amore
eterosessuale, viene ulteriormente circoscritto dalla barriere della legittimità e della monogamia. Un
legame unico e indissolubile tra un uomo e una donna, (e) non accetta la sessualità come fonte di
piacere fine a sé stessa, ma solo come mezzo per la propagazione della specie.”. Vi è anche il
dominio sulle pulsioni aggressive. Infatti, l’uomo “vede nel suo prossimo non solo un eventuale
aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la

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forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a
lui nel processo dei suoi beni, a umiliarlo, a farlo soffrire.”. La rinuncia, forzata o volontaria, a parte
delle sue pulsioni erotiche e a parte delle sue pulsioni aggressive è la posta che l’uomo civile deve
pagare in cambio della conquista di un po’ di sicurezza. La repressione delle pulsioni aggressive
scatena il senso di colpa, che è una sorta di ansia anticipatoria per ciò che si potrebbe commettere,
laddove si lasciassero libere le componenti aggressive proprie alla natura di ciascuno; la repressione
delle pulsioni sessuali si manifesta invece attraverso l’emergere di sintomi nevrotici, ove il Super-Io
non sia in grado di “far buona guardia” sulla spinta che tali desideri inammissibili esercitano
nell’Inconscio. Queste considerazioni possono essere trasferite dal piano individuale al piano
collettivo e in conclusione del saggio. Freud lo considera come il risultato di un costante lavoro di
rafforzamento (attraverso l’educazione nelle famiglie, nelle scuole, nelle chiese, o attraverso
l’azione repressiva degli stati) di una sorta di Super-Io collettivo nei confronti delle masse e delle
loro pulsioni, e che provoca stati ansiosi o nevrotici, a suo parere enormemente diffusi nella società
contemporanea, che egli ritiene siano il vero prezzo dell’incivilimento. Se la repressione di
entrambe le pulsioni può provocare disagi, non vi è dubbio che la più tremendamente pericolosa tra
le 2 pulsioni è quella aggressiva: “il problema fondamentale del destino della specie umana (scrisse
a conclusione del “Disagio della civiltà”) a me sembra sia questo: se, e fino a che punto,
l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla
loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse
particolare interesse. Gli uomini adesso ha esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che
giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda. Una civiltà potente ma triste, incapace
com’è di raggiungere davvero, nonostante tutte le sue risorse tecnologiche, quella felicità interiore
sembra allontanarsi sempre di più man mano che l’occidente raggiunge livelli di maggiore
incivilimento.

3. Il processo di civilizzazione (Elias)


Nel ’39, un sociologo tedesco, Norbert Elias, dà alle stampe un’opera imponente e ambiziosa,
intitolata “Il processo di civilizzazione”. Il libro, diviso in 2 parti, “La civiltà delle buone maniere”
e “Potere e civiltà” -, ripercorre il cammino che porta l’occidente da forme sociali disordinate e
violente, nelle quali le passioni e le emozioni individuali sono espresse quasi senza controllo, a
forme sociali nelle quali, invece, passioni ed emozioni sono sottoposte prima a costrizioni e limiti
sociali, e poi a una sottile ma efficacissima opera di autocostrizione messa in atto da ciascun
individuo. Il processo è spiegato dall’azione di 2 fattori di primaria importanza: da un lato la nascita
– sin dal tardo medioevo – di formazioni statali centralizzate, che limitano le autonomie dei gruppi
cetuali (feudatari etc.) e attribuiscono a sé e alle proprie figure-simbolo – i sovrani – il diritto
esclusivo di usare la violenza; dall’altro l’articolazione e la differenziazione sociale delle società
europee, che fa sì che le classi superiori mettano costantemente in atto alcune strategie della
distinzione per rimarcare la loro differenza e la loro superiorità rispetto ai gruppi sociali inferiori:
una parte essenziale di queste strategie della distinzione consiste proprio nell’acquisizione di
particolari abitudini di comportamento (le “buone maniere”), che si fondano sull’esibizione di un
grande controllo di sé e delle proprie emozioni, qualità di cui le classi inferiori – secondo Elias –
difettano in ogni contesto e in ogni epoca. La definizione del concetto di “violenza legale”, Elias
dipende dal lavoro di Max Weber, nella ricostruzione della nascita delle buone maniere come
percorso di progressiva autocostrizione Elias dipende direttamente da Freud. “”Nel corso del
processo di civilizzazione) le manifestazioni o le tendenze istintive socialmente indesiderabili

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vengono radicalmente soffocate. Agli occhi degli uomini esse si caricano di sentimenti di disgusto,
angoscia, pudore o colpa, persino quando essi sono soli. Una buona parte di quella che noi
definiamo “morale” o “motivi morali” a un determinato livello sociale assume, come strumento per
condizionare i bambini, la stessa funzione dell’“igiene” o dei “motivi igienici”. L’uso di questi
mezzi mira a fare del comportamento socialmente desiderabile un automatismo, un’autocostrizione,
e a farlo apparire alla coscienza del singolo come un comportamento che scaturisce dall’interno per
sua autonoma iniziativa, nell’interesse della sua salute o per salvaguardare la sua dignità umana. È
probabile che le “nevrosi” siano sempre esistite; ma quelle che vediamo oggi attorno a noi e che
definiamo “nevrosi” sono appunto una particolare forma storicamente determinata dal conflitto
psichico del quale è necessario mettere in luce la psicogenesi (cioè l’origine e lo sviluppo del
fenomeno determinati dalla personalità psichica) e la sociogenesi (cioè l’origine del fenomeno
determinata da fattori sociali)”. Elias vi esamina questioni solo apparentemente marginali, su un
arco di tempo che va dal medioevo al XIX secolo, il secolo nel quale – secondo lui – il percorso di
disciplinamento delle passioni si è del tutto compiaciuto. Egli utilizza fonti disparate, dai manuali di
comportamento ai diari, alle lettere, alle memorie, alle opere letterarie. Sulla base di questa
documentazione mostra che il modo di stare a tavola cambia profondamente nel corso dei secoli,
come cambia la soddisfazione dei bisogni naturali (come il defecare, orinare o sputare in pubblico).
Lo stesso accade per le relazioni sessuali. Infine, il ricorso alla violenza personale, nel corso di litigi
o risse, o come mezzo per risolvere un contrasto con altri individui o con altri gruppi sociali. Da
tutta questa ricostruzione Elias ricava 2 conclusioni di grande portata. Da un lato gli sembra che nel
medioevo alla fine dell’800 ci sia un processo piuttosto uniforme di innalzamento della soglia del
pudore e dell’autocontrollo. Dall’altro è importante per lui sottolineare che questo processo non
dev’essere considerato solo come frutto di imposizioni esterne, poiché esso si rafforza potentemente
attraverso meccanismi d’interiorizzazione delle norme, trasmesse dagli istituti educativi, dai
processi di socializzazione familiare, dai modelli imitativi del comportamento delle élites, e dalle
leggi degli stati. “La maggior parte degli adulti ha ormai da tempo dimenticato o rimosso il fatto che
i loro sentimenti di vergogna e ripugnanza, le loro sensazioni di piacere o di avversione, sono stati
modellati mediante pressioni e costrizioni dall’esterno e adeguati a determinate norme. Le norme
sociali alle quali il singolo è stato costretto ad aderire innanzi tutto per una costrizione esterna, alla
fine si riproducono in lui in modo più o meno automatico grazie all’autocostrizione, la quale entro
certi limiti opera anche se il singolo a livello di coscienza non lo desidera.”. L’importanza
dell’opera di Elias sta, dunque, nel dare ai suggerimenti di Freud un più ampio contesto storico; i
processi di controllo delle passioni o delle emozioni, che in Freud avvengono in un passato assai
indistinto, non sono da Elias ricollocati all’interno di una fase storica precisa, che dura una decina di
secoli o poco meno e che ha varie traiettorie e varie cronologie. È un affresco potente, quello di
Elias, che impiega però molto tempo a imporsi all’attenzione degli scienziati sociali. Ciò si verifica
solo quando la sua opera vie ripubblicata. Vi sono alcune critiche principali, come: 1) antropologi e
storici medievali hanno fatto osservare che né le società extraeuropee né le società europee
medievali sono così assolutamente selvagge e attraversate da comportamenti privi di regole e freni
come Elias suggerisce; 2) la visione evolutiva e continuista che regge l’intera analisi in alcuni casi
almeno non sembra confermata dai fatti; per es., sulla questione della soglia del pudore e
dell’esibizione della nudità, è chiaro che proprio mentre Elias scrive è in corso un processo inverso
che contrasta con le abitudini ottocentesche e che spinge all’esibizione di corpi nudi nell’arte; 3)
infine, la concezione che sorregge l’intero lavoro di Elias sembra a molti piuttosto dubbia; un livello
di autocontrollo piuttosto elevato non è necessariamente il presupposto di comportamenti “civili”,

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per far parte di un esercito moderno, sparare sui nemici (soldati o civili) od organizzare campi di
concentramento ci vuole un altissimo livello di autocontrollo e di dominio delle proprie emozioni:
ma è, tutto ciò, parte di un processo di civilizzazione. Sono critiche di notevole rilievo, ma resta il
fatto che Elias descrive una tendenza plurisecolare delle società europee che nelle sue grandi linee
almeno sembra a molti convincente.

4. I paradossi del disciplinamento (Foucault)


Quando uscì la seconda edizione del “Processi di civilizzazione”, già da qualche tempo un filosofo
francese, Michel Foucault, ha cominciato a pubblicare saggi storici importanti su aspetti diversi del
processo di disciplinamento nella società occidentale del tardo medioevo all’età contemporanea. In
“Storia della follia” Foucault descrive il “grande internamento” che alla metà del ‘600 trasforma le
modalità di assistenza ai poveri, ai marginali, ai folli – fin allora prerogativa della chiesa -, in
modalità d’intervento che prevedono l’identificazione concettuale di questi soggetti come “diversi e
pericolosi”, la loro separazione dal corpo della società e la loro reclusione in istituti specifici, i
manicomi. Nei 2 secoli seguenti accanto ai manicomi nascono altre istituzioni d’internamento per
individui “diversi e pericolosi”, come per es. le prigioni. In “Sorvegliare e punire”, che ricostruisce
la nascita del sistema carcerario ottocentesco, Foucault osserva che gli istituti che danno realtà al
“grande internamento” possono avere finalità apparentemente molto diverse, ma sono guidati da
una logica parallela: vogliono separare e rinchiudere specifiche tipologie di soggetti, la cui
pericolosità dev’essere ricondotta a una serie di matrici comuni. I loro corpi, le loro menti, si
rivelano inutili, resistenti o renitenti all’impiego lavorativo; il loro es. è nocivo; la loro presenza è
fonte di disturbo; per questo la loro separazione dal corpo sociale è una soluzione necessaria, poiché
mira a cercare di recuperarli per renderli nuovamente funzionali all’ordine sociale, oppure a isolarli
definitivamente, ove i loro corpi e le loro menti si rivelino irriducibilmente resistenti alla disciplina.
Foucault, in “Sorvegliare e punire”, scrive: “una volta che sia stato prodotto ed elevato a regola un
certo grado di omogeneità fra gli individui, tutte le loro differenze potranno essere misurate,
descritte ed eventualmente corrette in base a un modello di normalità la cui più sottile tecnica di
affermazione è la procedura dell’esame, forma di controllo che caratterizza tutti i poteri disciplinari.
Nello spazio in cui domina, il potere disciplinare manifesta la sua potenza essenzialmente
sistemando degli oggetti.”. L’esame clinico, l’interrogatorio o qualunque altra procedura di verifica
(compresi gli esami scolastici) non sono altro che la “cerimonia di classificazione, la procedura
attraverso la quale il potere capta i soggetti in un meccanismo di oggettivizzazione”, cioè trasforma
gli individui, i soggetti, in puri e semplici oggetti che devono essere distinti e classificati. E, in
definitiva, il potere-sapere consiste proprio in questo dispositivo fondamentale; saper classificare è
saper gerarchizzare, cioè sapere discriminare tra i più “adatti” e i meno “adatti”, collocando gli uni
nello spazio della normalità e gli altri nello spazio dell’esclusione e dell’internamento. Nel ’76 egli
dà alle stampe “La volontà di sapere”, che si presenta come il testo di apertura di una più ampia e
ambiziosa “Storia della sessualità”. In questo piccolo libro egli descrive il farsi di una “scientia
sexualis”, che nel XIX secolo attraversa una fase speciale di fioritura. Vi introduce degli elementi
che comportano una maggiore articolazione del quadro complessivo. Nell’800, dice Foucault, si
forma un ampio e approfondito discorso “tecnico” sulla sessualità che è sviluppato soprattutto dai
pedagogisti, dai giuristi e in primo luogo dai medici. Nelle intenzioni manifeste questo è un
discorso che vuole disciplinare, reprimere e nascondere la realtà del sesso e dev’essere affiancato
agli altri fenomeni repressivi già studiati dallo stesso Foucault negli anni precedenti. Da un lato
Foucault mette in relazione diretta il discorso medico-pedagogico ottocentesco sulla sessualità con

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le tradizionali pratiche penitenziarie del cristianesimo; dall’altro, mostra che essa produce
paradossali effetti contrari all’intenzione repressiva l’ha originariamente motivato. La specifica
pratica religiosa da cui ha origine il discorso medico e pedagogico ottocentesco sulla sessualità è la
confessione. Nella confessione “un imperativo è stabilito: non solo confessare gli atti contrari alla
legge (morale), ma cercare di trasformare il proprio desiderio in discorso. Dalla confessione,
dunque, nasce l’idea secondo cui esiste una verità segreta, nascosta in ciascun individuo. Che
dev’essere fatta riemergere se quell’individuo vuole sentirsi davvero libero. La cosa curiosa è che
una pratica nata da intenzioni così evidentemente autoritarie, trasmettendosi ad altri ambiti culturali
– per es. alla letteratura -, sollecita inaspettate potenzialità liberatorie; è ciò che accade quando la
confessione penitenziale si trasforma nell’autobiografia: l’esplorazione di una coscienza che mette
in mostra i suoi lati più reconditi avviene non più nel chiuso e nel segreto confessionale, ma in
pubblico. Attraverso passaggi che Foucault non si sofferma a indagare, il modello della confessione
fornisce la traccia fondamentale che viene sviluppata dalle scienze mediche e pedagogiche
ottocentesche, le quali adottano come tecniche d’indagine gli interrogatori, i questionari, le raccolte
d’informazioni, le “confessioni” che il paziente deve comunicare al medico, il malato di mente allo
psichiatra, lo scolaro al docente. Mentre la confessione deve mantenere il carattere di una relazione
duale tra confessore e penitente, all’interno della quale lo scambio d’informazioni si chiude, il
sapere medico-pedagogico ha per suo statuto scientifico il dovere di divulgare tutto ciò che
l’indagine ha portato a conoscere. Questa particolare “colonizzazione” medico-pedagogica nel
campo della sessualità ha un’ulteriore importante conseguenza: tende a considerare il sesso come
una pratica che spiega, ed è, la causa di tutto. E ciò perché l’indagine sessuale non vuole avere un
effetto sanante. Per raggiungere quest’obiettivo ha però bisogno di disporre anche di un quadro
complessivo delle forme di sessualità; ha bisogno di dire quali sono le sessualità “normali”,
positive, accettabili e quali sono le sessualità “anormali”, negative, dannose all’individuo e alla
società. Concluse Foucault, contro ogni apparenza l’800 è caratterizzato tutto da un gran parlare
della sessualità, che si espande in ogni direzione e ha sorprendenti effetti imprevisti. Per questo
Foucault scrive che la “società borghese” del XIX secolo, probabilmente ancora la nostra, è una
società di perversione abbagliante e diffusa; poiché è una società che – attraverso famosi scienziati,
come Kraff-Ebing o Lombroso, e moltissimi altri con loro – dà innumerevoli es., sollecita curiosità,
offre modelli da copiare o riutilizzare, facendo della sessualità una pratica che si deve temere e
nascondere, ma di cui, al tempo stesso, non si smette mai di sentir parlare.

5. Le origini della biopolitica (Foucault)


ЀЀ questo il tema affrontato nell’ultimo capitolo de “La volontà di sapere”, intitolato “Diritto di
morte e potere sulla vita”. Il diritto di far morire e di lasciar vivere, dopo tutto, era simbolizzato
dalla spada. E forse bisogna ricollegare questa forma giuridica a un tipo storico di società in cui il
potere si esercitava essenzialmente come istanza di prelievo. Dal XIX secolo, invece, l’asse si
sposta verso il “far vivere”. “Le guerre non si fanno più in nome del sovrano che bisogna difendere;
si fanno in nome dell’esistenza di tutti; si spingono intere popolazioni a uccidersi reciprocamente in
nome della loro necessità di vivere. I massacri son diventati vitali.”. Concretamente, questo potere
sulla vita si è sviluppato in 2 forme principali a partire dal XVII secolo. Uno dei poli, il primo,
sembra essersi formato ed è stato centrato sul corpo in quanto macchina; il suo dressage
(addestramento), il potenziamento delle sue attitudini, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di
potere che caratterizzano le discipline: scuole, collegi, caserme, carceri, officine sono i luoghi in cui
si esercitano le “discipline. Il secondo, che si è formato un po’ più tardi, verso la metà del XVIII

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secolo, è centrato sul corpo-specie, sul corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da
supporto ai processi biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, la loro assunzione si opera
attraverso tutta una serie d’interventi e di controlli regolatori, una “bio-politica” della popolazione.
La creazione, nel corso dell’età classica, di questa grande tecnologia a 2 facce, caratterizza un
potere la cui funzione più importante non è forse più uccidere, ma investire totalmente sulla vita. Il
fatto che la vita diventi oggetto di azione politica è la grande novità che caratterizza questa svolta:
“bisognerà parlare di “bio-politica” per designare quel che fa entrare la vita e i suoi meccanismi nel
campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana.”. “ЀЀ
per questo che, nel XIX secolo, la sessualità è inseguita sin nei minimi particolari delle esistenze; è
braccata nei comportamenti, le si dà la caccia nei sogni. Ma la si vede anche diventare tema di
operazioni politiche (attraverso incitamenti o freni alla procreazione: la si valere come l’indice di
forza di una società, quel che ne rivela tanto l’energia politica che il vigore biologico.”. Proprio
questo rilievo “politico” del sesso ispira le 4 principali aree d’intervento che sono proprie del
discorso sulla sessualità che si struttura nel corso del XIX secolo: la campagna contro la sessualità
precoce, specie nei bambini, e in particolare la proibizione della masturbazione, lo stretto
monitoraggio della sessualità delle donne, la proibizione del controllo delle nascite,
l’individuazione e la psichiatrizzazione delle “perversioni sessuali”. La logica fondamentale che
collega tutte e 4 queste aree d’intervento è l’attacco repressivo contro pratiche sessuali non
procreative. Si capisce meglio la grande rilevanza del discorso sul sesso e sulla biopolitica: se le
comunità nazionali, oltre a essere comunità politiche, sono anche comunità biologiche, il controllo
sulla loro riproduzione in termini demografico-quantitativi e in termini etnico-qualitativi diventa
una questione politica cruciale. Si tratta di stabilire le migliori modalità per la riproduzione
dell’intera comunità politica e d’impedire quelle pratiche sessuali che possano produrre la
degenerazione (cioè la trasmissione di tare ereditarie alle generazioni seguenti) o la scarsa crescita
della comunità. “Bisogna difendere la società”, lo slogan che dà il titolo al corso, ovviamente vuol
dire che bisogna difendere la comunità dai suoi nemici esterni; ma vuol dire anche che bisogna
difenderla da quelli interni, cioè da coloro che non essendo “normali” possono minarne la stessa
sopravvivenza. Ciò che ha consentito l’iscrizione del razzismo all’interno dei meccanismi dello
stato è risultata essere proprio l’emergenza del bio-potere. È infatti in questo momento che il
razzismo si è inserito come meccanismo fondamentale del potere. Il razzismo diventa il criterio che
permette di decidere quale parte della comunità si deve far vivere, e quale parte della comunità (o di
altre comunità) si deve sopprimere per il bene della prima. “La morte dell’altro – nella misura in cui
questa morte rappresenta la mia sicurezza personale – non coincide semplicemente con la mia vita.
La morte dell’altro, la morte della cattiva razza, della razza inferiore (o del degenerato, o
dell’anormale), è ciò che renderà la vita in generale più sana e pura.”. Alla fine del XIX secolo, la
guerra apparirà soprattutto – e questo è un fatto assolutamente nuovo – non solo come un modo per
rafforzare la propria razza eliminando quell’avversa (secondo i temi della selezione e della lotta per
la vita), ma anche come un modo per rigenerare la propria razza. Più saranno numerosi quelli tra noi
che muoiono, più la razza alla quale apparteniamo sarà pura.”. Col nazismo la bio-politica si
coniuga nuovamente con una piena e integrale tanato-politica: il nuovo potere di far vivere – la
biopolitica – si ricollega, in forma tecnologicamente sofisticatissima e secondo principi del tutto
nuovi, all’antico potere di “far morire”. Si può dire che lo stato nazista ha reso assolutamente
coestensivi il campo di una vita che esso organizza, protegge, garantisce, coltiva biologicamente, e
al contempo il diritto sovrano uccidere chiunque. Con i nazisti ha preso corpo una coincidenza tra
un bio.potere generalizzato e una dittatura insieme assoluta e che grazie alla formidabile

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moltiplicazione del diritto d’uccidere e dell’esposizione alla morte – si trasmette a tutto il corpo
sociale.

6. Ottocento misogino (Dijkstra)


L’analisi di Foucault è singolarmente silente su un aspetto chiave dell’intero processo, ovvero la
distinzione tra i “generi” all’interno delle comunità politiche contemporanee. Altri studiosi, pur
muovendo dalla potente riflessione foucaultiana, hanno invece considerato il “genere” come una
variabile analitica essenziale per definire il processo di civilizzazione che attraversa l’occidente
contemporaneo. Bram Dijkstra, per es., è certamente d’accordo con Foucault nel ritenere quella
ottocentesca una società nient’affatto morigerata ma incredibilmente avida di discorsi relativi alla
sessualità. Nel libro intitolato “Idoli di perversità. La donna nell’immaginario artistico, filosofico,
letterario e scientifico tra ‘800 e ‘900 egli sostiene che non si riesce a capire adeguatamente la
natura del discorso culturale ottocentesco sulla sessualità se non si tiene in considerazione che – per
la struttura del sistema scolastico – ne sono autori solo o prevalentemente uomini. Dijkstra
argomenta la sua tesi in una forma un po’ selettiva; e ciò tende a escludere ogni testimonianza che
contrasti con la sua visione. Tuttavia le testimonianze che offre sono innumerevoli e tali da mostrare
persuasivamente l'effettiva esistenza di una robustissima corrente di pensiero misogino che anima la
cultura euroamericana ottocentesca. Il modello iniziale, diffuso all’inizio dell’800, è un modello
ovviamente asimmetrico, che vuole la donna sottomessa all’uomo e reclusa nei ruoli di madre e
angelo del focolare. Tuttavia, un modello di questo genere ha delle proiezioni imprevedibili e
sorprendenti, per es. nell’imporre la voga della donna pallida. Abba Goold Woolson intitolò un
capitolo del suo “Woman in American Society”, “L’infermità come scopo”. Quest’infermità, diceva
la scrittrice, è visibile dappertutto. Tutte le donne americane sono afflitte da fiacchezza e malattia.
Secondo il nuovo credo essere malate era un segno di finezza e distinzione. Nella nostra società,
assomigliare a una raffinata signora significa mostrare un aspetto esangue, debole, da donna che
non può fare nulla. Pelle diafana, emicranie, anoressie, stati di malessere e – nel caso – anche
malattie più gravi finivano per diventare un emblema d’identità (e un modo per farsi accettare).
Mode di questo tipo – osserva Djkstra – vogliono imporre figure femminili che non siano in
nessuna forma minacciose per l’egemonia maschile e che anzi siano massicciamente rassicuranti.
Proiezioni così mortificanti per le donne, e così rassicuranti per gli uomini, si moltiplicano
incessantemente nel corso del secolo; ma, via via che emergono donne che richiedono nuove forme
d’indipendenza o di pari dignità, l’immagine rassicurante della donna angelica o dolcemente
debilitata e bisognosa dell’appoggio maschile si trasforma nella figura minacciosa di una donna
aggressiva e indipendente. Lombroso e Ferrero avevano notato che l’odio feroce che la donna
criminalmente sensuale prova per l’uomo non ha alcuna causa e nasce da un male innato e cieco.
Era il risultato di quel primitivismo congenito che il maschio era ben lungi dal comprendere. Era
estremamente importante, conclusero rapidamente Lombroso e Ferrero in “La donna delinquente”,
tenere la donna occupata nell’ambito familiare e rimuovere tutte le fonti di eccitazione sessuale,
perché la donna normale manca di senso morale, ed è in preda a tendenza vagamente criminali,
come desiderio di vendetta, gelosia, invidia, cattiveria, solitamente neutralizzate da una minore
sensibilità e una minore intensità passionale. Sono ansie e preoccupazioni di questo tipo che
spiegano il singolare successo e la larga diffusione tra fine ‘800 e inizio ‘900 delle immagini
bibliche o evangeliche rappresentanti Giuditta, la donna ebrea che per salvare la sua città sedusse il
generale nemico, o di Salomè, la quale, in cambio di danza sessuale chiese al patrigno la testa di
San Giovanni Battista. È sull’analisi del trattamento riservato a queste figure nella cultura letteraria

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e iconografica europea di fine ‘800 che si chiude il libro di Djkstra, figure simbolo dello sconcerto
maschile di fronte a nuove forme di autocoscienza femminile. Il libro di Djkstra dimostra molto
chiaramente come il controllo delle emozioni e dei desideri abbia pure una netta connotazione di
genere. Questa prospettiva è stata confermata da altri studi storici, fra cui quelli di George L.
Mosse, che hanno mostrato come tale connotazione non riguardi solo le donne eterosessuali ma
anche tutte le altre categorie sessuali individuate dalla scienza medica ottocentesca (i bambini e le
bambine, così come gli omosessuali maschi e femmine): a tutti si chiede di uniformare il proprio
comportamento agli standard educativi e morali vigenti, pena l’emarginazione o la repressione
penale.

7. La formazione di un gentiluomo (Girouard)


Se le donne devono mortificarsi in casa al chiarore del focolare; se gli omosessuali rischiano il
disprezzo morale o la prigione; che ne è dei veri “uomini” ottocenteschi? E in particolare, che ne è
dei gentiluomini ottocenteschi, apparentemente la quintessenza della civiltà occidentale nel loro
appartenere alla razza dominante e al genere dominante? Un esame della cultura del gentleman
inglese ottocentesco, come quella compiuta in uno straordinario libro di Mark Girouard, mostra che.
in effetti, il fondamento essenziale della sua formazione sta nell’acquisizione di grandi capacità di
autocontrollo emotivo. Ciò detto, è la ricostruzione degli specifici contenuti culturali della mentalità
e dei valori di un gentiluomo ottocentesco. Girouard si concentra esclusivamente sul contesto
britannico ottocentesco. Onesti, coraggiosi, fedeli (degli es. positivi), pronti a difendere le fragili
donzelle, questi fantastici cavalieri ideali, rilanciati dal revival medievale, si propongono come
modelli di comportamento per le élites sociali britanniche ottocentesche. Quali ne sono i caratteri?
L’autocontrollo, in primo luogo; la cortesia nei confronti degli avversari; la lealtà nei confronti dei
compagni, come nei confronti della propria donna; il coraggio, la capacità di sopportare il dolore
fisico e la fatica, specie quando sono fronteggiati per un nobile scopo. Oltre lo sport, il terreno su
cui possono esser messi alla prova gli ideali cavallereschi è quello della guerra: fare il militare (o
esser pronto a servire la patria e la regina) con coraggio e con lealtà è valore non meno importante
degli altri, osserva Girouard, tutta la cultura che si addensa attorno alla figura del gentiluomo è
connotata da un fortissimo bellicismo. La passione per lo sport e – soprattutto – la valorizzazione
della cultura bellica fanno sì che gli ideali cavallereschi ottocenteschi siano accessibili ai soli
uomini. Ciò che si chiedeva a un cavalleresco gentiluomo – scrive Girouard – era di essere
“coraggioso, sincero e degno di stima, leale verso il suo sovrano, il suo paese, i suoi amici,
infallibilmente fedele alla parola data, pronto a intervenire contro chiunque trattasse male una
donna, un bambino o un animale. Era uno senza paura in guerra e a caccia, capace di eccellere in
molti sport; ma, per quanto duro contro i duri, era invariabilmente gentile con i deboli; soprattutto
per loro condizione sociale. Metteva i bisogni degli altri davanti ai suoi; in qualità ufficiale, si
preoccupava sempre che i suoi uomini fossero adeguatamente assistiti. Non si vantava mai. Non era
interessato ai soldi. Era un amante ardente e fedele, ma odiava i discorsi volgari, specie se per
oggetto avevano le donne. “ЀЀ una rappresentazione assai istruttiva, però; il massimo della
civilizzazione, della nobiltà, dell’autocontrollo, unito al massimo del maschilismo e del bellicismo:
per quanto sinistro, soprattutto se si ricordano le parole di Freud nel saggio “Disagio della civiltà”,
proprio questo doveva essere il risultato del disciplinamento delle passioni per chi avesse voluto far
parte di una delle più potenti élites mondiali tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo.

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4) – “8°” – CAPITOLO: La Grande Guerra

1. Una premessa
ЀЀ stato compiuto uno sforzo analitico imponente che ha condotto a un grandissimo accumulo di
fonti, documenti, informazioni che hanno consentito una ricostruzione via via più sicura dei
caratteri e dello svolgimento della guerra.

2. Le cause della guerra (Fischer, Ritter, Joll)


La discussione storiografica si è fatta particolarmente intensa quando è stato pubblicato “Assalto al
potere mondiale. La Germania nella guerra, 1914-1918”, un libro che lo storico tedesco Fritz
Fischer ha dato alle stampe nel ’61. Fischer ha posto al centro della sua attenzione gli obiettivi
perseguiti dai dirigenti politici e dai capi militari dell’impero tedesco al momento dell’ingresso
della Germania in guerra. Quanto all’interpretazione complessiva, Fischer ha ritenuto di poter
affermare – senza mezzi termini – che la Germania era entrata in guerra per la deliberata
realizzazione di un piano di dominio europeo. L’orientamento aggressivo della Germania era dovuto
– secondo Fischer – alla sensazione di accerchiamento che aveva ossessionato i suoi politici e i suoi
diplomatici sin dalla formazione del sistema delle alleanze europee negli anni ’70-’90 dell’800.
Inoltre, Fischer suggeriva che l’“assalto al potere mondiale” della Germania guglielmina doveva
essere considerato il presupposto politico-culturale sulla base del quale interpretare la politica
aggressiva ed espansionistica perseguita dalla Germania nazista dalla metà degli anni ’30 del XX
secolo. La risposta storiograficamente più solida alla ricerca di Fischer è venuta dal ponderoso
lavoro di Gerhard Ritter, “I militari e la politica nella Germania moderna”, nel quale sono esaminati
i rapporti tra la componente militare e la componente civile della classe dirigente tedesca. Ritter vi
ha contestato accuratamente e appassionatamente la tesi di Fischer, sostenendo soprattutto che il
peso del militarismo nella vita politica di fine ‘800 inizio ‘900 e l’elaborazione di piani politico-
militari aggressivi non furono affatto una peculiarità della Germania. In un lavoro di sintesi che ha
presentato il bilancio di un’intera stagione di studi (“Le origini della prima guerra mondiale”),
James Roll, pur riconoscendo alla politica di Guglielmo II la maggiore responsabilità
nell’accelerare la generale corsa al riarmo verificatasi all’inizio del XX secolo, ha sostenuto anche
che le ragioni dello scoppio della guerra sono state molteplici e non possono essere identificate con
il piano tedesco di assalto al potere mondiale. Viceversa, le rivalità imperiali, la competizione
economica, il sistema delle alleanze, una diffusa cultura militarista e bellicista sono stati aspetti
effettivamente diffusi in profondità in tutte le società occidentali.

3. La cultura della guerra (Isnenghi, Fussell)


Nel libro di Joll un certo spazio è offerto pure dall’analisi del ruolo esercitato dalla cultura e dalla
mentalità nello spingere l’Europa verso la guerra. Ed è proprio questo il terreno sul quale si sono
concentrati gli studi più importanti degli ultimi 30 anni. Il mutamento di prospettiva è stato
inaugurato dallo studio di uno storico italiano, Mario Isnenghi, con la pubblicazione di “Il mito
della grande guerra, da Marinetti a Malaparte”, divulgato, però, con il titolo abbreviato “Il mito
della Grande Guerra”. La novità più significativa del libro sta nel punto di osservare e nelle fonti
scelte per esplorarlo. Il punto di osservazione, dunque: non la ricostruzione ravvicinata e minuziosa
delle vicende diplomatiche, politiche o belliche, ma l’esame del rapporto tra intellettuali, di varia
estrazione, e l’esperienza della guerra. Le fonti: le opere letterarie, narrative o memorialistiche.
Nell’esaminarne i testi Isnenghi è molto attento a cercare il senso politico che i diversi intellettuali
attribuivano alla guerra. Ne emerge un quadro che mostra una larga propensione degli intellettuali

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dell’epoca alla sovversione e, in generale, al disprezzo nei confronti delle istituzioni dello stato
liberale. Non è necessario che il sovversivismo diffuso dovesse per forza piegare verso destra,
osserva Isnenghi; chiaro è comunque che la riflessione e la rielaborazione letteraria della guerra
invitavano a una presa di distanza critica (se non decisamente sprezzante) nei confronti dell’Italia
liberale e delle sue pratiche di mediazione politica. 5 anni più tardi, la Oxford University Press
pubblicò il libro di uno storico americano della letteratura inglese, Paul Fussell, intitolato “La
Grande Guerra e la memoria moderna”. Anche Fussell non affronta i temi più tipicamente indagati
dalla storiografia sulla Grande Guerra. Diversamente da Isnenghi, però, l’attenzione di Fussell è
meno attratta dalle immediate ricadute politico-ideologiche del rapporto tra intellettuali e guerra, ed
è sensibile piuttosto al modo attraverso il quale la guerra condiziona e rimodella la “cultura”
britannica. Nella sua analisi il termine “cultura” vale in modo duplice: è l’insieme delle opere
culturalmente significative che sono state prodotte durante e sulla guerra; ma è anche, in un più
ampio senso antropologico, la “mentalità collettiva” che emerge dall’esperienza della guerra e che
trova nelle opere letterarie uno strumento di diffusione di grande efficacia. La grande guerra,
osserva Fussell, sembra produrre una “cultura basata su un incessante gioco di contrasti che non è
prodotto solo dal carattere traumatico della guerra in quanto tale ma anche dal fatto che la guerra
scardina le coordinate concettuali, linguistiche, narrative e mentali dell’anteguerra. Curiosamente,
questa struttura duale – un prima nostalgico, un’attualità infernale – si trasmise a molti altri aspetti
della mentalità dei soldati (tanto degli ufficiali quanto della truppa), i quali cominciarono a
ragionare per via di antitesi: “noi” (i buoni) contro di loro (i nemici, brutti e subumani). Non ha
alcuna importanza che queste dicotomie fossero più o meno vere o false: il punto è che questo era il
modo, piuttosto primitivo, di ragionare, imposto dall’esperienza della guerra. La perdita
dell’“innocenza”, la consapevolezza dello stato regressivo vissuto durante la guerra fecero sì, infine,
che la sua “memoria”, cioè il modo in cui è stata ricordata attraverso le opere letterarie o
memorialistiche, segnasse una frattura profonda. C’era un “prima” e un “dopo”; nel dopo, quello
che si pensava “prima”, il modo di esprimersi che si usava, le aspettative che si avevano non
valevano più.

4. L’esperienza della guerra (Leed)


In un libro pubblicato 4 anni più tardi della Grande Guerra, Eric J. Leed ripercorre diversi dei punti
già toccati da Fussell, studiandoli tuttavia sulla base di materiali soprattutto tedeschi. Anche Leed,
come Fussell, insiste sulla radicalità della disillusione prodotta dallo scontro tra le aspettative.
Secondo Leed, questa delusione è stata vissuta da molti di coloro che hanno combattuto nella
grande guerra come un momento di vera e propria discontinuità: ma – si chiede Leed – come sono
riusciti a dare un senso a una vicenda di questa portata? E che senso le hanno attribuito? In parte,
osserva Leed, la risposta viene trovata nella costruzione di forti legami emotivi con i compagni
combattenti. Questi legami diventavano particolarmente forti quando la solidarietà tra i combattenti
di ciò che accadeva lontano dal fronte. Leed, da un lato, mostra che i legami che collegavano i
combattenti alle loro comunità di guerra vennero conservati anche nel dopoguerra; e che ciò li
indusse a cerca di riprodurre, anche dopo la fine della guerra, le condizioni e le esperienze che
avevano vissuto al fronte. Questa constatazione aiuta a spiegare un fenomeno socio-politico
imponente del primo dopoguerra, ovvero la costituzione di numerose formazioni paramilitari,
soprattutto di destra, attraverso le quali gli ex combattenti cercarono di ottenere dalla società di
appartenenza quello che sentivano di non aver avuto. Uno dei disturbi più frequenti, diagnosticato
per la prima volta proprio nelle circostanze della grande guerra, fu il disturbo post traumatico da

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stress, ovvero l’insorgere di sintomi nevrotici in soldati che erano stati esposti a bombardamento,
all’attacco di una trincea, o a un qualunque altro momento della vita di guerra che aveva prodotto
nella loro psiche no shock violento. La questione delle malattie nervose, insieme con gli altri
elementi enumerati nel libro, consente a Leed di sostenere il carattere violentemente traumatico
della guerra, da un punto di vista sia personale, sia psicologico, sia culturale. A niente, secondo lui,
servirono le varie cerimonie organizzate nel dopoguerra per lenire il dolore collettivo provocato
dalla sofferenza e dal senso di morte: “Nessun rito di riaggregazione poté cancellare la memoria
della totale impotenza di fronte all’autorità e alla tecnologia.”. Lavori come quelli di Fussell e di
Leed propongono uno schema interpretativo molto chiaro e suggestivo, nel quale, dunque, la guerra
viene considerata come un “grande spartiacque della coscienza europea”. “La prima guerra
mondiale rappresentò per larga parte delle popolazioni europee la frattura e il trauma a partire dal
quale si costituì una moderna memoria collettiva, un senso nuovo del rapporto tra vita individuale e
grande storia, l’ingresso in un mondo nel quale erano in gran parte recisi i legami col passato e in
cui tale passato si inabissava in maniera irreversibile.”.

5. Il mito della guerra (Mosse)


Pur muovendosi sempre sul terreno della storia culturale, un autorevole storico come George L.
Mosse nel ’90 ha pubblicato un libro che presenta un quadro interpretativo piuttosto differente da
quelli suggeriti da Fussell e da Leed. Com’è conseguito in tutta la storiografia di Mosse, anche il
libro “Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti”, affronta un tema tipicamente
novecentesco (la prima guerra mondiale) da una prospettiva di più lungo periodo. Questa particolare
angolatura prospettica lo induce anche a ribaltare la tesi secondo la quale l’esperienza della Grande
Guerra avrebbe prodotto una frattura profonda nella cultura politica europea. A suo parere, invece,
le forme di continuità culturale dominano anche dopo la Grande Guerra e sopravanzano traumi,
delusioni e sofferenze prodotte dal conflitto. Senza dubbio, esordisce Mosse nel suo libro, la grande
guerra è stata un’esperienza di grandissima sofferenza, nella quale la morte ha regnato sovrana.
Eppure, diversamente da quello che ci si potrebbe attendere, dopo la fine della grande guerra
l’ombra della morte viene scacciata dalla nobilitazione del sacrificio compiuto in guerra sia da
coloro che sono caduti, sia da coloro che sono tornati: “un sentimento d’orgoglio si mescolava
spesso al lutto: il sentimento di aver avuto parte in una nobile causa, e di aver sofferto per essa.
L’immagine del soldato caduto tra le braccia di Cristo, così comune durante e dopo la prima guerra
mondiale, trasferiva la credenza tradizionale nel martirio e nella risurrezione alla nazione,
facendone un’onnicomprensiva religione civica.”. Le figure della santità bellica e del martirio
eroico hanno una storia molto lunga, che risale almeno alla rivoluzione francese e che si sviluppa
poi con le guerre nazional-patriottiche ottocentesche. Le figure simboliche della santità bellica e del
martirio eroico trassero alimento dal mito del volontariato militare che si era formato nel corso della
rivoluzione francese. Andare a combattere volontariamente, per una causa ben conosciuta e
profondamente condivisa come quella nazional patriottica, conferiva all’esperienza bellica un
valore nuovo: l’entusiasmo politico del soldato volontario e il mito dell’eroico combattente caduto
per difendere la patria diventarono i temi essenziali delle poesie e delle opere liriche che – all’inizio
dell’800 – raccontavano l’esperienza della guerra. A partire dall’esaltazione del volontariato
rivoluzionario e nazional-patriottico nacque una formazione culturale più complessa, che Mosse
definisce “il mito dell’esperienza di guerra”. La santificazione della morte eroica sollecitò, inoltre,
la costruzione di adeguati luoghi sacri per il culto dei caduti-martiri. In Europa l’evoluzione fu più
lenta. Non mancarono, però, già nel corso dell’800, monumenti collettivi volti a celebrare i caduti

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della nazione (sacrari, obelischi, cippi commemorativi). In tutti questi casi, però, i caduti erano
considerati una collettività anonima, parte del più grande corpo della nazione. E fu solo dopo la
grande guerra che in Europa si diffuse l’uso di corredare i monumenti commemorativi ai caduti con
lunghi elenchi che riportavano i nomi dei soldati morti e, quand’era possibile, la data di nascita e di
morte. L’esperienza della prima guerra mondiale venne dunque interpretata proprio sotto questa
luce: sacralizzazione e sacrificio, eroismo e martirio, e ciò sia da chi l’aveva vissuta sia da chi, dopo
la guerra, la rievocava. I cimiteri inglesi erano strutturati intorno a una zona centrale che conteneva
una Pietra della Rimembranza, in forma d’altare, su cui era inserita una spada in funzione di Croce
del Sacrificio. In Germania, oltre a questo modello, se ne diffusero altri, originali. Vennero
costruite, così, le Totenburgen, una sorta di fortezze dei morti, ideate dall’architettura Tischler. In
Italia (ma anche in Germania) ebbero particolare popolarità i Parchi della Rimembranza, luoghi
monumentali o giardini pubblici che, pur essendo dei veri e propri cimiteri, erano tuttavia dedicati
al ricordo di coloro i quali erano morti in guerra. Luoghi monumentali molto rispettati e amati
furono le tombe al Milite ignoto, dedicati a tutti quei caduti i quali non si era riusciti a identificare o
che non avevano potuto avere un’adeguata sepoltura. In Francia la tomba del Milite ignoto venne
collocata nell’Arc de Triomphe a Parigi del ’19. La salma venne scelta tra 9 cadaveri ignoti e fu
selezionata da un sergente ferito in guerra. In Inghilterra, venne sepolto, nello stesso anno, a
Westminster, mentre un cenotafio venne eretto a Whitehall; la scelta della salma fu affidata a un alto
ufficiale. In Italia la tomba venne collocata nel Vittoriano nel ’20; la salma venne scelta dalla madre
di un soldato morto in guerra. In Germania la tomba venne costruita nel ’31 nella Neue Wache, una
caserma a Berlino; come il cenotafio londinese, la tomba era però vuota. Le tombe al Milite ignoto
sono luoghi monumentali tipici delle capitali. Ma ogni località, piccola e sperduta, volle avere poi
un monumento che ricordasse i “suoi” caduti, persone che abitavano lì quand’erano partite per il
fronte e poi non erano mai tornate. La resurrezione dei caduti in analogia con al Passione cristiana
non era un tema frequente nei monumenti ai caduti, benché comparisse talvolta nella forma di una
pietà: Cristo morente nelle braccia di Maria, o anche Cristo che aiuta un soldato. Più comune era la
figura maschia, virile del soldato, irraggiante un’immagine di forza tranquilla simboleggiata dai
greci. A queste forme sacrali di elaborazione del lutto bellico si affiancò un’altra modalità
d’interazione, molto più profana; ma non per questo meno efficace: la “banalizzazione” della
guerra. Sia nel corso della guerra che dopo, si diffuse un potente processo di commercializzazione
del conflitto, con la produzione e la vendita di oggetti che si ricollegavano alla guerra: cartoline,
giochi di società, con contenuti variamente nazionalistici; giocattoli bellici, libri per bambini sulla
guerra. Chi produceva questi oggetti voleva venderli e per farlo tendeva a infondere in questi
oggetti un’aria di romantica e divertente banalità, che depotenziava la guerra dei suoi aspetti più
orribili. Importante fu anche il contributo di teatro, cinema e fotografia. In molte produzioni,
osserva Mosse, spicca una notevole mancanza di realismo. Venivano eliminate le scene di morte,
sofferenza e sconfitta. La banalizzazione della guerra serviva a farla accettare a chi non l’avesse
conosciuta. La sacralizzazione era un processo importante per chi nella guerra aveva perso persone
care. Molti di coloro i quali la guerra l’avevano combattuta per davvero, invece, tornarono a casa
portandosi dietro un bagaglio d’esperienze che faceva apparire del tutto normale la morte o
l’uccisione del nemico. La ripetizione della violenza bellica anche nella vita civile – sia in forma
verbale sia in forma pratica – fece nascere nel cuore di molte persone dubbi profondi sulla
ragionevolezza del “mito dell’esperienza di guerra”. E così, almeno una parte dell’opinione
pubblica europea, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, non ebbe più tanta voglia di esibire
entusiasmi simili a quelli manifestati nell’agosto del ’14. Nel secondo dopoguerra (cioè dal ’45 in

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avanti) tanto la retorica bellica quanto l’ideologia nazional-patriottica non esercitarono più il fascino
che avevano avuto nel corso dei 150 anni precedenti.

6. Il consenso alla guerra (Audoin-Rouzeau, Becker)


Con grande determinazione 2 specialisti francesi della grande guerra, Stéphane Audoin-Rouzeau e
Annette Becker, in un loro libro del 2000, intitolato “La violenza, la crociata, il lutto. La Grande
Guerra e la storia del Novecento”, hanno esplorato la “questione essenziale del consenso (alla
guerra) di milioni di europei e di occidentali tra il ’14 e il ’18. “Il senso di obbligatorietà, di
evidenza del sacrificio, di cui la stragrande maggioranza (dei contemporanei) fu allora a lungo
pervasa e senza il quale la guerra non avrebbe avuto né la durata né l’accanimento e neppure la
crudeltà che la contraddistinsero, ai giorni nostri è semplicemente inaccettabile”. Eppure, è proprio
questa distanza che la riflessione storiografica deve colmare, per consentire di capire meglio le
ragioni della cultura di guerra. Audoin-Rouzeau e Becker ritengono che 2 formazioni culturali
abbiano aiutato soprattutto a consolidare il consenso. Il primo aspetto è la santificazione della
guerra. In secondo luogo, la forza di questa sacralizzazione derivava dal fatto che era prodotta dal
pensiero nazional-patriottico che contribuiva a stabilire il senso di appartenenza alla propria
comunità nazionale, tanto quanto il senso di assoluta alterità nei confronti degli altri, i nemici. In
qualche caso la diversità degli “altri” assunse caratteri essenzialmente razziali. Uno sviluppo di
questo genere favorì un percorso mentale che peraltro era largamente generalizzato e incoraggiato
dalle autorità: quello della demonizzazione del nemico. Questi aspetti della cultura di guerra non si
persero nemmeno di fronte alla morte. E quindi non si persero nemmeno nel dopoguerra. La
prospettiva proposta da Audoin-Rouzeau e Becker han suscitato in Francia reazioni duramente
critiche da parte di altri storici francesi (in particolare Rémy Cazals e Fréderic Rousseau) i quali
hanno sostenuto che il consenso alla guerra è stato forzato dalle autorità politiche e militari e che
non è stato certo spontaneo sentito dire dalle masse dei soldati semplici. Questi storici hanno inoltre
rimproverato ad Audoin-Rouzeau e Becker di aver usato fonti prodotte da combattenti che
appartenevano alle classi medie e superiori. La discussione, dunque, è del tutto aperta. Peraltro,
occorre aggiungere subito che Audoin-Rouzeau e Becker non ignorano affatto che molti milioni di
soldati hanno vissuto in modo passivo la loro esperienza di guerra. E se è vero che molti milioni di
uomini e donne vissero la guerra come un’imposizione, soprattutto dopo i primi mesi, quand’era
diventato impossibile ignorare che cosa fosse davvero quella guerra, è anche vero – ed è
probabilmente il punto chiave – che le manifestazioni di insofferenza o di ribellione non portarono
mai a un definitivo ed efficace “sciopero delle armi”, per così dire. La vicenda dei partiti socialisti
sembra chiudere del tutto la discussione: gli organismi politici che avrebbero potuto offrire una
visione davvero alternativa della guerra si mostrarono totalmente succubi del discorso nazional-
patriottico e della sua tavola di valori.

5) – “9°” – CAPITOLO: La rivoluzione bolscevica e l’Unione Sovietica

1. Cenni introduttivi
La rivoluzione russa dell’ottobre del ’17 segna un momento storico di enorme importanza, a torto o
a ragione, come l’evento più significativo del XX secolo. Secondo una nota interpretazione, che si
deve a Roy Medvedev, l’impero zarista entra nella prima guerra mondiale portando già nel proprio
grembo la rivoluzione. La guerra mondiale fa emergere in modo dirompente la precarietà sociale e

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politica della Russia, in cui l’autocrazia zarista non ha favorito in alcun modo la libertà di
espressione dei movimenti di opposizione. La rivoluzione russa ha luogo in un paese
economicamente e socialmente molto arretrato. Lenin pensa che nel ’17 sia arrivato il momento
propizio per eliminare definitivamente lo zarismo come sistema politico e sociale. Sebbene
anch’egli sia scettico sulla reale possibilità di una rivoluzione socialista in Russia, al tempo stesso
vede nella crisi bellica il realizzarsi di ciò che egli stesso ha teorizzato, ovvero l’aprirsi inevitabile
di una crisi definitiva del capitalismo, che a sua volta non sarebbe altro che il preludio a una
rivoluzione mondiale. Alla morte di Lenin, nello scontro per la successine riesce a prevalere la
personalità di Stalin, sebbene lo stesso Lenin, in una sorta di testamento politico scritto poco prima
di ammalarsi gravemente, mostri tutta la sua diffidenza nei suoi confronti.

2. La rivoluzione bolscevica: interpretazione simpatetiche (Hill, Carr)


Come per altre questioni storiografiche, anche per quest’esperienza ci si è interrogati sulla “vera
natura” della vicenda. Nel ’47, Christopher Hill pubblica un suo studio sulla rivoluzione, “Lenin e
la rivoluzione russa”, che fa del leader bolscevico il vero protagonista, quasi l’eroe fondamentale
della vicenda. La sua ricostruzione presenta la rivoluzione sovietica come una rottura epocale col
passato zarista. Una delle mosse vincenti di Lenin, secondo Hill, consiste nel rompere il sostegno
quasi naturale che i contadini danno al partito socialrivoluzionario, che ciò sia avvenuto in forme
violente e antidemocratiche, sin dallo scioglimento forzato dell’assemblea costituente nella quale i
socialrivoluzionari hanno la maggioranza dei seggi (gennaio ’18), una questione alla quale Hill non
attribuisce alcun rilievo. La valutazione incondizionatamente positiva del ruolo svolto da Lenin e
dai bolscevichi viene proiettato da Hill sull’intera traiettoria della rivoluziona e dei suoi esiti. Hill
propone un’immagine edificante e idilliaca dell’opera di Lenin e del significato della rivoluzione
bolscevica: si tratta di un’immagine che lui, che all’epoca è uno “storico militante”, può accreditare
solo rimuovendo del tutto dalla sua ricostruzione la violenza e l’autoritarismo che connotano sia la
rivoluzione bolscevica, sia l’intera esperienza sovietica. 3 anni dopo la pubblicazione dello studio di
Hill, un altro storico inglese, Edward H. Carr, comincia a pubblicare un’opera monumentale sulla
rivoluzione e sulla società sovietica, dal titolo globale di “Storia della Russia sovietica”. Carr
privilegia un taglio storiografico di tipo politico e istituzionale, concentrandosi sulle vicende dello
stato e del partito bolscevico, e ponendo l’accento su 3 fattori che gli sembrano fondamentali per
comprendere gli avvenimenti del ’17: la personalità di Lenin, la funzione del partito bolscevico e
contemporaneamente il vuoto di potere verificatosi in quel periodo in Russia. Diveramente da Hill,
Carr non nasconde le componenti violente e autoritarie della rivoluzione e del comunismo sovietico.
Secondo Carr la direzione antidemocratica presa dalla rivoluzione bolscevica è pressoché
inevitabile a causa della palese impossibilità di attuare in Russia una vitale democrazia
parlamentare. Inoltre, l’arretratezza in cui versa la società russa rende in un certo senso la politica di
Lenin l’unica concepibile, condizionandone gli esiti. Dalla stessa prospettiva egli si oppone
incessantemente a coloro che tentano di mettere in dubbio l’inevitabilità dello stalinismo. Lenin non
perdette mai la sua fiducia rivoluzionaria, né si mostrò mai propenso a esaltare questi accorgimenti
come principi direttivi. Ma quando egli morì nel gennaio del ’24, la prospettiva della rivoluzione in
occidente era ormai diventata qualcosa di esangue e di remoto, e la politica che si fondava su quella
prospettiva appariva vuota e priva di realismo. Gli atteggiamenti che si cristallizzarono intorno alla
nuova dottrina non furono esclusivamente opera di Stalin. Ma fu un fatto del tutto naturale che tale
dottrina venisse formulata, sistematizzata e resa vincolante per il partito da quel dirigente
bolscevico che fin dall’inizio aveva espresso la sua sfiducia nella prospettiva della rivoluzione in

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occidente. Il carattere debole e contraddittorio di un’idea della rivoluzione che si esprimeva nelle
formule “socialismo in un solo paese” e “rivoluzione dall’alto” non limitò quindi i suoi effetti
negativi alle sole conquiste interne della rivoluzione, ma si manifestò con altrettanta evidenza nei
rapporti internazionali. L’insistenza sulla necessaria consequenzialità degli eventi dà alla
ricostruzione di Carr un’inclinazione deterministica. Inoltre è chiaro che egli guarda all’esperienza
rivoluzionaria con una simpatia che gli fa trascurare aspetti importanti dell’esperienza sovietica.

3. La rivoluzione bolscevica: nuove prospettive (Service, Pipes, Figes)


Se il lavoro di Carr è comunque rilevante dal punto di vista della ricostruzione e del trattamento
della documentazione, negli anni immediatamente successivi alla conclusione della sua grande
fatica uscirono opere che mettono in discussione il suo approccio e la sua interpretazione. Nell’un
altro storico inglese, Robert Service, pubblica il volume “The Russian Revolution” 1900-1927”; nel
2000 pubblica anche una biografia di Lenin in 3 volumi, “Lenin: a Biography”, in cui pone
l’accento sulla sostanziale inclinazione dispotica del leader bolscevico. Service, nel saggio sulla
rivoluzione russa, cerca di far luce su quelli che possono essere definiti i presupposti della crisi
rivoluzionaria del ’17. Inizialmente si concentra sul periodo che va dal 1900 al ’14, ripercorrendo
quindi gli ultimi anni di vita della dinastia Romanov e i primi tentativi di riformare il sistema
autocratico russo. Poi esamina la crisi causata dall’intervento dell’impero russo nella guerra
mondiale. Il giudizio è netto, e lo è altrettanto nella seconda parte del saggio, dove Service analizza
la guerra civile e l’instaurazione del potere bolscevico. Infine, Service si concentra sull’esperimento
della Nep fino ad arrivare al ’27, anno in cui, a causa della crisi dei raccolti, tale esperimento
economico viene abbandonato. Anche l’opera di Richard Pipes, “La rivoluzione russa: dall’agosto
dell’ancien régime al terrore rosso”, pubblicata nel ’90, si contrappone al palese giustificazionismo
dell’impostazione di Carr. “Questo libro è il primo tentativo che sia mai stato fatto di dare un
quadro completo della rivoluzione russa, l’evento forse più importante del secolo.”. I
condizionamenti del contesto, secondo Pipes, devono far considerare gli eventi della rivoluzione
come un esito, in qualche misura, necessario. Inoltre, tali condizionamento non operano solo nel
breve periodo, con la crisi che si apre con l’ingresso della Russia nella grande guerra, ma hanno
origini più lontane. La crisi della società russa e il malcontento popolare che scoppiano tra il 1905 e
il ’17, sono i fattori sui quali agiscono la politica e l’ideologia bolscevica, che riescono più di altri a
trasmettere l’idea di essere in grado di edificare quasi immediatamente una società completamente
nuova. Secondo Pipes, ciò che avviene dopo l’ottobre ’17 è quasi la necessaria realizzazione di un
piano politico che già aveva preso forma nei decenni precedenti. Una prospettiva di più lungo
periodo, assimilabile da questo punto di vista a quella di Pipes, viene adottata anche da Orlando
Figes in “La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924”. Figes, dunque, rifiuta sia
l’inevitabilità di Carr che la necessità di Pipes. Il suo è un taglio di storia sociale nel senso che
“l’accento è posto soprattutto sulle vicende della gente comune”. Gli attori sono gli operai, i soldati,
le minoranze nazionali e i contadini, questi ultimi considerati sia come oggetti, sia come vittime
della rivoluzione. Le fonti che lo storico britannico utilizza sono soprattutto di carattere privato:
diari, lettere, memorie. La narrazione intreccia costantemente la sfera pubblica e quella privata, per
dimostrare che la rivoluzione inizialmente è sostenuta da un largo sostegno popolare; ma poi il
gruppo dirigente bolscevico, una volta postosi al comando della rivoluzione, mette in atto forme di
repressione violenta proprio a danno dei gruppi sociali che avevano sostenuto l’iniziale sforzo
rivoluzionario. Il punto, qui, è che i bolscevichi conquistano il potere come gruppo politico di
minoranza, e per tale motivo concepiscono sin da subito il ricorso a strumenti di repressione e

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intimidazione di massa con mezzi ordinari per colmar il deficit originario di consenso da cui,
ovviamente, si sentono minacciati. Tuttavia, sebbene inizialmente possano esserci ragioni
contingenti che spiegano l’azione del gruppo dirigente rivoluzionario, l’autoritarismo violento
diventa la cifra essenziale e permanente del potere comunista. Da qui il senso del titolo del libro di
Figes, la “tragedia di un popolo”. Alla fine, la natura dispotica, autoritaria e violenta che gli è
propria sembra avvicinare il potere comunista alle strutture e alle forme di dominazione proprie del
defunto sistema autocratico zarista.

4. L’Unione Sovietica (Werth, Zaslavsky, Graziosi)


l’Unione Sovietica nasce ufficialmente il 30 dicembre del ’22 e si scioglie il 26 dicembre del ’91,
chiudendo quello che è stato definito da Eric J. Hobsbawm il “Secolo breve”. Coloro tra gli storici
che si sono occupati di quest’immenso paese dal punto di vista storico, sociale e culturale, hanno
dovuto necessariamente confrontarsi con il problema della reperibilità delle fonti. Com’è noto, è
solo da poco che le fonti archivistiche russe possono essere consultate e utilizzate regolarmente.
Inoltre, le stesse fonti a stampa o i materiali fotografici a lungo sono stati di non facile reperibilità,
oppure sono stati di dubbia affidabilità. Più della storia di ogni altro paese, la storia dell’Unione
Sovietica ha suscitato, nel corso degli oltre 75 anni che ci separano dal ’17, dibattiti sempre più
spassionati. Secondo Werth, altre 2 questioni specifiche s’impongono all’attenzione: in quale misura
l’Urss era ancora rivoluzionaria? – e l’idea secondo cui la Causa era stata tradita da una burocrazia
depredatrice, definita termidoriana per analogia con l’altra grande rivoluzione. Durante tutta la
propria esistenza, l’Unione Sovietica ha subito trasformazioni e cambiamenti di conseguenza – per
Werth – è difficile sostenere l’ipotesi di un sistema totalitario immutabile e sempre uguale a se
stesso. In una direzione simile si muove anche Victor Zaslavsky, nella sua “Storia del sistema
sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo”, pubblicata nel ’95. In questo saggio Zaslavsky
ricostruisce le origini del funzionamento della società sovietica: “ЀЀ stata una società fondata su
un’economia avanzata e sul progresso tecnologico. L’industrializzazione è stata la forza motrice del
cambiamento socio-economico, mentre l’urbanizzazione, ovvero la migrazione di massa dalle
campagne alla città, ha distrutto lo stile di vita e le strutture rurali che caratterizzavano la società
contadina tradizionale. La società sovietica ha realizzato l’alfabetizzazione di massa e, estendendo
progressivamente l’istruzione a settori sempre più ampi della popolazione per periodi sempre più
lunghi, ha migliorato la posizione dell’individuo nella società. Le abilità acquisite con l’istruzione
superiore sono indispensabile allo sviluppo dell’economia moderna, mentre la crescente domanda di
specialisti provoca un alto grado di mobilità sociale.”. “La costruzione di una società nuova, attuata
dai bolscevichi, ha rappresentato l’esperimento d’ingegneria sociale più lungo e sconvolgente per i
suoi risultati nell’intera storia dell’umanità. E i retaggi negativi del sistema sovietico che ha
dominato per vari decenni su una considerevole parte del mondo, continueranno a esercitare ancora
a lungo una profonda influenza.”. La formulazione finale del concetto di totalitarismo coincise con
gli ultimi anni del regime staliniano. Il modello totalitario descriveva l’Unione Sovietica del periodo
staliniano in modo talmente realistico che sembrava non tanto una costruzione teorica, quanto
piuttosto la descrizione storico-sociologica del regime staliniano. Zaslavsky osserva che “il reale
funzionamento della società sovietica e di quella nazionalsocialista e le condizioni di vita delle
popolazioni di quei paesi erano per molti aspetti simili. Inoltre, ora che è diventata accessibile la
documentazione sui tentativi di Stalin di aderire all’asse negli anni ’40-’41 e sulla campagna
antisemita dell’ultimo periodo del regime staliniano fino ai preparativi per una deportazione di
massa degli ebrei sovietici in Siberia, emerge una somiglianza tra lo stalinismo e il nazismo anche

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sul piano ideologico. La durata relativamente breve del regime nazista non ne permise la completa
realizzazione, perché il vero totalitarismo ha bisogno della proprietà statale dei mezzi di
produzione.”. Tuttavia, come Werth, anche Zaslavsky ritiene che quello dell’Unione Sovietica non
sia stato un regime assolutamente immobile. La sua evoluzione dopo la destalinizzazione ha attuato
i caratteri totalitari che erano ben visibili nel funzionamento del regime durante il periodo
staliniano. L’introiezione della paura nei confronti delle istituzioni, che è una delle conseguenze
fondamentali dello stalinismo, fa sì che dopo il ’53 anche azioni repressive limitatamente violente
siano sufficienti per tenere sotto controllo il paese. Tuttavia, in un certo senso, l’Urss post-staliniana
diventa un ibrido: si allontana dal modello di società totalitaria in senso proprio, ma non si avvicina
per questo al modello delle società industriali caratterizzate da flussi di mobilità sociale, da processi
di crescita del reddito e da istituzioni democratiche. La migliore reperibilità delle fonti, dovuta alla
possibilità di consultazione più libera degli archivi ex sovietici, ha permesso negli ultimi anni la
realizzazione di nuove e organiche sintesi della storia dell’Unione Sovietica. Tra tali studi ci sono di
diritto i 2 volumi di Andrea Graziosi, “L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica
1945-1991” e “L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945”. L’opera di
Graziosi ripercorre analiticamente tutta la parabola sovietica. Il culmine della potenza sovietica è
rintracciato a metà degli anni ’70, quando l’élite dirigente dell’Urss si illude di aver vinto la guerra
fredda, forte dei successi nel processo di decolonizzazione e forte delle risorse petrolifere di cui
dispone. Scrive Graziosi: “Quella sovietica è, insomma, una storia tragica, inscritta tuttavia in una
parabola straordinaria che, iniziando con una guerra civile quasi genocida, tocca il genocidio con le
carestie del ’31-’33, passa attraverso la guerra – quando l’Urss avrebbe sopportato quasi da sola il
peso della lotta contro il nazismo – per poi trasformarsi in un’ansiosa ricerca di tranquillità e
terminare con un segretario del partito comunista che annuncia in tv, in una notte di Natale, il
pacifico scioglimento di uno stato già così potente e violento, esaltando la conquista della libertà
politica e spirituale e lo smantellamento del sistema totalitario e presentando la difesa delle
conquiste democratiche come proprio dovere morale.”. Definire la storia sovietica “tragica” è una
scelta appropriata. Nei primi anni ’30 Graziosi individua la fase di massima tensione. Ma, a parte
cicli congiunturali caratterizzati da crisi di particolare gravità, e con l’eccezione di alcuni momenti
apparentemente più stabili, l’intera storia dell’Unione Sovietica è attraversata da uno stato di crisi
permanente, alimentato dall’uso del terrore come strumento ordinario di controllo politico e sociale.
La tenuta e la vittoria del nuovo stato bolscevico sorpresero il mondo, ma posero nuovi problemi al
suo creatore (Lenin) che, poco prima di morire, si chiese con angoscia dove stesse andando il treno
da lui costruito e che si era illuso di poter guidare. Negli anni seguenti Stalin sembrò risolvere
questi dubbi costruendo il “socialismo in un paese solo”, anche questo un paradosso teorico per chi
continuava a definirsi marxista. La storia sovietica finiva così con il presentare 2 facce di natura ed
espressione opposte – terribile la prima, mortalmente tranquilla la seconda -, le cui relazioni
costituiscono uno dei suoi grandi problemi. Anche il crosso del sistema sovietico ha tratti
paradossali. Per un momento, con l’emergere della leadership di Gorbacev, sembra profilarsi la
possibilità di una radicale riforma del sistema sovietico: tuttavia non solo il tentativo si rivela
impraticabile, ma pone le premesse per la dissoluzione istituzionale e geopolitica dell’Urss. Si tratta
di un processo che ha del “miracoloso”, da 2 punti di vista: da un lato, le spinte alla disgregazione
non vengono represse dall’esercito di “uno stato paraimperiale, che era sembrato invincibile e che
disponeva di migliaia di testate nucleari”; dall’altro, i conflitti tra gruppi etno-nazionali diversi, che
pure accompagnano il processo di dissoluzione, sono incomparabilmente più contenuti che altrove,
per es. nell’ex Jugoslavia. Quali elementi possono aiutare a spiegare questa dinamica? Graziosi

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ritiene che un rilievo non secondario debba essere attribuito al “ruolo delle personalità nella storia”.
Il miraggio di raggiungere rapidamente il benessere economico e sociale dell’occidente ha reso
accettabile una riorganizzazione istituzionale su base democratica negli stati post Urss. Scioperi dei
minatori a parte, i russi che sostennero attivamente la scelta democratica furono pochi. Hough ha
avuto quindi ragione nell’osservare che “raramente una rivoluzione o un processo di
democratizzazione furono accompagnati da una così piccola pressione proveniente dalla società”, i
cui elementi più giovani e attivi si erano già buttati a capofitto nella ricerca del desiderato benessere
personale e familiare. L’equilibrio tra élites politiche, militari, burocratiche, da un lato, e
un’opinione pubblica in lenta e difficile formazione, dall’altro, continua a restare uno dei problemi
fondamentali della nuova Russia e degli altri stati nati dalla dissoluzione dell’Urss. Verso quali
configurazione si stiano muovendo quelle società è tuttavia una questione che Graziosi non affronta,
fedele alla cronologia che ha scelto per il suo lavoro, che ha come termine il ’91, anno in cui si
conclude la lunga e travagliata esperienza del comunismo sovietico.

6) – “10°” – CAPITOLO: Il fascismo

1. Uno studio “in presa diretta” (Salvatorelli)


Il fascismo, sin dal momento della sua formazione, per la novità e la violenza delle sue
manifestazioni ha sollecitato analisi appassionate che, mentre hanno cercato di capire il fenomeno,
hanno anche voluto darne un giudizio etico e politico. Nel ’23 la casa editrice di Piero Gobetti,
intellettuale e politico antifascista, pubblica un piccolo libro che raccoglie gli articoli che Luigi
Salvatorelli ha pubblicato su vari giornali (ma soprattutto su La Stampa di Torino) tra il ’19 e il ’23.
Il libro s’intitola “Nazionalfascismo”. Ma non si ferma alla cronaca, perché cerca delle spiegazioni
e un’interpretazione di più largo respiro, la sua riflessione, molto lucida, si sviluppa intorno a 4
osservazioni principali. La prima è che a lui il fascismo non sembra il prodotto di una pura e
semplice reazione di classe, come pare invece a molti altri. Non lo vede come il braccio armato
degli “agrari” che vogliono reprimere e abbattere le leghe sindacali bracciantili. Egli ritiene
piuttosto che il fascismo sia un movimento della piccola borghesia ed esprime interessi e paure che
le sono propri. La “piccola borghesia” è quella parte di società che, non appartenendo al
capitalismo, non costituendo neppure un elemento dei processi produttivi, rimane altresì nettamente
distinta dal proletariato, non tanto per condizioni economiche, quanto per abitudini sociali
“borghesi” e per una propria coscienza di classe non proletaria. Si può individuare una piccola
borghesia tecnica, una piccola borghesia “umanistica”, composta da impiegati e funzionari dello
stato e degli enti pubblici. Il gruppo sociale che dà il massimo sostegno al fascismo è, secondo
Salvatorelli, proprio questa piccola borghesia umanistica. La mentalità della piccola borghesia
umanistica si riassume in una parola: retorica. Provenendo generalmente dalla scuola classica, essa
possiede la cosiddetta “cultura generale, che potrebbe definirsi “l’analfabetismo degli alfabeti”,
un’infarinatura storico-letteraria, in cui la parte letteraria è puramente grammaticale e formalistica,
al contrario di quella storica, la quale si riduce a un cumulo di date di battaglie e di nomi di sovrani,
con la salsa d’una trasfigurazione o d’uno sfiguramento patriottico, di cui i 2 elementi essenziali
sono l’esaltazione di Roma e dell’impero romano come nostri antenati, e il racconto del
risorgimento. Gettato nella vita con questa preparazione, il piccolo borghese non riesce a sistemarsi
alla peggio. Esso si raffigura così un mondo fantastico di astratto idealismo, e ignora i valori
effettivi del mondo moderno; e quando poi entra, come che sia, in contatto con questo, sente per

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esso un misto di repulsione moralistica e intelligente e invidiosa cupidigia. Salvatorelli trae una
seconda osservazione. Ciò che avvicina particolarmente la piccola borghesia umanistica al fascismo
è la connotazione nettamente nazionalistica assunta da questo movimento politico. Sia la
considerazione dell’importanza della cultura nazionalista sia la specifica collocazione sociale della
piccola borghesia umanistica spiegano perché essa abbia apprezzato un movimento che si è
abbattuto in primo luogo sul proletariato (e questa è la terza osservazione). La quarta, infine,
riguarda il quarto collegamento con un movimento violento ed eversivo come il fascismo,
assicurato dal carattere violento ed eversivo che lo stesso discorso nazional-patriottico ha assunto
durante la dura polemica politica che nel ’15 ha condotto l’Italia in guerra.

2. Prospettive marxiste e post-marxiste (Gramsci, Togliatti, Tasca)


L’impostazione di Salvatorelli suggestiona anche le prime elaborazioni interpretative marxiste del
fenomeno. Antonio Gramsci affida il suo punto di vista a un documento elaborato con Palmiro
Togliatti per il III congresso del partito comunista d’Italia (Pcd’I), tenutosi a Lione nel gennaio del
’26, le Tesi di Lione. Il fascismo, come movimento di reazione armata che si propone lo scopo di
disgregare e disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della politica
tradizionale delle classi dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia.
Socialmente, il fascismo trova la sua base nella piccola borghesia agraria sorta da una
trasformazione della proprietà rurale in alcune regioni. Su questa linea prosegue, negli anni
seguenti, la riflessione di Togliatti, che nelle “Lezioni di fascismo” elabora la definizione del
fascismo come “regime reazionario di massa”, volendo sottolineare quella che gli sembra essere la
peculiarità principale del fascismo, e cioè, appunto, il suo incessante sforzo di coinvolgere le masse
(piccolo-borghesi, ma – a fascismo instaurato – operaie e contadine) nella vita e nella struttura del
regime. Il frutto analiticamente più ricco e più complesso di quest’orientamento interpretativo,
viene da Angelo Tasca, un politico e studiosi che ha compiuto i suoi primi passi a stretto contato con
Gramsci e con Togliatti, dai quali poi si è molto allontanato. Tasca nel ’38 pubblica in Francia
“Nascita e avvento del fascismo” e sostiene che la Grande Guerra, con i suoi gravi contraccolpi
economici, sociali e ideali, debba essere considerata come l’evento cardine. La sua ricostruzione
non si ferma certo a una requisitoria critica e autocritica sugli errori dei partiti di sinistra nel primo
dopoguerra, ma ha ambizioni più vaste che lo inducono ad analizzare anche la composizione sociale
del movimento fascista. Anch’egli raccoglie l’idea del fascismo come movimento principalmente
piccolo-borghese. Inoltre, ritiene che la caratteristica essenziale del regime fascista sia quella di
essere un regime di massa totalitario, connotato da un’inclinazione peculiarmente repressiva che
egli descrive in questo modo: “le “riforme” della costituzione, la soppressione del parlamento, il
carattere “totalitario” del regime non possono essere giudicati in sé stessi, ma in rapporto ai loro fini
e risultati. Il fascismo non è un regime politico che ne surroghi un altro, è la vita politica stessa che
scompare, poiché diventa funzione e monopolio di stato. Scomparsa ogni indipendenza e ogni
autonomia dalle sue istituzioni, il popolo non è più che materia foggiabile a talento, di cui sono
calcolati e regolati la resistenza e il tradimento.”. Secondo Tasca, nel regime fascista c’è
un’ossessiva coercizione e manipolazione delle masse, che produce al più una loro meccanica
adesione alla vita del regime, ma non un’intima condivisione dei suoi valori e dei suoi obiettivi di
fondo.

3. Due letture liberali (Gobetti, Croce)


Piero Gobetti è un brillantissimo e precoce intellettuale politicamente impegnato nel sostenere la

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necessità di un radicale sviluppo democratico del liberalismo. Ma la tragedia di Gobetti è di non


aver avuto il tempo né per sviluppare la sua proposta politica, né per riflettere sull’opportunità di
approfondire la ricostruzione storica del fascismo. Gobetti morì nel ’26 all’età di 25 anni.
Nondimeno, 2 anni prima, aveva già pubblicato un libro, “Rivoluzione liberale”, nel quale propose
di leggere il fascismo come uno sviluppo coerente della storia che ha origine con il risorgimento. Il
fascismo, con altri mezzi e altri fini, vuole impedire che le masse escano da uno stato di minorità,
che pensino con la propria testa, che compiano le loro scelte: per questo – scrive Gobetti – il
fascismo è l’“autobiografia della nazione”. In una direzione diametralmente opposta si muoveva
Benedetto Croce. Grande filosofo e storico, e anche uomo di orientamento liberale (fu ministro
dell’istruzione dal ’20 al ’21, nel governo Giolitti), dopo un’iniziale incertezza assunse una
posizione di netto rifiuto del fascismo. A chi lo invita a scriverne una storia, risponde nel ’46: “Non
la ho scritta e non la scriverò, perché odio tanto il fascismo che vieto a me stesso di pur tentare di
pensarne la storia”. Tuttavia, in una serie d’interventi, saggi, interviste pubblicati tra il ’43 e il ’47,
Croce esprime importanti giudizi critici su quell’esperienza. Ne propone 2 particolarmente
significativi. La prima valutazione prende forma, in una certa forma, come reazione
all’interpretazione gobettiana. Croce, infatti, afferma che il fascismo è stato “uno smarrimento di
coscienza” della società italiana, che ha bruscamente interrotto il positivo processo di crescita che
l’Italia aveva percorso dall’Unità al ’15. Il fascismo non era stato la rivelazione dei caratteri più
profondi della società italiana bensì una “parentesi” di un corso storico precedentemente felice. In
una certa misura, il fascismo era stato qualcosa di paragonabile all’invasione di una popolazione
barbara e straniera che aveva costretto la società italiana a un brusco sbandamento e a un
abbassamento “nella coscienza della libertà”. Se è evidente il disperato significato etico di questa
valutazione crociana, bisogna dire che essa – di fatto – non ha trovato storici i quali,
successivamente, l’abbiano tradotta in ricerche che abbiano portato a persuasivi risultati. Croce
scrisse, nel ’44, che ritenere che il fascismo sia stato il movimento di una sola classe, o anche di un
gruppo di classi, in lotta contro altre classi è completamente sbagliato.

4. Studi sulle origini del fascismo (Vivarelli, Lyttelton)


Dopo il ’45, e quindi dopo la caduta de regime fascista, gli studi storici si sono moltiplicati a
dismisura. Le moltissime ricerche pubblicate si sono potute avvalere di giacimenti archivistici e
documentari che col passare degli anni si sono fatti sempre più ampi e completi. La prima pista di
ricerca ha sviluppato e approfondito le indicazioni contenute in lavori come quello di Salvatorelli,
di Tasca e di molti altri osservatori coevi del fascismo, come Roberto Vivarelli e Adrian Lyttelton.
Nel ’67 Roberto Vivarelli pubblica un primo volume della sua “Storia delle origini del fascismo”,
che porta come sottotitolo “L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma”. Nel ’91 il libro venne
ripubblicato, con l’aggiunta di un secondo volume, imponente quanto il primo, che muta un po’ le
prospettive del lavoro. Secondo Vivarelli, gli elementi essenziali che conducono alla crisi del
sistema liberale nascono in parte dalle modalità attraverso le quali si sono costruiti gli assetti
istituzionali dell’Italia pre-bellica. Il punto di massima debolezza è stato il labile coinvolgimento
delle masse contadine nella vita politica e sociale della nuova Italia. Nel dopoguerra su una
situazione già evidentemente complessa si innestano altri 2 eventi che rendono ancor più tesa la
situazione: l’introduzione del suffragio universale maschile e la radicalizzazione filobolscevica del
partito socialista. La grande ricerca di Vivarelli si ferma – per ora – al 20. Vivarelli, più e meglio di
altri, ha richiamato l’attenzione sul significato politico e psicologico della bolscevizzazione del
partito socialista italiano tra il ’19 e il ’20. Il fascismo nacque in Italia dalle debolezze di uno stato

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liberale, il quale non riuscì a superare quella crisi di crescenza, una crescenza fisiologica, che era
stata l’avvento del suffragio universale e la sua trasformazione in stato democratico. In altri termini,
quelle debolezze erano il risultato di uno squilibrio tra il carattere “avanzato” delle istituzioni
politiche e quello “arretrato” della società civile. Se Vivarelli amplia retrospettivamente l’analisi
dalle origini del fascismo, lo storico inglese Adrian Lyttelton propone invece di osservarle in una
direzione prospettica e di considerare il modo in cui il fascismo incide sulla società italiana post-
bellica. “La conquista del potere. Il fascismo da 1919 al 1929”. La cronologia proposta da Lyttelton
suggerisce che tutto il tempo che va dalla fondazione dei fasci di combattimento fino al concordato
– e non solo la fase compresa tra il ’19 e la marcia su Roma – dev’essere considerato come il
periodo chiave per descrivere il processo di costituzione del fascismo in quanto regime. Da questo
punto di vista, nella sua ampia analisi, nella quale si dà spazio sia ai fattori politici sia a quelli
sociali dell’ascesa del fascismo, il Concordato, è considerato un po’ come il momento conclusivo,
che completa e corona l’ascesa del fascismo: “la soluzione della questione romana fu per Mussolini
un trionfo personale, che accrebbe enormemente il suo prestigio e la sua popolarità sia in patria sia
all’estero. Dopo che Pio XI lo ebbe definito l’“uomo della provvidenza, agli occhi della
maggioranza dei cattolici rimanevano ben pochi motivi di opporsi allo stravagante culto del duce.
La conquista dell’opinione cattolica diede al regime una base sociale assai più vasta di quella che
avesse avuto in passato.”.

5. Mussolini e il fascismo (De Felice)


Su un piano diverso si è mosso Renzo De Felice, autore di una monumentale biografia di Mussolini,
articolata in 4 volumi di complessivi 8 tomi, pubblicati tra il ’65 e il ’97. L’opera si presenta come
una sintesi del fascismo nel suo complesso e non solo come la ricostruzione della vita di un uomo.
Ciò detto, occorre subito aggiungere che il rilievo dell’opera non sta solo in questa sua
impostazione, ma nella capacità di proporre interpretazioni innovative e non di rado
provocatoriamente controcorrente rispetto all’opinione storiografica dominante. In questo quadro va
visto il fascismo; non come contrapposizione netta di una classe all’altra, come espressione degli
strati intermedi – sottoposti a un profondo travaglio morale e materiale determinato dalla crisi
economica e dalla rapida trasformazione della società, travaglio che provoca a sua volta una crisi
psicologica di sicurezza in lotta contemporaneamente contro il capitalismo e contro il proletariato.
Se, dunque, si vuole parlare del fascismo come di un fenomeno di classe, bisogna parlarne come ne
ha parlato il Salvatorelli: come “la lotta di classe della piccola borghesia, incastrantesi fra
capitalismo e proletariato, come il terzo dei 2 litiganti”. Diversamente da Salvatorelli, però, De
Felice non dà un giudizio sprezzante del ceto medio che si avvicina al fascismo dei primi anni
(definito da De Felice “il fascismo movimento”, per distinguerlo dal fascismo che diventa stato, che
egli chiama “fascismo regime”. “Il fascismo movimento è stato l’idealizzazione, la velleità di un
certo tipo di ceto medio emergente. Dico emergente perché in genere questo discorso è partito da un
punto fermo: un declassamento dei ceti medi che si proletarizzano e che, per sfuggire a questo
destino, si ribellano. Il fascismo movimento, invece, è stato in gran parte espressione dei ceti medi
emergenti, cioè di ceti che cercano, essendo diventati un fatto sociale, di acquistare potere
politico.”. De Felice avanza un’altra tesi largamente controversa, sebbene sia sorretta da un’ampia
messe di fonti e documenti; ovvero sostiene che il regime fascista non si basa affatto solo sul terrore
o sulla violenza; anzi, attraverso l’insediamento delle istituzioni dello stato, attraverso la politica
economica, la propaganda e la socializzazione politica delle giovani generazioni nelle scuole e nelle
varie organizzazioni ricreative, il regime fascista riesce a conquistarsi un largo consenso di massa.

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La discussione intorno a questa tesi ha riguardati la possibilità di misurare con efficacia il consenso
in un regime a partito unico, che non ammette la manifestazione di opinioni politiche di
opposizione; e ha inoltre riguardato la natura delle fonti (i rapporti di polizia), i cui autori (i
funzionari di polizia) possono essere stati condizionati dal desiderio – magari anche inconscio – di
compiacere Mussolini e gli altri capi fascisti. Il dibattito sul consenso non ha prodotto risultati
definitivi. Da un lato le osservazioni critiche che si sono ricordate sopra sono sicuramente dotate di
fondamento. Dall’altro, i molti indizi raccolti da De Felice fanno pensare che se non tutta quanta la
società italiana, certo una sua buona parte fu, in effetti, stabilmente attratta dal regime, dalla sua
retorica e dai risultati conseguiti dalla sua politica economica e sociale.

6. Miti e rituali (Gentile)


Uno dei grandi meriti di De Felice è quello di aver propiziato la traduzione italiana di “La
nazionalizzazione delle masse” di George L. Mosse. L’edizione italiana, pubblicata nel ’75 – lo
stesso anno della prima edizione inglese -, è corredata di un’introduzione entusiastica dello stesso
De Felice, nella quale egli riconosce che la novità dell’analisi di Mosse sta nella descrizione del
formarsi di una “nuova politica” fatta di rituali, di liturgie e di sacralizzazione civica. Tutti questi
sono aspetti organizzativi di una politica delle masse che trovano espressione nel nazionalismo
tedesco dell’800 e poi, in forma definitiva, nel nazismo. “Detto questo, debbo aggiungere
francamente che oggi, allo stato delle conoscenze sul fascismo e sulla storia dell’Italia post-unitaria
– scarsissime per quel che attiene alla problematica di Mosse -, il discorso di Mosse non è
applicabile all’Italia. E sono convinto che non lo sarebbe nemmeno se si studiassero quei particolari
aspetti che Mosse ha studiato per la Germania: si giungerebbe alla conclusione che in Italia non vi
sono stati, o sono stati così deboli da risultare non significativi. Il discorso della “nuova politica” è
un discorso tedesco. Questo tipo di “nazionalizzazione delle masse” per dirla con Mosse, e questa
“nuova politica” in Italia non sono esistiti; quindi tutto il discorso cambia. Preoccupato di
distinguere il fascismo italiano dal nazismo tedesco, De Felice non dà peso a ciò che lui stesso
riconosce: e cioè che nel momento in cui fa queste affermazioni, le conoscenze sui rituali e sulle
liturgie dell’’Italia fascista scarse. “È molto difficile (per il fascismo italiano) parlare di rituale.
Cioè, un rituale esiste – il “saluto al duce”, l’“appello dei caduti” etc. – ma direi che non ha un ruolo
decisivo, rimane un aspetto secondario.”. Negli anni più recenti questa percezione del fascismo è
profondamente cambiata, soprattutto sulla spinta delle numerose e originali ricerche di uno degli
allievi di De Felice, Emilio Gentile, che ha applicato con grande intelligenza la lezione di Mosse al
fascismo italiano. Gentile ha accumulato un’impressionante quantità di ricerche, sull’Italia
giolittiana, sulla cultura politica antiliberale e antigiolittiana, sulle origini ideologiche del fascismo.
I fasci di combattimento, le sue forme organizzative, la composizione sociale della sua militanza. Su
quest’ultimo punto Gentile assume una posizione vicina a quella del suo maestro, asserendo che il
fascismo è un movimento dei ceti medi. Leggendo le pagine dei suoi libri sembra di sentire l’eco
dell’invito formulato, molti anni prima, da Benedetto Croce a lasciar da parte le questioni relative al
profilo sociale o di classe del movimento, per scendere più in profondità, nei “cervelli delle
persone”. Così facendo, arriva a delineare una delle sue proposte interpretative più interessanti: e
cioè che la violenza politica, che costituisce un tratto così distintivo del fascismo dei primi anni e
che connota le squadre d’azione più di ogni altra articolazione o aspetto del fascismo, non è una
componente strumentale o accessoria della cultura fascista, ma ne è uno degli elementi fondativi.
Ancor più innovativo è l’altro libro, “Il culto del littorio” (il littorio è il fascio littorio, il simbolo
romano già usato nel corso della rivoluzione francese, segno di giustizia e unità, che diventa uno dei

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simboli distintivi del fascismo). Gentile arriva alla conclusione che rituali e liturgie sono
assolutamente fondamentali anche per il fascismo italiano. L’istituzione di una liturgia di stato fu
conseguenza della convenzione fascista delle masse, basata sulla convinzione che nella massa
predomina il sentimento, non la ragione, e che solo facendo appello ai sentimenti, suscitando
emozioni ed entusiasmo, attraverso miti che danno forma ai desideri delle masse e le incitano
all’azione, è possibile per un movimento politico organizzare e utilizzare la loro energia per il
conseguimento dei suoi fini. Il culto dei caduti, che aveva avuto una parte fondamentale nella
nascita della liturgia squadrista, conservò un posto d’onore nel culto del littorio, per i militanti e per
le masse. Il martirio per la “causa” è al vertice della scala dei valori dell’etica fascista. Chi moriva
con la fede nel fascismo entrava nel suo universo mitico e acquistava l’immortalità nella memoria
collettiva, attraverso la celebrazione liturgica del culto degli eroi e dei caduti. Chi affronta la morte
per una causa ha la certezza della continuità della sua opera oltre il limite della vita mortale; e per
questa certezza, sigillata dal martirio, egli veramente vive, come forza immateriale, ma di una
potenza senza limiti, nella continuità delle generazioni”. A Milano, sul luogo dove erano caduti 3
fascisti, fu eretta una “fontana votiva”, simbolo del perenne zampillare di nuove energie dalla
memoria dei martiri. Frequente era il rito di dedicare al nome di un martire le nuove opere compiute
dal regime. Anche frequente era l’usanza di dedicare al caduto un albero, simbolo di vita, di saldo
radicamento nel suolo natio e di ascensione al cielo. Gentile si allontana molto dalle valutazioni
espresse da De Felice e non solo considera il fascismo vicino, per questo rispetto, al nazismo, ma lo
considera addirittura il movimento che per primo sperimenta in forma istituzionale e su larga scala
la ritualizzazione del politico. I riti e le feste di massa (del fascismo) volevano educare per
convertire, investendo i valori fondamentali e i fini ultimi dell’esistenza. La funzione della liturgia
di massa mirava a conquistare e plasmare la coscienza morale, la mentalità, i costumi della gente, e
persino i suoi più intimi sentimenti sulla vita e sulla morte. In libri recenti, Gentile ha mostrato
come anche nelle democrazie – e in particolare in quella americana – il richiamo alla religione
abbia, sin dalle sue origini tardosettecentesche, un’importanza cruciale. Gentile ha copiato la coppia
concettuale “religione civile” – “religione politica”. “La religione civile è la categoria concettuale
entro la quale collochiamo le forme di sacralizzazione di un sistema politico che garantisce la
pluralità delle idee, la libera competizione per l’esercizio del potere e la revocabilità dei governanti
da parte dei governati attraverso metodi pacifici e costituzionali. La religione politica è la
sacralizzazione di un sistema politico fondato sul monopolio irrevocabile del potere, sul monismo
ideologico, sulla subordinazione obbligatoria e incondizionata dell’individuo e della collettività al
suo codice di comandamenti.”. E il fascismo – come il nazismo e il comunismo – è senza dubbio un
regime che dà vita a una “religione politica”; anzi, è il regime che per primo ne sperimenta le forme
in maniera originale e sistematica.

7) – “11°” – CAPITOLO: La seconda guerra mondiale: “guerra civile europea”, occupazioni e


Resistenza

1. Cause e significato della seconda guerra mondiale (Taylor, Hillgruber, Nolte)


Poche esperienze nella storia dell’umanità sono state così traumatiche come la seconda guerra
mondiale. Nel corso di questo conflitto vennero sperimentate armi sempre più potenti e distruttive;
a causa della guerra morirono più di 50 milioni di persone; 35 milioni di questi morti erano civili –
donne, bambini, vecchi; molti milioni di questi civili (e in particolare 6 milioni di ebrei) morirono

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non tanto nel corso di combattimenti, ma a causa di uno sterminio di massa organizzato con
agghiacciante efficienza dalla Germania nazista. Non sorprende, dunque, che nel corso della
seconda metà del ‘900 molti storici abbiano discusso appassionatamente le cause che hanno
scatenato questo disastro, così come le dinamiche che lo hanno caratterizzato. Tra i lavori più
importanti che hanno esplorato le ragioni politico-diplomatiche del conflitto spiccano quelli di Alan
J.P. Taylor – “Le origini della seconda guerra mondiale” – e di Andreas Hillgruber – “Storia della
seconda guerra mondiale”. Nel suo libro Taylor sostiene che le cause della seconda guerra mondiale
non possono essere circoscritte solo ai piani di Hitler, ma vanno proiettate più indietro nel tempo,
essendo parte di una cultura aggressiva ed espansionista, profondamente radicata già nella mentalità
delle élites militari e diplomatiche della Germania guglielmina. Lì Taylor considerava l’esito nazista
della storia tedesca come il portato di uno sviluppo storico che avrebbe inclinato la società tedesca
all’autoritarismo, al razzismo, all’antisemitismo sin dal tardo medioevo e soprattutto dalla riforma
luterana: un’impostazione di questo genere fa di Taylor uno dei primi sostenitori della tesi del
“Sonderweg” (“strada particolare”). Pone una particolare enfasi sul ruolo speciale che Hitler svolge
all’interno del regime, sia nell’elaborazione dei piani d’espansione a est, sia nella determinazione
dello sterminio degli ebrei. Il rapporto tra la minaccia comunista sovietica e la seconda guerra
mondiale è un tema classico negli studi sul conflitto. Tuttavia, diversi interventi, pubblicati tra l’86
e l’87, dallo stesso Hillgruber e da Ernst Nolte, che attribuiscono a questo elemento uno speciale
rilievo, hanno suscitato un intensissimo dibattito sull’interpretazione da dare del nazismo, dello
sterminio degli ebrei e della condotta nazista durante la guerra. Allo storico che voglia volgere lo
sguardo alla catastrofe dell’inverno ’44-’45 rimane dunque una sola posizione possibile, anche se
spesso difficile a mantenersi nel singolo caso specifico: egli deve identificarsi con il destino
concreto delle popolazioni tedesco-orientali, e con gli sforzi disperati e sanguinosi delle truppe
tedesche dell’est, nonché della marina tedesca, che cercarono di difendere quelle popolazioni stesse
dall’orgia di vendette dell’armata rossa, dagli stupri di massa etc. L’analisi di Hillgruber è
certamente efficace nell’invitare a valutare con la dovuta attenzione la selvaggia efferatezza che
guida le aggressioni dei soldati dell’armata rossa contro le popolazioni tedesche. In generale, è
francamente indubbio che uno storico possa ottenere buoni risultati conoscitivi identificandosi con
l’uno o con l’altro attore di una vicenda storica, consentendogli di presentare il popolo e l’esercito
tedeschi quasi come “vittime” della guerra. La seconda guerra mondiale racchiude 2 catastrofi
nazionali le cui conseguenze, con ogni probabilità, dovranno essere sopportate direttamente o
indirettamente ancora per parecchie generazioni non solo dalle nazioni che a suo tempo ne furono
immediatamente colpite, ma dall’Europa intera. Benché queste 2 catastrofi siano certamente parte di
un tutto, esse scaturiscono però da premesse distinte. Anche la responsabilità è diversa in un caso e
nell’altro: l’assassinio degli ebrei fu esclusivamente una conseguenza di quella dottrina della razza
spinta agli estremi che, a partire dal ’33, divenne nella Germania hitleriana una vera e propria
ideologia dello stato. Via via che si palesa in tutta la sua profondità la dimensione dei fatti, diviene
sempre più chiaro che si è trattato solo di una catastrofe ebrea o tedesca, ma che l’Europa intera e
innanzitutto il centro di essa, andato in pezzi durante la guerra, si sono immolati in quella catastrofe.
Nolte amplia il senso interpretativo delle osservazioni avanzate da Hillgruber, suggerendo una sorta
di relazione causale diretta tra la formazione del sistema del terrore sovietico, da un lato, e lo
sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, dall’altro. Nolte ritiene di dover rispondere positivamente
a queste domande, osservando che “verosimilmente, fra il (comunismo sovietico e il nazismo, e
quindi fra il gulag e lo sterminio degli ebrei) esiste un nesso causale”. Nell’articolo di Nolte, l’idea
del rapporto causale tra comunismo e nazismo viene confermata e contestualizzata in una cornice

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più vasta attraverso la quale Nolte legge la storia europea tra il ’17 e il ’45 come una vera e propria
“guerra civile” tra il comunismo, da un lato, e il fascismo e il nazismo, dall’altro. Il punto essenziale
– per Nolte – è dato dalle tremende risonanze emotive provocate dall’esperienza del comunismo
bolscevico nell’animo di Hitler, prima, e tra la borghesia e il ceto medio tedesco, poi. Già, sin
dall’86 numerosi storici e intellettuali tedeschi, replicando più o meno duramente alle tesi enunciate
da Hillgruber e da Nolte, danno vita a una discussione molto intensa: è il cosiddetto
“Historikerstreit” (controversia degli storici), di cui dà conto un’antologia curata da Gian Enrico
Rusconi, intitolata “Germania, un passato che non passa”, che raccoglie i principali interventi editi
in Germania tra ’86 e ’87. Rusconi stesso, nell’introduzione all’antologia, ripercorre con grande
equilibrio le diverse tesi che si sono contese il campo nel corso del dibattito. Essenzialmente, tutti
coloro che intervengono nella discussione riconoscono sia la legittimità tra comparazione tra regimi
come quelli comunista e nazista, sia la legittimità del confronto tra lo sterminio degli ebrei, da un
lato, e il gulag o altri genocidi compiuti nel XX secolo, dall’altro. Ciò che invece molti (tra cui
Jurgen Habermas, e altri autorevoli storici tedeschi) trovano difficile da accettare è l’identificazione
di un nesso casuale diretto tra comunismo russo e nazismo tedesco. Le analisi proposte da Nolte e
da Hillgruber, più che avere finalità conoscitive, sembrano celare il desiderio di relativizzare o
giustificare l’operato del regime nazista. Anche Rusconi considera decisamente piuttosto forzato
l’impianto fondamentale delle tesi di Hillgruber e soprattutto di Nolte. Le considerazioni che
Rusconi esprime nella presentazione dell’edizione italiana del libro di Nolte, “La guerra civile
europea”: “Che sussista un qualche genere di rapporto tra i 2 eventi emblematicamente chiamati
Auschwitz e Gulag, lo si può accettare. Ma che questo rapporto possa esser definito senz’altro di
tipo “causale” è una deduzione logica avventurosa. La natura del rapporto in questione è
determinata da elementi troppo complessi perché possa esser ricondotta a un semplice processo
cognitivo che segue lo schema causa-effetto. Il terrore imitativo che si materializza in precisi e
complessi apparati organizzativi non può diventare tout court la causa di un intero fenomeno
culturale, sociologico e politico qual è il nazionalsocialismo. Queste semplificazioni e unilateralismi
non ci dicono cosa sono stati davvero comunismo e nazismo. Ritengo, invece, che Nolte, con il suo
lavoro, abbia contribuito a togliere ai crimini nazisti il triste primato del “mai visto prima”. Nel
complesso, lo Historikerstreit ha sollecitato approfondimenti analitici nelle più varie direzioni, e in
una certa misura, ha dato un contributo alla migliore definizione di tesi diverse sulle cause e sul
significato dell’esperienza bellica.”. Le novità più rilevanti e meglio documentate hanno riguardato
piuttosto la natura delle occupazioni nazifasciste e le caratteristiche della resistenza a tali
occupazioni.

2. Occupazioni (Corni, Rodogno, Klinkhammer)


Le politica delle occupazioni realizzata ed elaborata dal regime nazista è l’oggetto di un lavoro di
sintesi che Gustavo Corni ha pubblicato nel 2005, dal titolo “Il sogno del “grande spazio”. Le
politiche di occupazione nell’Europa nazista”. Corni mostra molto chiaramente che uno dei motivi
fondamentali che spiegano lo scoppio della seconda guerra mondiale è stato il piano di espansione
territoriale elaborato da Hitler e dai suoi collaboratori: lo slogan che ne riassume gli intenti è quello
della ricerca di nuovi “spazi” che consentano una volta per tutte la popolo tedesco di espandersied
esercitare una supremazia assoluta sul continente europeo. Storici come Fritz Frischer, o come lo
stesso Taylor, hanno sostenuto la tesi di una continuità tra i piani espansionistici preparati dai leader
politici e militari dell’impero guglielmino e quelli realizzati dal regime nazista. 2 soprattutto sono
gli aspetti nuovi: da un lato, la politica estera di Hitler è animata dal desiderio di riaccogliere

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all’interno del nuovo reich quelle popolazioni tedesche che si erano spinte lontano dalla Germania e
che vivevano all’interno di altri stati. Dall’altro lato, Hitler ha una visione del mondo “basata sulla
lotta eterna fra i popoli per accaparrarsi la terra: lo “spazio vitale” (Lebensraum) e le ferree leggi
della natura premiano il più forte.”. Questa seconda prospettiva spiega i progetti di espansione verso
l’est europeo, dove ci sono gli slavi, ritenuti dai nazisti una razza inferiore destinata a diventare un
“popolo schiavo” al servizio del “popolo signore” germanico. In forma un po’ ambivalente, la spinta
verso l’est è motivata anche dal desiderio di cancellare il cosiddetto “pericolo giudeo-bolscevico”:
l’Unione Sovietica è considerata una minaccia vitale per la stessa esistenza della razza germanica.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e fino al ’42, enormi spazi del continente europeo
sono sotto il tallone nazista. Al momento della massima espansione delle sue conquiste territoriali,
la Germania hitleriana aveva sotto il proprio controllo oltre 2 milioni di km quadrati di territorio con
circa 125 milioni di abitanti, esclusa l’Unione Sovietica. Si poneva il problema di come governare
questo territorio. Dove incontravano razze che reputavano irrimediabilmente inferiori, i nazisti si
comportavano da “Herrenwolk” (popolo signore) nei confronti del locale “Sklavenvolk” (popolo
schiavo). Le loro élites politiche, religiose e intellettuali vengono subito brutalmente sterminate o
internate nei campi di concentramento; si tratta di mosse che preludono alla trasformazione
dell’area in una vera e propria colonia tedesca. Come reagirono le popolazioni locali ai regimi di
occupazione? In alcuni contesti i margini di scelta sembrano essere molto ridotti. La popolazione è
sottoposta a un tale grado di vessazioni che non sembra avere scelta: o subisce saccheggi, violenze,
deportazioni, o aderisce ai gruppi partigiani. Queste, pero – osserva Corni – sebbene assai diffusa,
non è altro che un’immagine stereotipata della situazione a est, costruita soprattutto dalla
propaganda sovietica dopo la fine della guerra. Altrove – in Francia, Belgio, Olanda, Italia etc., la
gamma delle scelte fu più ampia, in ragione di regimi di occupazione relativamente meno brutali di
quelli attivati nell’Europa dell’est. Sintetizzando molto la panoramica offerta da Gustavo Corni nel
suo libro, si può dire che in quelle aree il fenomeno del collaborazionismo è sollecitato dalle stesse
autorità naziste che cercano un sostegno più o meno organico tra le opinioni pubbliche locali. Non
di rado, tra di esse riescono a trovare ammiratori, collaboratori e sostenitori, una parte almeno dei
quali ispirati da sentimenti esplicitamente filonazisti. In tutte le aree di occupazione, vi è anche chi
decide di ribellarsi e di opporsi agli occupanti armi alla mano, dando vita al fenomeno delle
resistenze antinaziste. Assieme alla Germania nazista, anche l’Italia fascista ha il suo sogno
imperiale, che si traduce in realtà quando nel ’41 vengono assegnate all’amministrazione italiana
parti della Grecia e altre. L’esperienza delle occupazioni fasciste è ricostruita da Davide Rodogno in
“Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa”. Le
occupazioni militari – scrive Rodogno – sono un soggetto di studio recente di un fenomeno antico.
Possiamo distinguerne almeno 2 tipi: l’occupazione militare classica e quella di tipo napoleonico.
La prima fa seguito a una disfatta militare, serve a indebolire l’avversario e non ha per scopo
l’assorbimento del territorio occupato dalla nazione occupante, né l’assimilazione a essa. Ha
carattere temporaneo e si presuppone finisca con un trattato di pace o con la conclusione del
conflitto. Nella seconda, l’occupante proietta sul territorio e sulla società occupata il suo sistema
politico, sociale, culturale ed economico. Le occupazioni attuate dal governo dell’Italia fascista
hanno aspetti di entrambe le tipologie. Il progetto imperiale fascista, di cui le occupazioni furono
una parte costitutiva, non fu un fenomeno interamente originale perché s’inserì nella tradizione
degli imperi occidentali, ma se ne distinse per l’idea di fusione e di unificazione dei popoli
sottomessi. Il fascismo volle stabilire una gerarchia razziale di popoli che sarebbe stata mantenuta
ad libitum. Nessun popolo avrebbe potuto mescolarsi con la “razza civilizzatrice” e l’opera di

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“civilizzazione” non avrebbe portato i conquistati a identificarsi con la razza dei conquistatori.
Egualmente sistematica, e nient’affatto occasionale, è l’opera di repressione messa in atto
dall’esercito italiano contro le formazioni partigiane locali, così come contro le popolazioni civili
ritenute, a torto o a ragione, conniventi con i partigiani. Nella pratica della repressione, la
fenomenologia e la tipologia delle azioni concrete previste e realizzate dalle forze italiane non
furono diverse da quelle riscontrabili nella Wehrmacht, nelle forze delle SS e della polizia tedesca
coinvolte in operazioni analoghe. Il tipo di repressione degli italiani nei Balcani (ma non in Francia)
s’ispirò decisamente all’esperienza coloniale in Africa. Fu proprio nelle colonie che gli italiani
sperimentarono repressioni, deportazioni e internamenti di massa. Ricordiamo che, in Etiopia,
Mussolini impartì un “salutare monito” alle popolazioni autoctone, inviando un fonogramma nel
quale impose che “ogni civile o religioso, uomo o donna, sospetto di aver favorito l’attentato
(contro le truppe italiane) doveva essere immediatamente fucilato senza processo e senza indugio”.
Dopo il ’40, nei confronti delle popolazioni balcaniche gli italiani attuarono un analogo grado di
violenza, trattamento che in passato avevano riservato agli autoctoni africani. Un’organica politica
di repressione, deportazione, internamento in campi di concentramento è concepita all’inizio del ’42
dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, ed è esplicitamente la “sbalcanizzazione” e
la “bonifica etnica” di alcune zone significative, per sostituire la popolazione slava con famiglie di
coloni italiani. Una questione a parte concerne il trattamento degli ebrei presenti nei territori di
occupazione italiana. Le autorità italiane trattano diversamente i profughi ebrei che arrivano da altri
paesi e gli ebrei (italiani e non) residenti nelle zone occupate. Gli ebrei residenti nelle aree di
occupazione italiana, e una parte degli ebrei rifugiati in Dalmazia ma provenienti da altre zone,
vengono internati in campi di concentramento allestiti dagli italiani, ma non vengono consegnati
alle autorità croate o tedesche, nonostante queste ne facciano ripetutamente richiesta. Rodogno
ritiene sbagliato interpretare questo comportamento delle autorità italiane come una manifestazione
dello specifico “carattere italico”, riassunto nell’abusato slogan degli “italiani brava gente”. Anche
se ci sono alcune testimonianze di ufficiali italiani sdegnati per il trattamento riservato agli ebrei dai
nazisti o dagli ustasa croati, l’antisemitismo è largamente diffuso tra i quadri dell’esercito italiano; e
del resto, gli ebrei residenti nel territorio di occupazione vengono sottoposti alle leggi razziali e poi
internati nei campi di concentramento allestiti dagli italiani in Jugoslavia o in Italia, come quello di
Ferramonti Tarsia, in Calabria. Rodogno ritiene dunque che non ci sia stato alcun piano di
“salvataggio umanitario” degli ebrei, com’è del resto chiaramente mostrato dai “respingimenti” alle
frontiere degli ebrei allogeni. L’antisemitismo italiano non può essere identificato con
l’antisemitismo redentore nazista, ma è lungi dal poter essere definito aimless (privo di finalità).
Esso non mirò allo sterminio degli ebrei, ma ebbe come obiettivo l’esclusione dal mondo del
lavoro, la soppressione delle capacità di diritto pubblico. L’azione governativa si propose di
eliminare gli ebrei dalla vita nazionale; essa intese separarli dai non ebrei (divieto di matrimoni
misti etc.). Le misure persecutorie provocarono la morte civile degli italiani ebrei e servirono a
stimolare “oggettivamente” l’emigrazione. Nel complesso, secondo Rodogno, il fascismo ha un
progetto imperiale chiaro e impegnativo. Nei territori sottoposti al potere fascista, il “nuovo ordine”
si basa sulla rigida distinzione razziale tra popolo dominatore e popoli sottomessi. Diversamente dal
nazismo, il fascismo crede in una sua “missione civilizzatrice”, consistente nell’imporre valori e
credenze dell’Italia fascista a tutti i popoli sottoposti alla sua dominazione; similmente al nazismo,
anche per i fascisti la violenza, l’oppressione, le razzie sono uno strumento essenziale per preparare
l’opera di civilizzazione. Dopo la crisi dell’estate ’43 anche l’Italia diventa terra di occupazione. In
particolare tutta l’Italia centro-settentrionale viene sistematicamente occupata dall’esercito nazista.

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Obiettivo primario di quest’occupazione è costituire un avamposto difensivo sulla penisola contro


l’avanzata da sud dell’esercito angloamericano. Logiche e modalità dell’occupazione nazista sono
state oggetto di uno studio di Lutz Klinkhammer, “L’occupazione tedesca in Italia, 943-1945”.
Esaminando la struttura statuale con la quale la Germania nazista concepisce e realizza
l’occupazione in Italia, Klinkhammer mostra la natura articolata e molteplice delle strutture di
potere che vi operano, una caratteristica fondamentale dello stato nazista sinteticamente riassunta
col termine “policrazia”; ma mostra anche che il “decisore di ultima istanza”, o quanto meno
l’arbitro finale, nel caso di un contrasto tra diversi centri di potere che operano in Italia, è comunque
Hitler. La decisione di Hitler di appoggiare il fascismo in Italia e di trattarla come “alleata”,
conservando la finzione dell’immutata sopravvivenza dell’Asse e del “Patto d’acciaio”, ebbe
un’importanza fondamentale per il regime d’occupazione in via di formazione. Nella sfera posta
sotto controllo tedesco l’Italia fu uno dei pochi stati (e ciò rifletté il fatto che essa era stata la più
importante alleata della Germania in Europa) la cui indipendenza formale continuò a esistere anche
dopo l’occupazione, e come tale fu esibita all’esterno. Per la strutturazione del regime di
occupazione ebbe un’importanza non indifferente il fatto che esistesse un regime fascista il quale
continuò la guerra contro gli alleati a fianco dei tedeschi.

3. Il paradigma esistenziale (Battaglia)


In effetti, è bene sottolineare che l’idea che la Resistenza italianasia stata anche una guerra civile
che si è imposta solo a partire dall’inizio degli anni ’90. In precedenza, il discorso pubblico e
storiografico sono stati dominati da un’immagine molto diversa, alla cui formazione ha dato un
contributo fondamentale Roberto Battaglia. 2 punti fondamentali connotano la sua ricostruzione. Da
un lato l’idea, già presentata nella memorialistica e nella pubblicistica di parte comunista, secondo
la quale la Resistenza italiana dev’essere considerata un’esperienza “di popolo”, nel senso che
dietro il movimento armato resistenziale, se non c’è un intero popolo che si ribella all’oppressione
nazifascista, c’è tuttavia almeno la grande maggioranza delle masse popolari e di sezioni qualificate
delle élites. L’altro elemento qualificante è l’enfasi sull’unità e sulla concordia delle diverse
formazioni politiche che convergono nel movimento resistenziale, che, secondo Battaglia, è il frutto
più positivo della spinta popolare dal basso che anima la resistenza e le dà un respiro armonico e
una complessiva unità d’intenti che oscura le occasionali divergenze di linea e d’ispirazione. L’unità
non è più solo il fronte comune di lotta contro il nemico, ma contiene impliciti gli elementi più
stabili e duraturi, è un’istanza assorbita in profondità dai vari settori dello schieramento politico. La
vera ragione di questo nuovo passo in avanti, non è da cercarsi tanto nel loro interno, ma deriva
dalla formidabile spinta unitaria delle masse popolari in lotta, degli operai delle fabbriche come dai
partigiani delle montagne, in cui ancor prima che le divisioni per partiti politici prevalgono le
esigenze e le aspirazioni comuni. Il rifiuto netto del fascismo ha portato con sé l’aspirazione a una
società nuova, senza più legami col passato, anzi costruita in senso nettamente opposto. Alla
tirannide si è opposta la libertà, alla concezione retorica della patria quella d’un “bene comune” da
conquistarsi quotidianamente, all’iniquità sociale la fine di ogni privilegio, al razzismo la fraternità
internazionale. La loro forza morale dev’essere tuttavia tradotta in forza politica ed è questo il
compito preciso dei partiti, cui ognuno di essi assolve secondo il proprio orientamento ideologico.
In una comparazione col “primo risorgimento”, retoricamente efficace, Battaglia conclude il suo
lavoro ricordando gli effetti positivi ottenuti dal movimento resistenziale: diversamente dal “primo
risorgimento”, questo “nuovo risorgimento” coinvolge attivamente le masse nella vita politica, e,
cosa non meno importante, getta le fondamenta di una nuova repubblica democratica fondata su una

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costituzione. L’azione attuata dalla resistenza non fu fine a sé stessa; si tradusse, malgrado tutte le
difficoltà, nell’instaurazione della Repubblica italiana e nella promulgazione della carta
fondamentale del nuovo stato: la Costituzione. Punto di partenza e non di arrivo. Qualunque siano
le vicende che il futuro riserba all’Italia è certo che la strada dell’avvenire passa per la resistenza, è
certo che le forze popolari hanno messo nel paese quelle radici profonde che erano mancate nel
primo risorgimento, è certo che mai più un qualsiasi tentativo di dominazione straniera o interna
potrà strappare al popolo italiano la patria così faticosamente conquistata. N’è prova lo stesso fatto
che, a tanti anni di distanza, la lotta di liberazione si sottrae a qualsiasi facile schema celebrativo,
rifiuta d’essere “imbalsamata”, ma conserva intatta la sua carica polemica e il suo messaggio di
speranza. Il libro di Battaglia ha una notevole influenza, tanto da stabilire per anni il quadro
interpretativo dominante dell’esperienza resistenziale. Molte delle ricerche che si pubblicano tra gli
anni ’70 e gli anni ’80 hanno un carattere circoscritto, ma danno un contributo conoscitivo di
prim’ordine, valorizzando, censendo o riscoprendo fonti, archivi e giacimenti documentari.

4. Una nuova interpretazione (Pavone)


Una nuova stagione di studi sulla resistenza si apre solo nel ’91, quando Claudio Pavone dà alle
stampe il suo libro “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza”. Questo
lavoro è estremamente importante perché propone diverse innovazioni metodologiche e
interpretative, che orienteranno lo sviluppo del lavoro storiografico e del dibattito pubblico negli
anni seguenti. Pavone suggerisce di osservare che il conflitto che si combatte, contiene in sé 3
diverse esperienze di guerra: una civile, una patriottica e una di classe. Il fatto nell’Italia centro
settentrionale ci sia un governo fascista attivo, dotato di milizie che combattono contro le
formazioni partigiane, fa senza dubbio della resistenza una guerra civile. Oltre a ciò, la resistenza è
certamente anche una guerra patriottica, perché le formazioni partigiane combattono per
l’allontanamento delle truppe di occupazione tedesche dalla penisola. Infine, la forte presenza di
gruppi che s’ispirano al marxismo – socialisti e comunisti, in particolare – fa della resistenza,
almeno potenzialmente, anche una guerra di classe. Sebbene tutti e 3 i momenti di guerra siano
esplorati con attenzione e con ricchezza di documentazione, è indubbio che l’accento cade sulla
natura di “guerra civile” che Pavone riconosce alla resistenza. È lo stesso autore a enfatizzare questa
dimensione, poiché nel titolo del libro non si ricorda la natura triplice della guerra combattuta in
Italia dal ’43 al ’45, ma si suggerisce, senza mezzi termini che si è trattato di “una guerra civile”. Le
innovazioni non si fermano qui. Già dal sottotitolo del suo libro, infatti, Pavone indica
immediatamente il più profondo livello analitico che ha voluto esplorare con la sua ricerca: la
moralità nella resistenza e non della resistenza. L’obiettivo della ricerca venne così spostandosi agli
uomini: alle loro convinzioni morali, alle strutture culturali presenti in esse, alle preferenze emotive,
ai dubbi e alle passioni sollecitati da quel breve e intenso giro di avvenimenti. Il ricorso a fonti
“private” consente a Pavone di esaminare, con equità e distacco, le motivazioni politiche ed etiche
sia dei combattenti che aderiscono alle formazioni partigiane, sia dei combattenti che aderiscono
alla milizia fascista-repubblicana. Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è
implicito nel suo essere un atto di disobbedienza. Non si trattava tanto di disobbedienza a un
governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione, quanto di disobbedienza
chi detenesse la legalità era in discussione, quanto di disobbedienza a chi aveva la forza di farsi
obbedire. Era cioè una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico
principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù. Pavone riassume il punto in questo modo:
“All’interno del quadro fin qui tratteggiato si può cogliere una varietà di motivazioni individuali

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molto ampia: insopportabilità di un mondo divenuto teatro di ferocie; ribellione contro i soprusi
remoti e vicini, talvolta proprio contro quelli “piccoli”; istinto di autodifesa; desiderio di vendicare
un congiunto caduto; spirito di avventura; amore del rischio e insieme non piena cognizione di esso;
tradizioni familiari, antifascismo di vecchia e di nuova data; amor di patria, odio di classe.”. Pavone
enfatizza con la sua ricostruzione la complessità morale dell’esperienza resistenziale: essa non è
vissuta solo come una guerra contro lo straniero oppressore, ma è anche una guerra civile; non solo
le motivazioni degli uni e degli altri sono diverse e fanno riferimento a universi culturali che si
stanno muovendo in direzioni distinte; ma all’interno degli stessi campi – quello partigiano e quello
fascista – vari e particolari sono i modi d’interpretare le relazioni di autorità, l’uso della violenza, la
concezione della libertà o della patria. Insieme ad altre possibili ragioni, è questa stessa complessità
che fa sì che la memoria della resistenza incontri innumerevoli difficoltà a imporsi come la memoria
fondativa della nuova repubblica italiana nata nel ’46.

5. I limiti della Resistenza (De Felice)


Nella discussione aperta dalla pubblicazione del libro di Pavone interviene anche Renzo De Felice,
prima nel ’95 con un libro intervista (“Rosso e Nero”), e poi con l’ultimo volume della sua biografia
di Mussolini. Il punto d’origine della grave crisi che travolse l’Italia negli ultimi 2 anni di guerra è
l’8 settembre, che – secondo De Felice – rivela in piena luce tutta la debolezza etico-politica del
sentimento nazionale ancora legato alle radici culturali, ma anche psicologiche, del passato pre-
unitario. È la borghesia italiana che manca il suo compito storico evitando di schierarsi da una parte
o dall’altra in attesa degli eventi. Diversamente erano andate le cose nell’ottobre del ’17, dopo la
sconfitta di Caporetto, quando la borghesia italiana era riuscita a raccogliere le forze per scongiurare
la catastrofe della patria. Senza la catastrofe (militare), la classe dirigente italiana, la borghesia
fascista e financo i ceti popolari non avrebbero avuto né l’interesse né le forze di scrollarsi di dosso
il fascismo. E nemmeno Mussolini. È in questo clima che maturò l’8 settembre. La prima e più
sconcertante conseguenza del modo con quale si arriva all’armistizio è la completa dissoluzione
dell’esercito italiano. Moltissimi soldati italiani non pensano ad altro che ad abbandonare le armi e
tornarsene a casa. La reazione dell’esercito tedesco presente nella penisola è letalmente efficace. Un
trauma così pesante si abbatte su una società che non vuole sostenere più il fascismo, specie nella
sua nuova incarnazione repubblicana, subordinata al regime nazista; ma la società italiana, nella
maggior parte delle sue componenti, non sostiene nemmeno le sue azioni militari delle bande
partigiane che si cominciano a formare dopo l’8 settembre. Particolarmente pochi sono, poi, i
militanti attivi del movimento resistenziale (al momento di massima espansione sono, secondo De
Felice, ben sotto i 200 mila citati nei resoconti ufficiali, raggiungendo forse i 110 mila circa.
Contrariamente a quanto ha sempre sostenuto la vulgata filoresistenziale, soprattutto comunista, non
è possibile considerare la resistenza un movimento popolare di massa: il movimento partigiano si
fece moltitudine pochi giorni prima della capitolazione tedesca, quando bastava un fazzoletto al
collo per sentirsi combattente e sfilare con i vincitori. All’indomani dell’8 settembre ci fu, tra la
maggioranza degli italiani, un atteggiamento di sostanziale estraneità, se non di rifiuto, sia nei
confronti della Rsi che della resistenza. Primum vivere fu l’imperativo interiore della gente. Sparire,
rinchiudersi nel proprio guscio, non compromettersi con nessuna delle parti in lotta, sperare in una
rapida fine della guerra, furono le regole principali, seguite dai più, per tentare di attraversare il
dramma in corso col minimo di danni e sacrifici. È la teso della “zona grigia”: l’espressione,
utilizzata da Primo Levi ne “I sommersi e i salvati” per indicare l’universo morale che include
questi internati nei campi di concentramento che – in varie forme, anche involontarie – collaborano

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con i loro aguzzini. Se si considerano le dimensioni del movimento resistenziale – aggiunge De


Felice -, si deve concludere che il ruolo militare veramente “decisivo” nella lotta contro
l’occupazione nazista e contro la Rsi “dev’essere attribuito esclusivamente all’esercito di sua
maestà britannica e degli Usa. Se l’origine di tutto è la fase compresa tra il 25 luglio e l’8 settembre
è perché, osserva De Felice, in quella circostanza matura la “morte della patria”: l’espressione,
desunta da “De profundis”, racconto di Salvatore Satta, vuole indicare la perdita di legittimità patita
dall’autorità dello stato, e l’indebolirsi di un senso di appartenenza nazionale che – nei decenni
precedenti – si era profondamente identificato col regime fascista.

6. Le stragi, la responsabilità, la memoria (Pezzino)


Le analisi e le interpretazioni di Pavone e di De Felice, diverse come sono nell’impostazione
metodologica e nella lettura che propongono della fase ’43-’45, sollecitano nuovi approfondimenti e
nuove ricerche sulla violenza, sulle responsabilità nelle stragi dei civili, sulla memoria della
resistenza, sulle modalità di applicazione della giustizia di transizione. A questi temi, sin dalla metà
degli anni ’90, si è dedicato un nutrito gruppo di studiosi che ha realizzato e dato alle stampe un
notevole corpo di ricerche. Poi lo sguardo si è ampliato, verso una ricognizione, la più sistematica
possibile degli eventi e delle strutture della guerra civile e della guerra tout court. Tra gli storici che
hanno guidato questo rinnovamento degli studi spicca il nome di Paolo Pezzino. Di Pezzino vale
intanto la pena ricordare il primo lavoro di ricerca che ha dedicato a questi argomenti, “Anatomia di
un massacro. Controversia sopra una strage tedesca”, pubblicato nel ’97. Il 29 giugno del ’44, a
seguito di uno scontro con i partigiani, i tedeschi uccisero una sessantina di civili nel comune di
Guardistallo in provincia di Pisa. La ricerca di Pezzino si snoda in 3 direzioni: la responsabilità
delle stragi tedesche; l’azione partigiana e le sue conseguenze sulla popolazione; la lotta sulla
memoria ingaggiata tra difensori e detrattori della resistenza nel dopoguerra. Vi è anche un’altra
memoria, che solo ora riaffiora, ed è in molti casi irriducibile a quella ufficiale, ed è la memoria dei
parenti delle vittime civili di massacri perpetrati dalle truppe tedesche durante i lunghi mesi di
occupazione. Quando si studiano queste stragi da vicino, nella loro complessità e non
semplicemente come es. della “barbarie” tedesca, si deve constatare che spesso, nella memoria dei
sopravvissuti, i responsabili del massacro sono considerati non solo i tedeschi, cioè gli autori
materiali delle rappresaglie, ma anche i partigiani, cioè coloro che con le loro azioni, ma spesso con
la loro semplice presenza, avrebbero scatenato il potenziale di violenza dei primi. In ballo c’è solo
un gioco di percezioni, o c’è anche un qualche spessore di realtà, ovvero la possibilità che gruppi
partigiani abbiano pianificato le loro azioni in modo irresponsabile, o peggio ancora cinico,
meritandosi il risentimento da parte delle comunità che sono state sottoposte alle rappresaglie
naziste, e l’ostilità di una parte almeno dell’opinione pubblica della penisola? È appunto, centrando
l’attenzione sulle scelte, e indagando sugli errori (dei gruppi partigiani), che si potrà riportare in
primo piano quel tema della responsabilità che consente di dare ascolto anche alle voci di chi, per
quelle scelte e quegli errori, ebbe a patire drammatiche conseguenze, senza che quest’ascolto di per
sé debba essere considerato un processo alla resistenza. La prima questione trattata è quella delle
stragi di civili compiute da reparti dell’esercito tedesco. Le stragi non sono episodi occasionali, ma
s’inquadrano in una sistematica strategia di autoprotezione attuata dall’esercito tedesco. La facilità
del ricorso alla violenza contro persone inermi si spiega anche con il disprezzo razziale nei
confronti della popolazione italiana che anima quadri e soldati dei diversi reparti tedeschi che
operano in Italia. Ciò detto, Pezzino è in grado di fornire dati anche più dettagliati: le azioni
compiute per rappresaglia, quindi in risposta a un’azione armata da parte di partigiani o combattenti

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irregolari o civili, a sommosse e a rivolte, dove il rapporto tra azione e repressione è chiaro e
localizzato nello spazio e nel tempo, sono state solo 37 rispetto alle 192 azioni commesse dalle
truppe tedesche per le quali è stato possibile individuare una tipologia, dato questo di grande
significato, perché ridimensiona le tesi difensive dei generali tedeschi. Le stragi commesse in
occasione di rastrellamenti di partigiani, di evacuazione forzata di civili, di operazioni volte alla
deportazione di uomini per il controllo del territorio, sono state infatti 107 e a esse va attribuito oltre
il 60% delle vittime. Se a queste aggiungiamo le stragi gratuite e senza apparente spiegazione,
abbiamo che circa l’80% degli episodi e delle vittime non possono essere ricondotte a
“rappresaglie” nel senso in cui il termine viene inteso nel diritto di guerra. Se prendiamo in esame il
numero e le condizioni delle vittime, questa considerazione si rafforza: solo il 44,6% delle 3774
vittime censite erano adulti in età per essere adibiti al servizio militare o ai lavori coatti, per il resto
si trattava di donne, bambini e anziani. Il 61,9% delle vittime sono state uccise nel corso di queste
azioni con più netto carattere terroristico o punitivo nei confronti della popolazione. Un’autonomia
fascista nello stragismo emerge con ancora più evidenza dai lavori del gruppo emiliano-romagnolo,
dai quali emerge una maggiore “politicizzazione” delle uccisioni fasciste, che spesso assumono il
sapore abbastanza esplicito della “vendetta”: viene costituito un consistente gruppo di ostaggi,
rastrellati, genitori e parenti di “disertori”, tenuti a disposizione per rappresaglie. Non tutte le
rievocazioni sono convergenti e trovano spazio in quella narrazione egemonica che nella resistenza
ha sottolineato esclusivamente il carattere di epopea popolare e di momento fondativo della
“nuova” identità nazionale. D’altro canto, le memorie divise sono certo un’esclusiva italiana: la
seconda guerra mondiale è stata vissuta in Europa come una guerra civile che ha attraversato tutto il
continente, per l’intreccio fra conflitti geopolitici tradizionali e lo scontro fra ideologie, modelli
politici e di civiltà alternativi. Ma, in definitiva, al di là delle memorie divise, che cosa sono le
azioni partigiane? Sono – osserva Pezzino – azioni che spesso appaiono ai contemporanei
doppiamente destituite di legittimità, perché non riconosciute come legittime dal diritto di guerra e
non riconosciute come tali nemmeno dall’opinione della maggior parte della “zona grigia”, cioè
dalla maggior parte delle popolazioni italiane, prevalentemente rurali, che non intendevano
prendere parte al conflitto. La posizione sua, e di altri storici che si sono interessati alle stragi e alla
loro rielaborazione memoriale, è attenta a muoversi sul terreno delle fonti ed è sostenuta da
ricostruzioni accurate e non solo c’è unanimità di vedute, ma neanche una generica convergenza.
Santo Peli, all’interno di una sintesi aggiornata sulla storia della resistenza, scrive: “Sul piano
storico generale, è però evidente che, nel contesto della guerra, e della guerra civile, quale si
configura in Italia dopo il ’43, non far nulla che potesse direttamente o indirettamente coinvolgere
degli innocenti avrebbe coinciso con la rinuncia a resistere, con la rassegnazione dell’obbedienza a
Mussolini e a Hitler, e la resa a un’iniziativa esclusivamente alleata.”. Anche più netto e diretto è il
dissenso manifestato da Sergio Luzzatto. In “La crisi dell’antifascismo”, Luzzatto ha passato a
rassegna il doppio movimento politico e culturale che, attraversando l’Italia a partire dagli anni ’80,
si è abbattuto come un ciclone sulla memoria del fascismo e della resistenza. È allora che a sinistra,
osserva Luzzatto, si è cominciato a lasciar cadere la celebrazione della resistenza e
dell’antifascismo, e perfino a invitare una sorta di equivalenza tra le ragioni dei militi della
repubblica di Salò e quelle dei partigiani. Dimenticando con ciò 2 cose essenziali: 1) che sono del
tutto chiaro, e per nulla equivalenti, gli obiettivi della lotta per gli uni e per gli altri: un nuovo
ordine nazifascista, fatto di mancanza di libertà e di genocidi razziali, da un lato, e un’Italia più
libera e giusta dall’altro; 2) che se tra le file partigiane i comunisti hanno avuto un ruolo centrale,
essi sono stati poi leader e militanti di un partito, il Pci, che ha dato un contributo essenziale alla

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costruzione, al consolidamento e, negli anni 70, all’attiva difesa della democrazia in Italia. Nel
presentare queste argomentazioni, Luzzatto ha riservato un pungente commento critico anche alla
storiografia che ha ricostruito le stragi del periodo ’43-’45. Con una sensibilità che era mancata nei
decenni precedenti, gli studiosi più capaci hanno preso a ricostruire e a raccontare altre storie. Ma
questo meritorio lavoro per raccogliere il ricordo del male dalla viva voce degli ultimi sopravvissuti
può esso stesso avere contribuito, e ancora può contribuire alla crisi dell’antifascismo. Si è passati
infatti dalla monumentalizzazione degli eroi alla monumentalizzazione delle vittime. Nel momento
in cui la vittima civile viene riconosciuta come l’autentico eroe del 20esimo secolo, angelo
sacrificale di mortifere ideologie l’una contro l’altra armata, a che pro distinguere tra vittime e
vittime? Perché mai un uomo o una donna qualunque uccisi dai saloini dovrebbero suscitare
maggiore pietà di un uomo o una donna qualunque uccisi dai partigiani? Di là dal gruppo
sanguigno, che cosa distingue il sangue di un cadavere da quello di un altro? Alla fine, osserva
Luzzatto, “le conseguenze negative di quest’operazione storicamente, ideologicamente e
moralmente riduzionistica consistono nel mettere in secondo piano le ragioni etico-politiche della
lotta gli uni contro gli altri, al massimo traducendo il tutta in una sorta di ossessiva contabilità
mortuaria.

8) – “12°” – CAPITOLO: Il nazismo e lo sterminio degli ebrei

1. Questioni terminologiche e storiografiche preliminari


Non ci sono dubbi sul fatto che avviene agli ebrei d’Europa tra il ’39 e il ’45 sia qualcosa di
assolutamente enorme: è un assassinio di massa pianificato e organizzato da uno stato in modo
razionale. In questo contesto “razionale” è un aggettivo che proviene dal vocabolario di Max Weber
e indica un “comportamento adeguato rispetto allo scopo”. In questo senso, la vicenda degli ebrei è
così particolare: il loro massacro è stato perpetrato da uno stato in forma sistematica e organizzata.
Come va chiamata questa vicenda, si è aperto un dibattito, tutt’ora in corso. Nei paesi di lingua
inglese e negli Usa soprattutto, si è diffuso il termine “olocausto”, che deriva dal greco e che in
origine indica un sacrificio religioso agli dei compiuto bruciando una vittima (alla lettera, olocausto
significa “rogo integrale”). La parola evoca immediatamente l’immagine dei forni crematori, ma è
stata sottoposta a obiezioni e critiche: l’uccisione degli ebrei non è un sacrificio religioso; coloro
che lo compiono non sono dei sacerdoti; il fuoco non è lo strumento per compiere il massacro. Vi è
comunque chi preferisce impiegare il termine “Shoah”. È una parola di origine biblica che significa
“catastrofe improvvisa e terribile”. In relazione allo sterminio degli ebrei viene usata soprattutto in
Israele, ma si è poi diffusa ovunque ed è normalmente impiegata sia nel dibattito storiografico sia
nella discussione pubblica. Spiega lo storico italiano Alberto Cavaglion, nell’introduzione alla
recente edizione italiana di un “Dizionario dell’Olocausto”, che Shoah è un termine che suggerisce
che la terribile esperienza dello sterminio appartiene in forma esclusiva al mondo ebraico, mentre in
realtà è parte integrante della vicenda storica occidentale nel suo complesso. Una terza soluzione è
quella di chi parla di “genocidio”, un termine che viene utilizzato per la prima volta nel ’44 da un
giurista americano di origine polacca, Raphael Lemkin, che dà questa definizione: “Per genocidio
s’intende uno qualunque degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in
parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale: 1) uccisione dei membri del
gruppo; 2) gravi lesioni all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; 3) assoggettamento
deliberato del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o

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parziale; 4) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; 5) trasferimento forzato di
fanciulli da un gruppo a un altro. Più tardi Frank R. Chalk e Kurt Jonassohn hanno molto ampliato i
confini della definizione, sostenendo che per genocidio deve intendersi “una forma di massacro di
massa unilaterale con cui uno stato o un’altra autorità vuole distruggere un gruppo. L’uso dell’uno o
dell’altro termine non è del tutto indifferente, perché comporta implicazioni interpretative diverse.
Sia olocausto, sia Shoah, in quanto parole che si applicano esclusivamente a ciò che accade agli
ebrei europei dal ’39 al ’45, vogliono sottolineare l’assoluta unicità di quell’esperienza. Chi ricorre
al termine genocidio considera invece la “soluzione finale” come uno dei vari assassinii di massa
che sono stati compiuti prima, durante e dopo quegli anni. Altre questiono storiografiche sono sorte
in merito all’interpretazione complessiva di quella vicenda. Sgombriamo subito il campo dalle
interpretazioni cosiddette “negazioniste”. Sono quelle interpretazioni che sostengono che lo
sterminio degli ebrei che non è mai avvenuto, o non è avvenuto nelle proporzioni comunemente
affermate. Fonti archivistiche, memorialistica di nazisti come di sopravvissuti, materiali fotografici
e cinematografici, documenti prodotti dalle inchieste giudiziarie compiute dopo la fine della
seconda guerra mondiale, non lasciano spazio neanche al più piccolo dubbio: le interpretazioni
negazioniste sono sbagliate, prive di fondamento, qualunque sia l’intenzione, politica o culturale, di
coloro i quali le sostengono. Le domande principali che hanno guidato la ricerca e il dibattito sono
essenzialmente 2: quali sono state le ragioni di fondo che hanno spinto i nazisti, e poi molti altri al
loro fianco, a pianificare e realizzare lo sterminio degli ebrei? Lo sterminio è stato progettato fin
dall’inizio in forma deliberata, oppure non era programmato ed era stato attuato per il concorso di
una molteplicità di circostanze?

2. La macchina dello sterminio (Neumann, Hilberg)


Nel ’42 venne pubblicato, negli Usa, uno dei primi importanti studi sulle strutture interne dello stato
nazista, “Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo”, di Franz Neumann. In esso
Neumann ha cercato di mostrare che le strutture interne dello stato nazista, erano articolate in una
complessa geografia di istituzioni, rispondenti essenzialmente a 4 principali poteri: il partito,
l’esercito, la burocrazia e l’apparato industriale. Il titolo rinvia alla coppia di mostri biblici,
Leviathan e Behemoth, a cui Thomas Hobbes ha fatto riferimento per spiegare le dinamiche e le
implicazioni della rivoluzione inglese del XVII secolo. Hobbes rese popolari sia Leviathan sia
Behemoth. Il suo “Leviathan” è un’analisi dello stato, ovvero di un sistema politico di coercizione
in cui sono ancora conservate le vestigia del dominio della legge e dei diritti individuali. Il suo
“Behemoth”, invece, che tratta della guerra civile del XVII secolo, descrive un non-stato, un caos,
una situazione d’illegalità, disordine e anarchia. Poiché noi crediamo che il nazionalsocialismo sia –
o tenda a diventare – un non stato, un caos, un regno dell’illegalità e dell’anarchia che ha
“soffocato” i diritti e la dignità dell’uomo e sta per trasformare il mondo in un caos con la
supremazia su grandi estensioni di territorio, abbiamo ritenuto appropriato designare il sistema
nazionalsocialista col nome di “Behemoth”. La spiegazione del titolo trasmette tutta l’ansia e lo
sdegno morale che Neumann prova nei confronti del nazismo e della possibilità che esso riesca a
imporsi: ma della sua analisi più che di uno stato anarchico si ricava l’immagine di uno stato
“policratico”, come poi è stato detto, cioè di uno stato articolato in una molteplicità di poteri diversi.
Subito dopo la sua pubblicazione, il lavoro di Neumann stenta ad attirare l’attenzione e il rispetto
che poi gli è stato tributato. Così come stentano a decollare gli studi sullo sterminio degli ebrei. Nel
secondo dopoguerra per un periodo piuttosto lungo, gli studi sullo sterminio non sono
particolarmente incoraggiati. Trova quindi difficoltà anche l’autore della prima grande e tutt’oggi

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importantissima ricerca sui meccanismi del massacro, Raul Hilberg. Significativamente Hilberg
avvia la sua ricerca per la tesi di dottorato, che prepara presso la Columbia University di New York,
sotto la guida di Franz Neumann, suo supervisore di tesi; e l’influenza di Behemoth sul suo grande
studio, “La distruzione degli ebrei d’Europa”, è evidente e riconosciuta. Neumann, peraltro, cerca di
scoraggiare il giovane Hilberg dall’intraprendere la ricerca su un tema come quello, avvisandolo
della sua impopolarità negli ambienti accademici; ma poi lo segue con partecipazione fino alla sua
morte, avvenuta nel ’54. Hilberg prosegue comunque la sua ricerca e quando cerca di pubblicarne i
risultati incontra delle resistenze sia negli Usa sia in Europa. La prima edizione americana del libro,
del ’61, è edita da una piccola casa editrice di Chicago. Il libro è uno studio tutt’oggi fondamentale
sul processo di sterminio organizzati dai nazisti. Hilberg non è molto interessato alle origini dello
sterminio e si concentra totalmente sulla ricostruzione della modalità organizzative che hanno
permesso l’eliminazione degli ebrei. A prima vista, la distruzione degli ebrei può apparire un fatto
globale, indivisibile, monolitico e ribelle a ogni spiegazione. Esaminandola più da vicino, essa si
mostra come un processo condotto per tappe successive, ciascuna delle quali fu il risultato di
decisioni prese da innumerevoli burocrati, nell’ambito di una vasta macchina amministrativa. Il
processo della distruzione si sviluppò secondo uno schema ben definibile, che non corrispondeva
affatto a un piano prestabilito. Chi partecipò all’impresa, quali furono i meccanismi d’esecuzione?
L’operazione non venne affidata a un unico agente: la macchina della distruzione fu sempre un
aggregato di parti diverse. Nel suo insieme, l’apparato amministrativo tedesco comprendeva, sotto
l’autorità del fuhrer Adolf Hitler, 4 gerarchie distinte: quella della burocrazia ministeriale, quella
delle forze armate, quella dell’economia e quella del partito. Per distruggere gli ebrei d’Europa, non
venne creato né un organismo specifico, né fissato un budget particolare. Ciascuno dei settori
doveva giocare un ruolo specifico nel processo, e ciascuno doveva trovare al proprio interno i mezzi
per portare a compimento il proprio scopo.

3. Uomini comuni (Browning)


Lo studio di Hilberg è eccezionalmente importante per la mole di documenti e di fonti su cui si
basa. Ma anche un’opera così vasta (1479 pagine nell’edizione italiana del ’99) e così ricca di
spunti non può esaurire ogni aspetto significativo di quest’enorme esperienza. Anche dopo la
pubblicazione del libro di Hilberg è rimasta aperta la questione del grado di coinvolgimento, e,
soprattutto delle ragioni del coinvolgimento, degli “uomini comuni”, dei tedeschi “ordinari”, di
quelli non fanaticamente partecipi degli ideali del nazionalsocialismo. Christopher R. Browning,
pubblica nel ’92 col titolo “Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia”, uno
studio dedicato alla ricostruzione della mentalità e della psicologia degli uomini che hanno fatto
parte del battaglione 101 della riserva di polizia tedesca, proveniente da Amburgo; in particolare,
Browning si concentra sul rastrellamento compiuto dal battaglione nel villaggio polacco di Jozefow
il 13 luglio ’42. Ciò che rende la storia particolarmente significativa è che il battaglione 101 era
composto da uomini arruolati da poco, per necessità, non da nazisti fanatici. Browning ha utilizzato
gli incartamenti di un’indagine giudiziaria e di un processo che la magistratura della repubblica
federale di Germania intentò contro i membri superstiti del Battaglione 101 dal ’62 al ’72,
accusandoli di crimini di guerra. Che i comportamenti e il grado di partecipazione dei singoli furono
molto diversi. Anche tra gli “uomini comuni” vi erano i nazisti convinti, coloro i quali – sulla base
di una fede parareligiosa – “credevano” nella necessità di eliminare gli ebrei. Il conformismo, in
modo particolare, emerge come una motivazione essenziale che, nel corso dell’esperienza, poté
essere rafforzata anche da altri elementi: per es., alcuni di questi massacratori per conformismo,

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sentirono nascere dentro di sé una pulsione sadica che fece loro provare soddisfazione nel
sopraffare e uccidere gente inerme. Nel complesso ne emerge un’interpretazione che conferma “dal
basso”, per dir così, le prospettive offerte da Neumann e da Hilberg: il comportamento dei tedeschi
davanti allo sterminio degli ebrei non fu uniforme e compatto, come non fu enorme e compatto il
funzionamento dello stato nazista e della “macchina dello sterminio”.

4. Volenterosi carnefici? (Dawidowicz, Jackel, Goldhagen)


Lavori come quelli di Neumann, di Hilberg o di Browning hanno aperto la strada a
un’interpretazione che nel suo complesso viene definita “funzionalista”. Riassumiamone i caratteri:
secondo quest’interpretazione, il sistema di potere nazista non si risolveva solo nella persona e nella
volontà di Hitler; inoltre, non è dimostrato che un piano preordinato di sterminio fosse stato previsto
sin da prima dal ’39-’41, mentre è chiaro che solo allora prese forma un programma che, per
approssimazioni successive, culminate nella conferenza di Wannsee del ’42, delineò i passi che
avrebbero condotto alla “soluzione finale”. Quest’interpretazione, dotata di ottimi sostegni
documentari, è stata tuttavia radicalmente contraddetta da quelli storici che si sono fatti sostenitori
dell’interpretazione “intenzionalista”, che l’intenzione dei nazisti era fin dall’inizio quella di
giungere a una radicale eliminazione degli ebrei. In questa prospettiva, secondo Lucy Dawidowicz e
Eberhard Jackel, 2 dei maggiori esponenti dell’orientamento “intenzionalista”, le circostanze della
guerra offrirono solo l’occasione per attuare ciò che Hitler e altri capi nazisti avevano intenzione di
compiere già da tempo. La Dawidowicz, in realtà, si spinge anche oltre e sostiene la tesi di una
peculiare diffusione dell’antisemitismo in Germania sin dall’epoca moderna. Questa prospettiva è
stata ripresa, e molto ampliata nelle sue implicazioni interpretative, dallo studio di Daniel J.
Goldhagen il quale, nel suo libro intitolato “I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e
l’Olocausto”, pubblicato nel ’96, ha sostenuto una tesi – se possibile – ancora più netta- secondo
Goldhagen la storia tedesca, sin dall’epoca della riforma protestante, è caratterizzata dalla
diffusione di un antisemitismo particolarmente aggressivo. Tale antisemitismo trova una sua
speciale diffusione e radicalizzazione nel corso del tardo ‘800. L’interpretazione di Goldhagen è
efficacissima nel sottolineare il rilievo morale e il significato storico di ciò che moltissimi tedeschi e
tedesche attivamente fecero nel quadro dello sterminio degli ebrei. Per comprendere il genocidio
dobbiamo quindi tenere sempre a mente 2 considerazioni. Scrivendo o leggendo a proposito di
quelle operazioni omicide, è fin troppo facile divenire insensibili al vero significato delle cifre.
Ciascuno di voi dovrebbe soffermarsi a pensare che se ci furono 10 mila morti vuol dire che i
tedeschi ammazzarono 10 mila persone. Ciascuno di noi dovrebbe riflettere sul significato che tutto
questo può aver avuto per i tedeschi che presero parte allo sterminio. La seconda considerazione da
non dimenticare mai è data dall’orrore di ciò che facevano i tedeschi. Chiunque appartenesse a un
reparto addetto alle eliminazioni, sia che sparasse lui stesso, sia che stesse a guardare i suoi
compagni che ammazzavano gli ebrei, si trovava immerso in scene di orrore indicibile. Queste
scene – non le descrizioni asettiche proposte dalla semplice cronaca delle operazioni – furono la
realtà di molti realizzatori; per poter comprendere il loro mondo fenomenologico dovremmo
raccontare a noi stessi ognuna delle immagini raccapriccianti che essi videro, ognuna delle gride
d’angoscia e dolore che udirono. L’analisi di ogni operazione, di ogni singola morte dovrebbe
ridondare di questo tipo di descrizioni. Il quadro proposto da Goldhagen è molto efficace. Tuttavia
la sua interpretazione, che insiste sul fatto che gran parte dei tedeschi furono “volenterosi carnefici”,
cioè condivisero a tal punto l’ideologia antisemita del nazismo da non provare alcun orrore nel
partecipare all’opera di sterminio, ha suscitato invece una vasta discussione e molte critiche. Le

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obiezioni principali sono state di 2 tipi: da un lato l’antisemitismo aggressivo che si diffonde alla
fine dell’800 non è stato una prerogativa tedesca. Dall’altro si è fatto notare che le molte
testimonianze raccolte da Goldhagen, non riescono a dimostrare fino in fondo che tutti i tedeschi vi
partecipassero con entusiasmo a causa del loro antisemitismo. La generalizzazione proposta da
Goldhagen sembra effettivamente eccessiva. Un quadro convincente lo si ottiene piuttosto se si
considera la molteplicità di motivazioni che può avere spinto la società tedesca ad accettare (o a non
ribellarsi) allo sterminio. Da questo punto di vista scrive considerazioni interessanti e accorate
proprio Christopher Browning. Goldhagen ha detto: “Ammetto, la forza ideologica
dell’antisemitismo, ma non sono d’accordo con Goldhagen quando afferma che tale atteggiamento
“si sovrapponeva” al sentimento che aveva sostanzialmente dominato l’evoluzione ideologica della
società civile. È vero che nel ’33 l’antisemitismo era ormai una consuetudine del diritto tedesco, ma
non credo che l’intera società tedesca fosse “in sintonia” con Hitler, sulla questione degli ebrei, e
che “l’importanza dell’antisemitismo nella sua visione del mondo, nei programmi e nella retorica”
rispecchiasse “i sentimenti della società tedesca”. Ammetto che l’antisemitismo - cioè lo stereotipo
negativo degli ebrei, la loro disumanizzazione e l’odio nei loro confronti – fosse diffuso tra i
carnefici del ’42, ma non sono d’accordo nel ritenerlo un atteggiamento “preesistente” e “istintivo”,
che Hitler dovette solo “scatenare” e “mobilitare”. Perché è importante stabilire quale delle 2
interpretazioni (quella di Goldhagen o la sua, di Browning) sia più vicina alla verità? Sarebbe molto
consolante se Goldhagen avesse ragione: in tal caso, solo pochissime società possiederebbero i
prerequisiti storici e culturali per realizzare il genocidio, e i regimi potrebbero votarsi allo sterminio
solo quando le popolazioni fossero convinte della sua urgenza, legittimità e necessità. Se così fosse,
il mondo sarebbe un luogo più sicuro, ma io non sono tanto ottimista. Temo invece di vivere in un
mondo in cui la guerra e il razzismo sono onnipresenti. In conclusione, il pessimismo di Browning
dev’essere stemperato: proprio opere storiche come la sua, o – pur con tutte le differenze del caso –
come quelle di Goldhagen, di Hilberg, di Neumann e di molti altri, danno un contributo inestimabile
alla riflessione e all’educazione collettiva, in modo che il rischio da lui paventato possa diventare
sempre più remoto.

9) – “13°” – CAPITOLO: Il totalitarismo

1. Un idealtipo per il XX secolo


Il “totalitarismo” è un idealtipo che descrive in forma astratta e generale i caratteri di una
formazione politica la cui natura è desunta dall’osservazione di alcuni concreti regimi politici
formatisi in Europa nel corso del XX secolo: il comunismo e il nazismo. Aspetto fondante di un
regime totalitario è il suo differenziarsi tanto dalle democrazie pluralistiche, quanto dai regimi
autoritari. Nei regimi autoritari, invece, il potere si concentra nelle mani di un solo partito o di un
unico leader; tuttavia, vi viene anche tollerata l’esistenza di altri gruppi politici, o di giornali e tv
avverse al regime. In un sistema totalitario il leader e il partito dominante vogliono plasmare la
società a loro immagine e somiglianza. In un simile contesto il termine “cittadini” sembrerebbe
improprio, e potrebbe sembrare più adatto il termine “sudditi”. Le stesse democrazie possono
partorire totalitarismi attraverso il libero esercizio del suffragio elettorale. è ciò che accade in
Germania, dove tra il ’32 e il ’33 il partito nazionalsocialista si impone alle elezioni come il partito
di gran lunga più votato. Tuttavia, qualunque sia il rapporto tra democrazia e totalitarismo è
indubbio che ogni regime totalitario vuole essere considerato anche come un fenomeno di rottura,

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addirittura un fenomeno socialmente e politicamente “rivoluzionario”. In tal modo con il


totalitarismo i sogni utopici di palingenesi, siano di destra o di sinistra, si trasformano in veri e
propri incubi di sangue e di dolore.

2. Prime formulazioni
La prima formulazione sembra debba essere rintracciata in alcuni scritti di antifascisti italiani
(Amendola, Basso, Sturzo), che tra il ’23 e il ’26, cercando di opporsi al fascismo, si sforzano anche
di identificarne i caratteri fondamentali. Il primo fronte di critica è, naturalmente, l’impianto
antipluralistico che il fascismo esibisce sin dai suoi primordi. Giovanni Amendola scrive: “La
caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà lo spirito totalitario. Questa singolare “guerra di
religione” che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre una fede, ma in compenso vi nega il
diritto di avere una coscienza – la vostra e non l’altrui – e vi preclude con una plumbea ipoteca
l’avvenire.”. Come non di rado accade, un termine che nasce per denigrare un progetto politico
viene fatto proprio da coloro ai quali l’attacco critico intendeva rivolgersi. Per il fascista, tutto è
nello stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dallo stato. Ai suoi
primordi, dunque, il termine “totalitario” è parte integrante del lessico politico militante. L’aggettivo
“totale”, riferito allo stato, o al movimento politico che si fa stato, viene usato sia da politici e
intellettuali conservatori o filonazisti (come Carl Schmitt), sia da pubblicisti che cercando di
opporsi all’onda politica della nuova destra che spazza la Germania e il centro dell’Europa negli
anni ’30. Con Boris Souvarine si ha per la prima volta un’esplorazione delle analogie strutturali che
sembrano avvicinare i “fascismi” al comunismo sovietico. La partecipazione dell’Urss alla guerra
antinazista, tuttavia, limita l’applicazione del concetto alla realtà sovietica. Ed è stato solo dopo la
fine della guerra, con la caduta del nazismo e del fascismo, e l’inizio della “guerra fredda”, che il
concetto di totalitarismo entra definitivamente nel dibattito pubblico occidentale per descrivere nei
termini più critici che sia possibile il sistema politico in vigore dell’Unione Sovietica.

3. Le origini del totalitarismo (Arendt)


Del nutrito gruppo di intellettuali europei costretti a fuggire dalla Germania nazista per la loro
confessione ebraica, ed emigrati negli Usa, fa parte anche Hannah Arendt. Il suo libro, “Le origini
del totalitarismo”, propone un paradigma teorico che intende descrivere gli aspetti comuni di
formazioni storiche nuove, complesse ed essenzialmente diverse l’una dall’altra. Il fascismo
italiano, invece, viene esplicitamente escluso dall’analisi, poiché Arendt lo considera una forma
tradizionale di dittatura. Per Arendt nazismo e comunismo non differiscono che in aspetti
relativamente marginali: la loro essenza è riconducibile a una comune matrice. L’impianto più
propriamente storico del libro riguarda in effetti solo la nascita del totalitarismo nazista. La prima
parte del lavoro (“L’antisemitismo”) ricostruisce la condizione degli ebrei in Europa,
dall’emancipazione fino alla fine dell’800, con una particolare attenzione all’“affare Dreyfus”,
episodio nel corso del quale emerge un nuovo tipo di razzismo antisemita, diverso dal tradizionale
antigiudaismo che aveva attraversato l’Europa sin dal Medioevo. Il nuovo antisemitismo ha più di
un punto di collegamento con le culture e le pratiche dell’imperialismo, esaminate nella seconda
parte del libro (“L’imperialismo”). Ripercorrendo gli scritti di Gobineau, Arendt segue il formarsi di
un’ideologia che in base a una rigida gerarchizzazione dell’umanità distingue i gruppi umani in
razze superiori e inferiori. La retorica della missione civilizzatrice non trattiene i dominatori dal far
ricorso compiaciuto e disinvolto a metodi di repressione e oppressione violenta. Lo stesso luogo
archetipo del massacro razziale, il campo di concentramento, viene realizzato per la prima volta in

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sud Africa dagli inglesi al tempo della loro guerra contro i boeri. Aprono comunque prospettive
importanti alla riflessione sul fenomeno totalitario, poiché la Arendt vi suggerisce che il
totalitarismo è una morfologia sociopolitica dotata di una sua profondità storica. Tuttavia, ciò che
veramente impone il libro all’attenzione della comunità scientifica è la sua terza e ultima parte (“Il
totalitarismo”), nel quale la Arendt elabora una prima tipologia analitica del fenomeno, fondata su
elementi strutturali desunti sia dall’esperienza del nazismo sia da quella del comunismo staliniano.
Tanto per mobilitare masse d’individui duramente provate da congiunture economiche, sociali e
politiche tremendamente difficili. In sé e per sé le ideologie dei 2 movimenti totalitari non hanno
alcun tratto di speciale originalità: l’ideologia comunista si fonda sull’idea della lotta di classe.
L’ideologia nazista si fonda sull’idea della competizione tra le razze. A partire da questi nuclei,
però, i 2 movimenti politici costruiscono dei sistemi ideologici che portano alle estreme
conseguenze le 3 fondamentali componenti totalitarie insite in ogni ideologia. E nuova è anche la
struttura istituzionale di questi regimi, all’interno del quale spiccano 2 elementi strutturali comuni.
In primo luogo l’assoluta centralità del capo. anche se ha importanti manifestazioni simboliche, tale
centralità è pienamente operativa, nel senso che il capo ha poteri decisionali che superano di gran
lunga quelli posseduti da un tiranno classico o da un dittatore ordinario. Una simile complessità
istituzionale, prodotto essa stessa dalle decisioni del capo, gli dà un enorme potere, perché egli può
usare molto facilmente all’interno del regime il sistema del divide et impera. Tuttavia questi sono
aspetti che non connotano veramente in profondità il momento totalitario. Ciò che gli è
indissolubilmente proprio è il ricorso sistematico a una violenza di tipo nuovo. La violenza cui
ricorrono sia il nazismo che lo stalinismo è una violenza permanente, tale da suscitare
costantemente un terrore che deve indurre tutti i cittadini a piegarsi alla volontà del partito
dominante e del suo capo. L’introduzione del concetto di “nemico oggettivo” è per il funzionamento
dei regimi totalitari molto più importante della definizione ideologica delle rispettive categorie. La
categoria dei nemici oggettivi sopravvive ai primi nemici del movimento, determinati
ideologicamente. Prevedendo il completamento dello sterminio degli ebrei, i nazisti avevano già
adottato le misure preliminari necessarie per la liquidazione del popolo polacco, e Hitler progettava
addirittura la decimazione di certe categorie di tedeschi (Arendt qui allude a malati di mente,
handicappati). La scelta di tali categorie non è mai interamente arbitraria; poiché viene utilizzata per
la propaganda del movimento all’estero, deve cadere su gruppi la cui inimicizia possa apparire
plausibile. Il concetto di “nemico oggettivo”, la cui identità varia secondo le circostanze (di modo
che, appena liquidata una categoria, si può dichiarar guerra a un’altra), corrisponde esattamente alla
situazione di fatto ripetutamente sottolineata dai dittatori totalitari: il loro regime non è un governo
tradizionale, bensì un movimento, la cui avanzata incontra sempre nuovi ostacoli che devono essere
eliminati. Supposto che si possa parlare di un pensiero giuridico totalitario, si può dire che il
“nemico oggettivo” ne è l’idea centrale. Ciò che è straordinario è l’efficacia di questo sistema di
governo attraverso il terrore, assai più importante, per Arendt, delle forme di propaganda. Coloro
che vengono risparmiati da questo sistema sono spinti da una pulsione irrefrenabile a conformarsi
alle condotte volute dal potere totalitario, nella speranza di essere identificati come “leali cittadini”
e non come potenziali nemici interni: “l’elemento sconcertante nel successo del totalitarismo è
piuttosto la genuina abnegazione dei suoi seguaci: può essere comprensibile che un nazista o un
bolscevico non si senta scosso nella sua convinzione da crimini contro persone che non
appartengono al movimento o addirittura gli sono ostili; ma lo stupefacente è che non tentenni
quando cominciano a esser colpiti i suoi compagni di fede, e neppure quando è lui stesso a cader
vittima della persecuzione, a esser condannato sulla base di accuse inventate, espulso dal partito e

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deportato in un campo di concentramento o di lavoro forzato. Anzi, con grande meraviglia


dell’intero mondo civile, egli può essere persino disposto ad accusarsi e a collaborare alla sua
condanna a morte, purché non sia toccata la sua posizione di militante. Per distruggere tutti i legami
sociali e familiari, le epurazioni venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte
l’accusato e tutta la sua cerchia, dai semplici conoscenti agli amici e ai parenti più stretti. La
conseguenza dell’ingegnoso criterio della “colpa per associazione” era che, appena un uomo veniva
accusato, i suoi vecchi amici si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti: per salvare la
propria pelle essi offrivano volontariamente delle informazioni e si affrettavano a presentare delle
denunce per avvalorare le prove indiziarie contro di lui che erano inconsistenti. Fu con l’impiego
radicale di questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società
atomizzata quale non si era mai vista prima, e a creare intorno a ciascun individuo un’imponente
solitudine quale neppure una catastrofe da sola avrebbe potuto causare. L’apoteosi del sistema,
infine, viene realizzata nella costituzione del sistema dei campi di concentramento. Individui che
possono essere oppressi senza difficoltà; morti di cui - all’interno del regime totalitario – si possono
cancellare le tracce e la memoria, grazie a un ricorso a forme di organizzazione e a risorse
tecnologiche che sono espressione della massima modernità. Perché in effetti il totalitarismo è uno
dei più avanzati prodotti della modernità; è “una forma interamente nuova di governo che, in quanto
potenzialità e costante pericolo, ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire.

4. Genealogie del totalitarismo (Popper, Horkheimer, Adorno, Talmon)


Negli stessi anni in cui Arendt lavora al suo libro, o subito dopo la sua pubblicazione, altri studi
affrontano la questione dei regimi totalitari del XX secolo. Nei lavori che praticano il metodo
genealogico, ci si concentra soprattutto sul ruolo delle elaborazioni concettuali. 2 interpretazioni
principali si confrontano: l’una attribuisce la nascita del pensiero totalitario a modelli di filosofia
politica che prendono forma nell’800; l’altra invece colloca in aspetti diversi del pensiero
illuminista le origini dei paradigmi concettuali che alimentano le esperienze totalitarie
contemporanee. Nel ’45 il filosofo Karl Popper dà alle stampe un ampio studio in 2 volumi,
intitolando “La società aperta e i suoi nemici”. L’anno cronologico scelto da Popper è vastissimo.
Di Hegel e Marx, Popper considera le loro elaborazioni come dispositivi concettuali, che offrono
risorse per l’edificazione delle dittature del XX secolo. Nel loro pensiero egli trova soprattutto 2
elementi concettualmente “tossici”: “l’utopismo”, ovvero l’identificazione di una società ideale alla
quale la realtà effettiva dovrebbe uniformarsi; e lo “storicismo”, ovvero l’idea di uno svolgimento
necessario della storia delle società. Nella sua analisi la Arendt esamina, tuttavia, il ruolo dei
principi della lotta di classe per il comunismo e della lotta delle razze per il nazismo, trattandoli
essenzialmente nello stesso modo con cui Popper esamina lo storicismo. Alle origini del modello di
“società aperta” Popper vede l’elaborazione politica illuminista, tradita poi dalle sperimentazioni
concettuali che emergono dal romanticismo filosofico tedesco. L’oggetto della riflessione di
Horkheimer e Adorno non è solo il totalitarismo e il nazismo, quanto la decadenza della società
contemporanea occidentale nel suo complesso. In cosa consiste questa tendenza alla regressione?
Nel fatto paradossale per cui il progresso tecnico ed economico, di cui innegabilmente l’occidente
contemporaneo dispone, si è accompagnato a una terribile involuzione politico-culturale, connotata
ta una limitazione progressiva dell’autonomia critica e perfino circondati da una miriade di merci
che possono essere liberamente consumate, mentre la stessa cultura che viene loro offerta assume
l’aspetto di una merce: le loro strutture cognitive sono indebolite, vittima dell’incantesimo del
benessere e del consumo. Alle origini di questo processo i 2 autori collocano il pensiero illuminista:

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non si soffermano particolarmente sull’uno o sull’altro dei pensieri illuministi, ma in modo un po’
apodittico indicano quella che a loro sembra l’essenza del pensiero illuminista: ovvero una sorta di
ipertrofia della razionalità umana in base alla quale si accarezza l’idea di poter dominare
pienamente le forze della natura, liberandosi così dagli incantesimi della fede e del mito, e aprendo
all’unanimità la strada per un inarrestabile progresso. Tale dinamica trova molteplici espressioni,
che favorisce l’impoverimento l’intellettuale delle masse. Dall’altro lato sollecita anche
l’identificazione di capri espiatori collettivi. Senza citare il lavoro di Horkheimer e Adorno, anche
Talmon ritiene che le origini del male totalitario debbano essere investigate a partire dalla filofosia
illuminista. Inoltre, come Rousseau spiega nel “Contratto sociale”, una sola è la “volontà generale”
dalla quale devono nascere gli organismi istituzionali di una nuova società politica, più libera e
giusta delle monarchie o delle tirannie del passato, in questa nuova società non possono essere
ammesse divergenze, o contrasti di maggioranze e minoranze. Chi pensa diversamene dalla
maggioranza che esprime l’unica “volontà generale” non pensa soltanto un’idea diversa: pensa
un’idea “sbagliata” in quanto non conforme alla volontà dei più. Percorsi concettuali come questi
fondano, sin dal XVIII secolo, l’idea di una possibile società politica non pluralistica, appoggiata a
un “momento della maggioranza”. Il proposito di Talmon è indagare a fondo il messianismo politico
settecentesco portando alla luce un’evoluzione della politica che dall’armonia etica e dalla felicità
universale dei philosophes porta al totalitarismo di tipo comunista: “la differenza essenziale tra le 2
correnti di pensiero democratico (liberale e messianico-totalitaria) nel loro sviluppo consiste, come
spesso si sostiene, nell’affermazione del valore della libertà da una parte e nella sua negazione
dall’altra. L’orientamento liberale sostiene che la politica procede per tentativi ed errori, e considera
i sistemi politici espedienti pragmatici escogitati dall’ingegno e dalla libertà dell’uomo. Il pensiero
democratico-totalitario, dall’altra parte, si basa sull’asserzione di una sola e assoluta verità politica.

5. Il totalitarismo come modello (Friedrich, Brzezinski)


Tutt’altro metodo è quello seguito da un politologo di Harvard, Carl Joachim Friedrich e dal suo
giovane collaboratore Zbigniew K. Brzezinski. Piuttosto prediligono una prospettiva sistemica,
influenzata dal funzionalismo: ovvero vogliono costruire una definizione “modulare” dei sistemi
politici totalitari di destra o di sinistra, di cui individuano singole componenti costitutive. Gli
elementi fondamentali della tipologia costruita da Friedrich e Brzezinski sono: 1) un sistema
ideologico articolato in un corpus di dottrine che si ritiene affrontino tutti gli aspetti fondamentali
dell’esistenza; 2) un partito unico, guidato da un solo capo, e articolato in una ristretta area di
militanti fedeli e convinti e in una più ampia area che irreggimenta tutto il resto della popolazione in
associazioni o organizzazioni dipendenti dal partito; 3) il sistematico ricorso al terrore, attraverso
l’azione di una o più polizie segrete, autorizzate a usare ogni strumento di coercizione fisica e
psicologica; 4) il completo controllo di tutti i mezzi di comunicazione di massa; 5) il completo
controllo di tutte le attività produttive. Friedrich e Brzezinski includono dunque nel loro modello
quasi tutte le indicazioni già presenti nell’analisi della Arendt.

6. Sviluppi recenti
La tipologia di Friedrich e Brzezinski ha il vantaggio della chiarezza e della semplice applicabilità.
Tuttavia sconta subito un elemento di grave debolezza, ovvero l’idea dell’immodificabilità di un
regime totalitario che, secondo i 2 politologi, può cadere solo ad opera di un intervento esterno.
Quest’evoluzione storica dell’Urss comporta una crisi della teoria del totalitarismo, soprattutto nella
versione Friedrich-Brzezinski e soprattutto in ambito politologico. E così, dagli anni ’70 del XX

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secolo, vi è chi la considera definitivamente e irrimediabilmente superata, e comunque inapplicabile


ai fenomeni politici più importanti degli ultimi 40 anni del ‘900. Tra gli storici, il concetto resta al
centro di sperimentazioni e di lavori di ricerca, come quelle elaborate, per es., da Francois Furet,
che in “Il passato di un’illusione” ha di nuovo esplorato il nesso tra le concezioni e le pratiche
politiche della rivoluzione francese e i caratteri del comunismo, in particolare nella sua incarnazione
sovietica; oppure da Isaiah Berlin e da Zeev Sternhell, che hanno ricondotto l’origine dei fascismi
europei alla reazione irrazionalistica. Come si vede, anche in queste rivisitazioni del metodo
genealogico, la ricostruzione storica di lungo periodo sembra prestarsi ad analisi che danno conto
solo di una delle manifestazioni del totalitarismo contemporaneo, ma non del fenomeno nel suo
complesso. Per quanto riguarda il regime nazista, sin dai pioneristici studi di George L. Mosse, gli
storici hanno cominciato a porre l’accento anche sugli elementi comunicativi, rituali e simbolici che
contribuiscono alla costruzione del consenso al regime di Hitler. L’idea dell’imprevedibilità della
violenza totalitaria, così rilevante nella teoria della Arendt, sembra reggere alla prova degli studi
solo per quanto riguarda il regime sovietico. Diverso il caso del regime nazista: lì essere identificato
come soggetto tedesco ariano è una garanzia piuttosto sicura, posto che non si voglia contrastare
politicamente il regime; mentre il maelstrom si apre inesorabile per altre e ben definite categorie di
tedeschi. Il sistema delle differenze su cui si basa il nazismo, fa sì che sia tracciata una linea retta tra
chi fa integralmente parte della Volksgemeinschaft e chi ne è estraneo e debba essere allontanato.

7. Totalitarismo e fascismo (Aquarone, Collotti, De Felice, Gentile)


Gli storici politologi e filosofi che si sono occupati del totalitarismo hanno cercato di costruire tale
idealtipo lavorando essenzialmente intorno alle analogie possibili che collegano solo i regimi
nazista e comunista. Stringere un nesso tipologico forte tra quei 2 regimi, significa lasciare
nell’ombra, o comunque trascurare, le relazioni morfologiche che collegano il nazismo il fascismo
italiano o ad altri autoritarismi di destra che si formano in Europa negli anni compresi tra le 2
guerre. Nel ’65 Alberto Aquarone ha dedicato un libro molto apprezzato e molto ben documentato,
dal titolo “L’organizzazione dello stato totalitario”, alla ricostruzione delle trasformazioni
istituzionali attraversate dallo stato italiano dal successo del fascismo alla piena instaurazione del
regime. Il titolo potrebbe far pensare che Aquarone voglia collocare il fascismo italiano tra i
totalitarismi. Aquarone considera del tutto fallimentare il tentativo fascista di costruire un regime
totalitario: vi si oppone l’istituzione monarchica, che funziona da costante contraltare al regime
fascista. La chiesa cattolica mantiene la sua autonomia, e il cattivo funzionamento è dato da una
struttura partitica che non riesce a darsi organizzazioni efficienti, né a realizzare la fascistizzazione
della società italiana. Anni dopo anche Enzo Collotti in “Fascismo, fascismi” ha ritenuto di non
poter collocare il fascismo italiano all’interno della categoria arendtiana del totalitarismo; anzi, ha
avanzato una proposta interpretativa opposta, basata sull’individuazione di una serie di
caratteristiche comuni ai diversi autoritarismi di destra. Vari regimi lo hanno indotto a rifiutare
l’utilizzazione della categoria “totalitarismo” e a preferirgli quella di “fascismo”, o al plurale
“fascismi”, termini che racchiudono in un’unica costellazione fenomeni che vanno dal fascismo
italiano e dal nazismo tedesco all’“austrofascismo”, al franchismo, al salazarismo, ai regimi
collaborazionisti in Olanda, Francia, Norvegia, Slovacchia, Croazia, fino ai casi della Romania e
dell’Ungheria. Secondo lui, le affinità tra i regimi di destra sono tali da indurre a considerarli come
un fenomeno politico omogeneo e distinto da altre esperienze coeve, come le democrazie o il
comunismo. Diversa la posizione di Renzo De Felice, che mostra interesse per la categoria forgiata
dalla Arendt, da Friedrich e da Brzezinski, considerandola applicabile al caso del fascismo italiano.

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De Felice ha spiegato meglio la sua posizione nei confronti della teoria del totalitarismo. Alla metà
degli anni ’30 egli vede in atto un processo di “progressiva totalitarizzazione” del regime fascista. 2
aspetti: la centralità della figura del capo e il dominio della politica sull’economia, un tratto che,
invece, avvicina molto il fascismo ai 2 totalitarismi “canonici”. Al regime fascista, per essere
veramente totalitario, non solo mancava il ricorso sistematico al terrore di massa e, quindi, al
sistema concentrazionario, ma esso non mirò mai o non riuscì a realizzare compiutamente nessuno
degli aspetti caratterizzanti un regime totalitario vero e proprio. Non mirò mai né a una compiuta
transizione dallo stato di polizia, né tantomeno a realizzare il controllo totalitario del partito dello
stato. Muovendosi con maggiore decisione nel solco tracciato dal suo maestro, Emilio Gentile,
invece non ha dubbi nell’ascrivere anche il fascismo italiano all’universo dei totalitarismi. Anche
Gentile sostiene che il fascismo fu un esperimento politico nuovo generato dai conflitti della
moderna società di massa. È stato il primo partito milizia che ha conquistato il potere in una
democrazia liberale europea, con il dichiarato proposito di distruggerla. Propaganda del mito,
azione violenta delle milizie, ruolo e centralità del duce, inammissibilità di opinioni diverse da
quelle previste dall’ideologia ufficiale sono tutti elementi che inducono a considerare anche il
fascismo italiano come una variante del totalitarismo contemporaneo. Nondimeno, Gentile ritiene
che la spinta totalitaria sia quella dominante, e ne segue il percorso, più evidente nella seconda metà
degli anni ’30: con la creazione della Gil (Gioventù Italiana del Littorio), nel ’37 “il partito assunse
il monopolio della formazione delle nuove generazioni, dall’infanzia alla maturità”. Nella
costruzione del regime fascista, fu attiva e operante la volontà di trasformare fondamentalmente
l’ordine esistente in funzione di un’ideologia, anche se il processo di trasformazione seguì vie, ritmi
e tempi diversi da quelli di altri esperimenti totalitari. Il fascismo è stato storicamente l’unico dei
regimi a partito unico del XX secolo che si è autodefinito come stato totalitario, riferendosi con ciò
alla sua concezione della politica e al suo regime di tipo nuovo, fondato sulla concentrazione del
potere nelle mani del partito e del suo duce, e sull’organizzazione capillare delle masse. Quanto alle
obiezioni di chi, come Alberto Aquarone o Domenico Fisichella, ha visto nella chiesa cattolica o
nella presentazione della monarchia dei baluardi che limitano le pretese totalitarie del regime,
Gentile replica: “la storia dell’esperimento fascista è una storia di continue tensioni, resistenze e
conflitti. Certamente, l’esperimento totalitario incontrò nel corso della sua attuazione numerosi
ostacoli nella società: ma le ricerche più recenti, e in particolare quelle da me compiute sul partito e
sul regime fascista, dimostrano che alla vigilia della seconda guerra mondiale lo stato fascista era
certamente molto più totalitario di quanto non lo fosse alla fine degli anni ’20. Nessun’opposizione
minacciava seriamente, all’interno del paese, la stabilità e il funzionamento del laboratorio
totalitario, anche se ancora si favoleggia di una monarchia che, nei confronti del fascismo, avrebbe
“agito costantemente come freno e contrappeso alle spinte liberali” del fascismo (Domenico
Fisichella). In realtà, nella cosiddetta “diarchia” fra il duce e il re, Mussolini, dopo la fine del
regime fascista, invocava per attenuare le proprie responsabilità di dittatore, il potere effettivo era
nelle mani del duce, mentre il re, pur rimanendo formalmente il capo dello stato, non seppe o non
riuscì mai né a prevedere né a frenare il sistematico smantellamento dell’ordinamento costituzionale
fondato sullo statuto albertino.”. La Arendt esclude il fascismo italiano dalla tipologia costruita nel
suo “Le origini del totalitarismo”, una scelta che Gentile liquida – con qualche buona ragione –
come dettata da pura e semplice mancanza di conoscenze sul regime mussoliniano. Sebbene il
fascismo-movimento si imponga con un sistematico ricorso all’uso della violenza politica, e
sebbene nel fascismo-regime l’Ovra controlli i comportamenti dei cittadini, e la limitazione della
libertà d’espressione sia massima, non sembra si possa dire che appartenga al fascismo il ricorso

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permanente e sistematico al terrore violento come strumento di governo (almeno non nella stessa
misura e con la stessa inesorabilità amministrativa che sono proprie di nazismo e comunismo).

10) – “14°” – CAPITOLO: Storia delle donne, storia di genere

1. Alle origini del femminismo contemporaneo (de Beauvoir, Friedan)


Per lungo tempo, e salvo rarissime eccezioni, le donne, in quanto tali, non sono state considerate un
soggetto degno di una specifica analisi storiografica. Fino agli anni ’60-’70 del XX secolo gli
storici, quasi tutti uomini, non hanno dato alla presenza femminile nella storia alcun particolare
rilievo. Le cose sono cambiate con il formarsi di un movimento femminista internazionale, con
importanti radici intellettuali e organizzative in Francia, nel Regno Unito, negli Usa, ma poi in molti
altri paesi dell’Europa occidentale, Italia compresa. Diversamente dai movimenti femminili
formatisi in precedenza, il femminismo contemporaneo non si è concentrato soltanto sulla conquista
della parità nei diritti civili e politici, ma ha avviato una riflessione profonda sulla specificità di
essere donna e sulla natura del rapporto (prevalentemente di subordinazione) con gli uomini. Uno
dei testi che fondano il femminismo contemporaneo venne pubblicato nel ’49 in Francia da una
filosofa Simone de Beauvoir, e s’intitola “Il secondo sesso”. Il punto essenziale sollevato dal libro
riguarda l’incapacità delle donne di scegliere autonomamente il proprio percorso di vita, trovandosi
costantemente spinte in una dimensione che le costringe a una condizione gregaria, scandita dagli
obblighi della riproduzione e della maternità. Non riescono a trovare alcuna forma di realizzazione
autonoma, né nelle professioni, né nella vita intellettuale. La passiva accettazione di questo stato di
cose è la causa essenziale del perpetuarsi di questo stato di marginalizzazione psicologica, sociale,
professionale. Dei numerosi testi che fondano il pensiero femminista, “La mistica della
femminilità” di Betty Friedan è sicuramente uno dei più influenti. Con la definizione di “mistica
della femminilità” l’autrice indica il sistema di valori in base al quale sono state educate le donne
americane di classe media, e che le indirizza verso un ideale che le vuole dedite esclusivamente alla
riproduzione. Le “casalinghe” sono i soggetti che interpretano nel modo più sistematico questo
modello culturale: ma è un modello che – osserva la Friedan – molte donne vivono con crescente
frustrazione. Non avere esperienze creative che non siano quelle della domesticità è vivere una vita
che produce evidenti contraccolpi negativi, che si esprimono in disturbi nervosi, o in veri e propri
stati di profonda depressione. Per più di un quindicennio le parole scritte per le donne e quelle che
le donne usavano quando parlavano di loro, mentre i mariti, raggruppati nell’angolo opposto della
stanza, parlavano di affari, politica o di fognature, si riferivano ai figli, al modo di rendere felici i
mariti, alla cucina e all’arredamento. Nessuna discuteva se le donne fossero diverse. Se una donna
si sentiva in tensione, ormai sapeva che doveva ricercarne le cause nel matrimonio o in sé stessa. Le
altre donne erano soddisfatte della propria vita, pensava; si vergognava talmente da ammettere la
sua insoddisfazione che non ne parlava mai con le amiche, per cui non veniva a sapere che molte
altre donne condividevano il suo stato d’animo. Se cercava di parlarne al marito, questi non capiva
nemmeno di cosa stesse parlando. In realtà non lo capiva lei stessa. Alle donne riusciva più difficile
parlare di questo problema che della sessualità; persino gli psicanalisti non sapevano come
definirlo. Ma la maggior parte delle donne che avevano questo problema non andavano dallo
psicanalista. “In realtà non ho niente” dicevano a sé stesse, “non c’è nessun problema”. E invece,
prosegue Friedan, il problema c’era eccome: “Nel ’60 questo problema esplose frantumando
l’immagine della felice donna di casa americana. Nella pubblicità televisiva le graziose massaie

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continuavano a sorridere raggianti attraverso le bolle di sapone, e la rivista “Time”, nell’articolo


centrale, protestava che “si stanno divertendo troppo… per credere di doversi sentire felici”. Ma
altri invece cominciavano a parlare dell’infelicità della donna di casa americana – dal “New York
Times” al “Newsweek”, da “Good Housekeeping” al Cbs (giornali, riviste ed emittenti televisive),
pur ritrovando quasi sempre una ragiona superficiale per liquidare l’argomento. Il problema,
osserva Friedan, sta esattamente nel fatto che molte casalinghe americane, magari in maniera
confusa, sentono “una voce interiore che parla” e dice: “Voglio qualcosa di più del marito, dei figli
e della casa”. Ma questa voce interiore non trova espressione, mentre i media, i politici e lo stesso
sistema educativo non fanno altro che consolidare e difendere la “mistica della femminilità”, fatta di
matrimonio, figli, casa. È il momento che le donne prendano consapevolezza di questo problema,
conclude Friedan, e che reagiscano di conseguenza. Questo libro, che insieme a molti altri non
meno importanti comincia a circolare nelle università americane ed europee nel momento in cui
decolla il movimento studentesco, ha un grandissimo effetto: porre il problema di una nuova
femminilità al centro della discussione culturale e politica del movimento giovanile, e stimolare la
crescita del moderno femminismo.

2. Storie “militanti” (Mitchell, Rowbotham, Pieroni Bortolotti)


I problemi analitici e politici posti da libri come quelli di Betty Friedan e, al tempo stesso, posti
dalla nascita del movimento femminista danno un grande impulso alla riflessione sul passato delle
donne: in tal modo fanno nascere discipline che prima non c’erano proprio, come i “Women’s
Studies” o la storia delle donne (intesa come campo storiografico specifico). Si tratta di ambiti
scientifici che muovono da interrogativi di questo tipo: la donna ha avuto sempre la stessa
collocazione? Se è noto che ci sono state donne di potere e di rilievo – sante, regine, attrici,
scrittrici, artiste – perché sono state così poche? Tra gli studi di questa fase iniziale spicca “La
condizione della donna. Il nuovo femminismo” pubblicato nel ’71 da Juliet Mitchell, che offre
un’ampia ricostruzione delle origini del femminismo americano negli anni ’60, coniugata a una
ricognizione sulla posizione della donna nella società, nella famiglia e nella cultura negli Usa e
nell’Europa contemporanea. Con una solida formazione psicanalitica e un’ottima conoscenza delle
opere di Marx la Mitchell, che pure è molto attenta alle implicazioni sociali della diversità tra uomo
e donna, insiste sul fatto che, prima ancora di esaminare le differenze di classe, bisogna riconoscere
una specificità assoluta alla condizione femminile, che è una condizione di subalternità all’uomo,
qualunque sia il contesto sociale che si voglia prendere in considerazione; e tale condizione di
subalternità trova nella famiglia il luogo elettivo di realizzazione. Sulla scia del lavoro della
Mitchell, nel ’73 uscì “Donne, resistenza e rivoluzione” di Sheila Rowbotham, un’ambiziosa
ricostruzione di lungo periodo della presenza femminile nella storia, dalle rivoluzioni inglesi del
XVII secolo fino al mondo contemporaneo. Il libro stabilisce un po’ il modello di una storiografia
femminista militante, volta a rovesciare il paradigma che vuole le donne emarginate o silenti in una
storia dominata dagli uomini, e vuole mostrare la costante e crescente presenza femminile negli
eventi politicamente più rilevanti nella storia dell’occidente e del mondo. L’ambiente italiano non è
meno vivace di quello in lingua inglese. Uno degli studi fondativi di storia dei movimenti femminili
è proprio opera di un’italiana, Franca Pieroni Bortolotti, che nel ’63 pubblicò “Alle origini del
movimento femminile in Italia 1848-1892”, una ricerca di grande qualità, tutt’oggi molto utile per
avere una panoramica sui primordi del movimento femminile italiano. Un anno più tardi, nel ’75,
nasce a Roma “Dwf. Donna Woman Femme”, una pubblicazione che porta il sottotitolo “Rivista
internazionale di studi antropologici sociali sulla donna”. L’iniziativa spicca nel contesto

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accademico italiano che alla metà degli anni ’70 ha un tasso di femminilità piuttosto basso e – nella
maggior parte dei casi – ostenta un completo disinteresse per la storia delle donne o per i dibattiti
teorici stimolati dalla formazione del movimento femminista.

3. il “genere” come categoria di analisi storica (Zemon Davis, Scott, Calvi)


Nonostante ciò, proprio sul numero 3 del ’77 di “Nuova Dwf” venne pubblicato un importante
saggio di Natalie Zemon David intitolato “La storia delle donne in transizione: il caso europeo”
(edito originariamente in “Feminist Studies” nel ’76). In questo intervento, con grande lucidità, la
Zemon David pone su basi nuove la ricerca – all’epoca ancora tutta da compiere – sulle donne nel
passato. È arrivato il momento di analizzare le condizioni sociali di vita anche delle donne comuni,
di tutte le classi sociali, ma ci sono altre 2 questioni che vanno prese in considerazione. La prima
riguarda l’oggetto di studio: le donne non possono essere studiate isolatamente; la loro definizione,
in qualunque contesto spaziale o temporale, deriva dalla relazione che essere intrattengono con gli
uomini. Dunque la storia delle donne, dev’essere una storia relazionale, che non si concentri solo
sulle donne, ma le studi nel loro rapporto con i padri, i fratelli etc. Da questa nuova prospettiva
relazionale vanno anche riesaminate coppie concettuali come cultura-natura o pubblico-privato, i
cui contenuti variano col variare del rapporto che s’instaura tra uomini e donne. In secondo luogo, il
campo analitico da riesaminare non può ridursi sono ed esclusivamente allo studio dei movimenti
femminili, ma deve poter affrontare questioni classiche della storiografia, come il potere, le strutture
sociali, la proprietà, i simboli, la periodizzazione, tutte da riesaminare includendo nel campo visivo
anche le donne. In un passaggio chiave del suo saggio, Zemon Davis illustra il senso della sua
proposta relazionale utilizzando il concetto di “genere”: “ЀЀ mia opinione che dovremmo interessarci
sia della storia delle donne sia di quella degli uomini, che non dovremmo occuparci solo del sesso
succube. Il nostro scopo è di comprendere il significato dei sessi, dei gruppi di genere nel passato
storico. Il nostro scopo è di scoprire la gamma dei ruoli e del simbolismo sessuale in società e
periodi diversi, e di capire quale ne fosse il significato e quale funzione svolgessero nel mantenere
l’ordine sociale o nel promuoverne il mutamento.”. Questo passo viene citato in apertura di un
saggio assolutamente fondamentale di Joan W. Scott, pubblicato sulla “American Historical
Review” nell’86. Il titolo è molto esplicito: “Il genere: un’utile categoria di analisi storica”. La Scott
apre il suo saggio constatando che negli ultimi precedenti il termine “genere” ha sostituito negli
studi scientifici il termine “donne”. “Genere, quale sostituto di donne è usato per suggerire che
l’informazione sulle donne è necessariamente anche informazione sugli uomini, che l’una implica
lo studio dell’altra. Tale uso ribadisce il concetto che il mondo delle donne è una parte del mondo
degli uomini, creato in esso e da esso. Respinge poi l’utilità interpretativa del concetto di sfere
separate, affermando che studiare le donne come soggetto isolato perpetua la finzione secondo cui
una singola sfera, l’esperienza di un singolo sesso, avrebbe poco o nulla a che fare con l’altra.
L’analisi storica del variare delle concezioni di genere mostra con chiarezza che esse non sono un
fenomeno “naturale”, ma sono un fenomeno “culturale”. Compito della ricerca storica è, dunque,
quello di capire “i modi in cui le società rappresentano il genere, lo usano per articolare le norme
che regolano i rapporti sociali o elaborano il significato dell’esperienza”. La ricostruzione della
manipolazione culturale del genere non deve far dimenticare che tale concettualizzazione è fatta
apposta per stabilire differenze e rapporti di potere che trovano la loro concretizzazione sia nella
famiglia, sia nel mercato del lavoro, nella scuola e nella politica. La politicità dei rapporti uomo-
donna è essenziale per una storia del genere, conclude infine Joan Scott. E ciò non solo perché i
rapporti di genere sono stati – in ogni società conosciuta – dei rapporti ineguali di potere, ma perché

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questi rapporti ineguali si trasferiscono alla legislazione, alla pratica e alla rappresentazione stessa
della lotta politica. La ricerca sociale non può più fare a meno di considerare le donne; “non
esistono aree, zone, ambiti di attività umana che siano genderless (estranei alle relazioni di genere).
per questo è particolarmente fuorviante considerare come valida la distinzione tra pubblico e
privato. La strutturazione del privato ha un carattere politico (ci vogliono norme, consuetudini, ma
anche vere e proprie leggi per regolare i rapporti privati ); inoltre, il campo del privato (anche del
privato più intimo, come quello che attiene alla sessualità) implica rapporti di forza, i quali, a loro
volta, devono trovare legittimazione in discorsi, immagini, valori e strutture normative che i sistemi
politici e legislativi, i media e i sistemi educativi, si preoccupano di diffondere. I Gender Studies
offrono strumenti di riflessione che servono proprio a questo: a svelare in che modo sono stati
costruiti i rapporti di potere tra uomini e donne.

4. Pubblicazioni, riviste, istituzioni


Attraverso elaborazioni teoriche come quelle della Zemon Davis o della Scott, la storia delle donne
perde il carattere militante che lo caratterizza ai suoi inizi. La fioritura della storiografia di genere è
dovuta anche al fatto che nelle università occidentali in generale, e nelle facoltà umanistiche in
particolare, negli ultimi 30 anni il numero delle docenti è aumentato in modo significativo, così
com’è accaduto per altri settori professionali. “L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile
dell’epoca moderna”, “Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità”, studi di
questo genere devono molto alle considerazioni esposte dalla Zemon Davis o dalla Scott; essi,
infatti, non riguardano solo le donne, ma anche gli uomini. L’apertura degli studi storici alla
riflessione sulle identità sessuali ha significato pure la pubblicazione di opere di grande respiro, la
fondazione di riviste, di associazioni, di istituti accademici, dedicati in forma specialistica a questo
settore della ricerca storica. Il fenomeno riguarda tutto l’occidente, come anche diversi paesi
extraeuropei (l’India per es.), e sarebbe certamente troppo lungo fare una panoramica complessiva
di tutte le manifestazioni culturali e istituzionali che segnalano la larga diffusione attuale della storia
delle donne e di quella di genere. Intanto bisogna sottolineare che l’editoria italiana è stata
particolarmente attenta alla storia delle donne. Tra le case editrici che hanno pubblicato numerosi
lavori di storia delle donne, vi sono Laterza e Viella. Oltre alle pubblicazioni di monografie e
sintesi, va ricordata anche la pubblicazione di riviste specializzate, come “Dwf. Donna Woman
Femme”, fondata nel ’75, e anche la prima rivista italiana specificamente dedicata alla storia delle
donne: “Memoria. Rivista di storia delle Donne”, fondata nell’81 e chiusa nel ’91. Diversamente da
quest’ultima rivista, “Genesis” è l’espressione della Società italiana delle storiche (Sis),
un’associazione fondata nell’89, che vuole “valorizzare l’esperienza e la soggettività femminile
mediante la ricerca e l’approfondimento del patrimonio di saperi derivante dalla storia delle donne e
delle relazioni di genere. Per farlo, la Sis organizza convegni, scuole estive etc.

11) – “15°” – CAPITOLO: la globalizzazione

1. Premessa
Negli ultimi decenni, sociologi, politologi ed economisti hanno cominciato a impiegare il termine
“globalizzazione” per indicare un processo planetario di crescita degli scambi economici e
finanziari, di aumento della mobilità transazionale di persone etc. Nel descrivere la globalizzazione,
diversi studiosi hanno posto una particolare enfasi soprattutto sugli aspetti economici, tra i quali

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specialmente rilevanti sarebbero: 1) l’imporsi dell’ideologia del libero mercato, con una vasta
semplificazione delle regole che disciplinano i rapporti commerciali, finanziari e produttivi
internazionali; 2) la diffusione di modelli di consumo uniformi su scala mondiale, veicolate da
media potenti come la tv e internet; 3) la compressione dei concetti di spazio e di tempo, favorita
dalla riduzione dei costi telefonici, dei costi dei viaggi aerei etc.; 4) il grande e costante sviluppo dei
movimenti migratori, che si muovono lungo un sistema di percorsi articolati che attraversa tutto
quanto il globo. A tale dominio economico è sembrato corrispondere anche una crescente egemonia
politica occidentale, in particolare americana. Tuttavia, anche tale superiorità ha subito sfide
significative, in gran parte provenienti da movimenti islamici radicali globali, come Al-Qaeda.
Infine, il termine globalizzazione indica piuttosto una tendenza che una realtà integralmente
compiuta, poiché il processo d’integrazione finora è stato parziale. 1) Il processo di globalizzazione
è un fenomeno che può essere osservato solo nel periodo che va dal ’45 a oggi, o si possono
individuare tendenze di più lungo termine; 2) quali sono le implicazioni politiche e culturali
dell’intensificazione delle relazioni globali: gli stati nazionali, al proposito, hanno ancora
significativo di denazionalizzazione); 3) e se è così, cosa prende il posto degli stati-nazione?

2. Il sistema mondo (Wallerstein)


Da tempo esistono lavori storici che hanno posto l’accento su una tendenza di lungo periodo alla
costruzione di sistemi economici integrati, di dimensione tendenzialmente globale. Immanuel
Wallerstein, tra il ’74 e l’89 ha pubblicato i 3 volumi di un’opera il cui titolo complessivo è “Il
sistema mondiale dell’economia moderna”. L’idea fondamentale che anima la sua analisi è che
esistano “economie-mondo”, cioè aree economiche integrate, organizzate intorno a un centro
economico che riesce a collegare a sé altre aree territoriali. Le forze che costruiscono un sistema-
mondo non sono, almeno in prima battuta, politiche, ma economiche, è il capitalismo europeo, che
decolla nell’Europa moderna tra XVI e XVII secolo come un sistema commerciale e poi produttivo
di respiro mondiale. Nelle prime fasi di formazione dell’economia-mondo attivata dal commercio
capitalistico europeo a lunga distanza, la geografia economica si articola in aree centrali (l’Europa
nord-occidentali), periferiche (le Americhe e l’Europa orientale) e semiperiferiche (l’Europa
meridionale). Wallerstein vede il concatenarsi di queste fasi come un processo sequenziale che
tende alla formazione di un unico sistema mondo: tale sistema unico, comunque, non implica affatto
omogeneizzazione dei costumi o reciprocità dei rapporti economici, tutt’altro. Mentre le differenze
identitarie e politiche restano costanti, costanti restano anche i rapporti economicamente squilibrati
tra le aree centrali e quelle periferiche e semiperiferiche. L’importanza del lavoro di Wallerstein sta
nel mostrare, in modo analiticamente originale, che il processo di globalizzazione (parola che
peraltro non appartiene al suo vocabolario) ha origini lontane nel tempo. Quanto alla valutazione
complessiva del significato del processo storico, Wallerstein – in un breve saggio dell’83 intitolato
“Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura in un sistema-mondo” – scrive, con estrema
franchezza: “Ora siamo finalmente in grado di spiegare perché il capitalismo è emerso come
sistema sociale storicamente determinato. I capitalisti sono come dei topolini su una ruota dentata,
che corrono sempre più veloce, per poter correre ancora di più. All’interno di questo processo, senza
dubbio, alcuni vivono bene ma altri vivono in condizioni assai misere. Non solo credo che la grande
maggioranza dei popoli del mondo stia oggettivamente peggio, dal punto di vista materiale, rispetto
ai precedenti sistemi storici, ma penso che si possa dimostrare che anche dal punto di vista politico
essi stiano peggio che nelle fasi precedenti. Persino un accusatore risoluto del capitalismo storico,
come Karl Marx, ha posto un forte accento sulla sua funzione storica progressiva. Il bilancio del

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capitalismo storico è forse complesso, ma un primo calcolo in termini di distribuzione materiale, dei
beni e di collocazione delle energie è, secondo me, molto negativo.”.

3. Le origini del mondo moderno (Bayly)


Wallerstein esplora le origini economiche dell’integrazione mondiale. Altri storici, pur non
trascurando le dinamiche e le interazioni economiche, hanno osservato tuttavia anche le modalità
d’integrazione politica e culturale su scala globale: Christopher A. Bayly propone di considerare:
“come certe tendenze storiche e certe frequenze di eventi possano venir collegate, rivelando
l’interconnessione e l’interdipendenza dei cambiamenti politici e sociali a livello planetario ben
prima del supposto inizio della fase contemporanea di “globalizzazione” successiva al ’45. Via via
che gli eventi si facevano più interconnessi e interdipendenti, anche le forme dell’agire umano si
adattarono reciprocamente finendo con l’assomigliarsi dappertutto nel mondo. Questo libro,
dunque, ripercorre il sorgere di uniformità globali dello stato. Una simile crescente uniformità era
visibile non solo nelle grandi istituzioni come le chiese, le corti regie e i sistemi giudiziari. Tuttavia,
queste connessioni accrebbero anche il senso della differenza, e persino dell’antagonismo, tra i
membri delle diverse società, in particolare tra le loro élites. Nel corso del XIX secolo, gli stati-
nazione e gli imperi antagonisti assunsero tratti più nitidi e divennero più ostili gli uni verso gli altri
proprio nel momento in cui le somiglianze, le connessioni e i collegamenti reciproci presero a
proliferare.”. Come si vede da questa pagina di sintesi, Bayly esplora con grande attenzione e con
un impianto metodologico innovativo i processi d’integrazione globale, non limitandoli affatto alla
sfera dell’economico. È uno degli aspetti interessanti della sua analisi, suggerisce di osservare il
diffondersi e lo svilupparsi delle ideologie politiche collegandole immediatamente alle dinamiche
globalizzanti che attraversano economie e culture. Le ideologie nazionaliste, non solo Bayly non le
considera affatto una questione esclusivamente euro-occidentale, ma gli sembra anche che
quest’ideologia, fondata sul collegamento diretto tra gruppi etno-culturali specifici, da un lato, e ben
delimitate realtà territoriali, dall’altro, nasca come risposta alle tendenze omogeneizzanti che
attraversano il mondo del XIX secolo. Se nel corso dell’800 le identità locali si ristrutturano e si
rafforzano dovunque intorno al nuovo linguaggio del nazionalismo, ciò non significa che antiche
pratiche transnazionali, così come nuove forme di organizzazione internazionale, non abbiano
rilievo. Al contrario: molte delle prime continuano ancora a essere largamente diffuse e ad avere
importanza per milioni di persone; mentre le altre nascono e si diffondono proprio nel corso del
XIX secolo. Ma è importante tenere a mente che i modelli precedenti di globalizzazione
persistevano tenacemente sotto la superficie del nuovo ordine internazionale. Al tempo stesso, il
trionfo dello stato-nazione vide anche lo spuntare di una pletora di associazioni volontarie, di circoli
riformatori e di crociate morali, oramai sempre più organizzati a livello sia nazionale che
internazionale. La Prima internazionale socialista è stato soltanto il più radicale di tali gruppi.
Identità localmente definite (quelle nazionali) sono sollecitate da processi globali di scambio,
interazione e dominazione, e convivono con pratiche sociali e forme identitarie transnazionali
(come le religioni) o internazionali (nuove associazioni politiche o morali per es.). Il quadro che
emerge dalla ricostruzione di Bayly offre un’immagine ben diversa del XIX secolo, un secolo in cui
spinte all’integrazione globale e alla supremazia occidentale convivono con reazioni e risposte che
si riverberano egualmente sull’occidente come sul resto del mondo. Attraverso l’analisi dei
precedenti ottocenteschi si possono osservare modelli di comportamento e di reazione
all’integrazione globale, che un secolo più tardi tendono – almeno in qualche misura – a replicarsi.

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4. Globalizzazione e neo-nazionalismi (Anderson)


A uno sguardo superficiale, il processo di globalizzazione potrebbe essere considerato come un
insieme di processi che spinge verso una crescente cooperazione internazionale di attori economici
e di stati nazionali. Secondo alcuni osservatori – anche negli anni più recenti – si è creata una
situazione per la quale i processi di globalizzazione oltre a stimolare forme di
internazionalizzazione del politico, sollecitano anche la rinascita e il rafforzamento delle identità
locali, rilanciate, in modo particolare, attraverso il ricorso al classico discorso nazionalista. Tra i
numerosi aspetti che possono essere considerati, uno, in particolare, ha speciale rilievo: ovvero
l’attivazione di grandi dinamiche migratorie incoraggiate dagli impulsi economici e culturali propri
della globalizzazione, offrono immagini così seducenti da spingere milioni di persone a cercare di
recarsi dall’Africa o dall’Asia centro-meridionale e sud-orientale verso l’Europa, o verso gli Usa. Il
contesto culturale all’interno del quale le nuove migrazioni hanno luogo, ne cambiano in profondità
il significato. Gli spostamenti massivi del XIX secolo comportavano un quasi completo
sradicamento degli emigranti dalle comunità d’origine, che li costringeva a trovare piuttosto
rapidamente modi di adattamento e d’integrazione nelle comunità d’arrivo. Viceversa, nelle
migrazioni odierne le comunità migranti possono restare facilmente in contatto con le comunità
d’origine. Telefoni fissi e, adesso, cellulari, tv satellitari, connessioni internet, consentono di
conservare più tenacemente i tratti culturali distintivi della comunità di appartenenza. È importante
rendersi conto – osserva Anderson – che la linea di frattura di questi peculiari “scontri di civiltà” si
fissa molto spesso lungo una faglia etno-nazionale: in Europa le comunità migranti conservano
tenacemente le proprie identità originarie; mentre parti significative delle comunità autoctone per
reazione alla presenza degli emigrati ripescano nel loro archivio memoriale un aggressivo ed
esclusivo senso d’appartenenza alla comunità nazionale che, magari, fino a qualche anno prima,
sembrava del tutto dimenticato. All’inverso, la presenza economica e talora anche militare degli
occidentali in aree non occidentali provoca reazioni di rigetto e di radicalizzazione d’identità
religiose pensate in funzione dichiaratamente anti-occidentale e declinare con linguaggi d’impianto
neo-nazionalista: sebbene questo non sia un fenomeno nuovo, poiché tutto il processo di
decolonizzazione si è svolto sotto queste insegne, ciò non toglie che sia un fenomeno
drammaticamente rilevante. Una sorta di “eterogenesi dei fini” sembra dunque guidare i processi di
globalizzazione.

5. Significato della storia e conflitti globali (Fukuyama, Huntington, Hardt, Negri)


Vi è anche chi ha posto l’accento su altri e diversi processi politici dalla globalizzazione, Francis
Fukuyama pubblica “La fine della storia e l’ultimo uomo”, in cui presenta una concezione della
storia unidirezionale e universale dell’umanità. Fukuyama sostiene che la storia dell’umanità è
sospinta da 2 fattori principali, lo “spirito della scienza” che fa progredire la società umana, e il
“desiderio di riconoscimento” che fa nascere nell’uomo il bisogno di aver riconosciuti identità e
diritti da parte degli altri membri della società. Secondo Fukuyama storicamente il desiderio di
riconoscimento ha trovato la risposta più soddisfacente con l’instaurazione della moderna
democrazia politica. Secondo quest’impostazione, la caduta del muro di Berlino rappresenterebbe
una conferma del corso della storia contemporanea. Libertà individuale e benessere economico sono
le 2 strutture elementari che fanno dei regimi liberal-democratici il sistema politico vincente su
scala globale. L’evoluzione politica, infatti, non avviene in maniera del tutto casuale, non è una
cieca concatenazione di eventi. La linea etico-politica è tracciata dai principi del liberalismo,
sorretti e rafforzati dai successi economici ottenuti dal sistema capitalista, un sistema nel quale lo

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spirito della scienza si applica liberamente ai processi produttivi. Viceversa, tutto ciò che offende i
diritti dell’uomo, come i sistemi totalitari, che condannano al fallimento. Chi poteva confrontare il
degrado economico raggiunto dalla società sovietica negli anni ’70 col benessere delle società
democratiche occidentali, ne ricavava la sensazione di un grave fallimento dell’esperienza
comunista. Di fronte a queste esperienze fallimentari brilla invece la parabola vincente delle liberal-
democrazie, un modello che è in evidente diffusione in tutto il pianeta. La tesi di Fukuyama è stata
ripresa e criticata da Samuel P. Huntington, prima con un saggio edito nel ’93, “Scontro tra le
civiltà?”, e poi con un volume pubblicato nel ’96, “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine
mondiale”. Huntington concentra la sua analisi sulle fratture di civiltà, sostenendo che i conflitti
successivi alla fine della guerra fredda si sono verificati con maggiore frequenza e violenza lungo le
linee di divisione culturali, o di civiltà, e non per contrasti politico-ideologici, come accadeva
prima. Sono delle comunità che condividono tratti culturali specifici, sentiti come fondamentali per
la strutturazione delle identità individuali e collettive. Sangue, lingua, religione e modo di vita sono
elementi essenziali per l’identificazione di questi gruppi. Nondimeno, di tutti gli elementi formali
che definiscono le civiltà, il più importante è generalmente la religione. Quasi tutte le maggiori
civiltà della storia dell’umanità sono state strettamente identificate con le grandi religioni del
mondo. Esiste, inoltre, una certa corrispondenza tra le civiltà, identificate attraverso fattori culturali
-, e le razze – intese come unità di classificazione bio-fisica delle comunità umane. Civiltà e razza
sono concetti equivalenti: popoli di eguale razza possono essere divisi da civiltà assai diverse, e
popoli di razze diverse possono appartenere alla medesima civiltà. In particolare, le società razziali
molto eterogenee. Il fatto che le civiltà si strutturino intorno a fattori culturali di identità e di
appartenenza non rende i confini mentali che le separano meno rigidi dei confini fisici o geografici.
In questo processo d’irrigidimento il fattore religioso ha un ruolo assolutamente essenziale e se i
leader politici occidentali sottovalutano questa tendenza c’è il serio rischio che l’occidente – inteso
come insieme di comunità politiche appartenenti a un’unica civiltà – possa perdere il suo
predominio sul mondo. Via via che acquisiscono sempre maggiore potere e sicurezza di sé, le
società non occidentali tendono a difendere sempre più strenuamente i propri valori culturali e a
rifiutare quelli "imposti” dall’occidente. La tesi di fondo questo saggio è che la cultura e le identità
culturali – che al livello più ampio corrispondono a quelle delle rispettive civiltà – siano alla base di
processi di coesione, disintegrazione e conflittualità che caratterizzano il mondo post-guerra fredda.
Con sensibilità politica del tutto diversa da Huntington, Michael Hardt e Antonio Negri nel 2000
hanno pubblicato un saggio, “Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione”, nel quale, seguendo
un’impostazione di stampo neo-marxista, hanno descritto in tutt’altro modo i nuovi rapporti di forza
scaturiti dalla fine della guerra fredda e dai processi di globalizzazione. Ciò che emerge dalle
trasformazioni degli ultimi decenni è – secondo loro – “un nuovo ordine globale, una nuova logica e
una nuova struttura di potere”. C’è il declino della sovranità dei singoli stati-nazione, sostituiti da
un sistema reticolare di organismi nazionali e sovranazionali che i 2 autori chiamano “impero”. Il
termine è certamente molto familiare a tutti, ma si tratta di qualcosa di nuovo e peculiare: si tratta di
un apparato decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l’intero spazio
mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. Né gli Usa, né alcuno stato-
nazione costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista. L’imperialismo è finito.
Nessuna nazione sarà un leader mondiale come lo furono le nazioni europee moderne. Com’è fatto,
dunque, questo “impero”? È un sistema politico che non ha confini, non ha un vero centro ed è
composto da una sorta di informale federazione di soggetti; la struttura effettiva viene descritta dai
2 autori ricorrendo alla tipologia della costituzione mista, che combina e intreccia le sue tradizionali

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forme di governo: monarchia, aristocrazia, democrazia. L’“impero”, dunque, ha un apice


monarchico (o para-monarchico), poiché la forza militare su cui può contare è concentrata nelle
mani di un singolo stato, gli Usa, che si coordina con altri stati alleati attraverso la Nato. Forte di
questa struttura complessa ma organica, l’“impero” vuole controllare ogni aspetto della vita degli
individui, i loro corpi come le loro menti, ponendosi come l’unico vero garante possibile della
verità, della giustizia e della pace mondiale. Ciò che definiamo intervento morale viene praticato da
una serie di corpi che comprendono i nuovi media e le organizzazioni religiose, ma i più importanti
sono le cosiddette organizzazioni non governative (Ong) le quali, proprio in quanto non sono dirette
dai governi, si ritiene che agiscano sulla base di imperativi etici e morali. Amnesty International,
Oxfam e Médecins sans frontiéres: queste Ong umanitarie sono di fatto una delle più potenti armi
pacifiche del nuovo ordine mondiale – le compagnie caritatevoli e gli ordini mendicanti
dell’impero. Conducono “guerre giuste” senza armi, senza violenza, senza confini, questi gruppi si
prodigano per identificare bisogni universali e per difendere i diritti umani. L’intervento morale
spesso serve quale primo atto preparatorio della scena per il successivo intervento militare.
L’intervento militare è sempre meno il prodotto di una decisione presa nel quadro del precedente
ordine internazionale o dalle strutture delle Nazioni Unite. Quasi sempre viene dettato
unilateralmente dagli Usa che si incaricano delle proprie mosse. Le Corti di giustizia internazionali
e sovranazionali sono costrette a seguire la medesima direzione. Gli eserciti e la polizia anticipano i
tribunali e precostituiscono le regole di giustizia con le corti dovranno poi applicare. I tribunali
dovranno essere progressivamente trasformati da un organo che si limita a emanare sentenze contro
i vinti in un corpo giuridico o in un sistema di corpi che dettano e sanzionano l’interrelazione tra
l’ordine morale, l’esercizio dell’azione della polizia e il meccanismo che legittima la sovranità
imperiale. Gli interventi (morali) sono sempre eccezionali anche se si verificano di continuo; hanno
l’aspetto di azioni di polizia in quanto hanno il compito di mantenere l’ordine interno. Più in
generale, poi, è chiaro che le varie proposte interpretative offerte da Anderson (la rinascita dei
nazionalismi), da Fukuyama (il trionfo del modello democratico), da Huntington (la divisione tra le
civiltà e i rischi per l’occidente) e da Hardt e Negri (il pesante e fisicissimo dominio di un
inafferrabile nuovo impero occidentale) sono animate da presupposti e orientamenti ideali molto
diversi tra loro. Una prospettiva analitica come quella proposta da Beyly per l’800, capace di
osservare l’interagire e la compresenza di fenomeni diversi e oggettivamente contrastanti, potrà
essere utilmente adottata anche per disegnare senza unilateralità le sovrapposte morfologie della
civiltà globali che sta prendendo forma tra la fine del vecchio millennio e l’inizio di quello nuovo.

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