Una volta che il processo di produzione ha trasformato il dato naturale in qualcosa di socialmente utile,
questi oggetti devono raggiungere chi li utilizzerà, ovvero il consumatore finale.
Non appena inizia ad instaurarsi anche una lievissima divisione sociale del lavoro, ecco che subentra il
problema della circolazione degli oggetti che ciascuno costruisce.
Le strutture di distribuzione e circolazione degli oggetti sono quindi il necessario complemento alle strutture
di produzione. Ed è l’idea di “nuovo” il perno centrale, sotto l’aspetto valoriale e comunicativo, del mondo
della distribuzione e della vendita delle merci. Non soltanto perché al suo interno circolano soltanto oggetti
nuovi, ma anche perché in questo mondo ciò che è nuovo è per definizione migliore di ciò che nuovo non è,
e che diventa immediatamente vecchio. Al nuovo e alla sua preservazione sono dedicate tutte le strutture del
sistema di distribuzione, le vetrine, le confezioni, le accortezze nel trasporto, la cura per gli oggetti e
l’attenzione nel loro uso, affinché non si profani la loro verginità riservata a chi li acquisterà, provocandone
l’espulsione dal mondo della merce e la decadenza verso l’oblio.
Alla costante ricerca della “novità” risponde il sistema della moda, liturgia del sistema di distribuzione e di
vendita, liturgia della merce. È la moda nel suo incessante ciclo a provocare l’obsolescenza ben prima del
venir meno dell’utilità concreta. L’area di vita della cultura materiale in cui la moda esercita la sua azione è
quella della distribuzione, è qui che il ciclo “differenziazione/conformità” che la costituisce e sviluppa la sua
azione mettendo in moto il vorticoso susseguirsi delle merci anno dopo anno, stagione dopo stagione, novità
dopo novità.
La fase in cui comincia a predominare la distribuzione e il mercato di massa si collega con la fase della
produzione in serie. Caratteristica di questa seconda tappa è l’evoluzione del sistema distributivo dalla
struttura basata su piccoli negozi specializzati per genere e per serbatoio sociale di utenza, verso strutture
maggiormente universalistiche ed orientate al consumo di massa: i grandi magazzini e i supermercati, cifra
della modernità.
Dal punto di vista del ciclo dell'oggetto, con il passaggio dalla produzione alla distribuzione, l'oggetto
diviene merce nel senso comune del termine. In questa evoluzione cambia il rapporto con il consumatore,
che diviene sempre più standardizzato e distante, fino a lasciare il consumatore solo di fronte alla merce.
Dal punto di vista sociale, è il progressivo predominio della grande distribuzione, che accompagna l’ingresso
delle società ancora fortemente agricole nel mondo della modernità e del consumo, ponendosi come
momento di raccordo tra la società industriale e la società post-industriale.
Anche in questo caso esiste un’estetica di questa tappa della cultura materiale, che si allarga e si impone
nella società, ad esempio Tour Eiffel e i grandi magazzini francesi del 900.
Come per la produzione esiste quindi un’estetica e una cultura materiale della distribuzione, e la cultura
materiale di questa tappa è legata in buona parte proprio al denaro, in quel processo intrinseco alla
distribuzione della merce che è la sua valorizzazione simbolica, cioè la pubblicità.
Se il fulcro e l’imperativo della fase produttiva della merce è la realizzazione della sua utilità, l’imperativo
della fase distributiva è senz’altro quello della valorizzazione, e a volte dell’invenzione, di questa utilità, cioè
di massimizzare il prezzo al quale il consumatore piò essere disposto ad acquistare l’utilità prodotta. Dopo la
costruzione materiale della merce è, quindi, necessaria la sua costruzione simbolica, un processo cioè che le
attribuisca un senso e un significato, che la inserisca all’interno del sistema di bisogni del consumatore, in
modo che questi sia invogliato ad acquistarla, che le dia un senso e un’appetibilità. Tutto questo è
primariamente affidato alla comunicazione. Alcuni snodi essenziali, nel processo di azione dei messaggi
pubblicitari e di valorizzazione della merce in generale sono i seguenti.
Il tema dei bisogni, facendo riferimento al fatto che esiste l’idea che la pubblicità sia in grado di vendere
qualsiasi cosa a chiunque, manipolando i bisogni e facendo nascere bisogni illusori o falsi nei consumatori,
falsi nel senso di fittizi, illusori, non in grado, nella maggior parte dei casi, di soddisfare il bisogno,
storicamente, socialmente reale e concreto, che il consumatore sperimenta. In altre parole, la pubblicità non
crea bisogni finti e artificiali, crea invece risposte finte ed artificiali a bisogni veri, importanti e ben radicati
nella vita sociale, psicologica ed individuale del consumatore.
Il messaggio pubblicitario non ha come obiettivo la razionalità del consumatore, bensì le sue emozioni; e il
far associare emozioni positive al bene pubblicizzato. Assieme a quel bene il consumatore acquisterà anche
la simbologia che lo accompagna e che ritiene sia incorporata in esso, che otterrà attraverso il possesso, l’uso
e l’esibizione sociale del bene stesso. Quasi sempre, comunque, è il consumatore con le sue emozioni a
decidere il legame.
A volte esiste anche un processo di valorizzazione intrinseca del bene, che ne aumenta le capacità di
soddisfare i bisogni cui si rivolge, e la valorizzazione simbolica ne è contorno, altre volte la valorizzazione è
quasi unicamente sul piano simbolico, senza il quale l’oggetto sarebbe di nessuna utilità.
Il motore principale di questo processo di valorizzazione è la marca.
Possiamo pensare al logo ed alla marca come ad una sorta di “spugna semantica” in grado di assorbire senso,
significato, valori, più o meno da qualsiasi contesto e in qualsiasi modo, e riversarli su qualsiasi merce
vengano apposti. La sua funzione è quindi duplice: da un lato assorbire valore e significato, e dall’altro
restituirlo alle merci indipendentemente dal loro profilo e utilità.
Una sorta di contenitore di senso e di valore, che si svuota quando questo viene proiettato sui prodotti e va
quindi riempito prima che perda questa sua capacità; marche che hanno monetizzato ampiamente la loro
capacitò valorizzatrice, senza che venissero poste in essere adeguate strategie di valorizzazione, hanno visto
nel tempo sfumare in grandissima parte la loro capacità di valorizzazione, attraverso un processo di vera e
propria “inflazione semantica”.
La capacità di un marchio di assorbire valore e significato è veramente altissima, ma questo non toglie che
esso sia una creatura fragile e delicata, che la sua manutenzione debba essere attenta e costante, pena la
perdita della capacità di produrre senso e valore.
Per quanto riguarda il tema del funzionamento sociale del marchio, cioè della base sociale della sua
attrattività, possiamo notare che la sua azione si esplica essenzialmente all’interno del ciclo della moda,
integrando con grande efficacia i due aspetti essenziali di questo ciclo: la distinzione e l’imitazione.
Pur tuttavia, la sua azione maggiore, anche economicamente, si esercita nella parte conformista e fusionale
del ciclo della moda, nel momento in cui il consumatore viene spinto ad uniformarsi alle scelte di acquisto
che vede diffondersi nella società che lo circonda, per non sentirsi escluso. Proprio a questo serve la
diffusione del logo nelle aree di distribuzione, nelle confezioni e nei contenitori portati in giro dagli stessi
consumatori.
L'alternanza e l'alchimia tra distinzione conformità, tra differenza ed imitazione, rappresentano buona parte
della “magia” del marchio, nel momento in cui attraverso il marchio il consumatore insegue una certa
differenziazione sociale, allo stesso momento, sempre attraverso il marchio, insegue un senso di
appartenenza, conformità e partecipazione alla società nel suo complesso e, per inciso, alla comunità
immaginaria che si riconosce in quel marchio, nei significati che esso trasmette, riscaldandosi sotto il suo
ombrello di senso. A volte questa comunanza è del tutto immaginaria e sostenuta dal senso del marchio e
dalla comunicazione che lo circonda, altre volte vi sono delle iniziative che cercano di concretizzare
fattivamente questa comunità.
Il progressivo predominio dei processi di valorizzazione della merce agli occhi del consumatore ha portato
anche alla progressiva e vertiginosa diffusione della confezione, che ha lo scopo di proteggere la merce, ma
soprattutto di garantirne l’appetibilità e la preferenza da parte del consumatore. L’impero delle confezioni
nasce con il passaggio dal negozio, con il negoziante, in cui la merce viene impacchettata di volta in volta, ai
supermercati e ipermercati in cui la merce viene scelta e acquisita direttamente dal consumatore.
Quest’ultimo acquista sì la merce, ma in realtà acquista la confezione con dentro la merce come se fossero un
unico oggetto.
Ed infine l’oggetto simbolo della distribuzione: la vetrina, in cui la merce esibisce il suo valore d’uso a patto
di non essere toccata, baluardo della distinzione tra nuovo ed usato. La vetrina, assieme al denaro, sintetizza i
due oggetti l’essenza della distribuzione della merce, ma è il denaro, elemento principe dell’esistenza della
merce come valore di scambio, l’attore principale della distribuzione.
La distribuzione è organizzata in ogni società secondo determinate forme di rapporto sociale e, nella nostra,
questa forma di rapporto è la forma-merce; una forma di relazione che prevede il veloce passaggio delle
merci in un senso e del denaro nell’altro senso, senza che siano necessarie relazioni sociali complesse e
continuative tra le parti che intervengono nello scambio. Un modello di doppia circolazione merce-denaro e
di annullamento delle relazioni sociali continuative pian piano a tutte le relazioni presenti nella società.
Ben diverso è il meccanismo della forma-dono, che spostando avanti nel tempo il momento del riequilibrio
dello scambio, costruisce e mantiene invece relazioni stabili nel tempo, che però rendono meno veloce e più
vischiosa la circolazione degli oggetti, poiché questi circolano sulla base di relazioni personali diffusive e
non di impersonali e particolaristiche relazioni di mercato.
La fase di distribuzione è molto diversa a seconda della formazione storico-sociale in cui essa avviene.
Volendo seguire brevemente l’evoluzione che la distribuzione ha avuto, possiamo notare come si sia
modificato il modello di collocazione della merce, modificando la relazione che lega distribuzione e
consumo e, a cascata, il consumo ed il comportamento del consumatore stesso. Come il consumo, anche
l’atto di acquisto di un bene sul mercato, che del consumo è sempre più spesso la premessa, è un atto
relazionale e sociale. Esso è una relazione che si esplica all’interno di specifiche strutture ed istituzioni
sociali che sono quelle che si occupano della distribuzione della merce, anello intermedio, tra produzione e
consumo, del ciclo della cultura materiale.
La relazione tra le caratteristiche generali della società e le caratteristiche peculiari delle sue varie sfere
d’azione sociale, tra cui quelle della distribuzione e del consumo, configura, man mano che la società si
modifica, il susseguirsi di vari tipi di consumatore e di venditore, legati a diversi e particolari “tipi” di
società. Venendo invece in maniera più specifica alla struttura relazionale che possiamo individuare della
micro-interazione di acquisto-vendita, in generale possiamo dire che nell’atto di acquisto, inteso come
relazione sociale, vediamo all’opera diversi livelli che possiamo così brevemente riassumere:
- La relazione con la società in generale (forma-merce e cultura materiale)
- La relazione con il venditore e la situazione di vendita, che possiamo così articolare: 1) affidamento,
fiducia rispetto alle caratteristiche del prodotto, e alla competenza del venditore; 2) visibilità sociale
dell’atto di acquisto.
Esiste quindi una socialità propria dei luoghi di acquisto e di vendita così come di ciascuna delle altre sfere
di azione che compongono il ciclo della cultura materiale, questi luoghi significano e comunicano, e lo fanno
in armonia con le caratteristiche principali delle società in cui agiscono. Partendo da tale riflessione
elenchiamo qui di seguito tre diverse fasi.
La fase artigianale. In questa fase il luogo dello scambio è il piccolo negozio ed il venditore è rappresentato
dal piccolo negoziante, bottegaio se vende, artigiano se produce. La competenza è tutta nelle mani del
venditore, e la relazione è di tipo particolaristico e personalizzata, con scambio di consigli ed informazioni
anche personali durante la vendita. È presente, inoltre, la funzione di visibilità sociale assicurata dal negozio.
Abbiamo quindi, accanto ai negozi “di borgo” e “di paese”, negozi “di ceto”, soprattutto cittadini, dove è
necessario fare spese per confermare e comunicare agli altri il proprio rango sociale, sia nei ceti alti che in
quelli bassi. La forte relazione particolaristica e personale, che è la caratteristica di questo tipo di luogo di
vendita può essere riassunta nel credito spesso fatto, in tutte queste tipologie distributive, dal venditore al
consumatore (fiducia personale).
La fase industriale: il supermercato e la fabbrica. I grandi magazzini sorgono soprattutto allo scopo di ridurre
la distanza tra la sovrapproduzione di merci, frutto del progressivo allargarsi dell’introduzione della
tecnologia all’interno della produzione industriale, e il debole consumo dovuto allo scarso potere d’acquisto
di buona parte della popolazione. Rispetto alla fase artigianale, la fase industriale della produzione di merci
si caratterizza essenzialmente per la concentrazione dei mezzi di produzione, per la standardizzazione delle
procedure, per l’impersonalità delle relazioni e la perdita, da parte dell’artigiano divenuto operaio, del sapere
relativo alla produzione stessa. Al consumo di massa restano fuori essenzialmente i beni di status symbol,
per i quali permane ancora la forma del negozio come garanzia di visibilità sociale. Per gli altri beni, la
distribuzione massificata sostituisce in larga parte il modello distributivo precedente, basato sul piccolo
negozio; esattamente come la fabbrica sostituisce la bottega se non per alcuni prodotti ad alto valore di status
(gioielli, pellicce, arredi).
Inizia lo sviluppo all’interno delle società occidentale dei “non luoghi”. I beni non traggono più la maggior
parte del loro significato dal rapporto sociale diretto e personale all’interno del quale vengono venduti, ma
sono “nudi” rispetto al cliente, ormai divenuto consumatore, e affidano a strutture esterne (le comunicazioni
di massa e la pubblicità) il loro appeal nei suoi confronti. Il consumatore, dal canto suo, si emancipa dal
rapporto individuale di affidamento e fiducia nel venditore, e sviluppa un’autonoma competenza d’acquisto.
Il consumatore, lasciato solo di fronte al prodotto, costruisce una propria conoscenza che gli permetterà di
selezionare autonomamente i prodotti migliori, fino all’approccio del consumo critico.
Il prodotto trae il suo significato non più dal contesto di vendita, ma dalla comunicazione di massa, da una
fonte esterna alla relazione sociale di vendita, che si concentra essenzialmente sulla convenienza economica.
Un’evoluzione che trova la sua completezza nell’Hard Discount. Il supermercato assume il modello del
magazzino e della catena di montaggio, presentandosi come un processo lineare ed automatizzato di
distribuzione, in cui tutte le operazioni possibili vengono scaricate sul consumatore riducendo al minimo la
presenza di altre persone, un fenomeno detto “spersonalizzazione”. Un Panopticon (carcere ideale ideato da
Bentham nel 1791, in cui una sola guardia riesce a controllare tutti i detenuti, i quali non sanno mai se sono
osservati o meno) di telecamere e specchi, pesante eredità del trionfo dell’ordine realizzato dalla modernità,
che avvolge, spia e controlla il consumatore, non soltanto per prevenirne le azioni ma anche per studiarne i
comportamenti.
Nel caso dei luoghi di distribuzione ed acquisto della merce, il paradosso fra libertà, gioco e controllo è
particolarmente stridente, la necessità di stimolare al massimo la pulsione all’acquisto porta questi luoghi a
creare delle atmosfere di tipo ludico e permissivo, una sorta di incanto che ha nell’acquisto il suo risultato,
incanto che può essere vanificato dalle onnipresenti strutture di controllo che permeano questi luoghi. Si
mette quindi in moto una continua dialettica di disincanto-reincanto, che costruisce e riscostruisce
incessantemente questi luoghi nel tentativo di trovare il miglior equilibrio tra queste due divergenti necessità
di liberare e controllare il consumatore. L’architettura dei supermercati e degli ipermercati ha lo scopo di
staccare il consumatore dal mondo esterno, e da qui il parallelo con le cattedrali.
Se questo è ciò che succede dal lato della distribuzione, spostandoci sul versante del consumo troviamo
processi analoghi, legati al cambiamento dei ritmi temporali di acquisto e delle modalità di acquisto:
scompare o quasi la spesa quotidiana, a vantaggio di una spesa fatta da tutta la famiglia nel centro
commerciale, magari di sabato, in una logica di tipo ludico all’interno di un’atmosfera di vacanza. Il grande
magazzino, il centro commerciale, non sono più soltanto luoghi dove si acquista qualcosa, ma diventano
luoghi di incontro e di svago: incorporando e simulando la socialità. L’atto di consumo entra a far parte di
una dimensione ludica favorita dall’evaporazione del denaro, che, con le carte di credito e con il credito al
consumo, elimina dall’atto dell’acquisto il senso di sacrificio legato alla contemporanea perdita di una certa
somma di denaro.
La fase post-industriale: il centro commerciale e l’outlet. In questa fase l’incorporazione da parte dei luoghi
di vendita delle strutture della socialità urbana si evolve, uscendo dagli spazi chiusi del centro commerciale e
costruendo un nuovo livello di simulacro, che ridisegna il borgo urbano nella struttura finta-vera dell’outlet.
La crescita di informazione e competenza del consumatore pare evolversi verso richieste più mature, e
spesso anche più attive e coscienti, di maggiore partecipazione all’interno del processo di distribuzione, e
forse di una richiesta di nuova socialità del rapporto venditore-consumatore per il quale il marketing sta
riscoprendo la vecchia definizione di cliente. Questo movimento può essere visto sia nelle pressioni del
consumerismo o del consumo critico, sia in alcune modifiche recentemente occorse negli spazi di vendita.
Ad esempio, tecniche di fidelity, tutti processi che richiamano la necessità di ristabilire un particolarismo
all’interno di una relazione massificata; oppure nell’apparire di aree di vendita che imitano i vecchi negozi.
Il supermercato deve individuare una nuova caratura della relazione di vendita, oppure resterà schiacciato tra
l’Hard Discount ed il negozio di “ceto”; possiamo indicare alcune tendenze rinvenibili nell’attuale fase di
mutamento, con alcune modifiche della struttura del supermercato che paiono rispondervi:
- Frammentazione della domanda (strutture ad isole e non più a catena, no obbligatorietà nei percorsi)
- Cura e servizio (informazioni nutrizionali, vendite personalizzate)
- Partecipazione (ritorno della figura del venditore)
- Autonomia decisionale (percorsi flessibili, cura dell’aspetto ludico dell’acquisto)
- Ludicità della situazione di consumo (evoluzione della classe media)
Nella società post-industriale, rispetto alla quale il consumo sembra assumere una centralità strategica mai
riscontrata in precedenza, si profila quindi una spinta a risocializzare il luogo della distribuzione di massa.
Un'ultima tendenza figlia soprattutto della massiccia espansione del turismo nella società post-moderna,
potrebbe essere quella della riutilizzazione o della reinvenzione dei centri storici, sul modello di quanto sta
accadendo per i negozi di ceto, recuperando spazi piccoli ma integrati in percorsi urbani protetti. Questo
anche in prospettiva di una probabile caduta di sicurezza all'interno delle aree limitrofe ai grandi ipermercati,
collocati nella cintura periferica delle grandi città, spesso in aree già di per sé a rischio sociale.
Un’altra forma di recupero della relazione con il consumatore può essere la cura dell’ambiente, delle
musiche, dell’illuminazione, e la “animazione” dell’ambiente in cui il consumatore si trova a fluire, anche
con l’inserimento di spazi di socialità.
Questa serie di esigenze e problemi ha prodotto quello che, da questo momento, è forse l’esempio più recente
dell’evoluzione organizzativa degli spazi di distribuzione e vendita: l’outlet. Uno spazio cinto e artificiale ma
aperto, non più sul presupposto di bolla, ma piuttosto strutturando simulazioni di realtà “normali”, artificiali
nella sostanza ma meno finte nell’apparenza, simulando aree di esposizione, vendita e socialità “naturali”.
Una ricostruzione di borghi tipici delle zone in cui vengono costruiti, ma migliori, in senso iperreale, dei
borghi stessi: più puliti, più sicuri, più ordinati, più nuovi, in cui gli spazi di esposizione e vendita sono più
simili ai negozi cittadini che negli ipermercati, con di nuovo al loro interno la presenza di venditori in carne
ed ossa. Si tratta di un’applicazione del modello del parco a tema, in questo caso applicato al tema della
merce e dello shopping.
Infine, quand’è che un oggetto, un bene, una merce in particolare perde il proprio status di nuova e diventa
usata? Apparentemente, una merce è usata quando ha espresso il proprio valore d'uso nell'utilizzo che ne fa
l'acquirente-consumatore; Tuttavia, una merce può diventare usata e non poter essere più venduta come
nuova, senza neppure essere sfiorata dal proprio acquirente, come accade per le automobili. Ed è anche falso
che un oggetto o una merce, per diventare “usati” debbano essere usati, visto che i capi di abbigliamento, che
vengono ripetutamente provati nei negozi prima di essere venduti, vengono poi venduti come nuovi. Il
transito dal nuovo all'usato, dal mondo della merce al mondo del consumo, o al massimo dei mercatini
dell'usato, è un transito in larga parte simbolico. Essenzialmente legato all'uscita o alla permanenza, concreta
o formale, della merce all'interno del punto vendita. Il nuovo è, da un lato, una proprietà “territoriale” della
merce, che vale cioè finché questa si trova in un certo territorio, e, dall'altro, una proprietà simbolica, che
vale finché non esista un atto, anche formale, di possesso. Se queste due caratteristiche non sussistono, allora
una merce nuova; una merce diventa usata solo se l'uso avviene in un contesto privato, ed è preceduta dalla
vendita al “consumatore finale” cioè a qualcuno che non ha lo status sociale di venditore, che non ha il
palcoscenico adatto per la vendita di merci nuove.
È il passaggio, reale e formale, nella sfera privata del consumatore, e il passaggio del denaro che lo suggella,
a marcare il transito da nuovo a usato.