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Riassunto de Consumo Cultura E Società dellaSassatelli

Sociologia dei consumi (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo)

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CONSUMO, CULTURA E SOCIETÀ – Roberta Sassatelli

Introduzione

La possibilità di ogni cultura di essere tramandata e divenire essa stessa oggetto di riflessione e
crescita culturale è legata alla diffusione di supporti materiali atti a fissarla, ed è mediante il
consumo di questi oggetti che una cultura può circolare oltre i confini del gruppo che ne è
originariamente depositario.

Lo scambio di merci e doni è una pratica comune a tutte le società dall’alba dei tempi. La definizione
“società dei consumi” è spesso usata in modo negativo e moralistico, non sempre a ragione.
Nonostante forme di capitalismo siano esistite in ogni epoca, quello che fa della nostra una società
capitalistica è il fatto che il consumo è una pratica a sé, separata dalla sfera del lavoro. Questo a causa
del lavoro salariato, divenuto tanto prezioso da richiedere una separazione tra esso e lo svago.
“La sfera dello scambio è il ponte tra lavoro e consumo, legittimato in maniera assoluta
dall’economia monetaria, la quale ha soppiantato il baratto e reso gli scambi più agevoli”.
La Pubblicità, in questa sfera a se stante del consumo, ricama intorno alle merci un mondo di
significati che le rendono vendibili. Nonostante il cinismo di questa società, si tenta sempre di
occultare il lato materialista delle merci affinché non vada a intaccare i rapporti sociali.

Parte prima – Nascita e genesi della società dei consumi

Varie ipotesi hanno tentato di individuare un primo stadio del capitalismo:


- “L’espansione europea verso le Americhe ha avuto a che fare col pepe, non con la religione”
- Mentalità calcolatrice dei borghesi del Sei-Settecento, ispirati dall’ascetismo calvinista
- Ascetismo che d’altra parte vede l’edonismo e lo spreco per consumare queste merci
Tuttavia, queste prendono in considerazione solo l’aspetto offerta/domanda, considerando il consumo
un’attività passiva che ignora come il valore economico si costruisca culturalmente. Per inquadrare
complessivamente la società dei consumi occorre tenere in considerazione più fattori: scoperte
coloniali, le stoffe, le automobili, la connotazione ludica del consumo, la moda. A ciò si uniscono
principi generali moderni come l’impersonalità dei rapporti sociali e l’idea che i bisogni umani
siano infiniti e che ognuno debba trovare un suo stile personale per distinguersi.

CAPITOLO 1 – Capitalismo e Rivoluzione dei consumi

Per molto tempo, sociologia e storiografia hanno pensato che la società dei consumi fosse una diretta
conseguenza novecentesca della rivoluzione industriale, una risposta culturale alla trasformazione
economica. A partire dallo storico francese Fernand Braudel (1979), la cultura materiale ha avuto un
ruolo centrale in questi processi. Si scoprì che questo processo storico iniziò prima dell’Ottocento.
Già dal Seicento assistiamo a una diffusione di beni lavorati e distribuiti commercialmente (quadri,
ceramiche) e a un consolidarsi di sostanze eccitanti o rilassanti come tabacco, caffè e cacao, che
modellano le abitudini della società (anche se non venivano prodotti in massa).
Questa visione produzionista è stata abbandonata in seguito agli studi di Neil McKendrick (1982),
Colin Campbell (1987) e Jan De Vries (1975), in una svolta antiproduzionista.
Oltre a retrodatare la rivoluzione della domanda dal Settecento a metà Seicento, ognuno di loro cerca
di dimostrare come sia stata la domanda, e non la produzione, la chiave dello sviluppo di tale società:

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 Neil McKendrick sostiene che “la rivoluzione dei consumi è il corrispettivo della rivoluzione
industriale” e colloca la rivoluzione dei consumi a metà del Settecento in UK. Va vista nel
quadro di società meno gerarchica e più flessibile, come aspirazione di status delle classi
borghesi verso la nobiltà. Esistevano già imprenditori che utilizzavano moderne tecniche di
vendita; Josiah Wedwgood, ad esempio, sponsorizzava le sue porcellane tra le case reali e si
serviva dell’aura creata dai grandi per venderle ai nuovi ricchi. La spiegazione che dà della
nascita della società dei consumi è prettamente consumista: l’industrializzazione è effetto, e
non causa, dei desideri di consumo. L’ostentazione e emulazione dello status è la chiave della
sua teoria, la quale non indaga sui valori e motivi che spingevano i borghesi al consumo.

 Colin Campbell offre invece una spiegazione modernista1. Ritiene che l’ostentazione sia un
elemento trascurabile nel consumo. Ciò che muove i desideri dei consumatori è piuttosto un
atteggiamento estetico di stampo romantico che porta a una edonistica ricerca della novità
(tipica naturalmente dell’epoca contemporanea). Il consumatore “si allontana dalla realtà non
appena la incontra” e sposta sempre più in là i suoi sogni e desideri. Edonismo immaginario e
potenzialmente infinito. Colloca la rivoluzione dei consumi tra le fine del Settecento e gli inizi
dell’Ottocento. In questo processo di creazione di mondi immaginari, gli oggetti sono
apprezzati per i loro significati e le loro immagini, rendendo possibile e necessaria una
costante innovazione. È un edonismo nuovo, diverso da quello legato ai piaceri sensoriali
degli antichi. I piaceri, ora, sono dell’immaginazione. Vi è inoltre un controllo delle emozioni
derivato dall’ascetismo protestante, il quale ha permesso la moderna concezione di piacere,
incentrata sulla capacità di contemplare oggetti e manipolarne i significati 2. A Campbell
sfuggono tuttavia i processi che rendono certe fantasie più adatte ad alcuni soggetti a seconda
di genere, razza, sessualità ecc.

 Jan De Vries teorizza la nascita della società dei consumi in una visione scambista. Sul finire
del Seicento la spesa per i consumi crebbe anche a fronte di un crollo dei salari dovuto alla
riallocazione di risorse produttive all’interno delle case. Anziché ridurre i consumi, le famiglie
hanno iniziato a lavorare più ore per produrre oggetti e avere il denaro per acquistare altri
oggetti voluttari (rivoluzione industriosa sospinta da incentivi commerciali che hanno
preceduto e agevolato la rivoluzione industriale). L’idea di “consumatore” nasce in questa
epoca. La società dei consumi sarebbe dunque nata grazie all’opportunità e necessità di
partecipare agli scambi monetari. Questa teoria mostra come produzione e consumo sono due
facce della stessa medaglia, ma ha il limite di non tener abbastanza conto del valore culturale
delle merci.

TESI (AUTORE) FATTORI GRUPPI SOCIALI SECOLI


Rivol. Ind. – Merci
Produzionista standardizzate e Classi lavoratrici 1800 – 1900
economiche

Nel saggio “l’etica romantica e lo spirito del consumismo”, ispirato al saggio di Max Weber.
2

Il Dandy è la figura più rappresentativa di tutto ciò, e la ritroviamo nel ritratto di Dorian Gray.

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Antipr.
Consumista - Sistema promozionale Classi medio - alte 1700
McKendrick – dimostrazione status
Antipr. Edonismo
Modernista - Campbell immaginario Donne – Classi medie 1700 – 1800

Rivoluzione Famiglie – Classi


Scambista (De Vries) industriosa - medie 1600 – 1800
commercio

Nonostante la loro importanza, queste teorie pretendono di spiegare la nascita della società dei
consumi in modo troppo rigido e univoco. Il capitalismo è oggi spiegato attraverso l’unione di vari
fattori già presenti in varie società e in diverse epoche. Colonialismo, trasporti, globalizzazione,
nuove etiche, nuove tecnologie ecc. sono solo alcuni dei fattori che hanno creato questa società.
Il sociologo storico Werner Sombart spiega l’origine del Capitalismo combinando fattori di crescita
economica relativi alla produzione con quelli relativi al consumo.
Egli fa rinvenire le prime tracce già nel Trecento, dove l’accumulo del capitale era destinato non più
all’economia feudale, bensì al commercio, sfruttamento delle colonie e prestito di denaro. Questo
allargamento geografico di intessi ed esigenze è però solo un aspetto. Un elemento parallelo sono il
tipo di merci commercializzate: i beni voluttari. La diffusione di merci non necessarie ha reso
necessario una nuova organizzazione del commercio e della cultura e società (orientamento
edonistico-estetico verso gli oggetti). L’alta borghesia tenta di mescolarsi alla nobiltà imitandone i
gusti e la raffinatezza. Sombart si concentra inoltre sulla razionalizzazione del consumo, ossia la
gestione e addomesticamento del lusso grazie al quale la ruota del commercio gira sempre. Tutti
questi fattori trovano la loro massima espressione nella grandi capitali commerciali, come Amsterdam
e Londra. Prende inoltre piede la figura della cortigiana, esempio di raffinatezza e cultura ed esperta
conoscitrice dei piaceri terreni.
La corte è dunque il luogo simbolo della gestione e promozione del lusso. Il canadese Grant
McCracken ha individuato il tentativo di Elisabetta I (metà '500) di centralizzare il proprio regno
utilizzando la magnificenza di corte come motore dell’incremento dei consumi. I nobili, attirati
all’interno della corte, devono confrontarsi solo con se stessi e tenere il passo delle stravaganze
cortigiane. Le corti hanno inoltre un ruolo centrale in quanto sono al centro di casse di risonanze
importanti come le città europee. Nel Settecento nascono poi le vetrine, dove la merce ha un ruolo da
protagonista e non è più rilegata nel retrobottega, ma viene anzi spettacolarizzata per attirare il
cliente. Nascono a Milano, Londra, Parigi e New York gallerie commerciali e grandi magazzini,
massimo esempio di spettacolarizzazione del commercio (consumo come attività ludica). Si
diffondono riviste per guidare il consumatore, e i beni voluttari non sono più legati ai capricci dei
ricchi, ma diventano appannaggio di tutti. Vi è una democratizzazione delle merci non più legate ai
capricci dei ricchi e legata ora alla moda.
George Simmel (1895) nota come la moda abbia (nelle donne) una doppia funzione: da un lato la
standardizzazione dei costumi, dall’altro diversificazione individuale, con il singolo che tenta di
separarsi dalla massa. Le donne, insomma, per compensare alla loro debolezza storica trovano rifugio
nella moda. Secondo Thorstein Veblen la moderna separazione tra produzione e consumo deriva
proprio da quel periodo, dove l’uomo produceva e la donna era rilegata alla sfera del consumo.
Vi è infine una netta separazione tra edonismo (fannulloni- cioccolata) e ascetismo (caffè – lavoro).

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CAPITOLO 2 – La produzione culturale del valore economico

Flussi di merci, flussi di coscienze_ per capire la società dei consumi contemporanea bisogna
considerare un lungo processo a in cui i consumi si svincolano dalla stratificazione sociale e vengono
dettati dalla moda e da esperti che decidono cosa è di buon gusto.
L’antropologo Arjun Appadurai ha mostrato che la rivoluzione tecnologica del capitalismo ha come
base una cultura di consumo materiale. Flussi culturali e materiali sempre più vasti hanno portato a
nuovi spazi per la costruzione del valore molto variegati e complessi. In questo processo in cui è al
consumatore è richiesta una conoscenza profonda della merce, fioccano ad esempio i libri di cucina
che ricostruiscono le tradizioni nazionali e locali e che servono a orientare meglio il consumatore.
La sociologa Chandra Mukerji ha sostenuto che le moderne pratiche di consumo hanno come
precursore la rivoluzione commerciale del Cinque-Seicento. Le nuove merci esotiche spinsero gli
europei ad ampliare le capacità di classificazione culturale, orientandosi verso il modello
consumistico di stampo materialista. Occorreva dare a queste merci un nuovo significato, facendole
diventare merci dal valore economico. A ciò si unì il protestantesimo, dando forma alla moderna
società capitalista. Entrambi gli studiosi evidenziano dunque come il valore economico delle merci
sia un prodotto culturale. I discorsi e le retoriche normative riguardo le merci servono a etichettarle e
a decidere quali sono di prima necessità, o voluttarie, di buono o pessimo gusto e così via. In questo
mondo, edonismo e materialismo sono due facce della stessa medaglia e mirano all’accumulo di beni
materiali resi poi parte attive dell’attività sociale.

La categoria del consumo e la vita sociale delle merci_ Alla fine del Seicento si assistette alle
prime forme di capitalismo moderno, con il consolidarsi del consumo come stile di vita borghese. Il
consumo viene isolato come categoria significativa e parte centrale del discorso pubblico in UK.
Prima, la categoria usata per discriminare il buono dal cattivo era quella del lusso. Già presente in
antichità, a fine Seicento viene discusso in chiave politico-economica anziché morale (“buono o
cattivo che sia, fa girare l’economia”). Questo processo ne riflette un altro: i beni voluttari, slegati ora
da regolazioni legale-politica (leggi suntuarie) è ora unito a forme economico-culturali legate alla
moda: privatizzazione della sfera del consumo e separazione sempre più netta tra produzione e
consumo. Bernard De Mandenville su The Female Tatler, periodico del Settecento, incarna lo stile
di vita dell’epoca con personaggio fittizio, Urbano, che di giorno si ingegna per ammassare ricchezza
e poi si gode i piaceri la maggior parte del tempo. Doppia connotazione del consumo: positivo se
serve alla crescita produttiva, scambi e al raffinamento di se stessi, negativo in caso contrario. È in
questo periodo che nasce una nuova figura sociale: il consumatore.
Wolfgang Shivelbusch, studiando la diffusione del caffè tra Sei e Settecento, mostra come questa
bevanda fosse carica di diversi significati. Per la borghesia era associato al puritanesimo protestante,
sobrietà e operosità (a differenza dell’alcool). Più avanti entra dentro le case, significando non più
lavoro ma calore delle mura domestiche. La cioccolata, d’altro canto, è simbolo di cultura cattolica e
stile di vita cortigiano e ozioso. Più avanti ancora i cioccolatini si regaleranno alle donne, come se la
borghesia volesse prendere in giro quello che un tempo apparteneva solo alla nobiltà.

La società dei consumi come tipo storico_ è tra fine Ottocento e il secondo dopoguerra che si
concentrano la maggior parte dei studi sulla società dei consumi contemporanea (i primi sulla
diffusione di grandi magazzini e spazi pubblicitari, i secondi con l’avvento di elettrodomestici e beni
durevoli per uso domestico). Tra i vari studi, Dream Worlds di Rosalynd Williams (1982) mostra
come siano stati i grandi magazzini a fine Ottocento a segnare il nostro modo di consumare. Lo

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shopping diventa una pratica socialmente accettata, dove ognuno è consumatore e può trarre piacere
dall’acquisto di merci e dall’ammirazione degli spazi costruiti ad hoc per lui. Strategie pubblicitarie
fanno sì che si crei l’insorgenza di un desiderio costante.
Nel secondo dopoguerra tutto si consolida. La diffusione di automobili, televisori ed elettrodomestici
serve a omologare la cultura di massa e a dettare un codice sociale condiviso da milioni di persone.

Parte seconda – le teorie dell’agire di consumo

Per molto tempo, è stata l’economia a spiegare le dinamiche dei consumi. Il suo limite è stato però
quello di vedere queste dinamiche in una concezione imprenditoriale e individualistica, trascurando la
sfera sociale. Con la nascita della sociologia dei consumi nell’Ottocento, i primi studiosi hanno
individuato una logica distintiva: consumo come mezzo per guadagnare uno status sociale. Nel
secondo dopo guerra, con le innovazioni già accennato, l’attenzione si è invece spostata sulla
comunicazione di massa e la sua manipolazione verso il consumatore. Più recentemente, questa
visione è stata rivalutata, riconoscendo al consumatore molta più criticità.

CAPITOLO 3 – Utilità a competizione sociale

Con Adam Smith (fine Settecento) il consumo viene isolato come fenomeno a sé stante, separato
dalla produzione. In quell’epoca, con la scarsità di risorse, il consumo appare come il fine ultimo,
esito culturale dei processi produttivi. Un altro economista, Malthus, sosteneva che la produzione
dipende bastano i capitalisti o i lavoratori, ma serve una gran quantità di “consumatori improduttivi 3”.
Le teorie economiche neoclassiche dell’Ottocento vedono il consumatore in un’ottica meccanicistica.
Le sue scelte sarebbero orientate verso una massimizzazione dell’utilità, acquistando solo ciò che gli
è utile senza farsi condizionare troppo da altri fattori sociali. Naturalmente, la teoria trascura tre
problemi:
- Formazione o standardizzazione delle preferenze anche e soprattutto in quanto legata
all’interdipendenza sociale e culturale
- Le caratteristiche qualitative dei beni: il rapporto soggetto/oggetto nella sua concretezza
socioculturale
- La questione del potere, del controllo e del bilanciamento dell'informazione
Queste tre carenze e l’atomismo del consumatore daranno l’input alla nascente sociologia dei
consumi.
Le scienze economiche hanno poi tentato di introdurre qualche forma di caratterizzazione sociale del
consumatore. La macroeconomia4 con Duesenberry ha suggerito che fosse il reddito relativo 5 a
influenzare la domanda (dove c’è tanta mobilità sociale, le classi più meno vogliono dimostrare lo
status: ciò stimola la domanda anche dove i redditi reali non crescono). Anche nella microeconomia 6,
3

Medici, servi, uomini di governo, giudici, soldati, sacerdoti.


4

Parte dell’economia interessata a considerare i fenomeni economici aggregati, nel caso specifico le determinanti
della spesa totale per il consumo.
5

Ossia mediato dalla posizione sociale e da effetti dimostrativi.


6

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Liebenstein ha rilevato i motivi di emulazione e dimostrazione di status come input al consumo 7. Ai


due studiosi è stata criticata scarsa attenzione verso la simbologia dei beni e altri significati culturali
che sono centrali nelle dinamiche della domanda, oltre al carattere istituzionale e situazionale. Anche
se studiosi come Amartya Sen hanno tentato di dare sempre più spazio a varia dinamiche sociali, la
teoria economica dominante è ancora dominata da approcci atomistici e strumentali. È il caso di
Gary Becker, che sebbene ricollochi il consumatore all’interno della sfera sociale e culturale,
ponendo l’accento sul capitale umano, sociale e personale, in realtà vede ancora il consumo come una
pratica individualista, negando il carattere creativo e processuale.

I limiti della razionalità economica_ La teoria di Becker è l’esempio delle tendenze imperialiste
dell’economia neoclassica, che una volta accortasi delle difficoltà che comportava l’esclusione dei
fattori socioculturali, li ha semplicemente inglobati dentro la propria sfera logica troppo legata a
individualismi strumentali. Il consumo è visto come mera decisione di acquisto, un calcolo razionale.
Quando acquistiamo oggetti fuori moda, ad esempio, non siamo spinti da un’idea funzionalista del
prodotto, ma lo stiamo rivestendo di un nuovo significato che esula i modelli economici neoclassici
(effetto Diderot coniato da Grant McCracken: i beni hanno significato solo in relazione ad altri beni).
Anche fare la spesa o andare i ristorante rientrano nella sfera culturale del consumo insieme a molte
altre pratiche quotidiane alle quali spesso non facciamo caso.

Moda, stile e consumo vistoso_ George Simmel fu tra i primi a interrogarsi su come si arrivi a
formulare giudizi di valore e quali logiche socioculturali ci siano dietro. Nella sua Filosofia del
denaro (1907) afferma che il valore delle cose dipende dalla valutazione che ne dà il soggetto e non è
fondato su un dato oggettivo come le sue proprietà materiali o la quantità di lavoro necessaria per
produrlo; valore che è poi inserito in un più ampio contesto storico e culturale. Molta importanza è
data alla moda, la quale ha un doppio effetto: coesione e differenziazione, soprattutto nelle grandi
città. La moda è fascino della novità per la borghesia e le conferisce l’opportunità di mettersi in
risalto senza avere alle spalle una lunga tradizione, come nel caso dei nobili. Anche McCracken ha
sostenuto che la moda ha sostituito quello che nelle società tradizionali era la patina, un modo diverso
di attribuire il valore. Anche la ricerca di uno stile personale è sempre un modo per affermare noi
stessi. La moda, per Simmel, ha un effetto trickle down, ossia come uno sgocciolamento dall’alto
verso in basso dettato da classi superiori.
Thorstein Veblen nel suo La teoria della classe agiata prende ancora una volta di mira
l’impostazione neoclassica, osservando come accanto ad azioni di consumo strumentali operano
processi cerimoniali e onorifici. Il valore di alcuni beni è determinato dalla loro capacità di
evidenziare una posizione sociale. Ciò segnala la distanza dal mondo delle necessità pratiche. Man
mano che la borghesia ha accesso a quelle merci, i ricchi si avvarranno di merci sempre più originali
e costose, e così ciclicamente.
Secondo storici ed economisti, Veblen ha fornito un quadro troppo generale e poco chiaro, facendo
poi notare come in alcuni contesti può essere la sobrietà, e non l’ostentazione, a essere utilizzata
come forma di distinzione. Il modello dell’emulazione passa da un estremo all’altro e il consumo è
visto solo in una logica sociale: invidia come fondamento psicologico universale che non tiene conto
della diversità culturale nel campo del consumo. L’enfasi sull’invidia esclude poi la sfera della

Parte dell’economia che si occupa di modellare il comportamento individuale, e quindi l’azione di consumo.
7

Effetto Veblen: più alto è il valore della merce, più alto è il potere dimostrativo; Effetto Bandwagon e Snob: la
domanda di un bene o servizio aumenta o diminuisce man mano che altri consumatori sono interessati e lo consumano

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mimesi e identificazione. Infine, la sfera privata del consumo viene totalmente ignorata. Herbert
Blumer (1969) ha invece detto che “lo stile diventa moda non quando l’élite lo adotta, ma quando
corrisponde al gusto nascente di un pubblico che consuma moda” distaccandosi dal trickle down
effect vebleniano.

CAPITOLO 4 – Bisogni indotti e simulazione

Se il consumatore neoclassico è il sovrano del mercato e quello delle teorie sociologiche agisce in
base all’ambiente che lo circonda, è solo nel secondo Dopoguerra che viene presa in considerazione
la questione dell’influenza dei media. Il consumatore di questa teoria critica è schiavo delle merci,
compra perché è indotto a farlo e non perché vuole farlo

Dal feticismo alla teoria critica_ Queste idee in gran parte sono debitrici de Il Capitale di Marx e
alla teoria in base alla quale i bisogni sono indotti per manipolare le menti delle persone e far girare
fruttare gli interessi del capitalista, il quale sfrutta i lavoratori sottopagati che non godono neanche del
lavoro. Si concentra tuttavia troppo sulla struttura materiale (organizzazione/produzione) e poco su
quella culturale. Alla sfera della cultura è dedicata molta attenzione dalla Scuola di Francoforte, che
analizza in particolare “l’industria culturale”. Questa è un sistema a sé stante destinato alla
produzione di significati e pubblicità che vengono trasferiti nella vita quotidiana. Secondo Max
Horkheimer e Theodor Adorno (1947) i prodotti dell’industria culturale hanno la caratteristica di
creare prodotti omogenei (dietro apparente varietà) e prevedibili. Da qui prende le mosse anche
Herbert Marcuse (1964), il quale concettualizza il capitalismo come mezzo di dominio e
manipolazione, distorcendo quelli che sono i bisogni reali da quelli falsi, dove persino la ricerca di
novità rientra in questo processo e dove gli stessi operatori di mercato restano intrappolati in quello
che essi stessi creano. Similarmente, l’economista John Galbraith (e il polemista Vance Packard)
riflette sul potere del consumatore a favore dell’apparato produttivo, una sorta di trickle down effect
dove è questo apparato a dettare i ritmi (“i consumatori sono così lontani dal bisogno materiale e che
non sanno più ciò che vogliono”). Tuttavia, il rapporto tra produzione è biunivoco, dove marketing e
pubblicità devono adattarsi spesso alle esigenze dei consumatori e a tendenze che spesso sfuggono al
loro controllo (es. la Vespa in UK).

Naturalità, autenticità e resistenza_ Il limite di questi approcci critici è che separano nettamente
cultura e natura. Galbraith relega a una sorta di età dell’oro, quando i beni erano meno abbondanti, la
figura del consumatore che acquista responsabilmente solo quello che gli interessa (consumo
naturale). È tuttavia impossibile ritornare indietro fino a un presunto stato di natura: persino nella
preistoria i bisogni primari erano adornati dalla sfera culturale tanto demonizzata da questi critici.

Il post modernismo pessimista_ Il pessimismo culturale della teoria critica della Scuola di
Francoforte sfocia degli anni sessanta e settanta nelle prime teorizzazioni postmoderniste, le quali
sostengono che ormai la differenza tra materiale e simbolico è talmente sfumata da impedire alle
persone di orientarsi genuinamente nel mondo. Jean Baudrillard è uno dei massimi esponenti di
queste teorie (La società del consumo, 1970). Nel suo saggio sostiene che oggi la sfera del consumo
trionfa su quella della produzione. Baudrillard rimuove il ruolo primario del concetto di produzione,
contro l’idea (di origine marxista) che gli oggetti hanno un valore naturale originale, ribadendo che il
significato e il valore della merce è unicamente culturale. In una società dove gli oggetti si
configurano come un sistema globale di segni arbitrario e coerente, non si può capire il consumo

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considerando solo la relazione tra il consumatore e il bene, ma occorre considerare che essi sono
inseriti in un sistema molto più grande.
Disneyland è un esempio di creazione iperreale, noi godiamo cioè non del reale, bensì di un suo
segno estremo e tipizzato. Nonostante il considerare la cultura materiale come un sistema di segni che
i consumatori utilizzano, Baudrillard esagera nel considerare gli oggetti come unica realtà che
costituisce il soggetto e ne azzerano le capacità significatorie. Inoltre, le relazioni sociali (anche nelle
pratiche di consumo).

Relazioni sociali e consumi_ Baudrillard e la scuola critica considerano i consumatori come una
massa indistinta di individui in balia dei media, non tenendo conto che ognuno consuma in modo
diverso, se non altro perché ci sono distinzioni di età, genere, etnia e classe.
Pierre Bourdieu ha dimostrato che i nostri gusti, standardizzati dalla posizione sociale, si connotano
come un dinamico congegno di selezione del mondo che riproduce e sottolinea le nostre differenze
come consumatori (vedi le differenze nel mercato della salute tra le classe alta e gli operai). Anche
qui il consumatore passa da attore sociale attivo a spettatore tipizzato e astratto che gode di quello che
gli propinano i pubblicitari. Il consumatore di oggi è invece più che in grado di decodificare i
messaggi.

CAPITOLO 5 – Gusti, comunicazione e pratiche

L’approccio comunicativo del consumo si rifà agli studi antropologici degli anni settanta e ottanta,
quando un periodo di ristagno economico ha messo in luce ha fatto emergere gli sforzi dei
consumatori per utilizzare le merci in modo appropriato. Escono due studi sul consumo fondamentali:
La distinzione di Pierre Bourdieu (1979) e Il mondo delle cose di Mary Douglas e Baron
Isherwood (1979). Partono dalla considerazione che gli oggetti fungono sia da supporto materiale per
l’interazione sia da indicatori simbolici. Da qui parte la sociologia dei consumi come ramo a sé.

La distinzione sociale_ Per Bourdieu, il consumatore opera in base a una logica distintiva che ha
incorporato nel proprio gusto; non solo distingue per distinguersi, ma le proprie distinzioni lo portano
a essere distinto, incluso o escluso. L’azione umana è concreta e materiale, diversamente dalla
rappresentazione o scambio di segni e simboli, e deve essere intesa nei termini di imitazione e
incorporamento. Introduce a tal fine il concetto di habitus, che permette di concepire la corporeità
come precedente alla coscienza senza ricorrere all’essenzialismo biologico. È un insieme di strutture
che generano pratiche e rappresentazioni che possono poi essere adattate al loro scopo senza supporre
la visione cosciente dei fini e il dominio esplicito delle operazioni necessarie per ottenerli. Non è uno
stato dell’anima o un’adesione a dogmi, ma uno stato del corpo definito dalle esperienze passate,
inconscio ma adattabile, e determina l’atteggiamento verso gli oggetti, se stessi e gli altri. Consumi e
stili di vita derivano dal gusto: la realizzazione soggettiva dell’habitus. Il gusto, poi, accoppia e
assortisce colori e persone, stabilendone la collocazione sociale. A ciò si aggiunge una visione
gerarchica e lineare della struttura sociale e del suo rapporto coi gusti (omologia: diversità
nell’omogeneità) rispetto all’habitus di classe8 (schema pag. 122). Dentro il gusto può operare una
forma di potere simbolico tramite cui le classificazioni oggettive e soggettive coincidono,
permettendo così al sistema una naturalizzazione della propria arbitrarietà. I sistemi simbolici
classificatori apportano il proprio contributo alla riproduzione di potere di cui essi sono il prodotto
8

Definito da due forme principali di capitale, economico e culturale

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tramite la doxa, la dimensione dell’esperienza. Bourdieu contrappone l’estetica kantiana (che


privilegia la mente, tipica delle classi superiori) e l’estetica della cultura popolare (più legata si sensi
del corpo, tipica delle classi inferiori), tracciando una cartografia dei gusti per arte, cultura e
consumo di massa. A questa sovrappone una mappa delle posizioni sociali determinata da capitale
economico e culturale.
A Bourdieu, come è facile intuire, viene criticato il fatto di ricondurre tutto il consumo a una logica
distintiva di riproduzione della posizione sociale degli attori data da generalizzazione e astrazione del
modello delle differenze sociali. Il rischio di queste distinzioni è di ricadere nel già citato trickle
down effect, dove chi ha capitale economico è superiore a chi ha capitale culturale. Il capitale di
consumo è ignorato, ed è un capitale relativamente autonomo che può dettare la standardizzazione del
gusto. Le società contemporanee sono molto più complesse e dinamiche per rientrare nei grafici
bourdieuiani.
Comunicare l’identità_ Ne Il mondo delle cose, M. Douglas (insieme a B. Isherwood) espone teorie
simili a quelle di Bourdieu. Anche per lei i beni hanno una funzione differenziante e discriminatoria,
essendo usati come barriere o ponti; essa non elabora tuttavia una complessa teoria
dell’incorporamento, e ha una visione sul legame tra consumo e struttura sociale meno pregiudicata
da gerarchie e differenze sociali. Il consumatore non è un essere appena responsabile di ciò che fa, ma
è in grado di usare i beni per pensare e classificare simbolicamente il mondo (anche non
verbalmente). Il consumo è il vero campo in cui viene combattuta la battaglia per definire e dare
forma alla cultura. Noi consumiamo per affermare la nostra identità, competendo contro gli altri nella
dominazione della creazione dei significati culturali. La filosofia del consumo si colloca in uno dei
quattro orientamenti culturali (cultural bases) presenti in tutte le forme di organizzazione sociale. Le
strutture possono variare da forte-gerarchica a debole-egualitaria (griglia a p. 130).
Non si capisce, tuttavia, cosa succede al confine di questi orientamenti culturali, come sono connessi
tra loro e se sono universali. Inoltre sottovaluta i cambiamenti storico-culturali del periodo.

L’appropriazione delle merci_ l’approccio comunicativo di Bourdieu e Douglas è paradossalmente


ancora legato a una visione produzionista del sociale in quanto tende (inconsciamente) a
standardizzare i gusti rispetto alla sfera della produzione. Le logiche di consumo sono estremamente
complesse e mediate attraverso la formazione del gusto e l’articolazione degli orientamenti culturali.
Il consumo è una sfera di azione autonoma non pienamente svincolata dalla produzione, promozione
e educazione formale. Nel momento dell’acquisto il consumatore lavora simbolicamente su una
merce, ma essa col tempo può non essere più considerata merce. Il compito della moderna sociologia
è quello di migliorare le teorie di Douglas e Bourdieu cercando di capire come il consumatore di
appropria di ciò che trova. Qui si inserisce il lavoro di McCracken, che ha descritto in una quadro
culturalista il consumo come parte di un processo di attribuzione dei significati. Questo processo ha
due stadi: pubblicità e moda trasferiscono i significati dal mondo sociale alle cose; questi significati
saranno rielaborati dai consumatori tramite attività rituali che fissano al loro volta altri significati.
Possono essere quattro: scambio, svestizione, possesso e mantenimento. Gli oggetti sono ponti tesi
non solo verso gli altri (a differenza di Douglas e Bourdieu), ma verso gli ideali che ci sfuggono e a
cui non vogliamo rinunciare. Lo storico e teorico culturale Michel de Certeau (L’invenzione del
quotidiano, 1980) ha affermato che il consumo stesso sia una forma di produzione in quanto i
consumatori giocano e trasformano i significati culturali. Per De Certeau il consumo è una forma di
produzione del valore che si contrappone a quella dei sistemi di produzione delle merci, in quanto il
consumatore interpreta le merci in modo personale e le assembla modo suo. Simile a questa è la
teoria di Daniel Miller (1995), il quale vede il consumo come un processo più o meno autonomo di e
plurale di autocostruzione culturale: esistono vari modi di consumare a seconda dei contesti culturali

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in cui si agisce, il consumo è la diversità delle reti sociali locali e i consumatori lottano per sottrarre
gli oggetti alla mercificazione e trasformando anche l’oggetto più banale e massificato in qualcosa
che non può essere comprato o ceduto. Il consumo è allora una forma di riassorbimento, dove la
società di riappropria della propria forma esterna. Gli oggetti non sono cultura se non sono prodotti e
consumati, posti fuori e poi ripresi per uso e consumo.
Miller e De Certeau si spingono troppo oltre nel cercare di riscattare la cultura materiale odierna dagli
approcci critici, quasi dimenticando il potere dei produttori, delle decisioni delle multinazionali e di
quanto esse limitino le scelte dei consumatori. Trascura poi il fatto che le merci possono variare di
significato: una persona può ad esempio pentirsi di un acquisto o, al contrario, di aver dato via la
merce.

Parte terza – la politica del consumo

Nelle società odierne il consumo è letto attraverso un’eccessiva dicotomia: razionale/irrazionale,


libertà/oppressione, una visione troppo polarizzata. La sua sfera politica non è mai stata presa in
considerazione: nelle nostra cultura esiste sempre una visione egemonica che ci dice cosa è giusto o
sbagliato, bello o brutto. Il consumatore tenta tuttavia di sottrarsi a queste logica dominante attraverso
la demercificazione, la ritraduzione dei significati e degli usi proposti dal sistema nella vita
quotidiana. Anche le grandi multinazionali devono fare i conti con queste resistenza attuata dai
consumatori.

CAPITOLO 6 – Consumismo e promozione

Spesso si parla in modo scioccamente moralista della società dei consumi e del consumismo, un
mondo dove sarebbero racchiusi tutti i mali odierni: materialismo, edonismo, superficialità, disordine
morale. A ciò si contrappongono voci, tra cui la pubblicità commerciale, che promuove le merci
come occasione di realizzazione e felicità. La p.c. è una delle forme dominanti del capitalismo
contemporaneo, e anche se i consumatori tentano di “difendersi” da essa, non si possono sottrarre
totalmente. La p.c. ha, nel svolgere il suo compito, una funzione ideologica spesso molto ambigua.

La retorica anticonsumistica e l’apologia del consumo_ La retorica anticonsumistica è stata


particolarmente influente nel secondo dopoguerra. Secondo Daniel Bell (La cultura del narcisismo) e
soprattutto Christopher Lasch (1979) la sfera della produzione e del consumo fanno rispettivamente
capo a valori opposti. La laddove l’ascetismo della produzione ha creato personalità forti, il
consumismo avrebbe spazzato via i sani principi della famiglia tradizionale e della collettività,
portando le persone all’isolamento, dove ciò che conta è vendere se stessi e relazionarsi con gli altri
in base alla propria immagine. Il consumismo avrebbe indotto desideri insoddisfabili ed effimeri, in
quanto non collegati ai veri bisogni e piaceri: la casa, la famiglia, il lavoro, cose che rispondono ai
nostri bisogni. Anche la femminista Susan Bordo (’90) si è occupata di questo tema, sostenendo che
oggi siamo divisi da richieste contraddittorie che da un lato ci spingono a incorporare l’etica del
lavoro e dall’altro a consumare e lasciarci andare all’edonismo. Anoressia e obesità rappresentano gli
opposti di queste contraddizioni. Analisi così radicali e sbilanciate verso la produzione non sono
nuove, possiamo trovarne esempi già nel Settecento con la prima rivista femminile curata da una
donna, The Female Spectator (1774-76) di Eliza Haywood. Sebbene non adottasse atteggiamenti
puritani contro il consumo, Haywood metteva in guardia le donne dalla crescita del lusso femminile
(rappresentato dal consumo di thè), che faceva crescere ozio a discapito del lavoro. Più recentemente
si diffonde l’idea che la mania del consumo porti a lavorare in modo smodato e insensato, creando un

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circolo vizioso dove i soldi guadagnati servono solo per acquistare nuove merci. In questo processo di
reificazione, così definito da György Lukàcs, gli uomini diventano oggetti misurabili al pari delle
merci. Secondo tutti questi autori (e altri) la pubblicità fa da traino ideologico di un sistema dove il
lavoro non ha più senso ma dal quale è difficile staccarsi per avere sempre i soldi per le merci.
Fornire schemi troppo rigidi sul consumo, come se si trattasse di una scienza esatta, può essere una
operazione che tende a ingabbiare i ragionamenti in dicotomie rigide (es. libertà/oppressione), come
già aveva notato Umberto Eco. Le osservazioni schematiche di Haywood, infatti, oggi ci fanno
sorridere.

Le immagini pubblicitarie_ La separazione tra produzione e consumo odierna implica


un’intensificazione della pubblicità commerciale, identificata come tratto caratterizzante. Anche se il
termine pubblicità (da pubblicité, Francia 1800) è recente, già nel Seicento in UK esistevano giornali
di soli avvisi commerciali, veicolati grazie alla stampa di massa e alla diffusione delle immagini.
All’epoca, ciò aveva un tono fattuale e poco evocativo, non si costruivano intorno alle merci gli
universi articolati che oggi conosciamo. Il modo di comunicare simbolico della pubblicità odierna è
stato studiato anche da Roland Barthes9, il quale, adottando elementi linguistici presi da F. De
Saussure, ho mostrato come essa adotti il linguaggio del mito. Il significante viene traslato per
significare qualcosa di diverso dal significato (una rosa sta per “amore, desiderio, romanticismo”,
mentre agli ad dei profumi vengono associati personaggi belli e famosi). Le marche, soprattutto
quelle più famose (Nike, Sony, Tampax) adottano anch’esse questa logica (anche se non
necessariamente vendono più di altre). È inoltre importante tenere sempre a mente che la pubblicità
vende merci, non vende consumo.

Le funzioni della pubblicità_ La pubblicità da sola, per quanto ben fatta, non è sufficiente a
garantire il successo del prodotto (non a caso si tende a investire su prodotti già consolidati piuttosto
che promuoverne di nuovi). È difficile determinare se sia la pubblicità a causare le vendite o
viceversa. In ottica sociologica, la difficoltà nel misurare l’efficacia della pubblicità sta nel fatto che i
prodotti, oltre essere presentati, devono arrivare materialmente e devono essi stessi parlare di sé. Essa
deve essere affiancata da marketing diretto, packaging, promozioni e altri aspetti della
commercializzazione dei beni.
Nonostante l’unico scopo della pubblicità sia quello di vendere, essa ha altresì una funzione
ideologica in senso lato: trasmettere idee e far circolare classificazioni culturali secondo il proprio
codice. Gli aspetti della vita reali, anche i più crudi, vengono rimodellati e ricostruiti rendendoli
standardizzati e appetibili…ma questi possono anche essere di nuovo rimescolati a seconda delle
esigenze di mercato. Questa funzione ideologica si muove in due direzioni:
 Rapporto tra immagini pubblicitarie e differenze e gerarchie sociali. La pubblicità è una forma
simbolica mutevole, basta osservare i cambiamenti della figura femminile negli ultimi
decenni.
 Promozione e legittimazione del consumo come attività sociale significativa: naturalizzazione
del ruolo di consumatore come identità sociale. La pubblicità promuove il consumo come stile
di vita e risposta ai secolari mali dell’uomo, senza tuttavia riuscirci appieno, mostrando così la
sua più grande fragilità. I consumatori e i pubblicitari stessi lo sanno benissimo e tentano di
scherzarci su con paradossi, ironie e altri mezzi comunicativi indiretti. Resta da chiedersi
(come Lasch) se la pubblicità commerciale abbia o meno il potere di proporre il consumo
9

Miti d’oggi, 1957

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come alternativa alla politica o altre forme di protesta o mobilitazione: di nuovo teorie
critiche?

CAPITOLO 7 – Merci e consumatori

La parola mercificazione è una tra le più usate dalle retoriche critiche di stampo marxiano: è la
costruzione sociale delle cose, la fase che va dalla produzione di cose al loro utilizzo come merci. È
un processo dilagante, in quanto la quasi totalità di cose o servizi può avere un prezzo e essere
venduta. L’esempio di Emile Zola riguardante il “noleggio” di ragazze brutte nella Parigi ottocentesca
è lampante, ma quello che Zola non dice è che quel servizio doveva ispirare fiducia, e che intorno a
esso si sviluppavano relazioni e storie che andavano ben oltre il semplice valore che gli veniva
applicato…

Mercificazione e demercificazione_ Per Marx, il prezzo delle merci è dato dal dominio del modo di
produzione capitalistico, e questo le rende equivalenti e sostituibili tra loro in quanto ne maschera il
reale valore. I consumatori si appropriano del mondo non consumando o scambiando merci, ma
trasformandole con il lavoro di produzione creativa non vincolato dagli imperativi di produzione
capitalistica. Si nega tuttavia, e questo è uno dei limiti della teoria marxiana, che il consumatore possa
contribuire a realizzare la diversità degli oggetti. Marx ignora i mille processi di demercificazione
attraverso i quali i consumatori spogliano la merce del suo “valore economico” e se ne appropriano
come meglio credono. Processi di questo tipo possono riguardare gli acquisti all’Ikea (la quale ha
saggiamente insistito in questo senso), dove prendiamo i pezzi e li riassembliamo a casa, o i regali e i
doni attraverso i quali stabiliamo relazioni affettive e di reciprocità, o le figurine dei calciatori per i
bambini ecc. Mercificazione e demercificazione sono i due poli del rapporto soggetto/oggetto di oggi.

Il valore delle cose e i confini della mercificazione_ L’economia monetaria moderna e la


mercificazione hanno svincolato dai rigidi legami strutturali con le cose. Questa libertà può tuttavia
creare elementi di problematicità, in quanto potrebbe essere incontrollata e dare la possibilità a ogni
impulso stravagante di non incontrare alcuna resistenza. Secondo Georg Simmel la costituzione del
soggetto tramite i beni è un processo attivo ma inconcludente, e dunque un momento creativo e
dinamico, in una costante autocostruzione. È il consumatore stesso che deve produrre se stesso come
fonte di valore. Questo, poi, talvolta porta a interrogarsi su dove ci si può spingere nell’apporre un
prezzo alle persone (è il caso, ad esempio, del traffico di organi e della prostituzione).

La normalizzazione del consumo_ Edonismo addomesticato è la parola chiave per descrivere i


comportamenti che ci si aspetta dai consumatori nei riguardi delle merci, in particolare da quelle
considerate a limite tra morale e immorale, innocuo e pericoloso. In base a fattori socio-culturali ed
economici, valutiamo noi stessi e gli altri per testare la nostra capacità di “reagire” a forme devianti
che derivano da un uso irresponsabile e nocivo del consumo.

CAPITOLO 8 – Consumi e contesti

I gusti non sono l’unica chiave per capire perché consumiamo. Il conteso (luoghi, tempi, maniere).
L’inadeguatezza della dicotomia libertà/espressione emerge osservando come il consumo avviene sia
nei “luoghi appositi”, sia nella sfera domestica (anche semplicemente guardando la tv). Fugate le
paure di una “McDonaldizzazione” globale, oggi si è consapevoli che persino le più grandi

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multinazionali devono adattarsi alle diversità culturali nei contesti locali. Nascono forme alternative
di consumo…

Tempo libero e luoghi del consumo_ Rudi Labermans ha scritto che i primi grandi magazzini e le
esposizioni universali cambiarono trasformarono i consumatori da tradizionali (acquistare) a moderni
(andare per compere). Sono luoghi quasi magici dove possiamo sognare a occhi aperti. Una delle
caratteristiche di questi posti è che si entra liberamente: non è segno di assoluta libertà (ci sono norme
da seguire) né di oppressione (puoi uscire quando vuoi, no? E puoi anche non comprare nulla).
Davanti a tutte queste merci dobbiamo però dimostrare di essere in grado di controllarci e disciplinare
i nostri desideri in modo da non vederci esclusi o stigmatizzati per via del nostro comportamento.
Queste regole sono presenti anche nel commercio online. Il tempo impiegato in queste attività è un
tempo produttivo, produce significato e identità, e spesso di mescola con il tempo libero (in effetti,
l’ozio non è considerato come attività del tempo libero). I parchi come Disney hanno attirato la
curiosità di molti studiosi per via della loro capacità di offrire ai visitatori un’esperienza edonistica
globale e appagante.

La casa e i consumi culturali_ La casa è uno dei luoghi dove si realizzano pratiche di consumo
quotidiane e da cui si possono trarre importanti informazioni su cultura e società. Il guardare la tv è
un’attività complessa dalla quale possiamo cogliere differenze tra uomini e donne: se i primi
considerano questa pratiche come un momento di cesura dal lavoro, le donne faticano di più a
concentrarsi e a lasciarsi andare al totale relax, segno che per loro la casa è considerata ancora un
luogo di lavoro. Anche dalla lettura delle riviste femminili è emerso come la loro principale attrattiva
non fosse (solo) il contenuto, ma anche il formato in pillole che concedeva brevissime pause nella
gestione domestica. Anche le serie tv, spesso stigmatizzate, hanno dato vita a numerose comunità di
fan che (al pari dei lettori di romanzi) sviluppano discussioni e curiosità attorno a quei temi.

Il mondo alla McDonald’s_ Nel suo Il mondo alla McDonald’s (1993), il sociologo americano
George Ritzer offre una lettura critica dei consumi nella globalizzazione. Il colosso americano del
fast food, come il fordismo, si colloca su una organizzazione produttiva basata su quattro principi:
efficienza (economizzazione massima dei mezzi), calcolabilità (esaltazione della quantificazione e
sostituzione della qualità con quantità), e prevedibilità (replicabilità e standardizzazione) data dal
controllo sulle fasi di produzione e distribuzione. Tutto ciò funziona perché le persone sanno già cosa
aspettarsi. Tale processo vale anche per altre multinazionali, dalla Coca Cola all’Hard Rock Cafe,
Benetton e Body Shop. Al disincanto annoiato dei consumatori si cercano di studiare metodi sempre
nuovi di re-incanto per continuare ad attrarli, controllarli e sfruttarli. Le piccole imprese di prodotti
locali non potranno mai competere con tutto ciò, o al massimo diventeranno una sembianza di
McDonald’s. Ci sono tuttavia eccezioni, come The Body Shop, che ha fatto del suo punto di forza la
trasparenza, l’ecologia e l’eticità. I quattro punti sono riumanizzati, insistendo sulle materie prime e il
commercio solidale, ma anche creando spazi più intimi e personali. Anche Ritzer esagera nel
sostenere l’incontrollabilità di questi mezzi di consumo; come abbiamo già visto, anche questi colossi
devono scontrarsi con una miriade di realtà locali, dove i consumatori agiscono e modificano
attivamente spazi e modalità (Asia vs USA).

Globale, locale, alternativo_ Le riflessioni di Ritzer ci portano a consumi a ragionare sul rapporto
tra consumi e globalizzazione, di cui McDonald’s è solo un aspetto di tante altri risvolti politici. Nel
consumo alimentare, ad esempio, le norme di sicurezza sono regolamentate da enti soprannazionali
(Codex Alimentarius, Wto, UE), non sempre senza situazioni conflittuali derivanti da modi diversi di

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affrontare certi temi (quello per esempio dell’ingegneria genetica che ha visto opporsi Europa e
USA). Esistono sempre forme di resistenza alla globalizzazione, anche se Ritzer pone un’eccessiva
enfasi sull’omogeneità e imperialismo americano, e riduce tutto a una mera strategia di marketing. La
localizzazione implica sia un cambiamento della cultura locale che un aggiustamento degli standard
operativi dell’azienda, c’è dunque anche una eterogeneizzazione oltre l’omologazione.

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