L’impostazione teorica di Karl Marx – basata sulla valorizzazione dei dati di fatto “materiali” –
ricorda in molti punti i coevi orientamenti positivisti. Spia di quest’affinità è il lessico da lui stesso
usato: il suo sarebbe un “materialismo storico” che fonda una nuova visione filosofica e politica,
denominata “socialismo scientifico”. Tanto le opere più politicamente impegnate – come il
“Manifesto del partito comunista”, scritto con Friedrich Engels – quanto quelle teoricamente più
ambiziose – come “Il Capitale” – si basano su un assunto teorico molto preciso: che l’indagine della
morfologia sociale, cioè delle forme della società, debba partire dall’identificazione del ruolo che
un individuo ha nel processo di produzione, i “mezzi di produzione (cioè le risorse finanziarie) e
dopo aver constatato quale sia la sua collocazione all’interno del processo di produzione
(imprenditore capitalista etc.), si può capire quali siano i suoi orientamento sociali, le sue preferenze
ideali e le sue scelte politiche. Marx definisce l’insieme di queste preferenze individuali usando
l’espressione “coscienza di classe”; tale dimensione soggettiva è – secondo lui – “determinata”
dall’“essere sociale” di un individuo, cioè dalla sua posizione nel processo di produzione. Appare
chiaro che per Marx le strutture produttive (e gli interessi materiali che esse suscitano) non solo
soltanto i fattori che determinano la “coscienza di classe”, ma sono anche gli elementi che
determinano l’intera sovrastruttura, poiché politica etc. nel “Manifesto del partito comunista”, Marx
ed Engels illustrano con grandissimo vigore una loro visione duale della struttura sociale. Se il
conflitto tra le classi è sempre stato il principale fattore di cambiamento storico, nelle epoche
passare, con l’avvento della moderna società industriale, invece, si ha un’enorme semplificazione
della struttura sociale, nel corso della quale emergono 2 classi soltanto, la borghesia e il proletariato.
Per Marx ed Engels “borghesia” è un termine che designa tutti coloro che possiedono i mezzi di
produzione: i borghesi sono essenzialmente gli imprenditori, i veri protagonisti della rivoluzione
industriale. Simmetricamente, col termine “proletariato” i 2 autori vogliono indicare l’insieme degli
operai che lavorano nelle nuove imprese produttive a tecnologia avanzata, le fabbriche: usano
quella parola, derivata dal latino, per sottolineare che la povertà di questi soggetti sociali è tale che
l’unica cosa che possiedono, oltre alla loro vita e al loro lavoro, sono i loro figli, la prole appunto; è
un’esagerazione retorica, che serve ai 2 autori per dire che il contrasto tra le 2 classi provoca un
conflitto che prelude a una rivoluzione sociale che – secondo loro – abbatterà il dominio della
borghesia. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver
semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in 2 grandi campi
nemici, in 2 grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. Le
spese che causa l’operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha
bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie. Lo schema presentato nel
“Manifesto” ha una grandissima forza visionaria. In altri scritti dedicati all’attualità politica, Marx
abbandona questa netta immagine duale e offre una visione più articolata della struttura sociale.
Nell’ultimo capitolo del terzo volume de “Il Capitale”, poi, proprio nella pagina dedicata alla teoria
delle classi, quest’ultime sembrano diventare 2: operai salariati, capitalisti (cioè imprenditori) e
proprietari fondiari. È comunque vero che lo schema duale del Manifesto resta cruciale in ogni sua
analisi. Il cuore pulsante della società moderna, dunque, sta lì nelle fabbriche, nel fronteggiarsi delle
2 nuove classi. Ogni altro gruppo sociale non gioca che un ruolo temporaneo. Qualunque sia la
soluzione da dare al numero delle classi, ciò che resta costante, nel pensiero di Marx, è il rapporto
gerarchico tra “struttura” e “sovrastruttura”: per capire la morfologia di una società, che di norma
appare enormemente complessa, non si deve far altro che studiarne le forme di produzione.
i privilegi e insidiarne il prestigio e il potere: in questa fase i borghesi possono trovarsi affiancati
alle classi inferiori; 2) successivamente, una volta ridimensionati o distrutti i privilegi aristocratici,
il fronte di tensione comincia a spostarsi in un altro punto dello spazio sociale. Per definire il
processo che conduce alla formazione di una borghesia consapevole di se stessa, spiega
ulteriormente Kocka, si deve far riferimento ai fronti sociali ai quali la borghesia si opponeva.
Spesso, infatti, è solo nel corso di un conflitto che le categorie sociali acquistano la natura di un
vero e proprio gruppo sociale: solo differenziandosi dagli altri ci si costruisce un’identità autonoma.
Nella seconda metà del XVIII secolo, e all’inizio del XIX, quando la borghesia moderna assunse i
tratti di una formazione sovra-locale, post-cetuale, presente in ogni aspetto della struttura sociale, i
commercianti, i negozianti etc. si trovarono a condividere uno straniamento critico nei confronti
degli antichi centri di potere, la nobiltà, da un lato, la monarchia, dall’altro. Nel corso del XIX
secolo questa linea di frontiera, pur senza scomparire del tutto. Già del tutto assente agli inizi del
secolo, e tuttavia a quell’epoca nient’affatto attuale, un’altra linea di frontiera attirò, a poco a poco,
a partire dagli anni ’30-’40 dell’800, le attenzioni dei borghesi: si trattò del confine “verso il basso”,
della differenziazione nei confronti degli strati subalterni non borghesi (e talvolta anche nei
confronti dei ceti medi inferiori). Seguendo uno schema simile e applicandolo al caso tedesco,
Wehler ha elaborato una proposta interpretativa nota sotto l’etichetta di “Sonderweg” (cioè di “via
alternativa” alla modernità). Che cosa dice quest’interpretazione? Che in Germania, in virtù tanto
della recente origine della borghesia quanto del notevole potere e prestigio della nobiltà, il processo
di riavvicinamento tra gruppi borghesi ed élites aristocratiche ebbe come esito una sorta di “ri-
feudalizzazione” della borghesia tedesca. Nel tardo ‘800, dal loro intransigente conservatorismo, la
borghesia tedesca abbandonò gli ideali democratici o liberali che l’avevano caratterizzata nella
prima metà dell’800. La società tedesca, molto dinamica dal punto di vista economico, rimase
condizionata dagli ideali politici e sociali condivisi dalle sue élites: la tensione che ne derivò,
rafforzata dalla contrapposizione tra una classe operaia e questo insieme di élites sarebbe una delle
chiavi interpretative essenziali per capire perché sia nato e si sia imposto un movimento politico
come il nazismo. Estendendo ulteriormente questo quadro a tutta l’Europa ottocentesca, uno storico
americano, Arno Mayer, ha sostenuto che tutta la storia dell’Europa ottocentesca fu in realtà
caratterizzata da processi simili a quelli identificati dagli storici sociali tedeschi per la Germania.
Non una debordante modernità capitalistica era ciò che si poteva vedere nell’800 europeo, dice
Mayer, ma una tenace “persistenza dell’antico regime”. L’interpretazione di Mayer è risultata utile
nell’invitare gli storici della società ottocentesca a differenziare meglio il quadro, senza presentare
le trasformazioni che vi hanno avuto luogo come altrettante tappe di un’inarrestabile “trionfo della
borghesia”.
sociali e politici tra individui che hanno simili esperienze di vita. inoltre, per meglio capire i
caratteri di questo processo, gli sembra necessario rompere il ferreo nesso che Marx aveva stretto
tra classe e coscienza di classe. “Io vedo la classe non come una “struttura”, né come una
“categoria”, ma come qualcosa che avviene in realtà nei rapporti umani. E la classe nasce quando
un gruppo d’uomini, per effetto di comuni esperienze (ereditate o vissute), sentono ed esprimono
un’identità d’interessi sia fra loro che non. L’esperienza di classe è determinata, in larga misura, dai
rapporti di produzione nel cui ambito gli uomini sono nati – o vengono involontariamente a trovarsi.
In una raccolta di saggi dell’83, “Languages of Class, Studies in English Working Class History”,
Gareth Stedman-Jones ha ulteriormente elaborato l’accenno di decostruzione del lessico marxiano
presente nel libro di Thompson, constatando che non solo la coscienza di classe è il prodotto di una
costruzione concettuale, ma che lo stesso concetto di classe dovrebbe essere studiato nelle sue
determinazioni linguistiche. E che non solo essa è un “farsi” che chiama in causa il modo in cui gli
individui costruiscono relazioni tra loro; ma che è essa stessa un concetto sottoposto a un processo
di costruzione lessicale.
ciò che per l’epoca costituì una notevole innovazione. 1) All’epoca, la nuova descrizione sociale
tripartita sembrò del tutto plausibile nel far riferimento a mutamenti socio-economici; 2) da un punti
di vista strettamente sociologico quella era una descrizione largamente imprecisa: l’importante era
far credere che questa classe esistesse, non spiegare come si fosse formata o come fosse composta;
3) al contrario, i politici whig misero tutto il loro impegno nel dare una connotazione etica positiva
alla categoria che stavano usando; 4) di conseguenza, il raggruppamento whig, che si proponeva
come il rappresentante della classe media, era il gruppo politico britannico più saggio e più
onorevole; 5) ciò che in questo modo i capi whig stavano costruendo non era una descrizione
accurata della realtà sociale britannica; stavano cercando di inventare un’immagine retorica che
fosse quanto più convincente e plausibile possibile, per ampliare il loro sostegno elettorale. il punto
chiave, molto chiaro nell’analisi di Hunt è che non è affatto necessario assumere che debba esserci
una perfetta coerenza tra realtà di classe e linguaggi di classe: e che l’analisi delle incoerenze tra
strutture sociali e mondi mentali offre prospettive significative per l’analisi storico-sociale. Per
tornare ancora a Wahrman: se nella Gran Bretagna degli anni ’20 dell’800 alcuni politici
inventarono, per loro fini specifici, un’immaginaria articolazione della società in 3 classi, e perciò
coniarono una locuzione di grande successo, “classe media”, ciò non significa che le diseguaglianze
di classe all’epoca non ci fossero.
retaggio evidente della società militarista, un residuo del passato premoderno che, dal punto di vista
sociologico, rappresenta la manifestazione di forse irrazionali nella società, che poco hanno a che
fare con le modalità di funzionamento del capitalismo.
cause economiche si ribalta completamente: nella sua analisi, non l’economia ma la politica, e per
di più la politica interna di una potenza imperialista, diventa la dimensione esplicativa principale,
almeno per quanto riguarda il caso dell’impero tedesco.
illuminati e progressisti, non abbiano contestato le teorie di classificazione delle razze umane che
necessariamente tentavano di dimostrare l’esistenza di razze inferiori. La sua importante lezione
analitica – che si giova dei suggerimenti teorici tratti dagli scritti di pensatori assai diversi tra di
loro, come Antonio Gramsci o Michel Foucault – invita a decostruire gli stereotipi come primo
passo necessario per la riconquista di una verità scientificamente provata: “nessuno oggi è
esclusivamente una “cosa sola”. Etichette come indiano, donna, musulmano, o americano sono solo
dei punti di partenza che, se per un momento vengono seguiti nell’esperienza diffusa, sono poi
preso abbandonati. L’imperialismo ha consolidato su scala globale una miscela di culture e identità.
È più gratificante – e più difficile – pensare in modo concreto e comprensivo, contrappuntistico,
agli altri di quanto non lo sia pensare esclusivamente a “noi”. Ma ciò significa anche non cercare di
dominare gli altri, non cercare di classificarli o inserirli a forza in un ordine gerarchico e,
soprattutto, non ripetere continuamente che la nostra cultura (o il nostro paese) è la prima fra tutte
(o che non lo è, per quel che conta). L’intellettuale ha ben altri e più validi compiti da svolgere.”.
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ai progetti delle élites indiane occidentalizzate. Così facendo, avevano del tutto trascurato le culture
e le pratiche dei gruppi marginali, i subalterni, per l’appunto, marginali ma quantitativamente e
culturalmente fondamentali nella storia dell’India contemporanea. Il capofila di quest’orientamento,
Ranajit Guha, definisce come “subalterni” “tutti i gruppi subordinati per ragioni storiche, classe,
genere, cultura, lingua e religione”, vale a dire – osserva in una polemica precisazione – tutti coloro
che costituiscono “la differenza demografica tra la popolazione indiana totale e l’élite dominante
indigena e straniera. Il gruppo ha attirato be presto l’attenzione di studiosi occidentali, specialmente
angloamericani, ma anche subito un fruttuoso attacco critico “dall’interno”, che ha, a sua volta,
stimolato la gemmazione di nuovi percorsi analitici. L’attacco è stato portato da Gayatri
Chakravorty Spivak, la quale si è chiesta se “i subalterni possano davvero parlare”. Ciò che Spivak
vuole suggerire è che è impossibile identificare un “universo subalterno” completamente separato
dai circuiti comunicativi attivati dagli occidentali e dalle élites occidentalizzate; cioè, non è
possibile immaginare una perfetta autonomia dei gruppi marginali. Essi hanno orizzonti culturali
propri, proprie pratiche. Il loro linguaggio è quindi un linguaggio complesso, che rielabora, in forma
creativa, la commistione tra linguaggi locali e linguaggi dall’esterno. Questa complessità, che
secondo Spivak rischia di sfuggire alla griglia analitica predisposta dal Subaltern Studies Group,
appare anche più evidente nel caso delle componenti femminili delle società coloniali. La loro
plurima subalternità complica evidentemente le mappe culturali e linguistiche che connotano la loro
esperienza, poiché la multiforme complessità delle culture subalterne nel loro caso è ulteriormente
articolata dalla componente del “genere”. Appartenenze religiose, professionali, di casta o di
località interferiscono con questa già alta complessità prodotta dall’interazione tra dominatori
occidentali, élites locali e mondi subalterni. “Post-Colonial Studies”: il termine, impiegato dalla
stessa Spivak, può risultare fuorviante quando inteso nella sua più banale e intuitiva accezione
cronologica, relativa, cioè, a ciò che viene dopo la fine del colonialismo. In realtà, i “Post-Colonial
Studies” non si dedicano solo allo studio delle società nate dal processo di decolonizzazione, ma
intendono ricostruire la stratificata topografia degli scambi culturali che si snoda lungo un arco
spesso plurisecolare.
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alcune pericolose eredità al fascismo. Del Boca ha curato anche un importante volume collettaneo,
“Le guerre coloniali del fascismo”, che raccoglie i contributi di molti storici italiani e stranieri che
hanno inteso scandagliare da diverse angolature le caratteristiche del colonialismo fascista. Del
Boca stesso contribuisce al volume con un capitolo sui crimini fascisti. Lo storico procede nel suo
esame mettendo in evidenza quello che risulta essere un punto focale per rispondere organicamente
al quesito iniziale. Già in epoca liberale le conquiste coloniali e l’amministrazione delle terre
conquistate sono caratterizzate da innumerevoli abusi, soprusi, atti di violenza. Ciò che cambia con
il fascismo non è tanto la modalità della dominazione coloniale, quanto piuttosto la gestione
dell’informazione: la censura e la manipolazione degli organi di stampa o dei giornali radio
contribuiscono in modo decisivo a nascondere le reali caratteristiche del colonialismo fascista. Con
l’avvento del fascismo, la condizione dei sudditi delle colonie si fa ancora più precaria, innanzitutto
perché viene posta a tacere l’opposizione, tanto in parlamento che negli organi d’informazione.
Diventa così possibile, per il regime, esercitare la più severa censura su tutto ciò che accade nelle
colonie. Quel poco che filtra, attraverso la stampa e l’Eiar, è generalmente destinato a rassicurare
l’opinione pubblica oppure si traduce in una continua e crescente esaltazione della missione
civilizzatrice dell’Italia fascista in Africa. Anche i metodi repressivi, come l’impiego di gas, oppure
i campi di concentramento, rappresentano caratteristiche basilari della tecnica di dominio del
colonialismo italiano. Si proietta il mito autoassolutorio degli “italiani brava gente”. L’esperienza
coloniale italiana è al centro anche delle ricerche di Nicola Labanca, che, più giovane di Del Boca,
ne segue e ne approfondisce il percorso di ricerca. Il lavoro di Labanca è connotato da 3 aspetti
principali: un’accurata ricerca d’archivio; il recupero della memoria dei protagonisti minori
dell’avventura coloniale italiana; e un fitto e costante dialogo con la storiografia internazionale su
imperialismo e colonialismo. Secondo Labanca, sono ragioni di politica interna che inducono Crispi
e la classe dirigente della sinistra liberale a sostenere con decisione le imprese coloniali: l’obiettivo
era quello di attenuare le tensioni sociali interne, con operazioni che distraessero l’attenzione
dell’opinione pubblica, e soprattutto che dessero impulso al sentimento di appartenenza nazionale,
che proprio Crispi, nella sua azione di governo, cerca d’incoraggiare e diffondere. L’azione di
Crispi trova immediato sostegno presso la maggior parte dei vertici dell’esercito, che vedono
nell’espansione coloniale un’occasione per consolidare il loro peso negli equilibri istituzionali del
Regno d’Italia. Ricordare che, da parte italiana, la guerra d’Etiopia fu una guerra nazionale,
moderna di massa ed essenziale, poiché l’urgenza di archiviare una storia imbarazzante che voleva
fare dell’“Italietta” un impero si era dimostrata vincente. Il volume vuole essere, quindi, al tempo
stesso “ricerca di storia militare, ma anche sull’espansione coloniale e sulla sua memoria; è un libro
sul fascismo ma anche sulla repubblica e su come essa (non) abbia fatto i conti con il passato
regime. Inoltre è un’indagine sulle modalità d’informazione di un’identità collettiva. Generazione di
storiche e storici ha raccolto le suggestioni che vengono dalla storia di genere e dalle indicazioni di
studiose come Gayatri Chakravorty Spivak, e hanno cominciato a esplorare il rapporto tra coloni
italiani e popolazioni locali, esaminando anche la natura delle relazioni sessuali in colonia.
Particolarmente importante, da questo punto di vista, è il libro di Barbara Sòrgoni, “Parole e corpi”.
Come ha osservato Said, e come accade in molti altri casi, anche la retorica coloniale italiana fa
ampio ricorso alla metafora sessuale per rappresentare in forma immediata il senso
dell’appropriazione delle terre africane desiderate, metafora di natura chiaramente virilista. La
metafora della Venere Nera, utilizzata per indicare contemporaneamente tanto la donna africana
quanto la terra Africa, consente di presentare il possesso dell’una come il corollario della conquista
dell’altra. Nel caso dell’Eritrea il rapporto asimmetrico – e non di rado violento – tra colono bianco
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e donna locale si colloca in una cornice istituzionale piuttosto particolare, che è quella del
“madamato”. Il termine indica la convivenza “more uxorio” di un colono italiano con una donna
eritrea, in un rapporto di coppia che molto spesso si completa con la nascita di figli. La relazione è
giustificata con l’esistenza, in alcune zone dell’Eritrea, di una specifica istituzione matrimoniale, il
demoz, che è un complesso contratto matrimoniale a termine, che prevede che l’uomo paghi alla
donna un compenso annuo, compreso il riconoscimento dei figli nati all’interno del rapporto. Le
convivenze stabili che coinvolgono coloni italiani e donne eritree interpretano tuttavia il demoz in
una forma peculiare (ovviamente a tutto vantaggio dell’uomo bianco): in qualche caso di demoz
trasformato in madamato viene considerato una forma di concubinaggio, senza che l’uomo sia
sottoposto ad alcun obbligo legale di nessun tipo: in qualche altro caso, il madamato è considerato
una variante della prostituzione, in ragione del compenso che l’uomo deve pagare alla donna. Che
prevalga l’una o l’altra interpretazione, solo pochissime convivenze si trasformano in matrimoni
legittimi; e, allo stesso modo, pochissimi sono i figli nati da una relazione di madamato che siano
poi stati riconosciuti dai padri italiani. L’atteggiamento dei coloni bianchi è animato da un
consapevole senso di superiorità: una doppia superiorità, nel caso di relazioni come quelle
incorporate nel madamato: la superiorità sugli “altri”; la superiorità del maschio sulla femmina. Il
regime fascista nei tardi anni ’30 irrigidisce in modo netto il confine tra “cittadini italiani” e “sudditi
eritrei ed etiopi”, da 2 punti di vista; da un lato accogliendo in forma esplicita l’ideologia razzista;
dall’altro proibendo i rapporti matrimoniali o sessuali razzisti. La legge per la difesa della razza
italiana del ’38 proibisce, in forma più generale, e con intenti antisemiti, “il matrimonio del
cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza”.
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almeno dei disturbi psichici. Al di là della vita cosciente, dominata dalla consapevolezza di sé, che
Freud chiama Io, egli ritiene che esista una sfera inaccessibile (o difficilmente accessibile) della
psiche umana, nella quale ciascuno soffoca i desideri o le pulsioni: è l’area dell’Inconscio. Ciò che
consente di tracciare un confine approssimativamente stabile tra Inconscio e Io l’insieme degli
insegnamenti morali e normativi che un individuo ha appreso, organizzati in un’area psichica che
Freud chiama Super-Io; si tratta di una dimensione che, inconsapevolmente, indica a ciascun
individuo quale parte dei suoi desideri e delle sue pulsioni sia ammissibile, e quale, invece, debba
essere rimossa, dimenticata nell’inconsapevolezza dell’Inconscio. Nondimeno, le pulsioni e i
desideri nascosti sono parti indocili della psiche umana e cercano di riemergere alla
consapevolezza, infrangendo i divieti del Super-Io. Tuttavia, proprio la pressione del Super-Io fa sì
che tali desideri proibiti riemergano in forma mascherata, per es. nei sogni. La ragione per cui i
sogni vengono subito dimenticati è che essi – più o meno pericolosamente carichi di pulsioni
indesiderabili – devono essere cancellati insieme con quelle. Ma il sogno è una realtà normale del
funzionamento della psiche di un individuo; è una sorta di valvola di sfogo, la quale tuttavia
contiene materiali che lo psicanalista può leggere quando ci sia bisogno di curare una forma
patologica di manifestazione dei desideri inconsci, la nevrosi, che si manifesta quando insorge
qualche evidente disturbo del comportamento. Un comportamento nevrotico è il segno che il
difficile rapporto di equilibrio che lega Io, Super-Io e Inconscio si è rotto e che i desideri proibiti
riemergono alla coscienza; tuttavia essi, in un ultimo tentativo di mascheramento, non appaiono in
forma evidente ma mimetizzati proprio attraverso quei disturbi di comportamento. Freud ragiona
sempre come se le leggi di funzionamento della psiche, che lui ritiene di aver scoperto,
appartengano alla sfera degli “universali umani”, cioè a modelli eterni e assoluti di funzionamento
della psiche, come materiali interpretativi, tanto ciò che un qualche antropologo ha scritto su una
lontana civiltà africana e oceanica quanto l’“Edipo” di Sofocle, tanto l’“Amleto” di Shakespeare
quanto i resoconti dei suoi casi clinici riguardanti donne e uomini che vivono nella Vienna di fine
secolo. Questo quadro di assoluta destoricizzazione viene infranto in almeno un caso importante: un
saggio, “Il disagio della civiltà”, si apre proponendo una domanda semplice ed enorme: qual è
l’obiettivo di fondo che le società umane cercano di raggiungere nell’organizzare la propria vita?
non si può sbagliare, dice Freud: “la sofferenza ci minaccia da 3 parti: dal nostro corpo che,
destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali d’allarme che sono il dolore e
l’angoscia, dal mondo esterno che contro noi può infierire con strapotenti spietate forze distruttive,
e infine dalle nostre relazioni con altri uomini.”. Oggi gli uomini dispongono di talmente tante
innovazioni tecnologiche – scrive Freud, che possono anche quasi sentirsi delle divinità: eppure, un
senso di sorda infelicità continua a correre attraverso la società contemporanea. Perché? Il punto è
che nel processo d’incivilimento c’è stato anche il controllo e il dominio del desiderio sessuale, che
dev’essere chiuso entro schemi precisi affinché le società possano costruirsi in modo ordinato e
armonico, identificando chiaramente quali sono le relazioni sessuali assolutamente proibite e quali
sono le relazioni ammesse; il problema è che la serie di norme e proibizioni, scritte o non scritte, ha
fatto sì che, specie negli ultimi decenni, lo spazio riservato alle relazioni sessuali ritenute
ammissibili si sia estremamente ridotto: “cioè che non è stato messo al bando, e cioè l’amore
eterosessuale, viene ulteriormente circoscritto dalla barriere della legittimità e della monogamia. Un
legame unico e indissolubile tra un uomo e una donna, (e) non accetta la sessualità come fonte di
piacere fine a sé stessa, ma solo come mezzo per la propagazione della specie.”. Vi è anche il
dominio sulle pulsioni aggressive. Infatti, l’uomo “vede nel suo prossimo non solo un eventuale
aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la
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forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a
lui nel processo dei suoi beni, a umiliarlo, a farlo soffrire.”. La rinuncia, forzata o volontaria, a parte
delle sue pulsioni erotiche e a parte delle sue pulsioni aggressive è la posta che l’uomo civile deve
pagare in cambio della conquista di un po’ di sicurezza. La repressione delle pulsioni aggressive
scatena il senso di colpa, che è una sorta di ansia anticipatoria per ciò che si potrebbe commettere,
laddove si lasciassero libere le componenti aggressive proprie alla natura di ciascuno; la repressione
delle pulsioni sessuali si manifesta invece attraverso l’emergere di sintomi nevrotici, ove il Super-Io
non sia in grado di “far buona guardia” sulla spinta che tali desideri inammissibili esercitano
nell’Inconscio. Queste considerazioni possono essere trasferite dal piano individuale al piano
collettivo e in conclusione del saggio. Freud lo considera come il risultato di un costante lavoro di
rafforzamento (attraverso l’educazione nelle famiglie, nelle scuole, nelle chiese, o attraverso
l’azione repressiva degli stati) di una sorta di Super-Io collettivo nei confronti delle masse e delle
loro pulsioni, e che provoca stati ansiosi o nevrotici, a suo parere enormemente diffusi nella società
contemporanea, che egli ritiene siano il vero prezzo dell’incivilimento. Se la repressione di
entrambe le pulsioni può provocare disagi, non vi è dubbio che la più tremendamente pericolosa tra
le 2 pulsioni è quella aggressiva: “il problema fondamentale del destino della specie umana (scrisse
a conclusione del “Disagio della civiltà”) a me sembra sia questo: se, e fino a che punto,
l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla
loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse
particolare interesse. Gli uomini adesso ha esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che
giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda. Una civiltà potente ma triste, incapace
com’è di raggiungere davvero, nonostante tutte le sue risorse tecnologiche, quella felicità interiore
sembra allontanarsi sempre di più man mano che l’occidente raggiunge livelli di maggiore
incivilimento.
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vengono radicalmente soffocate. Agli occhi degli uomini esse si caricano di sentimenti di disgusto,
angoscia, pudore o colpa, persino quando essi sono soli. Una buona parte di quella che noi
definiamo “morale” o “motivi morali” a un determinato livello sociale assume, come strumento per
condizionare i bambini, la stessa funzione dell’“igiene” o dei “motivi igienici”. L’uso di questi
mezzi mira a fare del comportamento socialmente desiderabile un automatismo, un’autocostrizione,
e a farlo apparire alla coscienza del singolo come un comportamento che scaturisce dall’interno per
sua autonoma iniziativa, nell’interesse della sua salute o per salvaguardare la sua dignità umana. È
probabile che le “nevrosi” siano sempre esistite; ma quelle che vediamo oggi attorno a noi e che
definiamo “nevrosi” sono appunto una particolare forma storicamente determinata dal conflitto
psichico del quale è necessario mettere in luce la psicogenesi (cioè l’origine e lo sviluppo del
fenomeno determinati dalla personalità psichica) e la sociogenesi (cioè l’origine del fenomeno
determinata da fattori sociali)”. Elias vi esamina questioni solo apparentemente marginali, su un
arco di tempo che va dal medioevo al XIX secolo, il secolo nel quale – secondo lui – il percorso di
disciplinamento delle passioni si è del tutto compiaciuto. Egli utilizza fonti disparate, dai manuali di
comportamento ai diari, alle lettere, alle memorie, alle opere letterarie. Sulla base di questa
documentazione mostra che il modo di stare a tavola cambia profondamente nel corso dei secoli,
come cambia la soddisfazione dei bisogni naturali (come il defecare, orinare o sputare in pubblico).
Lo stesso accade per le relazioni sessuali. Infine, il ricorso alla violenza personale, nel corso di litigi
o risse, o come mezzo per risolvere un contrasto con altri individui o con altri gruppi sociali. Da
tutta questa ricostruzione Elias ricava 2 conclusioni di grande portata. Da un lato gli sembra che nel
medioevo alla fine dell’800 ci sia un processo piuttosto uniforme di innalzamento della soglia del
pudore e dell’autocontrollo. Dall’altro è importante per lui sottolineare che questo processo non
dev’essere considerato solo come frutto di imposizioni esterne, poiché esso si rafforza potentemente
attraverso meccanismi d’interiorizzazione delle norme, trasmesse dagli istituti educativi, dai
processi di socializzazione familiare, dai modelli imitativi del comportamento delle élites, e dalle
leggi degli stati. “La maggior parte degli adulti ha ormai da tempo dimenticato o rimosso il fatto che
i loro sentimenti di vergogna e ripugnanza, le loro sensazioni di piacere o di avversione, sono stati
modellati mediante pressioni e costrizioni dall’esterno e adeguati a determinate norme. Le norme
sociali alle quali il singolo è stato costretto ad aderire innanzi tutto per una costrizione esterna, alla
fine si riproducono in lui in modo più o meno automatico grazie all’autocostrizione, la quale entro
certi limiti opera anche se il singolo a livello di coscienza non lo desidera.”. L’importanza
dell’opera di Elias sta, dunque, nel dare ai suggerimenti di Freud un più ampio contesto storico; i
processi di controllo delle passioni o delle emozioni, che in Freud avvengono in un passato assai
indistinto, non sono da Elias ricollocati all’interno di una fase storica precisa, che dura una decina di
secoli o poco meno e che ha varie traiettorie e varie cronologie. È un affresco potente, quello di
Elias, che impiega però molto tempo a imporsi all’attenzione degli scienziati sociali. Ciò si verifica
solo quando la sua opera vie ripubblicata. Vi sono alcune critiche principali, come: 1) antropologi e
storici medievali hanno fatto osservare che né le società extraeuropee né le società europee
medievali sono così assolutamente selvagge e attraversate da comportamenti privi di regole e freni
come Elias suggerisce; 2) la visione evolutiva e continuista che regge l’intera analisi in alcuni casi
almeno non sembra confermata dai fatti; per es., sulla questione della soglia del pudore e
dell’esibizione della nudità, è chiaro che proprio mentre Elias scrive è in corso un processo inverso
che contrasta con le abitudini ottocentesche e che spinge all’esibizione di corpi nudi nell’arte; 3)
infine, la concezione che sorregge l’intero lavoro di Elias sembra a molti piuttosto dubbia; un livello
di autocontrollo piuttosto elevato non è necessariamente il presupposto di comportamenti “civili”,
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per far parte di un esercito moderno, sparare sui nemici (soldati o civili) od organizzare campi di
concentramento ci vuole un altissimo livello di autocontrollo e di dominio delle proprie emozioni:
ma è, tutto ciò, parte di un processo di civilizzazione. Sono critiche di notevole rilievo, ma resta il
fatto che Elias descrive una tendenza plurisecolare delle società europee che nelle sue grandi linee
almeno sembra a molti convincente.
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le tradizionali pratiche penitenziarie del cristianesimo; dall’altro, mostra che essa produce
paradossali effetti contrari all’intenzione repressiva l’ha originariamente motivato. La specifica
pratica religiosa da cui ha origine il discorso medico e pedagogico ottocentesco sulla sessualità è la
confessione. Nella confessione “un imperativo è stabilito: non solo confessare gli atti contrari alla
legge (morale), ma cercare di trasformare il proprio desiderio in discorso. Dalla confessione,
dunque, nasce l’idea secondo cui esiste una verità segreta, nascosta in ciascun individuo. Che
dev’essere fatta riemergere se quell’individuo vuole sentirsi davvero libero. La cosa curiosa è che
una pratica nata da intenzioni così evidentemente autoritarie, trasmettendosi ad altri ambiti culturali
– per es. alla letteratura -, sollecita inaspettate potenzialità liberatorie; è ciò che accade quando la
confessione penitenziale si trasforma nell’autobiografia: l’esplorazione di una coscienza che mette
in mostra i suoi lati più reconditi avviene non più nel chiuso e nel segreto confessionale, ma in
pubblico. Attraverso passaggi che Foucault non si sofferma a indagare, il modello della confessione
fornisce la traccia fondamentale che viene sviluppata dalle scienze mediche e pedagogiche
ottocentesche, le quali adottano come tecniche d’indagine gli interrogatori, i questionari, le raccolte
d’informazioni, le “confessioni” che il paziente deve comunicare al medico, il malato di mente allo
psichiatra, lo scolaro al docente. Mentre la confessione deve mantenere il carattere di una relazione
duale tra confessore e penitente, all’interno della quale lo scambio d’informazioni si chiude, il
sapere medico-pedagogico ha per suo statuto scientifico il dovere di divulgare tutto ciò che
l’indagine ha portato a conoscere. Questa particolare “colonizzazione” medico-pedagogica nel
campo della sessualità ha un’ulteriore importante conseguenza: tende a considerare il sesso come
una pratica che spiega, ed è, la causa di tutto. E ciò perché l’indagine sessuale non vuole avere un
effetto sanante. Per raggiungere quest’obiettivo ha però bisogno di disporre anche di un quadro
complessivo delle forme di sessualità; ha bisogno di dire quali sono le sessualità “normali”,
positive, accettabili e quali sono le sessualità “anormali”, negative, dannose all’individuo e alla
società. Concluse Foucault, contro ogni apparenza l’800 è caratterizzato tutto da un gran parlare
della sessualità, che si espande in ogni direzione e ha sorprendenti effetti imprevisti. Per questo
Foucault scrive che la “società borghese” del XIX secolo, probabilmente ancora la nostra, è una
società di perversione abbagliante e diffusa; poiché è una società che – attraverso famosi scienziati,
come Kraff-Ebing o Lombroso, e moltissimi altri con loro – dà innumerevoli es., sollecita curiosità,
offre modelli da copiare o riutilizzare, facendo della sessualità una pratica che si deve temere e
nascondere, ma di cui, al tempo stesso, non si smette mai di sentir parlare.
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secolo, è centrato sul corpo-specie, sul corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da
supporto ai processi biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, la loro assunzione si opera
attraverso tutta una serie d’interventi e di controlli regolatori, una “bio-politica” della popolazione.
La creazione, nel corso dell’età classica, di questa grande tecnologia a 2 facce, caratterizza un
potere la cui funzione più importante non è forse più uccidere, ma investire totalmente sulla vita. Il
fatto che la vita diventi oggetto di azione politica è la grande novità che caratterizza questa svolta:
“bisognerà parlare di “bio-politica” per designare quel che fa entrare la vita e i suoi meccanismi nel
campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana.”. “ЀЀ
per questo che, nel XIX secolo, la sessualità è inseguita sin nei minimi particolari delle esistenze; è
braccata nei comportamenti, le si dà la caccia nei sogni. Ma la si vede anche diventare tema di
operazioni politiche (attraverso incitamenti o freni alla procreazione: la si valere come l’indice di
forza di una società, quel che ne rivela tanto l’energia politica che il vigore biologico.”. Proprio
questo rilievo “politico” del sesso ispira le 4 principali aree d’intervento che sono proprie del
discorso sulla sessualità che si struttura nel corso del XIX secolo: la campagna contro la sessualità
precoce, specie nei bambini, e in particolare la proibizione della masturbazione, lo stretto
monitoraggio della sessualità delle donne, la proibizione del controllo delle nascite,
l’individuazione e la psichiatrizzazione delle “perversioni sessuali”. La logica fondamentale che
collega tutte e 4 queste aree d’intervento è l’attacco repressivo contro pratiche sessuali non
procreative. Si capisce meglio la grande rilevanza del discorso sul sesso e sulla biopolitica: se le
comunità nazionali, oltre a essere comunità politiche, sono anche comunità biologiche, il controllo
sulla loro riproduzione in termini demografico-quantitativi e in termini etnico-qualitativi diventa
una questione politica cruciale. Si tratta di stabilire le migliori modalità per la riproduzione
dell’intera comunità politica e d’impedire quelle pratiche sessuali che possano produrre la
degenerazione (cioè la trasmissione di tare ereditarie alle generazioni seguenti) o la scarsa crescita
della comunità. “Bisogna difendere la società”, lo slogan che dà il titolo al corso, ovviamente vuol
dire che bisogna difendere la comunità dai suoi nemici esterni; ma vuol dire anche che bisogna
difenderla da quelli interni, cioè da coloro che non essendo “normali” possono minarne la stessa
sopravvivenza. Ciò che ha consentito l’iscrizione del razzismo all’interno dei meccanismi dello
stato è risultata essere proprio l’emergenza del bio-potere. È infatti in questo momento che il
razzismo si è inserito come meccanismo fondamentale del potere. Il razzismo diventa il criterio che
permette di decidere quale parte della comunità si deve far vivere, e quale parte della comunità (o di
altre comunità) si deve sopprimere per il bene della prima. “La morte dell’altro – nella misura in cui
questa morte rappresenta la mia sicurezza personale – non coincide semplicemente con la mia vita.
La morte dell’altro, la morte della cattiva razza, della razza inferiore (o del degenerato, o
dell’anormale), è ciò che renderà la vita in generale più sana e pura.”. Alla fine del XIX secolo, la
guerra apparirà soprattutto – e questo è un fatto assolutamente nuovo – non solo come un modo per
rafforzare la propria razza eliminando quell’avversa (secondo i temi della selezione e della lotta per
la vita), ma anche come un modo per rigenerare la propria razza. Più saranno numerosi quelli tra noi
che muoiono, più la razza alla quale apparteniamo sarà pura.”. Col nazismo la bio-politica si
coniuga nuovamente con una piena e integrale tanato-politica: il nuovo potere di far vivere – la
biopolitica – si ricollega, in forma tecnologicamente sofisticatissima e secondo principi del tutto
nuovi, all’antico potere di “far morire”. Si può dire che lo stato nazista ha reso assolutamente
coestensivi il campo di una vita che esso organizza, protegge, garantisce, coltiva biologicamente, e
al contempo il diritto sovrano uccidere chiunque. Con i nazisti ha preso corpo una coincidenza tra
un bio.potere generalizzato e una dittatura insieme assoluta e che grazie alla formidabile
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moltiplicazione del diritto d’uccidere e dell’esposizione alla morte – si trasmette a tutto il corpo
sociale.
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e iconografica europea di fine ‘800 che si chiude il libro di Djkstra, figure simbolo dello sconcerto
maschile di fronte a nuove forme di autocoscienza femminile. Il libro di Djkstra dimostra molto
chiaramente come il controllo delle emozioni e dei desideri abbia pure una netta connotazione di
genere. Questa prospettiva è stata confermata da altri studi storici, fra cui quelli di George L.
Mosse, che hanno mostrato come tale connotazione non riguardi solo le donne eterosessuali ma
anche tutte le altre categorie sessuali individuate dalla scienza medica ottocentesca (i bambini e le
bambine, così come gli omosessuali maschi e femmine): a tutti si chiede di uniformare il proprio
comportamento agli standard educativi e morali vigenti, pena l’emarginazione o la repressione
penale.
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1. Una premessa
ЀЀ stato compiuto uno sforzo analitico imponente che ha condotto a un grandissimo accumulo di
fonti, documenti, informazioni che hanno consentito una ricostruzione via via più sicura dei
caratteri e dello svolgimento della guerra.
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dell’epoca alla sovversione e, in generale, al disprezzo nei confronti delle istituzioni dello stato
liberale. Non è necessario che il sovversivismo diffuso dovesse per forza piegare verso destra,
osserva Isnenghi; chiaro è comunque che la riflessione e la rielaborazione letteraria della guerra
invitavano a una presa di distanza critica (se non decisamente sprezzante) nei confronti dell’Italia
liberale e delle sue pratiche di mediazione politica. 5 anni più tardi, la Oxford University Press
pubblicò il libro di uno storico americano della letteratura inglese, Paul Fussell, intitolato “La
Grande Guerra e la memoria moderna”. Anche Fussell non affronta i temi più tipicamente indagati
dalla storiografia sulla Grande Guerra. Diversamente da Isnenghi, però, l’attenzione di Fussell è
meno attratta dalle immediate ricadute politico-ideologiche del rapporto tra intellettuali e guerra, ed
è sensibile piuttosto al modo attraverso il quale la guerra condiziona e rimodella la “cultura”
britannica. Nella sua analisi il termine “cultura” vale in modo duplice: è l’insieme delle opere
culturalmente significative che sono state prodotte durante e sulla guerra; ma è anche, in un più
ampio senso antropologico, la “mentalità collettiva” che emerge dall’esperienza della guerra e che
trova nelle opere letterarie uno strumento di diffusione di grande efficacia. La grande guerra,
osserva Fussell, sembra produrre una “cultura basata su un incessante gioco di contrasti che non è
prodotto solo dal carattere traumatico della guerra in quanto tale ma anche dal fatto che la guerra
scardina le coordinate concettuali, linguistiche, narrative e mentali dell’anteguerra. Curiosamente,
questa struttura duale – un prima nostalgico, un’attualità infernale – si trasmise a molti altri aspetti
della mentalità dei soldati (tanto degli ufficiali quanto della truppa), i quali cominciarono a
ragionare per via di antitesi: “noi” (i buoni) contro di loro (i nemici, brutti e subumani). Non ha
alcuna importanza che queste dicotomie fossero più o meno vere o false: il punto è che questo era il
modo, piuttosto primitivo, di ragionare, imposto dall’esperienza della guerra. La perdita
dell’“innocenza”, la consapevolezza dello stato regressivo vissuto durante la guerra fecero sì, infine,
che la sua “memoria”, cioè il modo in cui è stata ricordata attraverso le opere letterarie o
memorialistiche, segnasse una frattura profonda. C’era un “prima” e un “dopo”; nel dopo, quello
che si pensava “prima”, il modo di esprimersi che si usava, le aspettative che si avevano non
valevano più.
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stress, ovvero l’insorgere di sintomi nevrotici in soldati che erano stati esposti a bombardamento,
all’attacco di una trincea, o a un qualunque altro momento della vita di guerra che aveva prodotto
nella loro psiche no shock violento. La questione delle malattie nervose, insieme con gli altri
elementi enumerati nel libro, consente a Leed di sostenere il carattere violentemente traumatico
della guerra, da un punto di vista sia personale, sia psicologico, sia culturale. A niente, secondo lui,
servirono le varie cerimonie organizzate nel dopoguerra per lenire il dolore collettivo provocato
dalla sofferenza e dal senso di morte: “Nessun rito di riaggregazione poté cancellare la memoria
della totale impotenza di fronte all’autorità e alla tecnologia.”. Lavori come quelli di Fussell e di
Leed propongono uno schema interpretativo molto chiaro e suggestivo, nel quale, dunque, la guerra
viene considerata come un “grande spartiacque della coscienza europea”. “La prima guerra
mondiale rappresentò per larga parte delle popolazioni europee la frattura e il trauma a partire dal
quale si costituì una moderna memoria collettiva, un senso nuovo del rapporto tra vita individuale e
grande storia, l’ingresso in un mondo nel quale erano in gran parte recisi i legami col passato e in
cui tale passato si inabissava in maniera irreversibile.”.
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della nazione (sacrari, obelischi, cippi commemorativi). In tutti questi casi, però, i caduti erano
considerati una collettività anonima, parte del più grande corpo della nazione. E fu solo dopo la
grande guerra che in Europa si diffuse l’uso di corredare i monumenti commemorativi ai caduti con
lunghi elenchi che riportavano i nomi dei soldati morti e, quand’era possibile, la data di nascita e di
morte. L’esperienza della prima guerra mondiale venne dunque interpretata proprio sotto questa
luce: sacralizzazione e sacrificio, eroismo e martirio, e ciò sia da chi l’aveva vissuta sia da chi, dopo
la guerra, la rievocava. I cimiteri inglesi erano strutturati intorno a una zona centrale che conteneva
una Pietra della Rimembranza, in forma d’altare, su cui era inserita una spada in funzione di Croce
del Sacrificio. In Germania, oltre a questo modello, se ne diffusero altri, originali. Vennero
costruite, così, le Totenburgen, una sorta di fortezze dei morti, ideate dall’architettura Tischler. In
Italia (ma anche in Germania) ebbero particolare popolarità i Parchi della Rimembranza, luoghi
monumentali o giardini pubblici che, pur essendo dei veri e propri cimiteri, erano tuttavia dedicati
al ricordo di coloro i quali erano morti in guerra. Luoghi monumentali molto rispettati e amati
furono le tombe al Milite ignoto, dedicati a tutti quei caduti i quali non si era riusciti a identificare o
che non avevano potuto avere un’adeguata sepoltura. In Francia la tomba del Milite ignoto venne
collocata nell’Arc de Triomphe a Parigi del ’19. La salma venne scelta tra 9 cadaveri ignoti e fu
selezionata da un sergente ferito in guerra. In Inghilterra, venne sepolto, nello stesso anno, a
Westminster, mentre un cenotafio venne eretto a Whitehall; la scelta della salma fu affidata a un alto
ufficiale. In Italia la tomba venne collocata nel Vittoriano nel ’20; la salma venne scelta dalla madre
di un soldato morto in guerra. In Germania la tomba venne costruita nel ’31 nella Neue Wache, una
caserma a Berlino; come il cenotafio londinese, la tomba era però vuota. Le tombe al Milite ignoto
sono luoghi monumentali tipici delle capitali. Ma ogni località, piccola e sperduta, volle avere poi
un monumento che ricordasse i “suoi” caduti, persone che abitavano lì quand’erano partite per il
fronte e poi non erano mai tornate. La resurrezione dei caduti in analogia con al Passione cristiana
non era un tema frequente nei monumenti ai caduti, benché comparisse talvolta nella forma di una
pietà: Cristo morente nelle braccia di Maria, o anche Cristo che aiuta un soldato. Più comune era la
figura maschia, virile del soldato, irraggiante un’immagine di forza tranquilla simboleggiata dai
greci. A queste forme sacrali di elaborazione del lutto bellico si affiancò un’altra modalità
d’interazione, molto più profana; ma non per questo meno efficace: la “banalizzazione” della
guerra. Sia nel corso della guerra che dopo, si diffuse un potente processo di commercializzazione
del conflitto, con la produzione e la vendita di oggetti che si ricollegavano alla guerra: cartoline,
giochi di società, con contenuti variamente nazionalistici; giocattoli bellici, libri per bambini sulla
guerra. Chi produceva questi oggetti voleva venderli e per farlo tendeva a infondere in questi
oggetti un’aria di romantica e divertente banalità, che depotenziava la guerra dei suoi aspetti più
orribili. Importante fu anche il contributo di teatro, cinema e fotografia. In molte produzioni,
osserva Mosse, spicca una notevole mancanza di realismo. Venivano eliminate le scene di morte,
sofferenza e sconfitta. La banalizzazione della guerra serviva a farla accettare a chi non l’avesse
conosciuta. La sacralizzazione era un processo importante per chi nella guerra aveva perso persone
care. Molti di coloro i quali la guerra l’avevano combattuta per davvero, invece, tornarono a casa
portandosi dietro un bagaglio d’esperienze che faceva apparire del tutto normale la morte o
l’uccisione del nemico. La ripetizione della violenza bellica anche nella vita civile – sia in forma
verbale sia in forma pratica – fece nascere nel cuore di molte persone dubbi profondi sulla
ragionevolezza del “mito dell’esperienza di guerra”. E così, almeno una parte dell’opinione
pubblica europea, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, non ebbe più tanta voglia di esibire
entusiasmi simili a quelli manifestati nell’agosto del ’14. Nel secondo dopoguerra (cioè dal ’45 in
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avanti) tanto la retorica bellica quanto l’ideologia nazional-patriottica non esercitarono più il fascino
che avevano avuto nel corso dei 150 anni precedenti.
1. Cenni introduttivi
La rivoluzione russa dell’ottobre del ’17 segna un momento storico di enorme importanza, a torto o
a ragione, come l’evento più significativo del XX secolo. Secondo una nota interpretazione, che si
deve a Roy Medvedev, l’impero zarista entra nella prima guerra mondiale portando già nel proprio
grembo la rivoluzione. La guerra mondiale fa emergere in modo dirompente la precarietà sociale e
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politica della Russia, in cui l’autocrazia zarista non ha favorito in alcun modo la libertà di
espressione dei movimenti di opposizione. La rivoluzione russa ha luogo in un paese
economicamente e socialmente molto arretrato. Lenin pensa che nel ’17 sia arrivato il momento
propizio per eliminare definitivamente lo zarismo come sistema politico e sociale. Sebbene
anch’egli sia scettico sulla reale possibilità di una rivoluzione socialista in Russia, al tempo stesso
vede nella crisi bellica il realizzarsi di ciò che egli stesso ha teorizzato, ovvero l’aprirsi inevitabile
di una crisi definitiva del capitalismo, che a sua volta non sarebbe altro che il preludio a una
rivoluzione mondiale. Alla morte di Lenin, nello scontro per la successine riesce a prevalere la
personalità di Stalin, sebbene lo stesso Lenin, in una sorta di testamento politico scritto poco prima
di ammalarsi gravemente, mostri tutta la sua diffidenza nei suoi confronti.
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occidente. Il carattere debole e contraddittorio di un’idea della rivoluzione che si esprimeva nelle
formule “socialismo in un solo paese” e “rivoluzione dall’alto” non limitò quindi i suoi effetti
negativi alle sole conquiste interne della rivoluzione, ma si manifestò con altrettanta evidenza nei
rapporti internazionali. L’insistenza sulla necessaria consequenzialità degli eventi dà alla
ricostruzione di Carr un’inclinazione deterministica. Inoltre è chiaro che egli guarda all’esperienza
rivoluzionaria con una simpatia che gli fa trascurare aspetti importanti dell’esperienza sovietica.
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intimidazione di massa con mezzi ordinari per colmar il deficit originario di consenso da cui,
ovviamente, si sentono minacciati. Tuttavia, sebbene inizialmente possano esserci ragioni
contingenti che spiegano l’azione del gruppo dirigente rivoluzionario, l’autoritarismo violento
diventa la cifra essenziale e permanente del potere comunista. Da qui il senso del titolo del libro di
Figes, la “tragedia di un popolo”. Alla fine, la natura dispotica, autoritaria e violenta che gli è
propria sembra avvicinare il potere comunista alle strutture e alle forme di dominazione proprie del
defunto sistema autocratico zarista.
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sul piano ideologico. La durata relativamente breve del regime nazista non ne permise la completa
realizzazione, perché il vero totalitarismo ha bisogno della proprietà statale dei mezzi di
produzione.”. Tuttavia, come Werth, anche Zaslavsky ritiene che quello dell’Unione Sovietica non
sia stato un regime assolutamente immobile. La sua evoluzione dopo la destalinizzazione ha attuato
i caratteri totalitari che erano ben visibili nel funzionamento del regime durante il periodo
staliniano. L’introiezione della paura nei confronti delle istituzioni, che è una delle conseguenze
fondamentali dello stalinismo, fa sì che dopo il ’53 anche azioni repressive limitatamente violente
siano sufficienti per tenere sotto controllo il paese. Tuttavia, in un certo senso, l’Urss post-staliniana
diventa un ibrido: si allontana dal modello di società totalitaria in senso proprio, ma non si avvicina
per questo al modello delle società industriali caratterizzate da flussi di mobilità sociale, da processi
di crescita del reddito e da istituzioni democratiche. La migliore reperibilità delle fonti, dovuta alla
possibilità di consultazione più libera degli archivi ex sovietici, ha permesso negli ultimi anni la
realizzazione di nuove e organiche sintesi della storia dell’Unione Sovietica. Tra tali studi ci sono di
diritto i 2 volumi di Andrea Graziosi, “L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica
1945-1991” e “L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945”. L’opera di
Graziosi ripercorre analiticamente tutta la parabola sovietica. Il culmine della potenza sovietica è
rintracciato a metà degli anni ’70, quando l’élite dirigente dell’Urss si illude di aver vinto la guerra
fredda, forte dei successi nel processo di decolonizzazione e forte delle risorse petrolifere di cui
dispone. Scrive Graziosi: “Quella sovietica è, insomma, una storia tragica, inscritta tuttavia in una
parabola straordinaria che, iniziando con una guerra civile quasi genocida, tocca il genocidio con le
carestie del ’31-’33, passa attraverso la guerra – quando l’Urss avrebbe sopportato quasi da sola il
peso della lotta contro il nazismo – per poi trasformarsi in un’ansiosa ricerca di tranquillità e
terminare con un segretario del partito comunista che annuncia in tv, in una notte di Natale, il
pacifico scioglimento di uno stato già così potente e violento, esaltando la conquista della libertà
politica e spirituale e lo smantellamento del sistema totalitario e presentando la difesa delle
conquiste democratiche come proprio dovere morale.”. Definire la storia sovietica “tragica” è una
scelta appropriata. Nei primi anni ’30 Graziosi individua la fase di massima tensione. Ma, a parte
cicli congiunturali caratterizzati da crisi di particolare gravità, e con l’eccezione di alcuni momenti
apparentemente più stabili, l’intera storia dell’Unione Sovietica è attraversata da uno stato di crisi
permanente, alimentato dall’uso del terrore come strumento ordinario di controllo politico e sociale.
La tenuta e la vittoria del nuovo stato bolscevico sorpresero il mondo, ma posero nuovi problemi al
suo creatore (Lenin) che, poco prima di morire, si chiese con angoscia dove stesse andando il treno
da lui costruito e che si era illuso di poter guidare. Negli anni seguenti Stalin sembrò risolvere
questi dubbi costruendo il “socialismo in un paese solo”, anche questo un paradosso teorico per chi
continuava a definirsi marxista. La storia sovietica finiva così con il presentare 2 facce di natura ed
espressione opposte – terribile la prima, mortalmente tranquilla la seconda -, le cui relazioni
costituiscono uno dei suoi grandi problemi. Anche il crosso del sistema sovietico ha tratti
paradossali. Per un momento, con l’emergere della leadership di Gorbacev, sembra profilarsi la
possibilità di una radicale riforma del sistema sovietico: tuttavia non solo il tentativo si rivela
impraticabile, ma pone le premesse per la dissoluzione istituzionale e geopolitica dell’Urss. Si tratta
di un processo che ha del “miracoloso”, da 2 punti di vista: da un lato, le spinte alla disgregazione
non vengono represse dall’esercito di “uno stato paraimperiale, che era sembrato invincibile e che
disponeva di migliaia di testate nucleari”; dall’altro, i conflitti tra gruppi etno-nazionali diversi, che
pure accompagnano il processo di dissoluzione, sono incomparabilmente più contenuti che altrove,
per es. nell’ex Jugoslavia. Quali elementi possono aiutare a spiegare questa dinamica? Graziosi
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ritiene che un rilievo non secondario debba essere attribuito al “ruolo delle personalità nella storia”.
Il miraggio di raggiungere rapidamente il benessere economico e sociale dell’occidente ha reso
accettabile una riorganizzazione istituzionale su base democratica negli stati post Urss. Scioperi dei
minatori a parte, i russi che sostennero attivamente la scelta democratica furono pochi. Hough ha
avuto quindi ragione nell’osservare che “raramente una rivoluzione o un processo di
democratizzazione furono accompagnati da una così piccola pressione proveniente dalla società”, i
cui elementi più giovani e attivi si erano già buttati a capofitto nella ricerca del desiderato benessere
personale e familiare. L’equilibrio tra élites politiche, militari, burocratiche, da un lato, e
un’opinione pubblica in lenta e difficile formazione, dall’altro, continua a restare uno dei problemi
fondamentali della nuova Russia e degli altri stati nati dalla dissoluzione dell’Urss. Verso quali
configurazione si stiano muovendo quelle società è tuttavia una questione che Graziosi non affronta,
fedele alla cronologia che ha scelto per il suo lavoro, che ha come termine il ’91, anno in cui si
conclude la lunga e travagliata esperienza del comunismo sovietico.
31
esso un misto di repulsione moralistica e intelligente e invidiosa cupidigia. Salvatorelli trae una
seconda osservazione. Ciò che avvicina particolarmente la piccola borghesia umanistica al fascismo
è la connotazione nettamente nazionalistica assunta da questo movimento politico. Sia la
considerazione dell’importanza della cultura nazionalista sia la specifica collocazione sociale della
piccola borghesia umanistica spiegano perché essa abbia apprezzato un movimento che si è
abbattuto in primo luogo sul proletariato (e questa è la terza osservazione). La quarta, infine,
riguarda il quarto collegamento con un movimento violento ed eversivo come il fascismo,
assicurato dal carattere violento ed eversivo che lo stesso discorso nazional-patriottico ha assunto
durante la dura polemica politica che nel ’15 ha condotto l’Italia in guerra.
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33
liberale, il quale non riuscì a superare quella crisi di crescenza, una crescenza fisiologica, che era
stata l’avvento del suffragio universale e la sua trasformazione in stato democratico. In altri termini,
quelle debolezze erano il risultato di uno squilibrio tra il carattere “avanzato” delle istituzioni
politiche e quello “arretrato” della società civile. Se Vivarelli amplia retrospettivamente l’analisi
dalle origini del fascismo, lo storico inglese Adrian Lyttelton propone invece di osservarle in una
direzione prospettica e di considerare il modo in cui il fascismo incide sulla società italiana post-
bellica. “La conquista del potere. Il fascismo da 1919 al 1929”. La cronologia proposta da Lyttelton
suggerisce che tutto il tempo che va dalla fondazione dei fasci di combattimento fino al concordato
– e non solo la fase compresa tra il ’19 e la marcia su Roma – dev’essere considerato come il
periodo chiave per descrivere il processo di costituzione del fascismo in quanto regime. Da questo
punto di vista, nella sua ampia analisi, nella quale si dà spazio sia ai fattori politici sia a quelli
sociali dell’ascesa del fascismo, il Concordato, è considerato un po’ come il momento conclusivo,
che completa e corona l’ascesa del fascismo: “la soluzione della questione romana fu per Mussolini
un trionfo personale, che accrebbe enormemente il suo prestigio e la sua popolarità sia in patria sia
all’estero. Dopo che Pio XI lo ebbe definito l’“uomo della provvidenza, agli occhi della
maggioranza dei cattolici rimanevano ben pochi motivi di opporsi allo stravagante culto del duce.
La conquista dell’opinione cattolica diede al regime una base sociale assai più vasta di quella che
avesse avuto in passato.”.
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La discussione intorno a questa tesi ha riguardati la possibilità di misurare con efficacia il consenso
in un regime a partito unico, che non ammette la manifestazione di opinioni politiche di
opposizione; e ha inoltre riguardato la natura delle fonti (i rapporti di polizia), i cui autori (i
funzionari di polizia) possono essere stati condizionati dal desiderio – magari anche inconscio – di
compiacere Mussolini e gli altri capi fascisti. Il dibattito sul consenso non ha prodotto risultati
definitivi. Da un lato le osservazioni critiche che si sono ricordate sopra sono sicuramente dotate di
fondamento. Dall’altro, i molti indizi raccolti da De Felice fanno pensare che se non tutta quanta la
società italiana, certo una sua buona parte fu, in effetti, stabilmente attratta dal regime, dalla sua
retorica e dai risultati conseguiti dalla sua politica economica e sociale.
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simboli distintivi del fascismo). Gentile arriva alla conclusione che rituali e liturgie sono
assolutamente fondamentali anche per il fascismo italiano. L’istituzione di una liturgia di stato fu
conseguenza della convenzione fascista delle masse, basata sulla convinzione che nella massa
predomina il sentimento, non la ragione, e che solo facendo appello ai sentimenti, suscitando
emozioni ed entusiasmo, attraverso miti che danno forma ai desideri delle masse e le incitano
all’azione, è possibile per un movimento politico organizzare e utilizzare la loro energia per il
conseguimento dei suoi fini. Il culto dei caduti, che aveva avuto una parte fondamentale nella
nascita della liturgia squadrista, conservò un posto d’onore nel culto del littorio, per i militanti e per
le masse. Il martirio per la “causa” è al vertice della scala dei valori dell’etica fascista. Chi moriva
con la fede nel fascismo entrava nel suo universo mitico e acquistava l’immortalità nella memoria
collettiva, attraverso la celebrazione liturgica del culto degli eroi e dei caduti. Chi affronta la morte
per una causa ha la certezza della continuità della sua opera oltre il limite della vita mortale; e per
questa certezza, sigillata dal martirio, egli veramente vive, come forza immateriale, ma di una
potenza senza limiti, nella continuità delle generazioni”. A Milano, sul luogo dove erano caduti 3
fascisti, fu eretta una “fontana votiva”, simbolo del perenne zampillare di nuove energie dalla
memoria dei martiri. Frequente era il rito di dedicare al nome di un martire le nuove opere compiute
dal regime. Anche frequente era l’usanza di dedicare al caduto un albero, simbolo di vita, di saldo
radicamento nel suolo natio e di ascensione al cielo. Gentile si allontana molto dalle valutazioni
espresse da De Felice e non solo considera il fascismo vicino, per questo rispetto, al nazismo, ma lo
considera addirittura il movimento che per primo sperimenta in forma istituzionale e su larga scala
la ritualizzazione del politico. I riti e le feste di massa (del fascismo) volevano educare per
convertire, investendo i valori fondamentali e i fini ultimi dell’esistenza. La funzione della liturgia
di massa mirava a conquistare e plasmare la coscienza morale, la mentalità, i costumi della gente, e
persino i suoi più intimi sentimenti sulla vita e sulla morte. In libri recenti, Gentile ha mostrato
come anche nelle democrazie – e in particolare in quella americana – il richiamo alla religione
abbia, sin dalle sue origini tardosettecentesche, un’importanza cruciale. Gentile ha copiato la coppia
concettuale “religione civile” – “religione politica”. “La religione civile è la categoria concettuale
entro la quale collochiamo le forme di sacralizzazione di un sistema politico che garantisce la
pluralità delle idee, la libera competizione per l’esercizio del potere e la revocabilità dei governanti
da parte dei governati attraverso metodi pacifici e costituzionali. La religione politica è la
sacralizzazione di un sistema politico fondato sul monopolio irrevocabile del potere, sul monismo
ideologico, sulla subordinazione obbligatoria e incondizionata dell’individuo e della collettività al
suo codice di comandamenti.”. E il fascismo – come il nazismo e il comunismo – è senza dubbio un
regime che dà vita a una “religione politica”; anzi, è il regime che per primo ne sperimenta le forme
in maniera originale e sistematica.
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non tanto nel corso di combattimenti, ma a causa di uno sterminio di massa organizzato con
agghiacciante efficienza dalla Germania nazista. Non sorprende, dunque, che nel corso della
seconda metà del ‘900 molti storici abbiano discusso appassionatamente le cause che hanno
scatenato questo disastro, così come le dinamiche che lo hanno caratterizzato. Tra i lavori più
importanti che hanno esplorato le ragioni politico-diplomatiche del conflitto spiccano quelli di Alan
J.P. Taylor – “Le origini della seconda guerra mondiale” – e di Andreas Hillgruber – “Storia della
seconda guerra mondiale”. Nel suo libro Taylor sostiene che le cause della seconda guerra mondiale
non possono essere circoscritte solo ai piani di Hitler, ma vanno proiettate più indietro nel tempo,
essendo parte di una cultura aggressiva ed espansionista, profondamente radicata già nella mentalità
delle élites militari e diplomatiche della Germania guglielmina. Lì Taylor considerava l’esito nazista
della storia tedesca come il portato di uno sviluppo storico che avrebbe inclinato la società tedesca
all’autoritarismo, al razzismo, all’antisemitismo sin dal tardo medioevo e soprattutto dalla riforma
luterana: un’impostazione di questo genere fa di Taylor uno dei primi sostenitori della tesi del
“Sonderweg” (“strada particolare”). Pone una particolare enfasi sul ruolo speciale che Hitler svolge
all’interno del regime, sia nell’elaborazione dei piani d’espansione a est, sia nella determinazione
dello sterminio degli ebrei. Il rapporto tra la minaccia comunista sovietica e la seconda guerra
mondiale è un tema classico negli studi sul conflitto. Tuttavia, diversi interventi, pubblicati tra l’86
e l’87, dallo stesso Hillgruber e da Ernst Nolte, che attribuiscono a questo elemento uno speciale
rilievo, hanno suscitato un intensissimo dibattito sull’interpretazione da dare del nazismo, dello
sterminio degli ebrei e della condotta nazista durante la guerra. Allo storico che voglia volgere lo
sguardo alla catastrofe dell’inverno ’44-’45 rimane dunque una sola posizione possibile, anche se
spesso difficile a mantenersi nel singolo caso specifico: egli deve identificarsi con il destino
concreto delle popolazioni tedesco-orientali, e con gli sforzi disperati e sanguinosi delle truppe
tedesche dell’est, nonché della marina tedesca, che cercarono di difendere quelle popolazioni stesse
dall’orgia di vendette dell’armata rossa, dagli stupri di massa etc. L’analisi di Hillgruber è
certamente efficace nell’invitare a valutare con la dovuta attenzione la selvaggia efferatezza che
guida le aggressioni dei soldati dell’armata rossa contro le popolazioni tedesche. In generale, è
francamente indubbio che uno storico possa ottenere buoni risultati conoscitivi identificandosi con
l’uno o con l’altro attore di una vicenda storica, consentendogli di presentare il popolo e l’esercito
tedeschi quasi come “vittime” della guerra. La seconda guerra mondiale racchiude 2 catastrofi
nazionali le cui conseguenze, con ogni probabilità, dovranno essere sopportate direttamente o
indirettamente ancora per parecchie generazioni non solo dalle nazioni che a suo tempo ne furono
immediatamente colpite, ma dall’Europa intera. Benché queste 2 catastrofi siano certamente parte di
un tutto, esse scaturiscono però da premesse distinte. Anche la responsabilità è diversa in un caso e
nell’altro: l’assassinio degli ebrei fu esclusivamente una conseguenza di quella dottrina della razza
spinta agli estremi che, a partire dal ’33, divenne nella Germania hitleriana una vera e propria
ideologia dello stato. Via via che si palesa in tutta la sua profondità la dimensione dei fatti, diviene
sempre più chiaro che si è trattato solo di una catastrofe ebrea o tedesca, ma che l’Europa intera e
innanzitutto il centro di essa, andato in pezzi durante la guerra, si sono immolati in quella catastrofe.
Nolte amplia il senso interpretativo delle osservazioni avanzate da Hillgruber, suggerendo una sorta
di relazione causale diretta tra la formazione del sistema del terrore sovietico, da un lato, e lo
sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, dall’altro. Nolte ritiene di dover rispondere positivamente
a queste domande, osservando che “verosimilmente, fra il (comunismo sovietico e il nazismo, e
quindi fra il gulag e lo sterminio degli ebrei) esiste un nesso causale”. Nell’articolo di Nolte, l’idea
del rapporto causale tra comunismo e nazismo viene confermata e contestualizzata in una cornice
37
più vasta attraverso la quale Nolte legge la storia europea tra il ’17 e il ’45 come una vera e propria
“guerra civile” tra il comunismo, da un lato, e il fascismo e il nazismo, dall’altro. Il punto essenziale
– per Nolte – è dato dalle tremende risonanze emotive provocate dall’esperienza del comunismo
bolscevico nell’animo di Hitler, prima, e tra la borghesia e il ceto medio tedesco, poi. Già, sin
dall’86 numerosi storici e intellettuali tedeschi, replicando più o meno duramente alle tesi enunciate
da Hillgruber e da Nolte, danno vita a una discussione molto intensa: è il cosiddetto
“Historikerstreit” (controversia degli storici), di cui dà conto un’antologia curata da Gian Enrico
Rusconi, intitolata “Germania, un passato che non passa”, che raccoglie i principali interventi editi
in Germania tra ’86 e ’87. Rusconi stesso, nell’introduzione all’antologia, ripercorre con grande
equilibrio le diverse tesi che si sono contese il campo nel corso del dibattito. Essenzialmente, tutti
coloro che intervengono nella discussione riconoscono sia la legittimità tra comparazione tra regimi
come quelli comunista e nazista, sia la legittimità del confronto tra lo sterminio degli ebrei, da un
lato, e il gulag o altri genocidi compiuti nel XX secolo, dall’altro. Ciò che invece molti (tra cui
Jurgen Habermas, e altri autorevoli storici tedeschi) trovano difficile da accettare è l’identificazione
di un nesso casuale diretto tra comunismo russo e nazismo tedesco. Le analisi proposte da Nolte e
da Hillgruber, più che avere finalità conoscitive, sembrano celare il desiderio di relativizzare o
giustificare l’operato del regime nazista. Anche Rusconi considera decisamente piuttosto forzato
l’impianto fondamentale delle tesi di Hillgruber e soprattutto di Nolte. Le considerazioni che
Rusconi esprime nella presentazione dell’edizione italiana del libro di Nolte, “La guerra civile
europea”: “Che sussista un qualche genere di rapporto tra i 2 eventi emblematicamente chiamati
Auschwitz e Gulag, lo si può accettare. Ma che questo rapporto possa esser definito senz’altro di
tipo “causale” è una deduzione logica avventurosa. La natura del rapporto in questione è
determinata da elementi troppo complessi perché possa esser ricondotta a un semplice processo
cognitivo che segue lo schema causa-effetto. Il terrore imitativo che si materializza in precisi e
complessi apparati organizzativi non può diventare tout court la causa di un intero fenomeno
culturale, sociologico e politico qual è il nazionalsocialismo. Queste semplificazioni e unilateralismi
non ci dicono cosa sono stati davvero comunismo e nazismo. Ritengo, invece, che Nolte, con il suo
lavoro, abbia contribuito a togliere ai crimini nazisti il triste primato del “mai visto prima”. Nel
complesso, lo Historikerstreit ha sollecitato approfondimenti analitici nelle più varie direzioni, e in
una certa misura, ha dato un contributo alla migliore definizione di tesi diverse sulle cause e sul
significato dell’esperienza bellica.”. Le novità più rilevanti e meglio documentate hanno riguardato
piuttosto la natura delle occupazioni nazifasciste e le caratteristiche della resistenza a tali
occupazioni.
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all’interno del nuovo reich quelle popolazioni tedesche che si erano spinte lontano dalla Germania e
che vivevano all’interno di altri stati. Dall’altro lato, Hitler ha una visione del mondo “basata sulla
lotta eterna fra i popoli per accaparrarsi la terra: lo “spazio vitale” (Lebensraum) e le ferree leggi
della natura premiano il più forte.”. Questa seconda prospettiva spiega i progetti di espansione verso
l’est europeo, dove ci sono gli slavi, ritenuti dai nazisti una razza inferiore destinata a diventare un
“popolo schiavo” al servizio del “popolo signore” germanico. In forma un po’ ambivalente, la spinta
verso l’est è motivata anche dal desiderio di cancellare il cosiddetto “pericolo giudeo-bolscevico”:
l’Unione Sovietica è considerata una minaccia vitale per la stessa esistenza della razza germanica.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e fino al ’42, enormi spazi del continente europeo
sono sotto il tallone nazista. Al momento della massima espansione delle sue conquiste territoriali,
la Germania hitleriana aveva sotto il proprio controllo oltre 2 milioni di km quadrati di territorio con
circa 125 milioni di abitanti, esclusa l’Unione Sovietica. Si poneva il problema di come governare
questo territorio. Dove incontravano razze che reputavano irrimediabilmente inferiori, i nazisti si
comportavano da “Herrenwolk” (popolo signore) nei confronti del locale “Sklavenvolk” (popolo
schiavo). Le loro élites politiche, religiose e intellettuali vengono subito brutalmente sterminate o
internate nei campi di concentramento; si tratta di mosse che preludono alla trasformazione
dell’area in una vera e propria colonia tedesca. Come reagirono le popolazioni locali ai regimi di
occupazione? In alcuni contesti i margini di scelta sembrano essere molto ridotti. La popolazione è
sottoposta a un tale grado di vessazioni che non sembra avere scelta: o subisce saccheggi, violenze,
deportazioni, o aderisce ai gruppi partigiani. Queste, pero – osserva Corni – sebbene assai diffusa,
non è altro che un’immagine stereotipata della situazione a est, costruita soprattutto dalla
propaganda sovietica dopo la fine della guerra. Altrove – in Francia, Belgio, Olanda, Italia etc., la
gamma delle scelte fu più ampia, in ragione di regimi di occupazione relativamente meno brutali di
quelli attivati nell’Europa dell’est. Sintetizzando molto la panoramica offerta da Gustavo Corni nel
suo libro, si può dire che in quelle aree il fenomeno del collaborazionismo è sollecitato dalle stesse
autorità naziste che cercano un sostegno più o meno organico tra le opinioni pubbliche locali. Non
di rado, tra di esse riescono a trovare ammiratori, collaboratori e sostenitori, una parte almeno dei
quali ispirati da sentimenti esplicitamente filonazisti. In tutte le aree di occupazione, vi è anche chi
decide di ribellarsi e di opporsi agli occupanti armi alla mano, dando vita al fenomeno delle
resistenze antinaziste. Assieme alla Germania nazista, anche l’Italia fascista ha il suo sogno
imperiale, che si traduce in realtà quando nel ’41 vengono assegnate all’amministrazione italiana
parti della Grecia e altre. L’esperienza delle occupazioni fasciste è ricostruita da Davide Rodogno in
“Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa”. Le
occupazioni militari – scrive Rodogno – sono un soggetto di studio recente di un fenomeno antico.
Possiamo distinguerne almeno 2 tipi: l’occupazione militare classica e quella di tipo napoleonico.
La prima fa seguito a una disfatta militare, serve a indebolire l’avversario e non ha per scopo
l’assorbimento del territorio occupato dalla nazione occupante, né l’assimilazione a essa. Ha
carattere temporaneo e si presuppone finisca con un trattato di pace o con la conclusione del
conflitto. Nella seconda, l’occupante proietta sul territorio e sulla società occupata il suo sistema
politico, sociale, culturale ed economico. Le occupazioni attuate dal governo dell’Italia fascista
hanno aspetti di entrambe le tipologie. Il progetto imperiale fascista, di cui le occupazioni furono
una parte costitutiva, non fu un fenomeno interamente originale perché s’inserì nella tradizione
degli imperi occidentali, ma se ne distinse per l’idea di fusione e di unificazione dei popoli
sottomessi. Il fascismo volle stabilire una gerarchia razziale di popoli che sarebbe stata mantenuta
ad libitum. Nessun popolo avrebbe potuto mescolarsi con la “razza civilizzatrice” e l’opera di
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“civilizzazione” non avrebbe portato i conquistati a identificarsi con la razza dei conquistatori.
Egualmente sistematica, e nient’affatto occasionale, è l’opera di repressione messa in atto
dall’esercito italiano contro le formazioni partigiane locali, così come contro le popolazioni civili
ritenute, a torto o a ragione, conniventi con i partigiani. Nella pratica della repressione, la
fenomenologia e la tipologia delle azioni concrete previste e realizzate dalle forze italiane non
furono diverse da quelle riscontrabili nella Wehrmacht, nelle forze delle SS e della polizia tedesca
coinvolte in operazioni analoghe. Il tipo di repressione degli italiani nei Balcani (ma non in Francia)
s’ispirò decisamente all’esperienza coloniale in Africa. Fu proprio nelle colonie che gli italiani
sperimentarono repressioni, deportazioni e internamenti di massa. Ricordiamo che, in Etiopia,
Mussolini impartì un “salutare monito” alle popolazioni autoctone, inviando un fonogramma nel
quale impose che “ogni civile o religioso, uomo o donna, sospetto di aver favorito l’attentato
(contro le truppe italiane) doveva essere immediatamente fucilato senza processo e senza indugio”.
Dopo il ’40, nei confronti delle popolazioni balcaniche gli italiani attuarono un analogo grado di
violenza, trattamento che in passato avevano riservato agli autoctoni africani. Un’organica politica
di repressione, deportazione, internamento in campi di concentramento è concepita all’inizio del ’42
dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, ed è esplicitamente la “sbalcanizzazione” e
la “bonifica etnica” di alcune zone significative, per sostituire la popolazione slava con famiglie di
coloni italiani. Una questione a parte concerne il trattamento degli ebrei presenti nei territori di
occupazione italiana. Le autorità italiane trattano diversamente i profughi ebrei che arrivano da altri
paesi e gli ebrei (italiani e non) residenti nelle zone occupate. Gli ebrei residenti nelle aree di
occupazione italiana, e una parte degli ebrei rifugiati in Dalmazia ma provenienti da altre zone,
vengono internati in campi di concentramento allestiti dagli italiani, ma non vengono consegnati
alle autorità croate o tedesche, nonostante queste ne facciano ripetutamente richiesta. Rodogno
ritiene sbagliato interpretare questo comportamento delle autorità italiane come una manifestazione
dello specifico “carattere italico”, riassunto nell’abusato slogan degli “italiani brava gente”. Anche
se ci sono alcune testimonianze di ufficiali italiani sdegnati per il trattamento riservato agli ebrei dai
nazisti o dagli ustasa croati, l’antisemitismo è largamente diffuso tra i quadri dell’esercito italiano; e
del resto, gli ebrei residenti nel territorio di occupazione vengono sottoposti alle leggi razziali e poi
internati nei campi di concentramento allestiti dagli italiani in Jugoslavia o in Italia, come quello di
Ferramonti Tarsia, in Calabria. Rodogno ritiene dunque che non ci sia stato alcun piano di
“salvataggio umanitario” degli ebrei, com’è del resto chiaramente mostrato dai “respingimenti” alle
frontiere degli ebrei allogeni. L’antisemitismo italiano non può essere identificato con
l’antisemitismo redentore nazista, ma è lungi dal poter essere definito aimless (privo di finalità).
Esso non mirò allo sterminio degli ebrei, ma ebbe come obiettivo l’esclusione dal mondo del
lavoro, la soppressione delle capacità di diritto pubblico. L’azione governativa si propose di
eliminare gli ebrei dalla vita nazionale; essa intese separarli dai non ebrei (divieto di matrimoni
misti etc.). Le misure persecutorie provocarono la morte civile degli italiani ebrei e servirono a
stimolare “oggettivamente” l’emigrazione. Nel complesso, secondo Rodogno, il fascismo ha un
progetto imperiale chiaro e impegnativo. Nei territori sottoposti al potere fascista, il “nuovo ordine”
si basa sulla rigida distinzione razziale tra popolo dominatore e popoli sottomessi. Diversamente dal
nazismo, il fascismo crede in una sua “missione civilizzatrice”, consistente nell’imporre valori e
credenze dell’Italia fascista a tutti i popoli sottoposti alla sua dominazione; similmente al nazismo,
anche per i fascisti la violenza, l’oppressione, le razzie sono uno strumento essenziale per preparare
l’opera di civilizzazione. Dopo la crisi dell’estate ’43 anche l’Italia diventa terra di occupazione. In
particolare tutta l’Italia centro-settentrionale viene sistematicamente occupata dall’esercito nazista.
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costituzione. L’azione attuata dalla resistenza non fu fine a sé stessa; si tradusse, malgrado tutte le
difficoltà, nell’instaurazione della Repubblica italiana e nella promulgazione della carta
fondamentale del nuovo stato: la Costituzione. Punto di partenza e non di arrivo. Qualunque siano
le vicende che il futuro riserba all’Italia è certo che la strada dell’avvenire passa per la resistenza, è
certo che le forze popolari hanno messo nel paese quelle radici profonde che erano mancate nel
primo risorgimento, è certo che mai più un qualsiasi tentativo di dominazione straniera o interna
potrà strappare al popolo italiano la patria così faticosamente conquistata. N’è prova lo stesso fatto
che, a tanti anni di distanza, la lotta di liberazione si sottrae a qualsiasi facile schema celebrativo,
rifiuta d’essere “imbalsamata”, ma conserva intatta la sua carica polemica e il suo messaggio di
speranza. Il libro di Battaglia ha una notevole influenza, tanto da stabilire per anni il quadro
interpretativo dominante dell’esperienza resistenziale. Molte delle ricerche che si pubblicano tra gli
anni ’70 e gli anni ’80 hanno un carattere circoscritto, ma danno un contributo conoscitivo di
prim’ordine, valorizzando, censendo o riscoprendo fonti, archivi e giacimenti documentari.
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molto ampia: insopportabilità di un mondo divenuto teatro di ferocie; ribellione contro i soprusi
remoti e vicini, talvolta proprio contro quelli “piccoli”; istinto di autodifesa; desiderio di vendicare
un congiunto caduto; spirito di avventura; amore del rischio e insieme non piena cognizione di esso;
tradizioni familiari, antifascismo di vecchia e di nuova data; amor di patria, odio di classe.”. Pavone
enfatizza con la sua ricostruzione la complessità morale dell’esperienza resistenziale: essa non è
vissuta solo come una guerra contro lo straniero oppressore, ma è anche una guerra civile; non solo
le motivazioni degli uni e degli altri sono diverse e fanno riferimento a universi culturali che si
stanno muovendo in direzioni distinte; ma all’interno degli stessi campi – quello partigiano e quello
fascista – vari e particolari sono i modi d’interpretare le relazioni di autorità, l’uso della violenza, la
concezione della libertà o della patria. Insieme ad altre possibili ragioni, è questa stessa complessità
che fa sì che la memoria della resistenza incontri innumerevoli difficoltà a imporsi come la memoria
fondativa della nuova repubblica italiana nata nel ’46.
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irregolari o civili, a sommosse e a rivolte, dove il rapporto tra azione e repressione è chiaro e
localizzato nello spazio e nel tempo, sono state solo 37 rispetto alle 192 azioni commesse dalle
truppe tedesche per le quali è stato possibile individuare una tipologia, dato questo di grande
significato, perché ridimensiona le tesi difensive dei generali tedeschi. Le stragi commesse in
occasione di rastrellamenti di partigiani, di evacuazione forzata di civili, di operazioni volte alla
deportazione di uomini per il controllo del territorio, sono state infatti 107 e a esse va attribuito oltre
il 60% delle vittime. Se a queste aggiungiamo le stragi gratuite e senza apparente spiegazione,
abbiamo che circa l’80% degli episodi e delle vittime non possono essere ricondotte a
“rappresaglie” nel senso in cui il termine viene inteso nel diritto di guerra. Se prendiamo in esame il
numero e le condizioni delle vittime, questa considerazione si rafforza: solo il 44,6% delle 3774
vittime censite erano adulti in età per essere adibiti al servizio militare o ai lavori coatti, per il resto
si trattava di donne, bambini e anziani. Il 61,9% delle vittime sono state uccise nel corso di queste
azioni con più netto carattere terroristico o punitivo nei confronti della popolazione. Un’autonomia
fascista nello stragismo emerge con ancora più evidenza dai lavori del gruppo emiliano-romagnolo,
dai quali emerge una maggiore “politicizzazione” delle uccisioni fasciste, che spesso assumono il
sapore abbastanza esplicito della “vendetta”: viene costituito un consistente gruppo di ostaggi,
rastrellati, genitori e parenti di “disertori”, tenuti a disposizione per rappresaglie. Non tutte le
rievocazioni sono convergenti e trovano spazio in quella narrazione egemonica che nella resistenza
ha sottolineato esclusivamente il carattere di epopea popolare e di momento fondativo della
“nuova” identità nazionale. D’altro canto, le memorie divise sono certo un’esclusiva italiana: la
seconda guerra mondiale è stata vissuta in Europa come una guerra civile che ha attraversato tutto il
continente, per l’intreccio fra conflitti geopolitici tradizionali e lo scontro fra ideologie, modelli
politici e di civiltà alternativi. Ma, in definitiva, al di là delle memorie divise, che cosa sono le
azioni partigiane? Sono – osserva Pezzino – azioni che spesso appaiono ai contemporanei
doppiamente destituite di legittimità, perché non riconosciute come legittime dal diritto di guerra e
non riconosciute come tali nemmeno dall’opinione della maggior parte della “zona grigia”, cioè
dalla maggior parte delle popolazioni italiane, prevalentemente rurali, che non intendevano
prendere parte al conflitto. La posizione sua, e di altri storici che si sono interessati alle stragi e alla
loro rielaborazione memoriale, è attenta a muoversi sul terreno delle fonti ed è sostenuta da
ricostruzioni accurate e non solo c’è unanimità di vedute, ma neanche una generica convergenza.
Santo Peli, all’interno di una sintesi aggiornata sulla storia della resistenza, scrive: “Sul piano
storico generale, è però evidente che, nel contesto della guerra, e della guerra civile, quale si
configura in Italia dopo il ’43, non far nulla che potesse direttamente o indirettamente coinvolgere
degli innocenti avrebbe coinciso con la rinuncia a resistere, con la rassegnazione dell’obbedienza a
Mussolini e a Hitler, e la resa a un’iniziativa esclusivamente alleata.”. Anche più netto e diretto è il
dissenso manifestato da Sergio Luzzatto. In “La crisi dell’antifascismo”, Luzzatto ha passato a
rassegna il doppio movimento politico e culturale che, attraversando l’Italia a partire dagli anni ’80,
si è abbattuto come un ciclone sulla memoria del fascismo e della resistenza. È allora che a sinistra,
osserva Luzzatto, si è cominciato a lasciar cadere la celebrazione della resistenza e
dell’antifascismo, e perfino a invitare una sorta di equivalenza tra le ragioni dei militi della
repubblica di Salò e quelle dei partigiani. Dimenticando con ciò 2 cose essenziali: 1) che sono del
tutto chiaro, e per nulla equivalenti, gli obiettivi della lotta per gli uni e per gli altri: un nuovo
ordine nazifascista, fatto di mancanza di libertà e di genocidi razziali, da un lato, e un’Italia più
libera e giusta dall’altro; 2) che se tra le file partigiane i comunisti hanno avuto un ruolo centrale,
essi sono stati poi leader e militanti di un partito, il Pci, che ha dato un contributo essenziale alla
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costruzione, al consolidamento e, negli anni 70, all’attiva difesa della democrazia in Italia. Nel
presentare queste argomentazioni, Luzzatto ha riservato un pungente commento critico anche alla
storiografia che ha ricostruito le stragi del periodo ’43-’45. Con una sensibilità che era mancata nei
decenni precedenti, gli studiosi più capaci hanno preso a ricostruire e a raccontare altre storie. Ma
questo meritorio lavoro per raccogliere il ricordo del male dalla viva voce degli ultimi sopravvissuti
può esso stesso avere contribuito, e ancora può contribuire alla crisi dell’antifascismo. Si è passati
infatti dalla monumentalizzazione degli eroi alla monumentalizzazione delle vittime. Nel momento
in cui la vittima civile viene riconosciuta come l’autentico eroe del 20esimo secolo, angelo
sacrificale di mortifere ideologie l’una contro l’altra armata, a che pro distinguere tra vittime e
vittime? Perché mai un uomo o una donna qualunque uccisi dai saloini dovrebbero suscitare
maggiore pietà di un uomo o una donna qualunque uccisi dai partigiani? Di là dal gruppo
sanguigno, che cosa distingue il sangue di un cadavere da quello di un altro? Alla fine, osserva
Luzzatto, “le conseguenze negative di quest’operazione storicamente, ideologicamente e
moralmente riduzionistica consistono nel mettere in secondo piano le ragioni etico-politiche della
lotta gli uni contro gli altri, al massimo traducendo il tutta in una sorta di ossessiva contabilità
mortuaria.
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parziale; 4) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; 5) trasferimento forzato di
fanciulli da un gruppo a un altro. Più tardi Frank R. Chalk e Kurt Jonassohn hanno molto ampliato i
confini della definizione, sostenendo che per genocidio deve intendersi “una forma di massacro di
massa unilaterale con cui uno stato o un’altra autorità vuole distruggere un gruppo. L’uso dell’uno o
dell’altro termine non è del tutto indifferente, perché comporta implicazioni interpretative diverse.
Sia olocausto, sia Shoah, in quanto parole che si applicano esclusivamente a ciò che accade agli
ebrei europei dal ’39 al ’45, vogliono sottolineare l’assoluta unicità di quell’esperienza. Chi ricorre
al termine genocidio considera invece la “soluzione finale” come uno dei vari assassinii di massa
che sono stati compiuti prima, durante e dopo quegli anni. Altre questiono storiografiche sono sorte
in merito all’interpretazione complessiva di quella vicenda. Sgombriamo subito il campo dalle
interpretazioni cosiddette “negazioniste”. Sono quelle interpretazioni che sostengono che lo
sterminio degli ebrei che non è mai avvenuto, o non è avvenuto nelle proporzioni comunemente
affermate. Fonti archivistiche, memorialistica di nazisti come di sopravvissuti, materiali fotografici
e cinematografici, documenti prodotti dalle inchieste giudiziarie compiute dopo la fine della
seconda guerra mondiale, non lasciano spazio neanche al più piccolo dubbio: le interpretazioni
negazioniste sono sbagliate, prive di fondamento, qualunque sia l’intenzione, politica o culturale, di
coloro i quali le sostengono. Le domande principali che hanno guidato la ricerca e il dibattito sono
essenzialmente 2: quali sono state le ragioni di fondo che hanno spinto i nazisti, e poi molti altri al
loro fianco, a pianificare e realizzare lo sterminio degli ebrei? Lo sterminio è stato progettato fin
dall’inizio in forma deliberata, oppure non era programmato ed era stato attuato per il concorso di
una molteplicità di circostanze?
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importantissima ricerca sui meccanismi del massacro, Raul Hilberg. Significativamente Hilberg
avvia la sua ricerca per la tesi di dottorato, che prepara presso la Columbia University di New York,
sotto la guida di Franz Neumann, suo supervisore di tesi; e l’influenza di Behemoth sul suo grande
studio, “La distruzione degli ebrei d’Europa”, è evidente e riconosciuta. Neumann, peraltro, cerca di
scoraggiare il giovane Hilberg dall’intraprendere la ricerca su un tema come quello, avvisandolo
della sua impopolarità negli ambienti accademici; ma poi lo segue con partecipazione fino alla sua
morte, avvenuta nel ’54. Hilberg prosegue comunque la sua ricerca e quando cerca di pubblicarne i
risultati incontra delle resistenze sia negli Usa sia in Europa. La prima edizione americana del libro,
del ’61, è edita da una piccola casa editrice di Chicago. Il libro è uno studio tutt’oggi fondamentale
sul processo di sterminio organizzati dai nazisti. Hilberg non è molto interessato alle origini dello
sterminio e si concentra totalmente sulla ricostruzione della modalità organizzative che hanno
permesso l’eliminazione degli ebrei. A prima vista, la distruzione degli ebrei può apparire un fatto
globale, indivisibile, monolitico e ribelle a ogni spiegazione. Esaminandola più da vicino, essa si
mostra come un processo condotto per tappe successive, ciascuna delle quali fu il risultato di
decisioni prese da innumerevoli burocrati, nell’ambito di una vasta macchina amministrativa. Il
processo della distruzione si sviluppò secondo uno schema ben definibile, che non corrispondeva
affatto a un piano prestabilito. Chi partecipò all’impresa, quali furono i meccanismi d’esecuzione?
L’operazione non venne affidata a un unico agente: la macchina della distruzione fu sempre un
aggregato di parti diverse. Nel suo insieme, l’apparato amministrativo tedesco comprendeva, sotto
l’autorità del fuhrer Adolf Hitler, 4 gerarchie distinte: quella della burocrazia ministeriale, quella
delle forze armate, quella dell’economia e quella del partito. Per distruggere gli ebrei d’Europa, non
venne creato né un organismo specifico, né fissato un budget particolare. Ciascuno dei settori
doveva giocare un ruolo specifico nel processo, e ciascuno doveva trovare al proprio interno i mezzi
per portare a compimento il proprio scopo.
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sentirono nascere dentro di sé una pulsione sadica che fece loro provare soddisfazione nel
sopraffare e uccidere gente inerme. Nel complesso ne emerge un’interpretazione che conferma “dal
basso”, per dir così, le prospettive offerte da Neumann e da Hilberg: il comportamento dei tedeschi
davanti allo sterminio degli ebrei non fu uniforme e compatto, come non fu enorme e compatto il
funzionamento dello stato nazista e della “macchina dello sterminio”.
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obiezioni principali sono state di 2 tipi: da un lato l’antisemitismo aggressivo che si diffonde alla
fine dell’800 non è stato una prerogativa tedesca. Dall’altro si è fatto notare che le molte
testimonianze raccolte da Goldhagen, non riescono a dimostrare fino in fondo che tutti i tedeschi vi
partecipassero con entusiasmo a causa del loro antisemitismo. La generalizzazione proposta da
Goldhagen sembra effettivamente eccessiva. Un quadro convincente lo si ottiene piuttosto se si
considera la molteplicità di motivazioni che può avere spinto la società tedesca ad accettare (o a non
ribellarsi) allo sterminio. Da questo punto di vista scrive considerazioni interessanti e accorate
proprio Christopher Browning. Goldhagen ha detto: “Ammetto, la forza ideologica
dell’antisemitismo, ma non sono d’accordo con Goldhagen quando afferma che tale atteggiamento
“si sovrapponeva” al sentimento che aveva sostanzialmente dominato l’evoluzione ideologica della
società civile. È vero che nel ’33 l’antisemitismo era ormai una consuetudine del diritto tedesco, ma
non credo che l’intera società tedesca fosse “in sintonia” con Hitler, sulla questione degli ebrei, e
che “l’importanza dell’antisemitismo nella sua visione del mondo, nei programmi e nella retorica”
rispecchiasse “i sentimenti della società tedesca”. Ammetto che l’antisemitismo - cioè lo stereotipo
negativo degli ebrei, la loro disumanizzazione e l’odio nei loro confronti – fosse diffuso tra i
carnefici del ’42, ma non sono d’accordo nel ritenerlo un atteggiamento “preesistente” e “istintivo”,
che Hitler dovette solo “scatenare” e “mobilitare”. Perché è importante stabilire quale delle 2
interpretazioni (quella di Goldhagen o la sua, di Browning) sia più vicina alla verità? Sarebbe molto
consolante se Goldhagen avesse ragione: in tal caso, solo pochissime società possiederebbero i
prerequisiti storici e culturali per realizzare il genocidio, e i regimi potrebbero votarsi allo sterminio
solo quando le popolazioni fossero convinte della sua urgenza, legittimità e necessità. Se così fosse,
il mondo sarebbe un luogo più sicuro, ma io non sono tanto ottimista. Temo invece di vivere in un
mondo in cui la guerra e il razzismo sono onnipresenti. In conclusione, il pessimismo di Browning
dev’essere stemperato: proprio opere storiche come la sua, o – pur con tutte le differenze del caso –
come quelle di Goldhagen, di Hilberg, di Neumann e di molti altri, danno un contributo inestimabile
alla riflessione e all’educazione collettiva, in modo che il rischio da lui paventato possa diventare
sempre più remoto.
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2. Prime formulazioni
La prima formulazione sembra debba essere rintracciata in alcuni scritti di antifascisti italiani
(Amendola, Basso, Sturzo), che tra il ’23 e il ’26, cercando di opporsi al fascismo, si sforzano anche
di identificarne i caratteri fondamentali. Il primo fronte di critica è, naturalmente, l’impianto
antipluralistico che il fascismo esibisce sin dai suoi primordi. Giovanni Amendola scrive: “La
caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà lo spirito totalitario. Questa singolare “guerra di
religione” che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre una fede, ma in compenso vi nega il
diritto di avere una coscienza – la vostra e non l’altrui – e vi preclude con una plumbea ipoteca
l’avvenire.”. Come non di rado accade, un termine che nasce per denigrare un progetto politico
viene fatto proprio da coloro ai quali l’attacco critico intendeva rivolgersi. Per il fascista, tutto è
nello stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dallo stato. Ai suoi
primordi, dunque, il termine “totalitario” è parte integrante del lessico politico militante. L’aggettivo
“totale”, riferito allo stato, o al movimento politico che si fa stato, viene usato sia da politici e
intellettuali conservatori o filonazisti (come Carl Schmitt), sia da pubblicisti che cercando di
opporsi all’onda politica della nuova destra che spazza la Germania e il centro dell’Europa negli
anni ’30. Con Boris Souvarine si ha per la prima volta un’esplorazione delle analogie strutturali che
sembrano avvicinare i “fascismi” al comunismo sovietico. La partecipazione dell’Urss alla guerra
antinazista, tuttavia, limita l’applicazione del concetto alla realtà sovietica. Ed è stato solo dopo la
fine della guerra, con la caduta del nazismo e del fascismo, e l’inizio della “guerra fredda”, che il
concetto di totalitarismo entra definitivamente nel dibattito pubblico occidentale per descrivere nei
termini più critici che sia possibile il sistema politico in vigore dell’Unione Sovietica.
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sud Africa dagli inglesi al tempo della loro guerra contro i boeri. Aprono comunque prospettive
importanti alla riflessione sul fenomeno totalitario, poiché la Arendt vi suggerisce che il
totalitarismo è una morfologia sociopolitica dotata di una sua profondità storica. Tuttavia, ciò che
veramente impone il libro all’attenzione della comunità scientifica è la sua terza e ultima parte (“Il
totalitarismo”), nel quale la Arendt elabora una prima tipologia analitica del fenomeno, fondata su
elementi strutturali desunti sia dall’esperienza del nazismo sia da quella del comunismo staliniano.
Tanto per mobilitare masse d’individui duramente provate da congiunture economiche, sociali e
politiche tremendamente difficili. In sé e per sé le ideologie dei 2 movimenti totalitari non hanno
alcun tratto di speciale originalità: l’ideologia comunista si fonda sull’idea della lotta di classe.
L’ideologia nazista si fonda sull’idea della competizione tra le razze. A partire da questi nuclei,
però, i 2 movimenti politici costruiscono dei sistemi ideologici che portano alle estreme
conseguenze le 3 fondamentali componenti totalitarie insite in ogni ideologia. E nuova è anche la
struttura istituzionale di questi regimi, all’interno del quale spiccano 2 elementi strutturali comuni.
In primo luogo l’assoluta centralità del capo. anche se ha importanti manifestazioni simboliche, tale
centralità è pienamente operativa, nel senso che il capo ha poteri decisionali che superano di gran
lunga quelli posseduti da un tiranno classico o da un dittatore ordinario. Una simile complessità
istituzionale, prodotto essa stessa dalle decisioni del capo, gli dà un enorme potere, perché egli può
usare molto facilmente all’interno del regime il sistema del divide et impera. Tuttavia questi sono
aspetti che non connotano veramente in profondità il momento totalitario. Ciò che gli è
indissolubilmente proprio è il ricorso sistematico a una violenza di tipo nuovo. La violenza cui
ricorrono sia il nazismo che lo stalinismo è una violenza permanente, tale da suscitare
costantemente un terrore che deve indurre tutti i cittadini a piegarsi alla volontà del partito
dominante e del suo capo. L’introduzione del concetto di “nemico oggettivo” è per il funzionamento
dei regimi totalitari molto più importante della definizione ideologica delle rispettive categorie. La
categoria dei nemici oggettivi sopravvive ai primi nemici del movimento, determinati
ideologicamente. Prevedendo il completamento dello sterminio degli ebrei, i nazisti avevano già
adottato le misure preliminari necessarie per la liquidazione del popolo polacco, e Hitler progettava
addirittura la decimazione di certe categorie di tedeschi (Arendt qui allude a malati di mente,
handicappati). La scelta di tali categorie non è mai interamente arbitraria; poiché viene utilizzata per
la propaganda del movimento all’estero, deve cadere su gruppi la cui inimicizia possa apparire
plausibile. Il concetto di “nemico oggettivo”, la cui identità varia secondo le circostanze (di modo
che, appena liquidata una categoria, si può dichiarar guerra a un’altra), corrisponde esattamente alla
situazione di fatto ripetutamente sottolineata dai dittatori totalitari: il loro regime non è un governo
tradizionale, bensì un movimento, la cui avanzata incontra sempre nuovi ostacoli che devono essere
eliminati. Supposto che si possa parlare di un pensiero giuridico totalitario, si può dire che il
“nemico oggettivo” ne è l’idea centrale. Ciò che è straordinario è l’efficacia di questo sistema di
governo attraverso il terrore, assai più importante, per Arendt, delle forme di propaganda. Coloro
che vengono risparmiati da questo sistema sono spinti da una pulsione irrefrenabile a conformarsi
alle condotte volute dal potere totalitario, nella speranza di essere identificati come “leali cittadini”
e non come potenziali nemici interni: “l’elemento sconcertante nel successo del totalitarismo è
piuttosto la genuina abnegazione dei suoi seguaci: può essere comprensibile che un nazista o un
bolscevico non si senta scosso nella sua convinzione da crimini contro persone che non
appartengono al movimento o addirittura gli sono ostili; ma lo stupefacente è che non tentenni
quando cominciano a esser colpiti i suoi compagni di fede, e neppure quando è lui stesso a cader
vittima della persecuzione, a esser condannato sulla base di accuse inventate, espulso dal partito e
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non si soffermano particolarmente sull’uno o sull’altro dei pensieri illuministi, ma in modo un po’
apodittico indicano quella che a loro sembra l’essenza del pensiero illuminista: ovvero una sorta di
ipertrofia della razionalità umana in base alla quale si accarezza l’idea di poter dominare
pienamente le forze della natura, liberandosi così dagli incantesimi della fede e del mito, e aprendo
all’unanimità la strada per un inarrestabile progresso. Tale dinamica trova molteplici espressioni,
che favorisce l’impoverimento l’intellettuale delle masse. Dall’altro lato sollecita anche
l’identificazione di capri espiatori collettivi. Senza citare il lavoro di Horkheimer e Adorno, anche
Talmon ritiene che le origini del male totalitario debbano essere investigate a partire dalla filofosia
illuminista. Inoltre, come Rousseau spiega nel “Contratto sociale”, una sola è la “volontà generale”
dalla quale devono nascere gli organismi istituzionali di una nuova società politica, più libera e
giusta delle monarchie o delle tirannie del passato, in questa nuova società non possono essere
ammesse divergenze, o contrasti di maggioranze e minoranze. Chi pensa diversamene dalla
maggioranza che esprime l’unica “volontà generale” non pensa soltanto un’idea diversa: pensa
un’idea “sbagliata” in quanto non conforme alla volontà dei più. Percorsi concettuali come questi
fondano, sin dal XVIII secolo, l’idea di una possibile società politica non pluralistica, appoggiata a
un “momento della maggioranza”. Il proposito di Talmon è indagare a fondo il messianismo politico
settecentesco portando alla luce un’evoluzione della politica che dall’armonia etica e dalla felicità
universale dei philosophes porta al totalitarismo di tipo comunista: “la differenza essenziale tra le 2
correnti di pensiero democratico (liberale e messianico-totalitaria) nel loro sviluppo consiste, come
spesso si sostiene, nell’affermazione del valore della libertà da una parte e nella sua negazione
dall’altra. L’orientamento liberale sostiene che la politica procede per tentativi ed errori, e considera
i sistemi politici espedienti pragmatici escogitati dall’ingegno e dalla libertà dell’uomo. Il pensiero
democratico-totalitario, dall’altra parte, si basa sull’asserzione di una sola e assoluta verità politica.
6. Sviluppi recenti
La tipologia di Friedrich e Brzezinski ha il vantaggio della chiarezza e della semplice applicabilità.
Tuttavia sconta subito un elemento di grave debolezza, ovvero l’idea dell’immodificabilità di un
regime totalitario che, secondo i 2 politologi, può cadere solo ad opera di un intervento esterno.
Quest’evoluzione storica dell’Urss comporta una crisi della teoria del totalitarismo, soprattutto nella
versione Friedrich-Brzezinski e soprattutto in ambito politologico. E così, dagli anni ’70 del XX
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De Felice ha spiegato meglio la sua posizione nei confronti della teoria del totalitarismo. Alla metà
degli anni ’30 egli vede in atto un processo di “progressiva totalitarizzazione” del regime fascista. 2
aspetti: la centralità della figura del capo e il dominio della politica sull’economia, un tratto che,
invece, avvicina molto il fascismo ai 2 totalitarismi “canonici”. Al regime fascista, per essere
veramente totalitario, non solo mancava il ricorso sistematico al terrore di massa e, quindi, al
sistema concentrazionario, ma esso non mirò mai o non riuscì a realizzare compiutamente nessuno
degli aspetti caratterizzanti un regime totalitario vero e proprio. Non mirò mai né a una compiuta
transizione dallo stato di polizia, né tantomeno a realizzare il controllo totalitario del partito dello
stato. Muovendosi con maggiore decisione nel solco tracciato dal suo maestro, Emilio Gentile,
invece non ha dubbi nell’ascrivere anche il fascismo italiano all’universo dei totalitarismi. Anche
Gentile sostiene che il fascismo fu un esperimento politico nuovo generato dai conflitti della
moderna società di massa. È stato il primo partito milizia che ha conquistato il potere in una
democrazia liberale europea, con il dichiarato proposito di distruggerla. Propaganda del mito,
azione violenta delle milizie, ruolo e centralità del duce, inammissibilità di opinioni diverse da
quelle previste dall’ideologia ufficiale sono tutti elementi che inducono a considerare anche il
fascismo italiano come una variante del totalitarismo contemporaneo. Nondimeno, Gentile ritiene
che la spinta totalitaria sia quella dominante, e ne segue il percorso, più evidente nella seconda metà
degli anni ’30: con la creazione della Gil (Gioventù Italiana del Littorio), nel ’37 “il partito assunse
il monopolio della formazione delle nuove generazioni, dall’infanzia alla maturità”. Nella
costruzione del regime fascista, fu attiva e operante la volontà di trasformare fondamentalmente
l’ordine esistente in funzione di un’ideologia, anche se il processo di trasformazione seguì vie, ritmi
e tempi diversi da quelli di altri esperimenti totalitari. Il fascismo è stato storicamente l’unico dei
regimi a partito unico del XX secolo che si è autodefinito come stato totalitario, riferendosi con ciò
alla sua concezione della politica e al suo regime di tipo nuovo, fondato sulla concentrazione del
potere nelle mani del partito e del suo duce, e sull’organizzazione capillare delle masse. Quanto alle
obiezioni di chi, come Alberto Aquarone o Domenico Fisichella, ha visto nella chiesa cattolica o
nella presentazione della monarchia dei baluardi che limitano le pretese totalitarie del regime,
Gentile replica: “la storia dell’esperimento fascista è una storia di continue tensioni, resistenze e
conflitti. Certamente, l’esperimento totalitario incontrò nel corso della sua attuazione numerosi
ostacoli nella società: ma le ricerche più recenti, e in particolare quelle da me compiute sul partito e
sul regime fascista, dimostrano che alla vigilia della seconda guerra mondiale lo stato fascista era
certamente molto più totalitario di quanto non lo fosse alla fine degli anni ’20. Nessun’opposizione
minacciava seriamente, all’interno del paese, la stabilità e il funzionamento del laboratorio
totalitario, anche se ancora si favoleggia di una monarchia che, nei confronti del fascismo, avrebbe
“agito costantemente come freno e contrappeso alle spinte liberali” del fascismo (Domenico
Fisichella). In realtà, nella cosiddetta “diarchia” fra il duce e il re, Mussolini, dopo la fine del
regime fascista, invocava per attenuare le proprie responsabilità di dittatore, il potere effettivo era
nelle mani del duce, mentre il re, pur rimanendo formalmente il capo dello stato, non seppe o non
riuscì mai né a prevedere né a frenare il sistematico smantellamento dell’ordinamento costituzionale
fondato sullo statuto albertino.”. La Arendt esclude il fascismo italiano dalla tipologia costruita nel
suo “Le origini del totalitarismo”, una scelta che Gentile liquida – con qualche buona ragione –
come dettata da pura e semplice mancanza di conoscenze sul regime mussoliniano. Sebbene il
fascismo-movimento si imponga con un sistematico ricorso all’uso della violenza politica, e
sebbene nel fascismo-regime l’Ovra controlli i comportamenti dei cittadini, e la limitazione della
libertà d’espressione sia massima, non sembra si possa dire che appartenga al fascismo il ricorso
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permanente e sistematico al terrore violento come strumento di governo (almeno non nella stessa
misura e con la stessa inesorabilità amministrativa che sono proprie di nazismo e comunismo).
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accademico italiano che alla metà degli anni ’70 ha un tasso di femminilità piuttosto basso e – nella
maggior parte dei casi – ostenta un completo disinteresse per la storia delle donne o per i dibattiti
teorici stimolati dalla formazione del movimento femminista.
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questi rapporti ineguali si trasferiscono alla legislazione, alla pratica e alla rappresentazione stessa
della lotta politica. La ricerca sociale non può più fare a meno di considerare le donne; “non
esistono aree, zone, ambiti di attività umana che siano genderless (estranei alle relazioni di genere).
per questo è particolarmente fuorviante considerare come valida la distinzione tra pubblico e
privato. La strutturazione del privato ha un carattere politico (ci vogliono norme, consuetudini, ma
anche vere e proprie leggi per regolare i rapporti privati ); inoltre, il campo del privato (anche del
privato più intimo, come quello che attiene alla sessualità) implica rapporti di forza, i quali, a loro
volta, devono trovare legittimazione in discorsi, immagini, valori e strutture normative che i sistemi
politici e legislativi, i media e i sistemi educativi, si preoccupano di diffondere. I Gender Studies
offrono strumenti di riflessione che servono proprio a questo: a svelare in che modo sono stati
costruiti i rapporti di potere tra uomini e donne.
1. Premessa
Negli ultimi decenni, sociologi, politologi ed economisti hanno cominciato a impiegare il termine
“globalizzazione” per indicare un processo planetario di crescita degli scambi economici e
finanziari, di aumento della mobilità transazionale di persone etc. Nel descrivere la globalizzazione,
diversi studiosi hanno posto una particolare enfasi soprattutto sugli aspetti economici, tra i quali
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specialmente rilevanti sarebbero: 1) l’imporsi dell’ideologia del libero mercato, con una vasta
semplificazione delle regole che disciplinano i rapporti commerciali, finanziari e produttivi
internazionali; 2) la diffusione di modelli di consumo uniformi su scala mondiale, veicolate da
media potenti come la tv e internet; 3) la compressione dei concetti di spazio e di tempo, favorita
dalla riduzione dei costi telefonici, dei costi dei viaggi aerei etc.; 4) il grande e costante sviluppo dei
movimenti migratori, che si muovono lungo un sistema di percorsi articolati che attraversa tutto
quanto il globo. A tale dominio economico è sembrato corrispondere anche una crescente egemonia
politica occidentale, in particolare americana. Tuttavia, anche tale superiorità ha subito sfide
significative, in gran parte provenienti da movimenti islamici radicali globali, come Al-Qaeda.
Infine, il termine globalizzazione indica piuttosto una tendenza che una realtà integralmente
compiuta, poiché il processo d’integrazione finora è stato parziale. 1) Il processo di globalizzazione
è un fenomeno che può essere osservato solo nel periodo che va dal ’45 a oggi, o si possono
individuare tendenze di più lungo termine; 2) quali sono le implicazioni politiche e culturali
dell’intensificazione delle relazioni globali: gli stati nazionali, al proposito, hanno ancora
significativo di denazionalizzazione); 3) e se è così, cosa prende il posto degli stati-nazione?
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capitalismo storico è forse complesso, ma un primo calcolo in termini di distribuzione materiale, dei
beni e di collocazione delle energie è, secondo me, molto negativo.”.
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spirito della scienza si applica liberamente ai processi produttivi. Viceversa, tutto ciò che offende i
diritti dell’uomo, come i sistemi totalitari, che condannano al fallimento. Chi poteva confrontare il
degrado economico raggiunto dalla società sovietica negli anni ’70 col benessere delle società
democratiche occidentali, ne ricavava la sensazione di un grave fallimento dell’esperienza
comunista. Di fronte a queste esperienze fallimentari brilla invece la parabola vincente delle liberal-
democrazie, un modello che è in evidente diffusione in tutto il pianeta. La tesi di Fukuyama è stata
ripresa e criticata da Samuel P. Huntington, prima con un saggio edito nel ’93, “Scontro tra le
civiltà?”, e poi con un volume pubblicato nel ’96, “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine
mondiale”. Huntington concentra la sua analisi sulle fratture di civiltà, sostenendo che i conflitti
successivi alla fine della guerra fredda si sono verificati con maggiore frequenza e violenza lungo le
linee di divisione culturali, o di civiltà, e non per contrasti politico-ideologici, come accadeva
prima. Sono delle comunità che condividono tratti culturali specifici, sentiti come fondamentali per
la strutturazione delle identità individuali e collettive. Sangue, lingua, religione e modo di vita sono
elementi essenziali per l’identificazione di questi gruppi. Nondimeno, di tutti gli elementi formali
che definiscono le civiltà, il più importante è generalmente la religione. Quasi tutte le maggiori
civiltà della storia dell’umanità sono state strettamente identificate con le grandi religioni del
mondo. Esiste, inoltre, una certa corrispondenza tra le civiltà, identificate attraverso fattori culturali
-, e le razze – intese come unità di classificazione bio-fisica delle comunità umane. Civiltà e razza
sono concetti equivalenti: popoli di eguale razza possono essere divisi da civiltà assai diverse, e
popoli di razze diverse possono appartenere alla medesima civiltà. In particolare, le società razziali
molto eterogenee. Il fatto che le civiltà si strutturino intorno a fattori culturali di identità e di
appartenenza non rende i confini mentali che le separano meno rigidi dei confini fisici o geografici.
In questo processo d’irrigidimento il fattore religioso ha un ruolo assolutamente essenziale e se i
leader politici occidentali sottovalutano questa tendenza c’è il serio rischio che l’occidente – inteso
come insieme di comunità politiche appartenenti a un’unica civiltà – possa perdere il suo
predominio sul mondo. Via via che acquisiscono sempre maggiore potere e sicurezza di sé, le
società non occidentali tendono a difendere sempre più strenuamente i propri valori culturali e a
rifiutare quelli "imposti” dall’occidente. La tesi di fondo questo saggio è che la cultura e le identità
culturali – che al livello più ampio corrispondono a quelle delle rispettive civiltà – siano alla base di
processi di coesione, disintegrazione e conflittualità che caratterizzano il mondo post-guerra fredda.
Con sensibilità politica del tutto diversa da Huntington, Michael Hardt e Antonio Negri nel 2000
hanno pubblicato un saggio, “Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione”, nel quale, seguendo
un’impostazione di stampo neo-marxista, hanno descritto in tutt’altro modo i nuovi rapporti di forza
scaturiti dalla fine della guerra fredda e dai processi di globalizzazione. Ciò che emerge dalle
trasformazioni degli ultimi decenni è – secondo loro – “un nuovo ordine globale, una nuova logica e
una nuova struttura di potere”. C’è il declino della sovranità dei singoli stati-nazione, sostituiti da
un sistema reticolare di organismi nazionali e sovranazionali che i 2 autori chiamano “impero”. Il
termine è certamente molto familiare a tutti, ma si tratta di qualcosa di nuovo e peculiare: si tratta di
un apparato decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l’intero spazio
mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. Né gli Usa, né alcuno stato-
nazione costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista. L’imperialismo è finito.
Nessuna nazione sarà un leader mondiale come lo furono le nazioni europee moderne. Com’è fatto,
dunque, questo “impero”? È un sistema politico che non ha confini, non ha un vero centro ed è
composto da una sorta di informale federazione di soggetti; la struttura effettiva viene descritta dai
2 autori ricorrendo alla tipologia della costituzione mista, che combina e intreccia le sue tradizionali
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