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Riassunto di Diritto ed economia dei mercati

Libro di riferimento: 1. AA.VV., Diritto ed economia del mercato, a c. G. Lemme, Cedam, terza
edizione (in pubblicazione a marzo 2021).

Diritto economia dei mercati (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia)
CAPITOLO 1: La globalizzazione tra cultura e economia

1. La Nature della Globalizzazione

La globalizzazione è un fenomeno sociale di vasta portata, complesso e difficoltoso da definire.


Secondo il sociologo inglese Anthony Giddens la globalizzazione è data dall’intensificarsi di relazioni sociali
mondiali che collegano tra loro luoghi distanti facendo si che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi
che si verificano a migliaia di km di distanza e viceversa. Seguendo questa definizione si può quindi affermare
che la globalizzazione si è una conseguenza dei processi di scambio a livello globale di merci, tecnologie,
conoscenze scientifiche e culturali. Questi scambi sono stati resi possibili da viaggi, migrazioni e attività
commerciali che, soprattutto negli ultimi decenni grazie alle nuove tecnologie, sono diventati più economici e
facilmente accessibili.

In questo contesto, infatti, la tecnologia ricopre un ruolo così essenziale tanto che il sociologo spagnolo
Manuel Castells ha affermato che la tecnologia dell’informazione è considerata alla pari delle nuove fonti di
energia che hanno determinato le rivoluzioni industriali precedenti.

Dal punto di vista delle imprese, esse ricoprono nelle società moderne, un ruolo che tende a favorire lo
sviluppo del processo di globalizzazione. In che modo? :

1. A causa della crescente concorrenza dovuta alla saturazione dei mercati, le imprese si vedono costrette ad
aumentare le spese aziendali di ricerca, marketing e promozione

2. Le imprese siano sempre più interessate ad economie di scala raggiungibili solo attraverso la
standardizzazione

Il problema che sorge con questa visione è che si tende erroneamente a pensare che ci sia la possibilità di
estendere la globalizzazione a ogni categoria merceologica e che tutti gli individui del mondo abbiamo gli
stessi gusti e desideri. Secondo Daniel Cohen, infatti, l’economia internazionale non può essere considerata
completamente globalizzata visto che molti mercati sono chiusi o ostacolati da fattori interni quali dazi,
barriere e politiche migratorie.

Però è vero anche che il processo di globalizzazione si è intensificato negli ultimi 10 anni grazie al ruolo
omogeneizzante di alcune potenti marche che sembrano operare ovunque con la capacità di promuovere gli
stessi prodotto e modelli culturali.

La Globalizzazione ha notevolmente incrementato il livello di benessere economico di una grande parte della
popolazione, facendo uscire dalla condizione di estrema povertà 1.5 miliardi di persone. Per questo motivo
non bisogna pensare alla globalizzazione come semplice contrapposizione tra globale e locale ma bisogna
guardarla come insieme di flussi che attraversa il pianeta e che riguarda simultaneamente il capitale, le merci,
le informazioni, le persone, le idee e le tecnologie. Di conseguenza anche la cultura deve essere considerata
come un enorme ambiente di condivisione dove ognuno si trova ad essere coinvolto in molteplici processi
culturali di scambio.

2. “La McDonaldizzazione della società”

George Ritzer utilizzò per la prima volta l’espressione “McDonaldizzazione della società” per indicare l’idea
che nei paesi avanzati le più importanti istituzioni sociali come: scuola, sport, politica e religione; adottano
quel principio di razionalizzazione e standardizzazione nella gestione delle risorse umane ed economiche, che
è proprio del fast food McDonald’s.
Questo è un principio che aveva trovato Max Weber alla base del funzionamento della società tedesca dei
primi decenni del Novecento e, in particolare, della burocrazia e di quella rigida organizzazione dei
comportamenti degli individui che la sua applicazione comporta.

Ritzer lo applicò alla società contemporanea, sostenendo che il McDonald’s dipende dall’impiego di 4
variabili, utilizzate in ugual misura per i clienti e i dipendenti:

1) Efficienza: offrire un metodo ottimale per soddisfare rapidamente l’appetito dei clienti attraverso l’efficacia
dell’organizzazione delle mansioni.

2) Calcolabilità: elevata attenzione agli elementi quantitativi del prodotto venduto.


3) Prevedibilità: la garanzia per il consumatore che i servizi e i prodotti offerti saranno sempre gli stessi
ovunque grazie ad un efficace programmazione dei comportamenti dei dipendenti.
4) Controllo: i clienti sono continuamente soggetti a controllo, così come i dipendenti.
Ritzer ha voluto aggiungere una quinta variabile “irrazionalità della razionalità”, perché il processo di
progressiva razionalizzazione del capitalismo comporta delle conseguenze negative in termini di
disumanizzazione del lavoro svolto, ma soprattutto sull’ambiente ecologico e quindi sui consumatori.
Nonostante questa quinta variabile Ritzer non ha tratto le giuste conseguenze, ovvero il concetto di
razionalizzazione di Weber appare inadeguato per spiegare l’attuale fase di evoluzione delle società
capitalistiche.
Nel tempo Ritzer ha mantenuto salde le sue convinzioni sulla tesi di fondo e ha cercato di applicare tale tesi
alla nuova realtà delle imprese digitali. Secondo Ritzer attraverso logaritmi e l’intelligenza artificiale le
imprese digitali stanno portando avanti una specie di radicalizzazione della “McDonaldizzazione” e dei suoi 4
principi di funzionamento.

3. Globalizzazione e antiglobalizzazione

Ritzer è influenzato da posizioni critiche nei confronti della globalizzazione come quella della giornalista
Naomi Klein. Quest’ultima scrisse il libro “No Logo” in cui per la prima volta si parla del ruolo sociale svolto
dalle marche aziendali. Vent’anni fa c’erano movimenti sociali che si schieravano contro il mondo delle
marche e la crescente invasione della società da parte del modello di consumo occidentale. Le marche però
hanno saputo reagire a questa situazione e negli ultimi anni hanno raggiunto dei grandi successi. La crescita
del peso sociale delle marche, si è verificata anche perché negli ultimi decenni le società occidentali sono
entrate nel modello della cosiddetta “economia della conoscenza”. Un’economia dove le marche producono
valore economico. È all’esterno che le marche riescono ad accumulare valore sfruttando il lavoro svolto dal
consumatore e della società in generale. Le marche operano come mezzi di comunicazione, cioè come
strumenti relazionali, come ambiente autonomo dove i produttori e i consumatori possono stabilire una
connessione. Lo scopo è quello di trasformare in valore economico, tutto ciò che prende vita nella società
(innovazione, idee e creatività) che gli individui producono durante le loro esperienze quotidiane.

Nella società contemporanea è in atto un processo di saturazione dei canali comunicativi in quanto i prodotti
che offrono prestazioni simili sono sempre meno distinguibili e di conseguenza meno interessanti per i
consumatori. Per le imprese diventa dunque necessario imporsi comunicando una specifica identità di marca
soprattutto nell’attuale situazione di rafforzamento dei processi di globalizzazione dei mercati dove la
concorrenza esercitata dalle numerose imprese impone di dover ribadire la propria diversità.
Klein sosteneva che la marca, se efficacemente gestita, riesce ad evitare i danni dell’invecchiamento e di
conseguenza un’impresa deve concentrare i propri sforzi sulla costruzione e l’aggiornamento costante
dell’identità di marca.

4. Il ruolo della cultura nei processi di globalizzazione

La globalizzazione interessa sia la dimensione economica delle società sia la dimensione culturale e la cultura
occidentale è diventata negli anni un vero e proprio mondo sorretto dal capitalismo e sempre più dominato
dalle multinazionali.

James Lull parla di “spazio estetico deterritorializzato” facendo riferimento ad una molteplicità di dimensioni
che rende difficoltoso per gli individui il tradizionale processo di radicamento in un determinato gruppo
sociale posizionato all’interno di un territorio. La forza dello spazio estetico deterritorializzato risiede nella
capacità di superare la limitatezza comunicativa della parola scritta e del discorso orale adottando linguaggi
simbolicamente più ricchi, meno analitici e basati su emozioni come immagini e musica. Si è di fronte ad una
vera e propria “ipercultura” propria delle società ipermoderne nelle quali realtà e immaginazione tendono a
confondersi e si crea quell’universo che Roger Silverstone ha denominato “mediapolis”, ovvero una realtà di
secondo livello creata principalmente dai media che si sviluppa accanto al mondo empirico, intrecciandosi
costantemente con esso.

La creazione dello spazio estetico deterritorializzato rende possibile una manipolazione ed una mobilità dei
significati e dei simboli che «facilita l’immissione nel ciclo della valorizzazione capitalistica della dimensione
immateriale, rendendola più disponibile allo sfruttamento delle forze economiche su scala globale». Ne
derivano due processi simultanei, ovvero la mercificazione della cultura e la culturizzazione della merce.

Alcuni sociologi inglesi hanno condotto alcuni anni fa delle ricerche a livello internazionale sulle merci
dell’industria culturale e hanno dedotto che i film, ad esempio, sono caratterizzati non più da un processo di
omogeneizzazione come in passato ma di differenziazione. Secondo Lash e Lury quello che era considerato in
passato merce culturale si trasforma in merce nomale e viceversa. Questo perché il funzionamento
dell’odierna industria culturale globale si basa, più che sulle singole merci, su oggetti totalmente comunicativi
come le marche in grado di dare vita a relazioni sociali e di alimentare l’identità dei prodotti.

Più la marca è in grado di generare soddisfazione nel consumatore, più saprà costruire un legame forte con
quest’ultimo e pertanto sarà disposto a pagare un prezzo più alto per l’acquisto del prodotto. Senza dubbio
l’ingresso negli ultimi anni del modello di consumo dell’Occidente e dell’american way of life ha portato in
molti paesi in via di sviluppo una vera e propria acculturazione forzata a tale modello.

CAPITOLO 2: I sistemi di misurazione della ricchezza

1. Introduzione
Il concetto di ricchezza può essere ricondotto alla quantità di beni materiali e immateriali a disposizione di un
soggetto in un determinato momento. Se riferito ad un sistema economico di dimensione nazionale, il concetto
di ricchezza può assumere 3 significati diversi:

1- La capacità di un paese di produrre beni e servizi nel corso di un certo arco temporale

2- L’estensione delle possibilità di quel paese di disporre di beni e servizi nel corso degli anni

3- Il complesso di beni e servizi accumulato nel tempo da quel paese

Per poter parlare di ricchezza in senso economico è necessario che questi beni e servizi abbiano valore di
mercato, cioè che siano scambiabili con altri beni o contro moneta; infatti, il valore della ricchezza è proprio
dato dal suo rendimento e dalla sua capacità di generare ulteriore ricchezza producendo reddito. La ricchezza
è considerata come una grandezza dinamica rappresentata dalla crescita economica, che in particolare
individua l’aumento del valore di beni e servizi prodotti da un paese. La crescita economica è storicamente
considerata come l’aumento del tasso di crescita annuale del prodotto interno lordo pro-capite, il cui dipende
dalle risorse economiche e dai fattori produttivi del paese di riferimento.

2. Il PIL

Il PIL indica il valore complessivo dei beni e servizi prodotti da un paese destinati al consumo, agli
investimenti privati e pubblici, alle esportazioni al netto delle importazioni, nel corso di un anno di
riferimento.

Il PIL pro-capite rapporta il valore complessivo dei beni e servizi di un paese in un dato anno alla popolazione
media dello stesso paese nel medesimo anno, indicando, quindi, la quota di PIL disponibile a ciascun membro
della popolazione. La crescita annuale del PIL pro-capite viene comunemente usato per misurare la ricchezza
di un paese, il suo utilizzo sottolinea la rilevanza che il PIL ha progressivamente adottato imponendosi come
indice dei fenomeni economici legati alla ricchezza nazionale.

L’utilizzo del PIL risale alla Grande Depressione del 29, crisi che ha portato un cambiamento nella politica
economica. La Grande Depressione evidenziò una carenza di dati e indicatori utili per l’analisi e il
monitoraggio dell’economia, il PIL infatti fu ideato proprio per colmare questa carenza sulla base delle teorie
sviluppate da alcuni economisti, tra cui Keynes. Il PIL, quindi, ha un forte legame con il modello keynesiano,
ma diventò l’indicatore di ricchezza più utilizzato indipendentemente dalle correnti di pensiero dei differenti
paesi proprio perché in quel preciso periodo storico l’obiettivo comune era la crescita e, di fatto, il PIL
rappresentava lo strumento più adatto per misurare la crescita di un paese e compararla con la crescita di altri
paesi.

3. I limiti del PIL

Il PIL e il PIL pro-capite presentano alcuni limiti:

- Sovrastimano o sottostimano il reale ammontare della crescita di un paese perché non tengono conto
dei costi sociali e ambientali e i benefici che derivano da infrastrutture, servizi, istruzione e sanità

- Non tengono conto della reale distribuzione del reddito, in questo modo risulta difficile individuare il
gap reddituale, la polarizzazione della ricchezza e soglie di povertà
- Non tengono conto dell’economia sommersa, ovvero di attività riconducibili a evasione fiscale,
attività illegali e informali e tutte quelle attività non registrate contabilmente.

- Non viene inclusa la produzione di beni e servizi intermedi che saranno usati per produrre nuovi beni
e servizi

- Spesso sono calcolati partendo da dati provvisori

- Sono soggetti a distorsioni derivanti dal tasso di cambio utilizzato per convertire i dati in un’unica
valuta

- Non tengono in considerazione le informazioni sullo stock di ricchezza accumulata da un paese

- Non si considerano le variazioni del paniere di beni incluso nel deflatore usato per deflazionare il
valore nominale

- Non è possibile individuare precisamente i numeri indice dei prezzi e delle quantità prodotte per
individuare la percentuale di variazione legata ai prezzi e alle quantità

I limiti elencati derivano dallo scopo per cui il PIL stessa era nato, cioè misurare l’andamento economico nel
breve periodo. Oggi, con il formarsi di un nuovo scenario internazionale, si ha la sensazione che il PIL sia uno
strumento ormai obsoleto.

4. L’approccio Basic Needs

L’approccio Basic Needs inizia a svilupparsi negli anni 70, di fronte ad un gap economico molto alto tra paesi
industrializzati e paesi in via di sviluppo che spostò l’attenzione verso fattori qualitativi e strutturali connessi
alle cause dei differenziali tra crescita e povertà. L’approccio Basic Needs nasce proprio per rispondere
all’incapacità della crescita economica – e di conseguenza la relativa inadeguatezza del PIL – di identificare e
risolvere il problema della distribuzione del reddito.

Questo approccio si basa su 4 aspetti ritenuti necessari per promuovere lo sviluppo economico: aumentare la
possibilità di produrre reddito nei paesi più indigenti; aumentare la produzione e distribuzione di servizi
pubblici per renderli accessibili a più persone possibili; migliorare produzione di beni/servizi per soddisfare
almeno il sostenimento familiare; coinvolgere la popolazione nel processo decisionale per identificare i
bisogni da soddisfare e come soddisfarli.

L’approccio Basic Needs non ha riscontrato molto successo perché necessitava di riforme politiche e misure
economiche molto drastiche, inoltre questo approccio non è stato capace di proporre un unico indicatore
valido nel tempo. Nonostante il poco successo, l’approccio ha diffuso le logiche ad esso connesse sviluppando
maggiore attenzione verso quei fattori qualitativi relativi alla crescita e alla ricchezza sociale.

5. L’Indice di Sviluppo Umano (ISU)

Ad inizio anni 90, sulla scia della convinzione che gli strumenti classici non fossero più esaustivi, nasce un
nuovo paradigma, quello Sviluppo Umano. Questo paradigma sposta l’attenzione sul piano delle capabilities
umane, infatti l’obiettivo principale da perseguire è quello di creare un ecosistema nazionale che possa
contribuire a costruire le capacità umane incoraggiandone il pieno utilizzo. Dal nuovo paradigma deriva la
nascita dell’Indice di Sviluppo Umano (ISU) che combina tre indicatori, ovvero le aspettative di vita,
l’istruzione e il PIL. Questi indicatori si riferiscono rispettivamente a tre importanti dimensioni dello sviluppo
umano che sono la longevità, la conoscenza e l’accesso alle risorse. L’ISU assegna un punteggio a ciascuna
dimensione per poi indicare dove si posiziona ogni paese su una scala da uno a zero.

L’ISU considera il PIL un mezzo per acquisire uno standard di vita adeguato, ma si distanza dal paradigma
classico della crescita proprio perché il PIL è solo uno delle tre dimensioni a cui l’ISU fa riferimento.

6. Gli indicatori alternativi al PIL

Negli ultimi anni, la crescente disponibilità di dati e sistemi informativi statistici ha contribuito alla nascita di
numerose indagini econometriche per lo sviluppo di ulteriori indicatori qualitativi e quantitativi. Questa
ricerca di nuovi indicatori, da una parte, ha permesso alla teoria economica di migliorare il livello di
profondità e significatività delle sue analisi; dall’altra parte questa ricerca di numerosi indicatori ha portato ad
una frammentazione della ricerca piuttosto che convergere in un punto d’arrivo in comune. Infatti, una volta
dimostrata l’influenza delle componenti qualitative nelle performance economiche, sarebbe stato più
opportuno limitare la ricerca ad un set ristretto di indicatori economici piuttosto che arrivare ad una
definizione così ampia di indicatori alternativi al PIL.

Vediamo alcuni di questi indicatori alternativi che sono stati individuati:

● Indice Fitoussi: include un’ampia gamma di variabili di natura diversa tese a valutare il benessere di
un paese, dalla salute all’istruzione, dalla qualità della democrazia e dell’ambiente alla consistenza
delle reti sociali, del reddito e delle condizioni economiche generali. Fu ideato dal governo Sarkozy.

● Coefficiente di Gini: è uno strumento ancora utilizzato, sia da solo che in combinazione con altri
indici, per misurare le disuguaglianze di reddito e per osservarne le variazioni nel tempo. Si misura
con un numero compreso tra 0 (uguaglianza perfetta) e 1 (il reddito è in mano ad un solo individuo).
Fu ideato dall’economista italiano Corrado Gini.

● Genuine Progress Indicator (GPI): misura quattro dimensioni nazionali che sono il capitale umano,
sociale, costruito e ambientale. La sua peculiarità consiste nell’includere una stima dell’apporto
economico dei servizi familiari gratuiti e attività di volontariato/non-profit, sottraendo anche i costi
sostenuti per questioni negative come l’inquinamento, disoccupazioni, crimini e azioni militari

● Human Development Index (HDI): ai parametri economici tradizionali vengono associati valori
relativi ai diritti umani, al livello di pari opportunità, alle risorse sostenibili, all’alfabetizzazione,
difesa dell’ambiente, sviluppo di servizi sanitari e sociali, produzione lorda pro-capite.

● Genuine Savings Index (GSI): si concentra sull’analisi della sostenibilità ambientale, prevendendo
tre operazioni rispetto al PIL: l’addizione delle spese per la formazione intese come investimenti in
capitale umano, sottrazione delle spese del depauperamento delle risorse naturali, sottrazione delle
spese derivanti dai danni ambientali.

● Indice dell’impronta ecologica: si basa sulla relazione tra il consumo di risorse naturali e la capacità
dell’ambiente naturale di rigenerarle. L’impronta viene misurata rapportando la quantità di beni
consumati rispetto ad una costante rappresentativa del rendimento espressa in kg per ettaro. Si calcola
l’anidride carbonica per misurare l’impatto dei consumi di energia e infine si calcola la quantità di
verde necessaria per assorbire l’anidride carbonica generata.

● Happy Planet Index (HPI): rapporta la quantità di risorse consumate da un paese al valore
dell’impronta ecologica, all’aspettativa di vita e alla felicità della popolazione.
● Wellbeing Indicator (WBI): misura il livello di benessere di 180 paesi sulla base di differenti
indicatori relativi sia al benessere umano (formato da tutte le variabili riferite alla ricchezza
economica e ai servizi sociali) che alla qualità ambientale (variabili riferite alle risorse naturali e
all’ambiente).

● Environmental Sustainability and Performance Indexes (ESI-EPI): misura le performance


nazionali conseguite in riferimento a 16 target ambientali come la riduzione dei gas serra o la pesca
sostenibile.

● Sustainable Society Index (SSI): misura il livello di ecocompatibilità dello sviluppo nazionale a
partire dalla definizione di sostenibilità considerata come la capacità di una società di soddisfare
bisogni attuali senza compromettere la possibilità di soddisfare i bisogni delle generazioni future.

● Prodotto Interno di Qualità (PIQ): misura quanta parte del PIL è funzione di produzioni di qualità
ed essendo esprimibile anche in termini monetari si presta a comparazioni con altri aggregati settoriali
e di spesa pubblica nell’ottica di una contabilità di quantità e qualità.

● Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW): si associa alla misurazione del valore
complessivo dei beni e dei servizi prodotti da un paese anche il computo dei costi sociali e ambientali
a medio-lungo termine con lo scopo di individuare il valore di soglia dello sviluppo sostenibile di un
paese.

● Subjective Well-Being (SWB): si basa sul “paradosso della felicità” secondo cui all’aumentare del
reddito e ricchezza la felicità degli individui inizialmente aumenta, ma successivamente tende a
diminuire nel momento in cui ricchezza e reddito raggiungono valori troppo elevati; quindi, l’indice
misura la percezione della qualità della vita e il grado di soddisfazione degli individui.

● Gross National Happiness (GHN): considera e quantifica parametri quali la qualità dell’aria, la
salute, livello d’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali con lo scopo di migliorare l’istruzione, la
protezione dell’ecosistema e di permettere lo sviluppo delle comunità locali.

● PIL dell’Armonia: ideato in Cina per misurare il benessere dei cittadini nelle aree rurali.

La nascita di questi e di altri indici alternativi al PIL non hanno comunque prodotto il risultato sperato, ovvero
quello di individuare un nuovo indicatore che possa sostituire il PIL nel compito storicamente assegnatogli
poiché nessuno di questi indici è davvero adatto per misurare in modo esaustivo il valore economico globale
dei paesi e quando ci riesce non si presta alla comparazione tra paesi diversi.

Negli ultimi anni si sono estese molte metodologie di analisi dei beni e delle attività che sono al di fuori del
mercato ma al contempo sono strettamente correlati ad esso, con particolare riferimento all’ambiente. Nel
1987 la Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo ha per primo introdotto la nozione di contabilità
ambientale a integrazione di quella tradizionale. Anche l’ONU, durante la conferenza di Rio del 1992 ha
fornito un manuale per la contabilità ambientale ed economica tradizionale.

Negli stessi anni anche l’Eurostat ha ideato un programma per l’UE incontrato sulla contabilità green al fine
di inserire la contabilità ambientale a quella tradizionale per rappresentare l’interazione tra andamento
economico e pressione ambientale nei diversi settori produttivi. Sempre in riferimento al contesto europeo, si
è sviluppata la redazione di conti satellite (SERIEE e NAMEA) per far sì che i bilanci dei paesi UE diventino
sempre più aderenti e rappresentativi della società con particolare riferimento ai tempi ambientali. Un altro
progetto europeo è il Regional Accounting Matrix including Environmental Accounts, che ha l’obiettivo di
elaborare indicatori regionali economici e ambientali per l’analisi degli effetti derivanti dall’interazione tra
economia e ambiente, anche nell’ottica di incentivare politiche di sviluppo sostenibile.

Ormai è chiaro come il fenomeno della crescita economica sia legato a variabili di tipo qualitativo e
difficilmente si presta ad essere schematizzato in un unico indicatore per misurarlo questo fenomeno.
L’analisi e la ricerca qualitativa hanno numerose difficoltà a schematizzare la crescita economica in un’unica
equazione, tuttavia esistono dei risultati parziali che possono essere usati come punti di partenza per l’analisi
basata su variabili qualitative.

7. Crescita e sviluppo, ricchezza nazionale e sociale

Il panorama dell’economia mondiale si è significativamente modificato alla luce dei grandi cambiamenti
avvenuti. Le innovazioni tecnologiche, la nascita di organizzazioni internazionali per la cooperazione
economica, la raffinatezza degli strumenti finanziari, le riforme del mercato del lavoro, deregolamentazione di
beni e servi e la democratizzazione della finanza hanno favorito la mobilità internazionale di capitali e una
maggiore interdipendenza economica, dove i confini nazionali e regionali sono sempre meno importanti.

Con il passaggio al XXI secolo, l’integrazione di scambi commerciali ha spostato l’asse dello scenario
economico mondiale lungo un nuovo equilibrio multipolare nel quale i paesi in via di sviluppo/emergenti, in
particolare i cosiddetti Emerging 7 (Cina, Brasile, India, Indonesia, Russia, Messico, Turchia) contribuiscono
sempre di più al valore del PIL mondiale con tassi di crescita aggregati estremamente rilevanti, mentre la
quota aggregata dei paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, UK e USA) è destinata a
diminuire.

Alla fine del XX secolo sono stati raggiunti livelli molto alti di accumulazione e ricchezza in attività reali e
finanziarie, questo dato potrebbe suggerire un aumento in termini di ricchezza pro-capite a beneficio della
popolazione mondiale. Tuttavia, crescita economico e sviluppo non hanno lo stesso significato, lo sviluppo è
legato ai benefici derivanti dalla crescita ma fa riferimento ad un cambiamento sostanziale delle strutture e
dell’organizzazione economica e sociale. Fa quindi riferimento a variabili qualitative che sfuggono alla logica
del PIL.

Malgrado il trend di crescita economica sia in crescita a livello globale, esistono ancora forti differenze tra
tassi di crescita e di sviluppo. I fenomeni di polarizzazione e concentrazione della ricchezza, nel senso di un
allargamento del divario tra ricchi e poveri, riguarda fortemente i paesi emergenti ma sono fenomeni presenti
anche nei paesi sviluppati nei quali, anche a causa della pandemia di Covid-19, hanno raggiunto livelli record.

Il divario tra ricchi e poveri, secondo l’OCSE, si è inasprito a partire dall’inizio dell’ultima crisi economica; i
dati evidenziano quanto la ricchezza sia ancora più concentrata nelle fasce della popolazione ad alto reddito,
acutizzando lo svantaggio delle famiglie a basso reddito. Anche in Italia la ricchezza nazionale netta si è
andata distribuendo in modo molto disomogeneo e l’emergenza sanitaria legata alla pandemia ha
ulteriormente aggravato questa disparità tra ricchi e poveri.

Gli studi più recenti suggeriscono che la metà del pianeta più povera è oggi ancora più povera rispetto alla
metà più ricca. Nel 1960 il PIL pro-capite dei paesi ad alto reddito era circa 26 volte più consistente di quello
dei paesi a più basso reddito, distanza che è raddoppiata nel 1995, fino ad arrivare al 2017 dove uno studio
dell’Oxfam International mostrava che il patrimonio di appena 8 uomini eguagliava quello aggregato di 3,6
miliardi di persone (50% della popolazione mondiale). Nel più recente rapporto dell’Oxfam International
(2021) viene evidenziato come con la pandemia il patrimonio dei primi 10 miliardari del mondo è cresciuto
con una crescita di 540 miliardi di dollari (l’intero patrimonio di questi uomini oggi equivale alle risorse
complessivamente stanziate dai paesi del G20 per far fronte alla pandemia Covid-19), inoltre lo stesso studio
mostra come per i più ricchi il recupero delle risorse perse durante la pandemia potrebbe avvenire in appena 9
mesi, mentre per i più poveri potrebbero volerci 10 anni. Secondo uno studio della Banca Mondiale la crisi
dovuta alla pandemia potrebbe condurre 150 milioni di persone sotto la soglia dell’estrema povertà entro fine
2021, questo vuol dire che per la prima volta in un secolo si potrebbe registrare a livello mondiale un aumento
della povertà assoluta associato a un aumento della disuguaglianza economica indistintamente dal PIL del
paese di riferimento.
È evidente, dunque, come al pari di crescita e sviluppo neanche ricchezza nazionale e ricchezza sociale
coincidano, infatti, la relazione tra i due tipi di ricchezza non è affatto semplice né statica rispetto
all’evoluzione dei sistemi economici. Il primo concetto fa riferimento alla capacità collettiva di produrre un
flusso di beni e servizi che possa essere destinato alla formazione di nuovo reddito sulla base delle risorse
disponibili a livello di paese, mentre il secondo si riferisce alla capacità di ogni individuo di produrre e
consumare reddito in relazione al patrimonio istituzionale, materiale, finanziario o intellettuale a sua
disposizione nel paese d’origine. Come detto, quindi, non è detto che processi di aumento della ricchezza
nazionale conducano all’aumento della ricchezza sociale, anzi, in un’ottica di lungo periodo, il miglioramento
delle variabili che contribuiscono a determinare la ricchezza sociale possono influenzare positivamente
l’andamento della ricchezza nazionale.

8. Oltre il PIL

Il PIL, dunque, non è più in grado di espletare la funzione di strumento guida della politica economica
internazionale, essendo del tutto incapace di fornire un valido supporto alle odierne esigenze di promozione di
ricchezza sociale e sviluppo sostenibile che va oltre la mera crescita, in quanto gli indicatori economici sono
espressione del contesto storico che li ha generati ed è indubitabile che i tempi siano cambiati. Oggi
l’integrazione tra i mercati, come detto, è notevole e ciò significa anche maggiore interdipendenza, come
mostrato dall’effetto domino generato dalla crisi USA del 2008 e ancor di più dalla crisi innescata dalla
pandemia da Covid-19. Questo ha portato agli occhi dell’opinione pubblica la necessità di creare indicatori
“cross-country” che nel lungo periodo promuovono una crescita economica sostenibile, stabile e diffusa e che
tengano conto della specificità del mutato scenario geopolitico-economico internazionale.
Per farlo e superare la scarsa duttilità degli strumenti classici dell’economia, si è reso necessario indagare e
misurare la crescita economica analizzando anche le componenti qualitative legate allo sviluppo e alla
ricchezza sociale che, anche se nasce in un luogo plasmato dal diritto e dalla politica, si basa in primo luogo
sugli individui e sulle loro interazioni. Se vent’anni fa, quindi, le analisi concernenti i risultati economici dei
mercati internazionali difficilmente avrebbero tenuto conto delle componenti qualitative, oggi questo è
necessario. A partire dal primo Forum mondiale dell’OCSE tenutosi nel 2004 a Palermo sul tema “Statistics,
Knowledge and Policy” si è dato il via ad un processo internazionale di riflessione comune che ha portato nel
2007 alla firma della cd. Dichiarazione di Istanbul in occasione del secondo Forum mondiale dell’OCSE dal
titolo “Measuring and fostering the progress of societies”. Questo documento ha sancito la necessità di
promuovere a livello transnazionale processi decisionali finalizzati ad accrescere il benessere delle società in
modo trasversale, superando la complessità e la diversità dei particolarismi politici ed economici. La
dichiarazione enfatizza l’importanza di dati e informazioni di alta qualità per la costruzione di una visione
comune del benessere sociale e una lettura corretta del suo evolversi nel tempo, da ottenere in collaborazione
tra le organizzazioni pubbliche e private e mondo statistico ed accademico in stretto dialogo con i
rappresentanti della società civile. In seguito si è andato man mano consolidando un vero e proprio
movimento sul tema della misurazione, in teoria e in pratica, andando alla ricerca di indicatori globali
alternativi del benessere finalizzati a migliorare il processo decisionale della politica; movimento che ha dato
vita a numerose iniziative dell’OCSE e dell’Unione Europea (vedi elenco da pag 32). A questo proposito è
opportuno richiamare l’iniziativa Italiana sviluppata a partire dal 2010 dall’ISTAT e dal CNEL volta ad
individuare una metodologia di misurazione non solo del livello di benessere nazionale (attraverso l’analisi
degli aspetti rilevanti della qualità della vita dei cittadini Italiani) ma anche dell’equità del benessere, in
termini di distribuzione delle determinanti del benessere individuate e della sostenibilità futura del benessere
stesso.
A tal fine, ISTAT e CNEL hanno costituito nel 2010 un comitato di indirizzo sulla misura del progresso della
società italiana composto da rappresentanze della società civile e da un’ampia e qualificata commissione
scientifica, arrivando ad elaborare l’indice di “benessere equo e sostenibile (BES)”. Tale indice è funzione di
un framework formato da 130 indicatori rappresentativi di 12 domini, di cui 9, cd. di outcome, sono relativi a
dimensioni con impatto diretto sul benessere umano ed ambientale (salute, istruzione e formazione, lavoro e
conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, sicurezza – benessere soggettivo,
ambiente e paesaggio e patrimonio culturale), e 3, cd. strumentali e di contesto, sono relativi a dimensioni
funzionali al miglioramento del benessere della collettività (politica e istruzioni, ricerca e innovazione e
qualità dei servizi). Successivamente con la riforma della legge di Bilancio l. 163/2016, un comitato di esperti
ha individuato 12 tra i 130 indicatori del BES per farli confluire sotto forma di ulteriore allegato del MEF nel
Documento di economia e finanza (DEF), in modo da influenzare opportunamente le politiche economiche
attraverso l’obbligo normativo di corredare la legislazione di bilancio con la proiezione triennale di questi 12
indicatori.

Anche a livello mondiale sempre più paiono essere i paesi che decidono di incamminarsi verso una simile
direzione di compromesso, prediligendo l’adozione di strumenti di misurazione ibridi, atti a perseguire
obiettivi conciliativi tra crescita pura e sviluppo e tra ricchezza nazionale e sociale. Dei super indici sintetico-
settoriali in grado di contrapporsi al PIL per perseguire obiettivi totalmente diversi dalla crescita e dalla
ricchezza nazionale come intese tradizionalmente. Il punto è che mentre sul piano tecnico gli strumenti di
misurazione sono andati sempre più affinandosi, sul piano politico c’è da dire che l’impatto di questi “nuovi”
indicatori finora è stato poco o nullo e la loro incidenza piuttosto limitata come evidenziato nel 2009 dalla
Commissione sulla Misurazione della performance economica che sostenne che il tallone d’Achille di tutti gli
indicatori “oltre il PIL” risiedesse proprio nella difficoltà strutturale costituita dal misurare il consumo di tutte
le forme di capitale economico, naturale, umano e sociale, misurando al contempo se il benessere prodotto
oggi sarà sia disponibile che sostenibile in futuro e che, proprio a causa di questo, tali indicatori avrebbero
fatto fatica ad affermarsi.

9. Conclusioni

Paradossalmente il Covid-19 potrebbe avere un ruolo fondamentale nel concretizzare le iniziative politiche
nazionali e transnazionali verso l’effettiva adozione di strumenti di misurazione della ricchezza ibridi, poiché,
se da un lato l’emergenza sanitaria ha letteralmente paralizzato il sistema economico e per riavviarlo
tempestivamente sarà necessario un indicatore di riferimento di immediato conforto, dall’altro la pandemia
stessa ha modificato la nostra percezione del futuro, mostrandoci quanto possa rendersi profondamente
diverso dal passato e con scenari imprevedibili. Continueremo, dunque, ad avere bisogno del PIL, ma avremo
sempre più bisogno di indicatori qualitativi. Entrando nel banale, se pensiamo che anche solo alcuni dei
cambiamenti strutturali innescati dalla pandemia persisteranno, come ad esempio lo smart-working, il PIL dei
paesi di lungo sviluppo economico non potrà crescere più del 2% all’anno, perché questo cambiamento riduce
di fatto la necessità di determinati consumi individuali pur incidendo positivamente sulla qualità della vita. Il
PIL sarà, dunque, sempre più inadeguato a raccontare una crescita fatta di esternalità positive e ci sarà ancora
più bisogno di indicatori qualitativi sui quali basare le decisioni politiche.

Bisogna pensare che gli strumenti economici non sono solo strumenti tecnici e non sono indipendenti dal
dibattito teorico-ideologico, ma vi sono ancorati e per questo giocano un ruolo strategico molto importante nel
determinare gli indirizzi delle politiche. Quando si decide di misurare la crescita o lo sviluppo economico
attraverso un indicatore e non un altro si sta implicitamente scegliendo un approccio teorico e, con esso, le
politiche atte ad implementarlo; questo perché il PIL e tutti gli altri indicatori a cui abbiamo fatto riferimento
hanno un elemento in comune: sono il risultato di un approccio teorico, di un paradigma. Tutti misurano
aspetti della vita umana che sono reputati fondamentali secondo l’approccio su cui si basano per valutare il
livello di ricchezza e di crescita, ma tutti presentano dei limiti! Riconosciuti ed enfatizzati proprio da coloro
che li hanno elaborati. Se, dunque, è vero che l’assunzione di un qualunque paradigma comporta l’assunzione
di determinati indicatori, è vero anche il contrario: scegliere un indicatore significa adottare un paradigma.
Un indicatore porta con sé il paradigma che lo ha partorito e scelto l’indicatore il paradigma associato si
rifletterà di default sul piano dell’azione ed è bene prenderne atto poiché spesso la scelta non viene fatta
consapevolmente ma per comodità, poiché è innegabile che sia semplice far riferimento ad un indice intuitivo
e direttamente comparabile come il PIL, piuttosto che confrontarsi con una miriade di variabili qualitative.
Evitare questo confronto, però, può condurre a misinterpretazioni politiche e piani di intervento fuorvianti
che, vista l’odierna interdipendenza dei mercati, possono attentare l’equilibrio economico internazionale
travolgendolo fino al collasso.

Le sfide odierne quali la crescita e sviluppo equi, sostenibili e diffusi, la piena occupazione, la protezione
sociale e la tutela ambientale pongono alla politica economica e alle istituzioni che devono occuparsene
enormi difficoltà. Le premesse per un nuovo ciclo di crescita e sviluppo mondiale allo stesso tempo più
diffuso e più responsabile e per una ricchezza più elevata per le generazioni a venire, necessitano di essere
costruite a partire da sistemi di misurazione della ricchezza nazionale, che siano in grado di fornire
appropriate chiavi di lettura per gestire in modo efficace ed efficiente il futuro dell’economia internazionale.

È essenziale, dunque, capire la natura delle correlazioni tra indicatori e paradigmi teorici, tra individui ed
istituzioni, tra politica e diritto e assimilare questi elementi all’economia, per promuovere la piena
interpretazione e gestione delle attuali e future dinamiche economiche, che sono sempre più composite a
livello nazionale e sempre più interdipendenti a livello internazionale e quindi richiedono di essere lette,
interpretate e misurate alla luce della loro articolata complessità.
CAPITOLO 3: Il ruolo del diritto nell’accrescimento del benessere dei singoli della comunità

(Federico Ferro Luzzi)

1. Diritto e benessere

Se l'obiettivo dell'istituzione fosse di garantire il massimo benessere per il maggior numero di persone, il
sistema dovrebbe tendere verso la costruzione di un mercato di stampo socialista. In tal modo, la produzione
di beni verrebbe a concentrarsi in capo all'istituzione, che assumerebbe anche il compito della loro
distribuzione - per tipologia e quantità – secondo quanto essa stessa ritenga "equo" per il benessere di tutti i
consociati.

Se l'obiettivo dell'istituzione fosse quello di consentire a ciascuno di raggiungere il massimo benessere


possibile la struttura da crearsi dovrebbe tendere verso il mercato capitalistico puro.

Tra queste due estremità vi è una serie infinita di sfumature.

Problemi:

- È impossibile stabilire cosa si debba intendere per benessere di un individuo (elemento soggettivo)

- È inconcepibile un sistema che non garantisca “La concessione a ciascun individuo di conquistare
potenzialmente il proprio concetto di benessere”. Questa concessione è attuabile grazie al modello di
rapporto "Mercato/Stato/Individuo/Benessere" che attualmente regola i sistemi economici
occidentali.

2. Il modello "mercato concorrenziale" e il difficile equilibrio tra giustizia ed equità

Coesistono due differenti tipi di mercato, operanti su due differenti dimensioni:

- mercato fisico: luogo geografico, naturale, degli scambi

- mercato giuridico: luogo obbligatoriamente concorrenziale degli scambi.

Nel mercato geografico la concorrenzialità è una circostanza innaturale. Questo ha la tendenza a vedere la
supremazia di un'impresa (o di un gruppo di imprese legate da accordi di varia natura) sulle altre.

Il mercato giuridico è il risultato di una specifica politica del diritto, tesa a modificare la realtà del mercato
geografico. Il mercato concorrenziale non può sopravvivere all'assenza dello stato di diritto, in quanto
creazione (meta) giuridica.

Secondo l’ipotesi ricostruttiva “il mercato è entità esclusivamente giuridica, nei limiti in cui si consideri
mercato solo quello ove si possa contare su una struttura di regole chiare e dove un ente sovraordinato sia in
grado di far rispettare le ridette regole” (accezione restrittiva della realtà).

Il mercato svolge il suo compito di luogo di scambio per la soddisfazione dei bisogni dei singoli consociati
soltanto se può basarsi su di un chiaro quadro di legalità. Normalmente, nei mercati concorrenziali, lo Stato
impone determinate regole di concorrenza che rappresentano distorsioni rispetto al naturale funzionamento del
mercato geografico e successivamente provvede a costituire un ente indirizzato alla tutela della concorrenza e
del mercato.
Regole del mercato: complesso di norme e regole volte a delineare precisi confini, all'interno dei quali
avvengono gli scambi, confinando il mercato stesso dentro un percorso che non gli sarebbe naturale.
All'interno di queste norme, si rende poi necessaria una struttura di regole, che disciplinino i singoli
comportamenti delle persone assoggettate a quel determinato sistema regole in base al mercato di riferimento.

Vi è un duplice meccanismo che funziona mediante una struttura normativa per cerchi concentrici:

● all'esterno, un cerchio formato da un sistema legislativo strutturato al fine di assicurare il


funzionamento del mercato secondo la razionalità economica, soggettiva del costituente (regole del
mercato)

● all'interno un cerchio costituito da un sistema legislativo strutturato affinché gli scambi avvengano in
coerenza con i principi del cerchio esterno (regole nel mercato).

La doppia struttura concentrica (che risulta essere la sovrapposizione tra realtà fisica e realtà giuridica) è tipica
del mercato concorrenziale non ha senso negli altri due tipi (macrosistemi) di mercato. Negli altri due
modelli, o vi è solo il mercato in senso geografico o soltanto il mercato in senso giuridico.

Il mercato strutturato secondo una rigida visione capitalistica ha solo regole “nel” mercato (non ha bisogno di
cornici). Vi sono solo regole di giustizia che però non influenzano il sistema di scambio. Queste regole vanno
intese nel senso di principi che statuiscono come debba intervenire lo scambio per avere poi rilevanza e tutela
da parte dell'ordinamento.

Nel mercato di stampo socialista sussistono esclusivamente regole “del” mercato. Vi sono soltanto regole di
equo funzionamento degli scambi, nel senso di regole che in quel momento il legislatore ritiene necessarie
allo svolgimento del mercato, in un equo contemperamento degli interessi, secondo una visione strettamente
politica dello scambio.

Il mercato concorrenziale presenta come caratteristica principale quella di essere equidistante tra mercato
capitalistico e mercato socialista. L'elemento che contraddistingue il mercato concorrenziale è la presenza in
questo di beni e servizi – essenzialmente fungibili - a condizioni differenti; in altri termini, la presenza
costante di una possibilità di scelta. Tale impostazione metagiuridica impone una scelta nell'individuazione
del punto di equilibrio tra equità e giustizia.

La struttura del mercato dovrebbe essere fondata sull'equità, cioè su ciò che socialmente e politicamente viene
ritenuto come corretto contemperamento degli interessi dei consociati, in un determinato periodo storico. Le
regole del mercato permettono l’accrescimento del benessere dei consociati, in quanto permettono ai singoli
contraenti finali di modificare il proprio assetto patrimoniale.

Non si può strutturare un sistema (regole del mercato) senza tener conto di chi poi andrà ad operare nel (in
quel) mercato. Data la natura dei contraenti finali e i meccanismi che muovono le loro scelte, viene suggerito
un diverso assetto delle regole del mercato al fine di consentire ai consociati la possibilità di accrescere il
proprio benessere.

3. L'irrazionalità del contraente finale: il valore della scelta autonoma e il disvalore della scelta di
sistema

I concetti elaborati dalla teoria economica tradizionale partono da un assunto, dimostratosi fallace, in base al
quale il contraente finale, adeguatamente informato e posto di fronte a una serie di alternative, sia in grado di
analizzarle, comprendendone l'esatta portata sul proprio assetto patrimoniale, ordinandone in maniera coerente
i vantaggi, sia sotto il profilo economico sia sotto quello della felicità personale (non necessariamente
convergenti).

Tuttavia, gli esseri umani non sono razionali e in questo processo si presenta un errore di tipo cognitivo.

L’economia cognitiva ha evidenziato che l'errore cognitivo, ricorrente nel contraente finale di beni o servizi,
non sarebbe causato solo da una carenza informativa (e dunque superabile con il mero apprendimento, indotto
poi da un obbligo informativo da parte del soggetto che immette sul mercato un determinato bene o servizio),
ma anche da modo del tutto soggettivo con il quale l'individuo interpreta i dati esterni attraverso la lente delle
proprie conoscenze, dei propri valori e delle specifiche esperienze personali.

Dalla osservazione del fatto che gli errori cognitivi hanno delle conseguenze sull'efficacia delle regolazioni
del mercato, si è poi passati ad analizzare come tale presa d'atto dovrebbe influenzare la formazione di
suddette regole.

Gli strumenti ipotizzati per strutturare un sistema di regolazione basato anche sul dato empirico dell'errore
cognitivo, sono tre:

- il divieto: al fine di evitare al contraente finale di commettere errori;

- l'informazione e l'educazione: affinché il contraente finale possa evitare l'errore e, se commesso,


fronteggiarlo efficacemente;

- indirizzare la scelta del contraente finale nella direzione reputata più vantaggiosa dal legislatore.

Tutti e tre presentano limiti applicativi e risultati non soddisfacenti, gli ultimi due fondamentalmente poiché la
previsione dell'irrazionale è, di per sé, scelta irrazionale.

Ipotesi del divieto: Pro e Contro

Pro: si elimina alla radice la possibilità di errore cognitivo

Contro:

- limita la libertà dei contraenti finali e ne diminuisce la capacità di autotutela, abituando l'individuo
all'idea che è lo Stato (o organo sovrannazionale) a doverlo tutelare anche da se stesso, portandolo a
una sostanziale irresponsabilità dell'atto;

- si limita la possibilità per il contraente accorto di cedere su alcune clausole potenzialmente dannose,
accettandole, al fine di ottenere sensibili miglioramenti in altre condizioni, con la conseguenza
paradossale di veder tutelato il contraente disattento a danno di quello informato.

Ipotesi di incrementare l'informazione e l'educazione: Contro

- I contraenti finali sono diversi per tipologia, preparazione e attitudine. Quindi sarebbe difficile attuare
una standardizzazione dell'informazione, dovendo prevedere livelli differenti di informazione a
seconda del destinatario (differenziazioni per età, livello di istruzione, categorie di reddito,
collocazione geografica…).

- Non è detto che due soggetti identici sotto il profilo dell'età, livello di istruzione, categoria di reddito e
collocazione geografica rispondano nello stesso modo alle informazioni ricevute, essendo le scelte
fortemente influenzate dal preciso momento in cui vengono formulate e legate al carattere
dell'individuo.

- L'informazione è un valore qualitativo e non quantitativo.


Ipotesi di indirizzare (anche chiamata “spinta gentile”): Pro e Contro

Pro: il legislatore dovrebbe utilizzare le evidenze relative agli errori cognitivi più frequenti, al fine di
predisporre regole del mercato in grado di indirizzare il contraente finale nella decisione ritenuta migliore per
lo stesso, senza però privarlo della libertà di scelta. Quindi, il legislatore dovrebbe fornire una soluzione da
applicarsi a tutti gli individui, consentendo però la possibilità di scegliere una soluzione differente attraverso
una dichiarazione esplicita (difforme dall'individuato dal legislatore).

Contro:

- il legislatore deve essere in grado di individuare il benessere dei destinatari della “spinta gentile” e di
operare la scelta migliore per questi.

- rischio è di attuare una scelta opportunistica da parte del legislatore, "mascherata" da tutela dei
destinatari. Questo rischio è ancor più elevato in presenza di uno Stato che partecipa in maniera
consistente ai fondamenti sociali economici di un Paese (educazione, sanità, grande impresa) in grave
crisi economica.

Errore concettuale di fondo in tutte le ipotesi di intervento indicate.

La teoria comportamentale si presenta come descrittiva dell'azione economica individuale; l'errore cognitivo
del singolo operante nel mercato non soltanto è ricorrente, ma è anche connaturale all'azione del contraente
finale. Le regole intuitive applicate dall'individuo solo in parte possono essere influenzate dall'esperienza,
dalla trasparenza delle condizioni negoziali e dall'informazione ricevuta dal contraente, relativamente allo
specifico, peculiare ambito nel quale si trova ad effettuare una scelta sul proprio assetto patrimoniale. L'errore
è dunque inevitabile, in quanto prevalgono attitudini e caratteri. La circostanza impone ai legislatori e
regolatori di tenere conto, non per impostare un sistema idoneo ad evitare l'errore ma per consentire al
contraente finale di confrontarcisi per evitarlo.

L'idea di un “individuo irrazionale operante nel mercato” non tiene conto del fatto che le sue istintive
deviazioni dalla scelta razionale siano sistematicamente studiate, talvolta provocate e sfruttate, dalle imprese.
La strada da intraprendere è quella di mettere il contraente finale nelle condizioni di ponderare le sue scelte,
non quella di vietarle in principio o indirizzarle. Il sistema deve garantirgli la condizione ottimale di operare in
maniera razionale e consapevole, evitando di utilizzare il divieto assoluto o spinta gentile, che presuppongono
l'individuazione da parte di terzi di cosa sia giusto per ogni singolo individuo.

4. Il valore educativo del "rammarico"

In questo capitolo non è stato mai usato il lemma "consumatore", sostituito da “contraente finale".

Il termine "consumatore" richiama l'idea di un parassita, di un soggetto che esaurisce senza contropartita. Così
è considerato l'individuo che opera nel mercato da parte del legislatore, che tende sempre più spesso a vietare
l'esercizio di determinate attività oppure a indirizzarle, facendo perdere la propria autonomia e identità a tale
figura economica.

Le decisioni che il contraente finale prende nel mercato hanno tutte un tratto in comune: mettono in relazione
un bene/piacere immediato con un bene/piacere futuro. Dato un patrimonio determinato, esclusi i beni di
prima necessità, tutti gli altri beni di consumo mettono l'individuo di fronte al dilemma se soddisfare un bene
piacere immediato o se attendere per poter soddisfare un differente bene/piacere futuro. L'individuo che opera
nel mercato fa delle scelte che possono rivelarsi errate.

Nell'istante in cui la scelta effettuata si dimostra errata, l'individuo se ne rammarica, si produce in lui una
sensazione psicologica negativa che coinvolgerà le sue scelte successive. L'impossibilità di soddisfare un
bisogno differente e comunque reputato di maggior impatto positivo sulla propria vita in ragione di una scelta
impropria fatta in precedenza, con conseguenze non solo sul patrimonio ma anche sulla psicologia del
contraente finale, sarà evento negativo di forte stimolo di riflessione al ripetersi di una situazione simile. In tal
modo, quando il contraente finale dovesse trovarsi ad effettuare una scelta economica circa l'assetto del
proprio patrimonio in un tempo successivo al compimento di un errore, la sensazione psicologica seguita
all'errore precedentemente commesso, è forte spinta a una decisione maggiormente razionale.

L'errore è quindi un elemento fondamentale dell'apprendimento anche in campo economico. Questo concetto è
in contrasto con la normativa di settore, interna e comunitaria.

L'errore, oltre a poter essere causato da una valutazione errata del contraente finale, può anche essere il
risultato di un comportamento scorretto tenuto dal fornitore del bene o servizio nel mercato. Anche in questo
caso l'errore comporterà rammarico, ma in questo ambito - poiché privo di valore educativo - il compito di
tutela spetta al legislatore e alle autorità preposte al controllo.

Sono due gli errori nei quali può cadere l'individuo operante nel mercato:

- l'errore cognitivo endogeno (inesatta valutazione dell'incidenza dell'acquisto sul proprio patrimonio
e sulla sua capacità di far fronte ai propri bisogni, tanto presenti quanto futuri);

- l'errore indotto (comportamento scorretto dell'altro contraente).

Se per il secondo errore l'attività del legislatore è fondamentale, per il primo essa deve essere di mero
supporto. Ciò è possibile da parte del legislatore e/o regolatore mediante l'imposizione di un solo limite, poi
sotto forma di divieto: quello della scelta impulsiva.

Non si deve impedire al contraente finale di compiere errori, ma lo si deve mettere in condizione di evitarli.
Tale soluzione non garantisce che non ne verranno commessi, e qui il diritto incontra il suo limite: non deve
sostituirsi alla volontà ma rendere l'atto decisionale un processo, non l'effetto di un'azione istintiva.

5. Il tempo come fattore determinante per l'analisi del corretto assetto patrimoniale da parte dei singoli
consociati: l'eliminazione della scelta impulsiva e l'informazione come via all'accrescimento del
benessere

Bisogna formulare una teoria normativa idonea a tutelare l'individuo rispetto ai suoi errori cognitivi, senza
divieti o "spinte gentili".

L'errore cognitivo e l'irrazionalità del contraente finale sono aggravati quando quest'ultimo è chiamato ad
assumere una decisione circa l'assetto patrimoniale in un lasso di tempo ristretto: ristretto non in termini
assoluti (non si sta parlando dell'acquisto istintivo), ma in relazione all'impegno economico proporzionato al
patrimonio (in via esemplificativa ma non esaustiva: l'acquisto di un bene con piano di rateizzazione a
scadenza particolarmente differita rispetto all'atto di acquisto).

Una buona decisione è costituita di due elementi:

- l'emozione: una decisione senza emozione sarebbe inefficace rispetto all'esigenza di soddisfare un
proprio interesse;
- il ragionamento: la decisione priva di ragione rischia di essere errata e di produrre "rammarico".

L'emozione elabora le informazioni e fornisce all'individuo risposte (poi da questo tradotte in azioni) rapide e
sicure, indipendentemente dal fatto che tali decisioni derivino dalla esperienza o dall'intuito, ma non è poi in
grado di segnalare l'allarme quando la circostanza sta per diventare pericolosa per l'individuo medesimo. Il
ragionamento rallenta l'attività dell'individuo stesso alla ricerca della risposta giusta ai propri bisogni.

Le due modalità di pensiero vengono identificate nella psicologia con i numeri 1 e 2. Il Sistema 1 identifica il
pensiero intuitivo e rapido. Il Sistema 2 fa riferimento al pensiero lento, che vigila sui comportamenti indotti
dal sistema 1 e mantiene il controllo dell'operare umano. È necessario che processo emozionale e processo del
ragionamento convergano per generare un comportamento ottimale.

Il pensiero razionale (o Sistema 2), in virtù della sua capacità di concentrare l'attenzione, è ritenuto
indispensabile per alcuni compiti: il confronto e la scelta coerente con il benessere perseguito - ma non può
assurgere a modello di razionalità. Le sue capacità sono limitate dalla conoscenza cui ha accesso: quella
dell'individuo. Questo non pensa sempre correttamente anche quando ragiona, quindi gli errori non sono
sempre dovuti a scorrette intuizioni (piano emozionale), ma anche alla fallacità della stessa ragione che non
sempre è in grado di sapere cosa sia giusto fare.

Sono due gli elementi necessari per limitare gli errori cognitivi:

- avere il tempo necessario per decidere;

- avere le informazioni necessarie affinché il pensiero razionale sia in grado di valutare il numero
maggiore di dati relativi all'operazione.

Il legislatore deve: assicurare che nel mercato vi siano tutte le informazioni necessarie affinché il contraente
finale sia in grado di prendere una scelta consapevole e in linea con il proprio concetto di benessere ed evitare
che sia concesso all'individuo di operare sotto la spinta dell'emozione.

L’eccesso di informazione può avere effetti deleteri nel processo decisionale. L'individuo tende ad utilizzare
una procedura di semplificazione nella elaborazione delle informazioni, al fine di massimizzare il risultato
rispetto a un tempo dato. Quindi l’individuo tende a ricercare nei beni quelle caratteristiche che ritiene
qualificanti per il raggiungimento dell'assetto voluto, procedendo con l'esclusiva analisi della loro presenza,
valutata anche in termini di percentuale. L'inefficienza dell'informazione non dipende solo da un'informazione
sub ottimale, ma anche da una capacità sub ottimale di processare l'informazione.

La sfida per il legislatore è quella di assicurare la presenza nel mercato di un'informazione qualitativa e di
facile comprensione da parte dell'individuo.

Per quanto concerne la questione relativa all'informazione qualitativa, che dovrebbe rispondere alla domanda:
“quali sono i dati necessari per una scelta ottimale?” Questa tipologia di informazione si scontra con
l'impossibilità di individuazione di esigenze e aspirazioni omogenee da parte del contraente finale. Inoltre, la
ricerca dell'informazione qualitativamente corretta non potrà nemmeno fare eccessivo affidamento su
rilevazioni statistiche, effettuate sui contraenti finali per tipologia di mercato, dato che in tali rilevazioni
confluirebbero gli errori cognitivi degli stessi.

Cosa fare allora? Si dovrebbe partire dagli errori cognitivi degli individui (per trarne indicazione), operanti in
quello specifico mercato per tipologia e posizione geografica, ai fini della individuazione delle informazioni
cui è tenuto il fornitore del bene o servizio. Un tale metodo è difficile da attuare in quanto richiede un grande
sforzo organizzativo da parte del legislatore e una stretta collaborazione con i Tribunali di merito.
6. ...Segue. L'archetipo del malfunzionamento del diritto come facilitatore di benessere il credito al
consumo

La strada da percorrere per evitare l'errore cognitivo è quella di operare su due piani contemporaneamente:

- informazione (qualitativa e di chiara comprensione)

- riflessione indotta (una spinta verso il pensiero razionale anziché verso quello emotivo).

Il credito al consumo è un istituto propenso alla drastica riduzione del benessere degli individui.

Mediante il contratto di credito al consumo, si concede credito ad un contraente finale - cioè a una persona
fisica che, nel chiedere il prestito, non agisce in qualità di imprenditore o professionista - per l'acquisto di beni
e servizi (credito finalizzato) o per soddisfare esigenze di natura personale (credito non finalizzato). Il credito
al consumo può assumere due forme:

- Dilazione del pagamento del prezzo dei beni e servizi acquistati: cioè di rinvio del pagamento a un
momento successivo all'acquisto. Viene concessa dai venditori di beni e di servizi, che possono
utilizzare quest'unica modalità e non possono applicare interessi o altri oneri.

- Prestito o altra analoga facilitazione finanziaria: il prestito viene accordato dalle banche o
intermediari finanziari. Nelle forme del finanziamento, il credito al consumo ha una durata variabile
da 12 a 72 mesi. Il contratto può essere concluso presso gli esercizi commerciali convenzionati con le
banche. Il bene oggetto di acquisto viene messo subito a disposizione del contraente finale mentre le
banche e gli intermediari finanziari possono riservarsi di accordare il finanziamento entro un breve
lasso di tempo.

Il credito al consumo è un sistema strutturato per spingere il contraente finale alla scelta emozionale,
statisticamente tendente al sorgere del rammarico.

La disciplina del credito al consumo sconta un doppio svantaggio cognitivo:

- la possibilità di acquistare il bene senza impiegare immediatamente tutta la somma necessaria del
proprio assetto patrimoniale conferisce una maggiore semplicità all'atto da porre in essere;

- la non conoscenza dei bisogni futuri rende la scelta emozionale insensibile a quel processo cognitivo
che crea una scala gerarchica dei bisogni, in presenza di un patrimonio limitato, sebbene l'acquisto
con lo strumento del credito al consumo vada direttamente ad incidere anche sui bisogni sconosciuti e
futuri.

L'orizzonte temporale è fondamentale. Il periodo di restituzione del prezzo del bene dovrebbe allora essere
contratto e non ampliato. Se è vero che un ampliamento del periodo di restituzione determina un minor peso
della singola rata, l'allungamento del tempo in cui il pagamento di un singolo bene o servizio andrà a incidere
sul patrimonio, e dunque sulle probabilità di allocarlo differentemente e renderà anelastica la possibilità di
reagire alle richieste contingenti.

La strutturazione di un sistema di pagamento che faciliti la scelta emozionale, che tenda ad incidere
negativamente sulla sua possibilità di rendere massimamente elastica la propria capacità di reazione alle
esigenze non previste, è un'ipotesi di intervento del legislatore.

La possibilità di poter soddisfare un bisogno, anche nell'impossibilità immediata di far fronte al relativo costo,
non è negativa (in principio) ma dovrebbe essere strutturata in maniera tale da non stimolare la scelta
emozionale.
Personalmente, vieterei il credito al consumo per beni non necessari, essenzialmente coincidenti con i beni
non pignorabili i cui al comma 2 dell'art. 514 cod. proc. civ. Per i beni non essenziali trattasi semplicemente di
ricorrere al sistema del risparmio, in voga in Italia sino agli anni 50. Sono due le ipotesi:

1. Nell'istante dell'impulso all'acquisto (pensiero emozionale), il patrimonio dell'individuo è idealmente


capiente al fine dell'acquisto medesimo ma l'incidenza risulta tale da sconsigliate la spesa (pensiero
razionale). Qui, l’impegno del patrimonio, per un periodo più o meno lungo, crea una falsa apparenza
circa la sopportabilità della spesa. Quindi il pensiero emozionale "inganna" il pensiero razionale. Solo
dopo, quando si accorge dell'inganno, sorge il rammarico.

2. Nell'istante dall'impulso del pensiero emozionale, il proprio patrimonio dell'individuo non è capiente
al fine di eseguire l'acquisto. Anche in tale evenienza, l'impegno minimo del patrimonio esistente,
sebbene per un periodo più o meno lungo, crea una falsa apparenza della realtà circa la sopportabilità
della spesa in relazione al patrimonio, con l'aggravante che non essendo tale patrimonio inizialmente
capiente a tal fine, la scelta di acquistare quello specifico bene o servizio, automaticamente ne esclude
altri, sia per il presente che per l'avvenire.

In ipotesi di divieto di credito al consumo, la necessità di posticipare l'acquisto del bene di consumo
desiderato mediante il risparmio e il trascorrere di un lasso di tempo tra l'istinto e la realizzazione del bisogno
percepito, consente all'individuo di informarsi sulle qualità del bene, magari realizzando che le sue esigenze
sono soddisfatte in maniera maggiore da altro bene o constatando l'inutilità del bene o permette di avere
elasticità di allocazione del proprio patrimonio a fronte di esigenze nuove o improvvise.

Tuttavia, il sistema del credito al consumo è così connaturato alla struttura del mercato concorrenziale che una
sua restrizione è impossibile. Il contraente finale è abituato a ritenere di sua spettanza beni non in linea né con
la sua capacità patrimoniale né con i suoi bisogni effettivi, con la conseguenza che un drastico divieto di
soddisfare il suo lato emozionale produrrebbe una sensazione di mancanza di essere.

Ritengo comunque che si debbano porre alcuni limiti al credito al consumo, magari per giungere in un
momento successivo all'abrogazione totale del sistema. Un'ipotesi di compromesso potrebbe individuarsi
mediante l'apposizione di tre limiti, di cui due alternativi:

- escludere alcuni beni dal credito al consumo;

- diminuire il periodo massimo di rateizzazione o, alternativamente, stabilire una percentuale massima


del reddito impiegabile in acquisti, con differimento del prezzo.

8. Un problema in più: quando lo Stato diventa parte negoziale

Quanto detto sopra convince nei limiti in cui lo Stato intervenga solo nella sua qualità di configuratore delle
regole del mercato. Cosa accade quando lo Stato entra in qualità di soggetto parte del negozio e opera
all'interno del sistema ove vigono le regole nel mercato? Quando lo Stato opera nel mercato deve perseguire il
benessere dei consociati o il proprio (quale operatore nel mercato)? Il benessere dello Stato è sovrapponibile
con quello che perseguirebbe qualsiasi operatore privato?

È possibile osservare il fenomeno descritto nel Partenariato Pubblico Privato (Contratto a titolo oneroso,
nella quale una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici un complesso di attività
consistenti nella realizzazione, trasformazione, etc. di un’opera in cambio della sua disponibilità o del suo
sfruttamento economico), fenomeno dove emerge la sovrapposizione degli interessi del pubblico che opera nel
e con il privato e quelli del privato che persegue il raggiungimento del proprio benessere.

Il Partenariato Pubblico Privato (PPP), nella sua accezione moderna, prende avvio dal PFI inglese della fine
del secolo scorso. Questo strumento può essere visto come volano a beneficio dell'amministrazione pubblica
(che acquisisce competenze peculiari risolvendo la mancanza di risorse economiche) e dei privati (che
possono trovare nuovi mercati). È uno strumento difficile da gestire, in quanto, le dinamiche che regolano il
legittimo operato della pubblica amministrazione e dei privati in campo economico, non essendo
sovrapponibili rendono necessaria una attenta analisi della corretta ripartizione dei rischi. Questi rischi
dovranno essere suddivisi secondo le logiche sottostanti le due diverse entità.

Nel sistema del partenariato pubblico privato si incontrano due parti nella quale è differente non solo la
disciplina operativa ma anche logica che muove le decisioni. La pubblica amministrazione non può ragionare
secondo i parametri dell'operatore privato e viceversa.

Inoltre, esiste una categoria di parametri tipica di questa operatività. A questa categoria appartengono rischi
che non avrebbe senso assumersi in una tipica contrattazione nel mercato (tra operatori privati), ma che
assume una sua specificità e ragione d’essere quando le Parti appartengono a due categorie differenti, come
nella fattispecie in esame.

Lo scrittore di questo capitolo (a cui piace dare le proprie opinioni) non trova perfettamente coincidenti le
peculiarità del Partenariato Pubblico Privato e le "Linee Guida n. 9, di attuazione del decreto legislativo 18
aprile 2016 n. 50, recanti «Monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull'attività dell'operatore
economico nei contratti di partenariato pubblico privato»" emanate dall'A (autorità) N (nazionale) A (anti) C
(corruzione), ritenendo che le stesse non colgano appieno le peculiarità del rapporto che si instaura tra le due
entità.

L'ANAC sembra voler applicare al partenariato, sotto il profilo finanziario, i principi di corretta allocazione
del rischio economico che regolano i rapporti che si svolgono nel mercato tra operatori privati senza tener
conto delle peculiarità della pubblica amministrazione. Questo non è tuttavia possibile.

Esempio: si pensi ai lunghi tempi intercorrenti tra la pubblicazione del bando ed il momento di aggiudicazione
della gara, elemento lesivo dell'interesse del contraente privato in quanto a una maggiore dilazione
dell'aggiudicazione rispetto alla gara corrisponderanno maggiori rischi di progetto.

Tale specificità di mercato interferisce con i costi a carico del soggetto privato, il quale li riverserà nella
remunerazione attesa e, in ultima istanza, comporteranno maggiori oneri a carico della collettività ma non per
questo una minore convenienza del ricorso al PPP.

Non tenere conto di questa specificità sotto il profilo del c.d. value for money e dell'inevitabile riflesso di
questa (specificità) sui costi maggiori che la pubblica amministrazione incontra nell'operare secondo le regole
nel mercato, comporterebbe una perdita di importanti potenzialità e un rischio di maggiore di insuccesso delle
operazioni.

Cardine del PPP è il tendere a un risultato che costituisca il migliore risultato possibile per la collettività
tenuto conto di tutti i benefici, i costi e i rischi nell'intero suo ciclo di vita, dove il miglior risultato per la
collettività non può essere valutato esclusivamente in termini di spesa.

Dal punto della pubblica amministrazione il rischio da evitare è che l'attività si dimostri “non equa" (non
rispondente ai benefici per la collettività). Dal punto di vista dell'operatore privato il rischio è che l'attività si
dimostri "non giusta" (non rispondente ai normali criteri di economicità dell'operare nel mercato dei privati).
Per raggiungere tale equilibrio non si può condividere l'impostazione dell'ANAC nelle sue "Linee guida”
relativamente alla trasferibilità o dei rischi all'operatore economico in tema di "domanda". Ai sensi delle Linee
Guida, il rischio «legato ai diversi volumi di domanda del servizio che il concessionario deve soddisfare,
ovvero il rischio legato alla mancanza di utenza e quindi di flussi di cassa» (art. 3 comma 1 del Codice dei
Contratti Pubblici) non può considerarsi trasferito all'operatore economico «laddove l'amministrazione si
obblighi ad assicurare all'operatore economico determinati livelli di corrispettivo indipendentemente
dall'effettivo livello di domanda espresso dagli utenti finali, in modo tale che le variazioni di domanda
abbiano un'influenza marginale sui profitti dell'operatore economico». Il rischio domanda dovrebbe essere
tipico rischio di impresa, sempre da allocare sull'operatore economico privato, il quale non può fare
affidamento sulle ipotesi dell'amministrazione aggiudicatrice né su sistemi negoziali che ne escludano a priori
il rischio.

Sempre secondo l’ANAC sarebbe «opportuna la previsione di idonee clausole contrattuali volte a scongiurare
ipotesi di extra-redditività prevedendo rimedi quali una variazione della durata del contratto nel caso in cui sia
dimostrato che l'operatore economico abbia conseguito più velocemente l'obiettivo del recupero degli
investimenti e dei costi sostenuti, oppure la previsione di meccanismi di profit sharing che consentano la
condivisione degli extraprofitti con l'amministrazione o con gli utenti destinatari del servizio, in caso di opere
calde». In questa ipotesi, l'eventuale extra-redditività non può che essere riconosciuta.

Questo è un altro errore concettuale presente nella disciplina del PPP. Errore provocato dal tentativo di
rendere omogeneo un sistema di costi benefici di per sé non sovrapponibile: l'equità dell'operare
dell'amministrazione pubblica con la giustizia del sistema dei rapporti negoziali che regge il sistema privato.

La disciplina ipotizzata per i contratti di PPP va a stravolgere il sistema negoziale sul quale si fonda il mercato
concorrenziale, imponendo un sistema contrattuale tra amministrazione pubblica e operatore privato basato
sull'equità e non sulla giustizia. Avrebbe senso una norma a tutela di una (assunta) extra-redditività o
l'allocazione del rischio in capo a una parte negoziale soltanto in base la principio della sua capacità di
controllo e gestione di questo.

Se, al contrario, si tengono separati i due sistemi, questi possono collaborare nella loro unicità. Secondo la
struttura proposta, la discrezionalità di allocazione dei rischi dovrebbe essere particolarmente ridotta in capo
all'amministrazione aggiudicatrice dovendo rimanere in capo a questa soltanto quelli relativi all'equo
contemperamento dell'interesse dei consociati.

9. Conclusioni, finalmente…

Sotto il profilo negoziale, gli specifici rischi connessi alla costruzione e gestione dell'opera o del servizio del
contratto di PPP non dovranno essere posti in capo al soggetto che presenta la maggiore capacità di controllo e
di gestione degli stessi ma secondo la loro normale allocazione alla luce dei criteri decisionali di riferimento.
Il rischio del valore residuale e il rischio di obsolescenza tecnica saranno a carico della amministrazione
aggiudicatrice mentre il rischio costruzione, domanda e disponibilità saranno in capo all'operatore.

Se si condivide l'impostazione qui proposta, nei contratti di PPP, in via esemplificativa, non dovrebbero essere
inseriti rimedi quali una variazione della durata del contratto nel caso in cui sia dimostrato che l'operatore
economico abbia conseguito più velocemente l'obiettivo del recupero degli investimenti e dei costi sostenuti,
oppure la previsione di meccanismi di profit sharing che consentano la condivisione degli extra profitti con
l'amministrazione o con gli utenti destinatari del servizio, posto che lo stesso concetto di extra redditività
dovrebbe essere del tutto estraneo alla tipologia stessa del contratto ove il sinallagma (rapporto corrispettivo
tra prestazione controprestazione) non è prestazione contro costi ma benefici in equità sociale a fronte di utile
d'impresa.

In altri termini: anche lo Stato opera nel mercato dovrebbe avere piena applicazione il principio della
valutazione soggettiva delle prestazioni di cui al sinallagma ove le due parti negoziali hanno valori di giudizio
strutturalmente non coincidenti.

Il benessere per lo Stato e il benessere per il privato non coincidono, non devono coincidere, ma non sono
antitetici e possono essere raggiunti svolgendo la medesima attività sebbene retta da principi differenti e
questa è la scommessa da vincersi.
CAPITOLO 4: Le donne: miti, libertà e sviluppo economico

1. PREMESSA

L'analisi delle libertà e delle relazioni economiche delle donne all’interno dell'organizzazione della società
postula necessariamente un approccio multidisciplinare. Non è possibile comprendere il riconoscimento
dell’inclusione delle donne negli ambiti decisionali di gestione delle risorse se non si considerano le
elaborazioni dei pensieri femministi, gli studi sociali sul gender, la storia dei movimenti delle donne. Questi
fattori hanno determinato il riconoscimento dei principi di pari opportunità e di gender mainstreaming nonché
la legittimazione di azioni positive i cui effetti, almeno nelle premesse, dovrebbero contribuire a realizzare
nuovi modelli di sviluppo e modificare in concreto il significato delle libertà, l’organizzazione del lavoro e
l’assetto dei mercati.

Processi indubbiamente non ancora compiuti e affetti da gravi contraddizioni perché investono il significato
profondo di “riproduzione” e “produzione” nonché gli obiettivi di giustizia sociale nell’accesso e gestione
delle risorse economiche.

2. TEORIE E PRATICHE FEMMINISTE

Il Secolo XIX si è incentrato intorno all’elaborazione filosofica e politica del binomio libertà ed eguaglianza
quale parametro tendenziale di connotazione del potere pubblico su cui costruire i moderni assetti liberali
delle civiltà occidentali. Diversamente il XX Secolo, sembra essersi sviluppato intorno alle interconnessioni
tra libertà, uguaglianza in senso sostanziale e differenza, La differenza infatti, intesa quale componente
essenziale dell’uguaglianza sostanziale, diviene nuova prospettiva delle complesse declinazioni delle libertà.
Quest’evoluzione è stata determinata dal processo di emancipazione delle donne, dalla conquista del diritto di
voto e di elettorato passivo nonché rappresentanza nelle cariche istituzionali, dal superamento del ruolo legato
alla sola riproduzione e alla maternità, dalla pianificazione e dal controllo delle nascite come strumento di
politica sanitaria pubblica. Questi fattori, hanno contribuito a declinare a fianco al principio di eguaglianza,
quello della differenza e, dunque, del genere. Vi è però da dire che le teorie femministe sono molto complesse.
Tentando di semplificare al massimo si può individuare una prima distinzione, di carattere temporale: si parla
al riguardo di diverse ondate di femminismo (PRIMA ONDATA: lotta per il diritto di voto e istruzione e
condizioni di lavoro dignitose [suffragette]. SECONDA ONDATA: anni 60, lotta alle diseguaglianze. TERZA
ONDATA: anni 90, salute sessuale e riproduttiva. QUARTA ONDATA: attuale, femminismo intersezionale e
sviluppo sostenibile).

Secondariamente, si distinguono filosofie egualitarie, incentrate sul genere, e filosofie differenzialiste. Le


prime sono fondate principalmente sull’esigenza di rimuovere ogni ostacolo che crea discrimine tra uomini e
donne, valorizzando e ricostruendo i concetti di uguaglianza formale e sostanziale, di lotta alle
discriminazioni, pari opportunità.

L'ultima frontiera di questo approccio oltrepassa l'orientamento sessuale, fino a giungere alla critica del
concetto stesso di identità di genere, inteso in senso dicotomico: maschile e femminile. I movimenti di
pensiero sulla fluidità dell’identità di genere contestano il sistema binario uomodonna perché lo considerano
una barriera che opprime la creatività soggettiva- La fluidità dell’identità si declina in vari modi, mai fissi e
costanti nel tempo: transgender, pangender, agender. Per l’effetto, su tali posizioni si fondano le lotte sociali
per il riconoscimento di una rivisitazione dello status anagrafico maschile/femminile, per il riconoscimento di
diversi modelli familiari e della più ampia declinazione dei diritti riproduttivi estesa alle coppie omosessuali.
Le seconde teorie sono volte a riconoscere le differenze irriducibili esi. stenti tra genere maschile e femminile,
auspicando una rigenerazione più equa e giusta degli assetti delle società. Quest'ultimo indirizzo esalta il
principio di dignità delle donne. In Italia la teoria della differenza ha avuto una grande diffusione. Nel corso
degli anni Sessanta, specie negli Stati Uniti d'America, l’affermarsi dei cd. Women's Studies ad opera della
critica femminista investe le scienze sociali e contribuisce a ripensare l’androcentrismo che permea la cultura,
la scienza, il diritto e le dinamiche sociali. La critica femminista, nelle sue varie espressioni, è comunque
sempre accomunata dalla necessità di demolizione dell’ordine patriarcale, dall’affrontare la grande
discrepanza esistente tra l’uguaglianza formale e quella disuguaglianza reale. Assume quindi un ruolo
centrale la figura di Margaret Sanger, pioniera dell'educazione sessuale e della contraccezione, che si trovò nei
primi del ‘900 ad operare nel contesto degradato in cui vivevano le donne proletarie nei sobborghi
newyorkesi. La Sanger è comunque stata una figura controversa.

Certo è che la ricostruzione novecentesca delle libertà femminili è forse la più profonda rivoluzione degli
ordini costituiti ed ha origine dalla reinterpretazione dei ruoli sociali di “riproduzione” e “produzione”,
traghettati verso una congiuntura storica ed economica postfordista (POSTFORDISMO: un nuovo sistema di
accumulazione capitalistica fondato su metodi produttivi altamente flessibili) e di trasformazione del
liberismo economico. Ed infatti le libertà femminili sono al contempo parte integrante del capitalismo ma
anche strisciante principio destabilizzante degli assetti macroeconomici fondati dell'utilitarismo economico .
La liberazione da una funzione esclusivamente e deterministicamente riproduttiva è anche la premessa
per l’utilizzo delle donne come forza lavoro fuori dalle mura domestiche.

Dal punto di vista storico è senza dubbio il tema del controllo delle nascite e della maternità sicura, intesa
come scelta, il grimaldello per rivisitare ed innovare la dimensione socioeconomica e familiare delle
distinzioni sessuali e di quello che ne deriva.

Nel pensiero femminista emerge successivamente e con maggiore consapevolezza la categoria concettuale di
analisi storica del genere. Queste correnti di pensiero si incentrano sul concetto di Gender ed evidenziano che
l’oppressione sessuale non è inevitabile ma è frutto di specifici rapporti che regolano storicamente la relazione
uomo/donna. Anche le storiche femministe americane sostengono che una riscrittura della Storia non può
prescindere dal genere, categoria cruciale, come quelle di classe e razza.

Le elaborazioni afferenti il gender si caratterizzano per un’accentuazione della valenza socio-economica e


culturale nel definire l’identità femminile, con conseguente necessità di esprimerne i valori e di contaminare la
cultura dominante per avviare i processi di trasformazione e rinnovamento. In Europa la denuncia della
costruzione culturale e politica in senso maschilista e patriarcale delle società era già iniziata con gli
importanti scritti di Virginia Woolf: “Una stanza tutta per sé” e “Le tre ghinee”. Questi saggi
rappresentano una chiara denuncia sociale sulle condizioni materiali della donna per la quale è negata
ogni sfera di indipendenza, anche quella dello scrivere opere letterarie o dell’esprimere una forza creativa,
facoltà che necessitano, appunto, di una stanza tutta per sé. La donna secondo la Woolf, si trova ancora a
vivere un regime patriarcale che la esclude dalla gestione dei propri patrimoni e che la vede inferiore
all'uomo “per natura”. Vi è dunque la piena consapevolezza che il vero cambiamento deve avvenire ad
opera delle stesse donne nella sfera privata prima ancora che in quella pubblica. La Woolf auspica che si formi
un tipo di associazione di donne che valorizzi la differenza femminile nel modo di essere e di sentire. Nella
pratica politica, tuttavia, la libertà femminile è vissuta e interpretata differentemente nella prima metà del
’900. Da un lato, specie in Inghilterra, si affermano i movimenti femministi liberali, in primis quello delle
suffragettes, per l'ottenimento del diritto di voto delle donne e per la parità dei diritti politici. Dall’altro, il
femminismo socialista europeo affianca i sindacati ed identifica la lotta delle donne con quella sociale dei
lavoratori e dell’intera classe operaia.
Secondo Simone de Beauvoir occorre scartare ogni spiegazione di tipo deterministico e meccanico
dell’oppressione delle donne, posto che l’esito dell’asservimento deriva da un processo “storico” sul quale
hanno influito condizionamenti sociali e scelte delle donne. Ogni essere umano ha la capacità di scegliere
liberamente. La donna viceversa ha negato questa libertà di scelta e si è ridotta ad essere semplicemente
l’Altro rispetto all’uomo. La liberazione della donna non può che passare attraverso la rottura del rapporto di
chiusura esistente con l’uomo, nel quale uomo e donna dovrebbero riconoscersi reciprocamente come soggetti
per l’altro, un altro. È evidente come tali elaborazioni manifestino la crisi del pensiero filosofico
contemporaneo imperniato sul Soggetto. Vengono anche a configurarsi in termini differenti la polis e la
cittadinanza. E’ travolta anche la certezza dell'identità maschile, che affonda le radici in età primitive. Sul
piano della mobilitazione politica l'attacco frontale al patriarcato si ebbe nel 1969 ad opera del “ Manifesto
delle femministe” newyorkesi.

Il femminismo considera il patriarcato come asse storico dell’oppressione femminile e della violenza nei
confronti delle donne. In questo contesto anche la maternità è considerata una trappola che reifica il corpo
della donna e la estranea da sé. Come già accennato, all’interno dei movimenti femministi si delinea
gradualmente la teoria della “differenza sessuale” o della “dualità di genere” che affonda le proprie radici nel
pensiero della differenza sviluppatosi soprattutto in Francia. La filosofia della differenza sessuale persegue
come metodo la decostruzione della forma tradizionale in cui viene concepito il “genere umano”. In tal senso
si parla di dualità di una nozione che è falsamente neutra in quanto al suo interno opera l'omologazione della
donna all’uomo e al suo sistema valoriale. In quest'ottica il linguaggio, la politica, il diritto, l'economia sono
sistemi da decostruire per approdare alla loro diversa forma sessuata, che non può che essere duale.

Per comprendere a fondo la portata del pensiero della differenza, e la sua influenza in Italia, è fondamentale
l'elaborazione di Luce Irigaray, filosofa psicoanalista, linguista belga, di formazione lacaniana. Partendo
dall’approccio psicoanalitico, ella contesta la neutralità e l’astrattezza del pensiero maschile, apparentemente
volto ad includere il soggetto femminile per viceversa negarlo nel processo di assimilazione. La Irigaray
ripercorre i testi della cultura filosofica occidentale, da Platone a Freud, per rilevare come e dove l’altro, la
donna, sia esclusa dalla produzione del discorso e ridotta al silenzio. Solo la reciprocità nel riconoscersi
uomini e donne, con pari dignità, consente la creazione di un nuovo sistema civile fondato su “diritti sessuati”.
Affinché le donne abbiano un'identità civile, in quanto donne, è necessario affermare i “diritti femminili” nei
diversi ambiti (lingua, religione, rappresentanza e rappresentazioni pubbliche, maternità, lavoro). Nella pratica
politica, il pensiero della differenza rovescia il programma classico del femminismo perché pone in
discussione il principio dell’eguaglianza. Tuttavia, l'abbandono dell'idea di eguaglianza non significa affatto
negare le conquiste delle donne sul terreno dei diritti civili e politici, né approdare ad un esito reazionario.
L’idea di fondo è che ogni percorso politico debba essere ripensato valorizzando dal punto di vista sociale e
immanente le differenze di genere. Le donne, non avrebbero lottato solo per l'eguaglianza, ma per vedere
garantite le condizioni concrete capaci di fare esprimere le loro identità come soggetti sessuati, produttrici di
linguaggi, immaginari ed etiche differenti. Sul piano giuridico, un tentativo di sintesi tra eguaglianza e
differenze è quello della filosofa del diritto Letizia Gianformaggio, che vede nelle istanze di riconoscimento
delle identità specifiche il rischio dell’indebolimento dei diritti individuali con conseguente chiusure
reciproche dei gruppi e delle comunità.

Uno dei punti di maggiore frattura tra le femministe sarà proprio quello afferente l’analisi degli ambiti socio-
economici e la declinazione del concetto di identità personale. Dal punto di vista della differenza sessuale la
relazione tra il lavoro e il non lavoro è ulteriormente tratteggiata nella prospettiva della “cura”. La cura
coincide con la quotidianità della vita delle donne e comprende svariati aspetti, della sfera privata e pubblica.

Fondamentale, in questa prospettiva, è l’elaborazione sull’etica femminile di Carol Gilligan. L'Autrice


afferma che esistono due visioni del mondo: una maschile e una femminile. Secondo Gilligan, vi sarebbe
un'attitudine femminile particolarmente positiva della donna che si autodefinisce a partire dalle proprie
relazioni interpersonali. Il posto della donna nel ciclo della vita — nutrice, governante, dispensatrice di cure e
tessitrice di rapporti umani — la pone al centro di una rete di relazioni. La paura dell’esclusione determina,
nella donna, un’etica della responsabilità e di ricerca del consenso. Diversamente l’uomo si pone all’interno di
relazioni interpersonali di natura gerarchica. La sua paura dell’inclusione e degli ostacoli alla leadership
contribuisce a fondare un universo etico di tipo giusnaturalistico, fondato sui diritti. Questa concezione è
all’origine di un acceso dibattito anche in ordine alle caratteristiche della leadership femminile in campo
economico. Sarah Ruddick si interroga sul come includere nel concetto di cittadinanza il pensiero materno,
enfatizzando il fatto che il pensiero materno caratterizza l'identità femminile e quindi la coscienza politica
femminista. Fa parte del pensiero materno anche il lavoro procreativo, con evidenti risvolti politici e
concezioni filosofiche, quali, il mantenimento della vita e il pacifismo. A livello politico occorre inserire il
pensiero materno e le relative capacità nella sfera pubblica affinché il mantenimento della vita e la crescita di
tutti i bambini divengano oggetti di attenzione pubblica e di produzione legislativa.

La contrapposizione tra eguaglianza e differenza crea tuttavia un ostacolo nel percorso teorico del pensiero
femminista. Questa contrapposizione verrà definita come il dilemma della differenza (Scott e Minow). Scott
ritiene, infatti, che dal dilemma della differenza derivi comunque una scelta impossibile: non si può perseguire
la differenza, senza violare il principio di eguaglianza e, parimenti, non si può assicurare l'uguaglianza senza
annullare le differenze. Così espresso, il dilemma si tramuterebbe, in chiave politica, nell’autosconfitta delle
donne. La via d'uscita, potrebbe essere quella di rielaborare il senso profondo dell’eguaglianza e della
giustizia e di comprendere, in essi, tutte le tensioni sociali e politiche di ordinamenti in continua evoluzione.
In questo senso diventano attuali le elaborazioni sulle capabilities.

Agli inizi degli anni 90 Amartya Sen, filosofo indiano, evidenzia che il genere, lungi dall’essere
contrapponibile alle variabili di classe, proprietà, occupazione, status familiare, è ad esse complementare e
riveste un’importanza decisiva nella realizzazione delle analisi economiche e sociali; inoltre, le diseguaglianze
di genere sono tra le più variegate, influenzate anche da fattori culturali, religiosi, sociali e capaci di incidere
su tutti gli ambiti dell’esistenza umana. In questa prospettiva, viene elaborata la nozione di capabilities, intesa
come il complesso delle risorse relazionali di cui una persona dispone, associata alle capacità di fruirne in
concreto. La valutazione dello sviluppo non può essere separata dalle condizioni di possibilità di vita e di
libertà di cui godono effettivamente le persone. La libertà, dunque, si arricchisce mettendo in evidenza la
possibilità di azione che una persona può mettere in atto disponendo di una certa quantità di beni. La
capacitazione di una persona non è che l’insieme delle combinazioni alternative di funzionamenti — ciò che
una persona può mettere in atto, anche se poi decide di non farlo - disponendo di una certa quantità di beni.
L’approccio del tutto innovativo di Sen — un approccio che apre l’economia alle interconnesse questioni
etiche e spirituali e che coniuga astrattismo ed esperienze concrete — porta a superare i parametri consueti di
rilevamento dello stato di un paese e del benessere della sua gente, ossia il prodotto interno lordo. Per
misurare la qualità della vita, gioia e benessere di un popolo occorrono pertanto altri parametri.

3. INFLUENZA SULLA NORMATIVA

Riguardo all’azione politica è sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale che si costruiscono le basi per il
riconoscimento giuridico dei diritti e delle libertà femminili sia in ambito nazionale che internazionale.

L'autonoma elaborazione teorica delle donne porta ad una profonda rivisitazione dei concetti e delle categorie
astratte su cui si fondano gli ordinamenti: libertà, diritti, eguaglianza, differenza.

Unzueta parla pertanto di “femminismo giuridico” o “giusfemminismo” riferendosi ad una vera e propria
corrente critica o di trasformazione della realtà. Partendo dall’idea che le donne vivono in posizione di
subalternità rispetto agli uomini, l’Autrice postula uno sforzo di superamento al suo interno e di ricostruzione
di tutti gli ambiti del sapere, incluso appunto il diritto.
Certo è che l’azione delle donne impegnate nei movimenti porta radicali mutamenti, a cominciare dagli assetti
costituzionali e dai valori fondamentali. In Italia il primo accesso formale delle donne, al pieno esercizio dei
diritti politici, si ha con il decreto del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 1945. Tuttavia, la piena
cittadinanza è contaminata fin dall’origine da un irriducibile impianto familistico incentrato su un modello
ancora patriarcale della famiglia tradizionale. Solo nel corso di decenni, si raggiunge la formale parità nel
lavoro, nella famiglia, la pienezza dei diritti alla salute, all'educazione, all’accesso alle cariche pubbliche.
L'Assemblea Costituente affronta da subito il tema dell’eguaglianza sostanziale in tutti gli ambiti della vita
privata e pubblica. E’ illuminante il discorso di Teresa Mattei sull’art. 3 della Costituzione: “Nasce e viene
finalmente riconosciuta nella sua nuova dignità nella conquistata pienezza dei suoi diritti, questa figura di
donna italiana finalmente cittadina della nostra Repubblica...”. La consapevolezza profonda che mostrano le
madri costituenti è nel senso di assicurare, nella cultura e nella società, l'eliminazione degli ostacoli legati
anche al sesso che di fatto impediscono sia la piena partecipazione alla vita democratica del Paese che lo
sviluppo pieno della personalità. Da qui la formulazione dell’art. 3 della Costituzione, che al secondo
comma recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In ambito laburistico intervengono progressivamente: la L. n. 860/1950 sulla tutela fisica ed economica della
lavoratrice madre; la L. n. 686/1950 sul divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti e puerpere che
tuttavia è stata spesso elusa con il ricorso da parte dei datori di lavoro alla pratica delle cd. dimissioni in
bianco; la L. n. 1044/1971 di istituzione di asili-nido pubblici; la L, n. 903/1977 sulla parità di; la L. n.
546/1987 sull’estensione dell'indennità di maternità alle lavoratrici non dipendenti; la L. n. 53/2000 sui
congedi parentali, per il sostegno della maternità e paternità. Sull'accesso alle cariche pubbliche si ricordano la
L. n. 1441/1956 sulla presenza delle donne nelle giurie popolari e nei tribunali minorili; la L. n. 66/ 1966 per
l’accesso a tutte le carriere, e solo nel 1981 si introduce l'ammissione delle donne nella Polizia di Stato.
Nel 2001 viene modificato l'art. 51 della Costituzione al fine di assicurare l’accesso ad uffici pubblici e alle
cariche elettive in condizioni di eguaglianza. Ma i movimenti femministi incidono in modo radicale
soprattutto in materia di riforma della famiglia e “gestione” del corpo femminile. La Costituzione riconosce la
famiglia, entità “naturale” che precede il diritto, fondata sulla proclamazione dell’eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, protegge la maternità e la prole e consente di superare la potestas del padre di famiglia.
Il riconoscimento formale dell’eguaglianza tra i coniugi anticipa la grande stagione delle trasformazioni
sociali. A partire dal 1958 si susseguono: l’abolizione della regolamentazione della prostituzione (L. n.
75/1958); lo scioglimento del matrimonio (L. n. 898/1970); la riforma del diritto di famiglia (?°) (L. n.
151/1975); la tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza (L. n. 194/1978); la
cancellazione dell'attenuante della causa d’onore per i delitti (L. n, 442/1981); la classificazione della violenza
sessuale come reato (L. n. 66/1996); le leggi contro la violenza nelle relazioni familiari (L. n. 154/2001), le
pratiche di mutilazione genitale (L. n. 7/2006), lo stalking (L n.38/2009), la ratifica ed attuazione della
Convenzione di Istanbul per il cos: trasto di tutte le forme di violenza contro le donne, anche in ambito
domestico (L. n. 119/2013 e L. n. 69/2019).

Nella congiuntura post-bellica la proclamazione dei diritti universali è anche il contesto per il riconoscimento
della parità di genere in ambito internazionale. Il Preambolo della Carta dell'ONU sancisce tra gli obiettivi
principali la “fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana,
nell’uguaglianza dei diritti di uomini e donne”. La Carta è il primo strumento internazionale che sì riferisce
nello specifico ai diritti delle donne e alla parità di genere e vincola a livello legale tutti i membri dell'ONU a
impegnarsi per la piena. Così una questione etica diventa un obbligo vincolante per tutti i Governi delle
Nazioni Unite. Lo stesso principio viene poi ripreso e ribadito nella Convenzione sui Diritti Politici delle
Donne e nella Convenzione sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione contro le Donne.
Ma è soprattutto con la “Quarta Conferenza mondiale sulla Donna” tenutasi a Pechino nel 1995 che le donne
rivendicano la condivisione del potere politico ed economico e, quindi l’accesso concreto ed effettivo ai
luoghi decisionali dell’economia. La Conferenza individua l’obiettivo di una partecipazione paritaria ai
processi decisionali, alla gestione delle risorse economiche e al rafforzamento delle strutture democratiche. È
questa la sede di elaborazione delle nozioni di “empowerment”, “equality”, “equity”, “gender
mainstreaming”, “massa critica” che segneranno l'evoluzione delle successive normative in sede europea e
nazionale. La partecipazione della Comunità Europea alla Conferenza di Pechino segna una svolta decisiva
verso il riconoscimento effettivo della parità di genere in ambito europeo. Nella fase di costruzione
dell’Unione sociale e politica, oltre che mercantile, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
solennemente proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza, nel porre il divieto di ogni discriminazione (art. 21),
sancisce la parità tra uomini e donne (art.23) in tutti i campi, e stabilisce che il principio della parità non osta
al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del genere
sottorappresentato (art. 23, comma 2). Si tratta della legittimazione delle cd. “azioni positive”, ossia misure, in
sé discriminatorie e temporanee, volte a ripristinare il perfetto equilibrio di genere.

Il diritto derivato europeo, dal punto di vista della parità di genere, si fonda pertanto su tre grandi pilastri: 1) il
gender mainstreaming, come prospettiva di genere che deve attraversare tutte le normative e le politiche
europee; 2) il divieto di discriminazioni, anche indirette, in tutti i settori della vita pubblica e privata, ed
infine 3) le azioni positive, tra le quali annoverare le cd. quote. Secondo il Consiglio economico e sociale
delle Nazioni Unite il “MainStreaming, in una prospettiva di genere, è il processo di valutazione delle
implicazioni per uomini e donne di ogni azione pianificata, compresa la legislazione, le politiche o i
programmi, in tutti i settori e a tutti i livelli. Si tratta di una strategia fa in modo che le donne e gli uomini
possano beneficiare in egual misura dell'uguaglianza e che la diseguaglianza non si perpetui. L'obiettivo
finale è quello di raggiungere la parità tra i sessi”. In altri termini, la “democrazia paritaria”. Il divieto di
discriminazioni ha la medesima matrice. In tale ambito la giurisprudenza della Corte di Giustizia, elabora la
nozione di discriminazione indiretta, che il nostro Codice delle Pari Opportunità definisce come segue: “si ha
discriminazione indiretta quando una disposizione un criterio una prassi un atto, un patto 0 un
comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una
posizione di particolare svantaggio…”. Per azioni positive, in materia di parità di genere, si intende viceversa
il mantenimento e/o l’adozione di misure temporanee, in sé potenzialmente discriminatorie, ma volte a
ricreare una situazione di equilibrio tra i sessi. Un caso emblematico di azioni positive, come accennato, è
rappresentato dal meccanismo delle “quote di genere”, definite dalla Commissione come la proporzione
o quota definita posti assegnati ad uno specifico gruppo volti a correggere un precedente squilibrio, di
solito per quanto concerne le posizioni decisionali o l’accesso alla formazione o ai posti di lavoro. Le quote
sono ritenute da molti come la risposta politica al grave e perdurante fenomeno della sotto-rappresentanza in
campo economico, per altri come misure non pienamente risolutiveDa qui, in campo economico, la proposta
di quote nei boards delle società.

Comunque un dato è certo: le norme, se pur necessarie, non sono sufficienti. Nel 1988 Drude Dahlerup (7°)
fondava la teoria della “massa critica”: occorre una data soglia numerica entro gli organismi politici -
economici affinché le donne possano, democraticamente, esprimere la propria personalità. Gli esigui numeri
di donne ai vertici delle imprese e dei centri decisionali in campo economico sono frutto di stereotipi, limiti
nell’organizzazione della vita sociale e familiare, ostacoli alla crescita e allo sviluppo della personalità, ma
anche alla partecipazione alla vita democratica. La maternità, e la scarsa possibilità di effettiva conciliazione
tra vita lavorativa e vita familiare, hanno un ruolo determinante nell’ostacolare le carriere femminili. Questi
vincoli portano, in campo economico a fenomeni di 1) segregazione orizzontale, ossia distribuzione maschile
e femminile non omogenea; 2) segregazione verticale, intesa come disomogeneità nella distribuzione
gerarchica tra donne e uomini; 3) svantaggio retributivo e 4) segregazione intra-occupazionale.
4. LEADERSHIP FEMMINILE

Le elaborazioni teoriche delle donne e i dati forniti dalle ONG sulla scarsa partecipazione all’interno dei
processi decisionali economici creano dunque una sorta di spartiacque ideologico e culturale. Da un lato,
contribuiscono alla definizione contemporanea di leadership e sono assorbite dalle politiche economiche
neoliberiste, dall'altro creano le premesse per una lettura critica dei diversi possibili orizzonti di
sviluppo. Sotto il primo profilo, è significativa l’evoluzione della nozione sulla leadership in campo
economico e, più in generale, del concetto di womenomics. I profondi mutamenti socio economici degli
anni ’80 incidono profondamente sul significato della leadership, che viene definita da Bass
“trasformazionale”: la più adatta ed efficace per fronteggiare contesti di rapidi cambiamenti. Assumono
rilievo fattori, quali: la comunicazione verbale e non verbale, il richiamo ai valori, il comportamento
simbolico del capo, la motivazione dei collaboratori, l'empowerment, la fiducia e la guida.

Negli anni Novanta si assiste ad una contaminazione della nozione ad opera elaborazioni teoriche delle
femministe; si abbandona l’approccio “neutrale” fino a recepire un’interpretazione orientata sul genere.
Rosener (1990) rileva come le donne risultino più propense ad assumere comportamenti “trasformazionali”.
Esiti confermati da altri. Questi studi contribuiscono ‘ad accompagnare i processi di inclusione delle donne
nei luoghi di potere economico e politico sulla base dei criteri giustificativi di maggiore efficienza,
collegialità, prudenza e moralità . Inclusione che non porta ancora a numeri paritari, se si pensa che in Italia le
donne che possiedono azioni nelle società non superano il 26% e che per garantire maggiore equilibrio nella
composizione dei consigli di amministrazione è stata necessaria una legge statale. Anche sul versante
pubblicistico si riscontra un analogo ragionamento. L'elaborazione del concetto di leadership
“trasformazionale’ sembra allora l’ultima frontiera di un capitalismo ormai globalizzato, impregnato di cd.
Smart Economics, capace di assorbire attraverso le istanze delle donne le tensioni sociali e politiche che
pongono a rischio gli assetti macro-economici su cui si fonda.

La Banca Mondiale pone l’ “eguaglianza di genere” al centro del World Development Report. Nel
Documento si afferma che i progressi verso la parità tra i sessi dipendono dalle interazioni tra le istituzioni
formali (leggi e servizi pubblici) e quelle informali (le reti sociali), così come dalle strutture di mercato e dalle
opportunità. Le quote occupazionali sono considerate strumenti chiave per migliorare l'efficienza ed
accompagnare le trasformazioni sociali. Il Documento contiene infine gli inviti a sovvenzionare interventi a
favore dei servizi per l’infanzia, per l'assegnazione collettiva della proprietà terriera e per la microfinanza.
Tuttavia non sono mancate letture critiche al Documento.

La WDR sostiene fortemente che la globalizzazione aumenti la crescita e di conseguenza la possibilità di


impiego. Omette però di analizzare gli effetti della recente crisi economica e sanitaria sulla vita delle donne.
In altri termini sembra che il WDR cerchi di trovare soluzioni che permettano al lavoro delle donne di
contribuire allo sviluppo economico, ma non sembra chiedersi come lo sviluppo economico possa migliorare
la vita delle donne.

5. CRITICA AI MODELLI DI SVILUPPO

E proprio l’analisi ed il confronto tra libertà femminili e sviluppo economico sono al centro dell’analisi di
molte economiste.

Esther Boserop, a metà degli anni Settanta, cerca di dimostrare gli effetti sulle donne che scaturirono dal
passaggio da una cultura rurale tradizionale ad un'economia modernizzata e urbana nei processi di sviluppo in
America Latina, Asia, Africa.
Gli studi sul colonialismo in Africa sono rivelatori per l’approfondimento di questioni teoriche più
complesse. Bossen dimostra che nel il colonialismo ha sistematicamente distrutto la complementarietà dei
ruoli maschili e femminili. Ad analoghe conclusioni giunge Jane I Guyer: l'assorbimento delle donne
nell'economia monetaria conferma ed accentua a livello di reddito la precedente segregazione a livello di
definizione culturale. Ancor più interessante lo studio di Valentina Borremans.

Ivan Illich anticipa fin dagli anni Ottanta scenari sul destino del genere umano che oggi appaiono più
intellegibili. La sua è una critica profonda alla “modernità” e allo “sviluppo economico”, costruiti sulla falsa
idea della eguaglianza. Le nuove economie basate sulla apparente monetizzazione di ogni attività umana
hanno viceversa determinato la perdita del genere e del senso del corpo come fondamento della relazione
spingendo l’umano verso una concezione sociobiologica “sessista” e mascherando al loro interno la
controproduttività, il lavoro ombra, l'economia non documentata, le discriminazioni, le nuove povertà.

Nascono anche i movimenti ecofemministi. Nel 1974 Françoise D'Euabonne pubblica Le féminisme ou la
mort. Si tratta di una prima analisi dei costi ambientali dello sviluppo e dell’individuazione delle donne come
attrici del possibile cambiamento. Fonda il movimento Ecologie et Feminisme. Un punto di riferimento
fondamentale del pensiero ecofemminista è lo scritto dell’antropologa statunitense Sherry Ortner Is Female
to Male as Nature in to Culture?. Analizzando l’universalità della subordinazione della donna in tutte le
culture l’Autrice ne individua l’origine nelle differenze inscritte nel corpo. L'uomo che manca di funzioni
creative naturali le crea artificialmente dominando il progresso scientifico, tecnologico e la cultura bellica. Le
donne che creano naturalmente solo essere umani sono per tale ragione qualificate come soggetti mortali,
questo spiegherebbe perché le attività volte a sopprimere la vita (in prizis le armi) godono di estremo prestigio
e valore economico, mentre quelle femminili volte a creare e conservare la vita sono state svalutate.

Nel 1989 la fisica indiana Vandana Shiva scrive Steyrg Alive in cui denunciava gli effetti sulla vita delle
donne creati dal malsviluppo, o sviluppo maschile. Shiva critica il concetto moderno di scienza.

I movimenti ecofemministi influenzano le politiche dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, come dimostra
l’Agenda 2030 che pone in connessione i profili ambientali, sociali ed economici, elementi necessari a
garantire la sostenibilità su scala mondiale.

Le sfide del cambiamento climatico e la pandemia da Covid 19 pongono serie riflessioni sulla tenuta del
sistema di sviluppo attualmente in atto e sul destino delle donne di fronte all'emergenza. In molti tratti del
pensiero ecofemminista l’atto materno del dare e del nutrire, già punto di riferimento dell'economia
gandhiana, diviene simbolo e modello di un’altra economia in armonia con la natura, dove le differenze tra
uomo e donna non sono più indice di dominio ed oppressione, ma di relazione solidaristica tra gli individui.
Muta la visione stessa dell’ambiente, non più inteso come risorsa monetizzabile, ma come “TERRA
MADRE” da preservare.
CAPITOLO 5: I rapporti economici nella Costituzione italiana:

 Il linguaggio della Costituzione:

Nel Titolo III della Costituzione troviamo alcuni aspetti essenziali:

 La pluralità dei beni privati: è libera l’iniziativa economica e al tempo stesso sono tutelate la
sicurezza, la dignità, la libertà dell’uomo

 Non vi sono chiari nessi tra le libertà economiche e gli altri beni salvaguardati

 Le libertà economiche sono riconosciute attraverso formule generali

 Anche i limiti consistono in clausole generali (utilità sociale, funzione sociale)

 Opera conformatrice del legislatore e operazioni di bilanciamento tra i beni costituzionalmente


rilevanti

Il contenuto della garanzia per i diritti fondamentali per la persona sono fissati in via diretta, mentre a livello
legislativo devono essere solamente definiti i limiti già contemplati in via generale dalla Costituzione.

A tal proposito, andiamo ad osservare la distinzione, conosciuta anche nella dottrina straniera anche se posta
in dubbio da alcuni, tra la sfera dei diritti che godrebbero di una tutela “assoluta” e i diritti riguardanti la sfera
economici-sociale.

È la legge che ne determina il contenuto, come nel caso della proprietà privata.

Qui il legislatore ha più spazio rispetto alle fattispecie in cui il limite è predeterminato dalla Costituzione e
deve essere tradotto in regole destinate ad operare dall’esterno, dunque deve essere interpretata come riserva
di nominazione confermativa del contenuto del diritto.

 I diritti protetti:

Il lavoro è tutelato nelle sue diverse forme ed applicazioni, ma la legge definisce le garanzie, ossia la durata
massima della giornata lavorativa, la tutela dei diritti previdenziali da parte di istituti predisposti o integranti
dallo Stato. È la legge che detta le modalità e i limiti dell’esercizio del diritto di sciopero, i programmi e i
controlli sull’attività economica pubblica e privata e può determinare imprese o categorie di imprese.

L’articolo 42 affida alla legge il compito di fissare i limiti e di dettare i modi di acquisto e di godimento della
proprietà privata con lo scopo di assicurarne la funzione sociale (comma 2).

La legge prevede i casi di espropriazione per motivi d’interesse generale e le norme di diritto successorio,
compresi i diritti dello Stato sulle eredità (comma 3).

Negli Articoli 44 e 46 il legislatore deve bilanciare i beni costituzionali che sono potenzialmente antagonisti.
In particolare, l’Articolo 44 tratta degli equi rapporti sociali e lo sfruttamento del suolo, mentre l’Articolo 46
richiama il lavoro e la produttività dell’attività economica.
Vi è una garanzia nei confronti di determinati tipi di proprietà (abitazione, diretta coltivatrice, investimento
azionario), dove i beni si possono ottenere attraverso il risparmio popolare (Art. 47). Per tali tipi di proprietà
vi è un’utilità sociale.

Le situazioni giuridiche proprietarie verranno inserite anche in quello che è il tessuto delle regole del mercato,
infatti viene stabilito che l’uso strumentale dei poteri proprietari da parte dell’impresa dominante all’interno
dalle attività economiche rappresenta un abuso illecito anticoncorrenziale.

 Sulla pretesa funzionalizzazione delle attività economiche:

Per comprendere il concetto della funzionalizzazione è necessario fare delle premesse, da cui vi sono due
disposizioni chiave: la libertà d’iniziativa economica privata e la sua utilità sociale. Il diritto di proprietà è
stato conformato dal legislatore per assicurarne la funzione sociale.

La Costituzione pone ai soggetti privati l’obbligo di perseguire un’utilità che trascende quella dei singoli che
ne danno vita. Questo obbligo non è così diverso dall’adempimento di una pubblica funzione. Quindi la libertà
economica sarebbe tutelata solamente se persegue l’utile sociale e assicura la libertà e la dignità dell’uomo.

Vi sono alcune obiezioni a tale tesi:

 La funzionalizzazione dell’attività economica è stata respinta in Assemblea costituente

 Si ha un vincolo negativo nell’Art. 41: non si può dedurre un’accezione della funzione sociale tra il
nesso economico tra proprietà e impresa

 La funzionalizzazione entrerebbe in contrasto con l’affermazione di libertà contenuta nel primo


comma dell’Art. 41, infatti dal punto di vista giuridico libertà significa che il soggetto titolare ha
piena facoltà di scelta sul se, come e quando

In questo disegno rientrano il contemperamento con gli altri beni ritenuti rilevanti (salute, ambiente, sicurezza,
tutela del lavoro) e il corretto funzionamento del mercato. Si è individuata la garanzia del mercato
concorrenziale, già nell’Art. 41 della Costituzione, dove viene esplicitata la tutela della concorrenza come
bene costituzionalmente protetto.

 Ordine giuridico del mercato e Art. 41 della Costituzione:

La libertà d’iniziativa economica è riconosciuta a tutti i soggetti privati e a tal proposito possono sorgere dei
conflitti fra i soggetti.

La libertà d’iniziativa ha valore verticale (verso lo Stato) e orizzontale (libertà di mercato, ossia la naturale
competizione tra soggetti economici).

Il comma 3 dell’Art. 41 parla dell’intervento pubblico, il quale tende a qualificarsi come determinazione delle
regole (e delle sanzioni) che mirano a garantire il corretto ed efficiente funzionamento del mercato, unito al
rispetto di una gamma di beni rilevanti anche alla luce del diritto UE, in merito a salute, ambiente, tutela dei
lavoratori e dei consumatori.
È necessario, dunque, l’utilizzo di strumenti di controllo e vincoli amministrativi, come, ad esempio, la
fissazione dei prezzi di beni e servizi nei contratti privati, anche in sostituzione delle clausole pattuite dalle
parti (Artt. 1339 e 1419, comma 2, cod. civile).

La clausola generale dell’utilità sociale comprende le regole che guidano l’ordine giuridico del mercato.

Promuovendo l’utilità sociale, si valorizza la creazione di ricchezza e benessere ad opera del mercato,
correggendo disparità di potere contrattuale che compromettono la libertà e la razionalità delle scelte
economiche individuali e in questo modo si contrasta l’abuso di potere economico.

 L’utilità sociale nella giurisprudenza: lo spazio del legislatore

Nel sistema dei rapporti economici delineato dalla Costituzione, il legislatore ha un ruolo, nel quale deve
salvaguardare i diritti fondamentali della persona e i beni collettivi come ambiente e salute e garantire il
corretto funzionamento dell’economia sociale del mercato. La Costituzione non fornisce indicazioni generali,
ossia in riferimento della funzione dell’attività economica. Tuttavia, possono esservi dei limiti (negativi) e
prescrizioni (positive) da parte del legislatore.

Quindi, vi è l’intervento pubblico, in particolare quando è necessario rimuovere esternalità negative, ma deve
essere motivato.

La giurisprudenza nell’ambito della clausole delle utilità sociale offre elementi per definire:

 L’adattamento dei beni rilevanti

 Le modalità di scelta alla stregua dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità

Sono diverse le premesse nella Costituzione: utilità sociale (Art. 41, comma 2), fini sociali (Art. 42, comma
2), fini di interesse generale (Art. 43), che in genere la giurisprudenza tende ad assimilare tali figure.

La clausola generale dell’utilità sociale abilita il legislatore ad adattare il diritto economico in virtù degli
interessi economici e sociali, che sono costituzionalmente tutelati, che vengono rilevati, ossia sono clausole
che si realizzano in un preciso contesto relazionale e quindi non vi è una definizione generale.

La Corte ha posto nella sfera “socialmente utile” la protezione del contraente debole, la tutela del lavoro,
dell’occupazione e dell’integrità fisica del lavoratore, la salvaguardia e la valorizzazione del territorio, la
tutela della salute pubblica e dell’ambiente, il diritto all’assistenza farmaceutica, la qualità dei servizi resi e la
produttività di rete distribuita, il miglioramento della produzione agricola, la prevenzione di attività criminose
e la sicurezza delle strade.

Si parla di utilità sociale a sostegno di interventi legislativi di segno diverso come: l’equilibrio del mercato in
un settore, gli interessi strumentali alla concorrenzialità e competitività delle imprese, la protezione di una
produzione, il ruolo di imprese di determinate dimensioni.

Si è contestata alla Corte una poca chiarezza argomentativa legata all’approccio casistico nel trattamento della
clausola generale, dovute alla difficoltà applicative.

È bene osservare le interpretazioni che legano nella sostanza le diverse pronunce. Infatti, il contenuto della
clausola generale trova riscontro nella specificazione che ne dà il legislatore in un dato contesto.
La Corte, semmai, ha il compito di verificare se gli interventi del legislatore, sia nel caso di limiti negativi che
di vincoli e prescrizioni in nome di finalità sociali, traggano giustificazione da “interessi di ordine superiore,
economici e sociali”.

Gli interessi superiori sono espressi da una pluralità di parametri costituzionali, soprattutto negli Artt. 3, 4, 9,
21, 32, 35, 36, 37, 38 della Costituzione, fermo il rispetto del canone generale di proporzionalità delle misure
adottate.

L’Art. 41 della Costituzione consente di tutelare gli interessi, costituzionalmente rilevanti, diversi dall’assetto
concorrenziale del mercato. Alcune pronunce della Corte affermano che, rispetto all’ordinamento europeo,
che a volte potrebbe andare contro le normative nazionali, si prediligono gli interessi di carattere generale che
giustificano determinati interventi pubblici.

Si pone la questione della necessità e della proporzionalità delle misure “coperte” dalla clausola dell’utilità
sociale, con possibili scontri tra la tutela dalla concorrenza (intensa in senso lato, ossia comprensiva delle
misure pro-concorrenziali di apertura del mercato) e le ragioni di utilità sociale.

 Regolazione ai fini sociali e assetto concorrenziale del mercato:

Dalla metà degli anni ’70 il principio concorrenziale rappresenta uno strumento di supporto della libera
circolazione di merci e servizi come tratto costitutivo del mercato comune e dell’integrazione europea.

La salvaguardia efficace della concorrenza trova fondamenta nel complesso sistematico delle disposizioni.

La chiave dell’interpretazione del diritto positivo è la tutela della concorrenza ed è un fattore innovativo della
normativa, che serve per depurare l’ordinamento da chiusure corporative e vincoli regolatori non più attivi. Ad
esempio, nel caso del Consorzio italiano fiammiferi, che fu chiuso nel Luglio 2000.

Nel diritto federale statunitense l’azione antitrust ha come oggetto la business activity (attività di business);
nell’ordinamento europeo la tutela della concorrenza si lega strettamente al processo d’integrazione, che è lo
strumento per creare il mercato unico ed evitare un trattamento di favore delle imprese nazionali rispetto a
quelle degli altri Stati membri.

Per garantire condizioni di parità alle aziende europee (armonizzando le condizioni dell’offerta e della
domanda), l’istanza concorrenziale assume un valore extra economico.

Complessi che apparivano lontani dai bisogni sociali della persona (apparati pubblici, lavoro, tutela dei
consumatori, ambiente) si prestano ad usi alternativi, come, ad esempio, le misure di armonizzazione e di
omogeneizzazione di standard e regimi tecnici o commerciali, alle norme sulle produzioni inquinanti.

Le regole concorrenziali richiedono valutazioni prospettiche con un numero elevate di variabili da tener conto.
È necessario procedere con valutazioni specifiche per ogni singolo contesto e tali troveranno la loro
conformazione secondo la corrispettiva situazione di mercato.

La Corte costituzionale riconosce agli Stati membri uno spazio di autonomia per realizzare un equilibrio tra le
libertà economiche e gli altri beni garantiti dai trattati (salute, ambiente, coesione sociale e territoriale) nella
prospettiva economica sociale di mercato che è competitiva. Sono uno strumento di coesione i servizi
d’interesse economico generale: Artt. 14, 106, comma 2, TFUE, protocollo n° 26.

La direttiva sui servizi nel mercato interno, ad eccezione della specifica del SIEG e delle funzioni particolari
che sono state ad essi assegnate, possono giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento, rispettando però i
canoni di necessità, adeguatezza e proporzionalità. Tre sono le condizioni per giustificare le restrizioni alla
libertà di stabilimento, a protezione della sanità pubblica e di obiettivi di politica sociale:

 Non discriminazione in base alla cittadinanza o per le aziende in base all’ubicazione della sede legale

 Necessità (imperativo di interesse generale)

 Idoneità-proporzionalità

Gli obblighi di servizio pubblico, i meccanismi di compensazione, gli strumenti regolatori devono essere
conformati, in modo da ridurre gli effetti limitativi o distorsivi della dinamica concorrenziale. L’efficienza e la
competitività risentono della qualità della regolamentazione. Una regolamentazione ingiustificatamente
intrusiva può generare ostacoli a danno degli interessi degli operatori economici, dei consumatori, degli stessi
lavoratori e reca, inoltre, un danno all’utilità sociale.

La Corte richiama il canone di ragionevolezza e di proporzionalità quando privilegia le esigenze di utilità.


Infatti, l’utilità non può essere perseguita con modalità non coerenti, che rileva anche il limite temporale della
normativa che deroga alle regole di concorrenza.

L’aspetto temporale dovrebbe avere anche le misure tali a fronteggiare eventi eccezionali e anche quelle
adottate dagli Stati membri dell’Unione per controbilanciare gli effetti recessivi dell’epidemia da coronavirus.

 Il diritto europeo (e le sue corti): il divieto di eccesso

La giurisprudenza pone un divieto di eccesso, ossia il principio di ragionevolezza, ricavato dall’Art. 3 della
Costituzione, che rende illegittimo un intervento del legislatore che introduca misure prive di requisiti di
necessità, proporzione e congruità rispetto alla garanzia di altri beni costituzionalmente rilevanti.

A tal proposito, sono influenti la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte europea del diritto
dell’uomo.

Nelle libertà economiche tutelate dai Trattati, il diritto di proprietà è salvaguardato come diritto necessario per
garantire il libero esercizio delle attività economiche, purché esso sia da osservare con altri interessi, come la
tutela ambientale, o la protezione del consumatore, e dunque potrà essere limitato con interventi proporzionali
allo scopo perseguito.

La funzione integrativa nella tutela dei diritti fondamentali della giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo (CEDU) è riconosciuta in nome dell’Art. 117, 1° comma, Cost. Al giudice comune spetta
l’interpretazione della norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale entro i limiti di ciò
che sia concesso dai testi. Qualora non fosse possibile, ovvero non vi sia compatibilità tra norma interna e
disposizione internazionale, egli deve incaricare la Corte costituzionale, la quale deve verificare la legittimità.

L’importanza della legge rispetto agli atti amministrativi è inerente all’insieme degli articoli della
Convenzione e il principio di legalità vale per ogni misura regolativa o limitativa del diritto di proprietà e
richiedere l’esistenza di norme sufficientemente accessibili, precise e prevedibili.
In base quanto previsto dall’Art. 1 del Protocollo n°1, CEDU, i poteri pubblici devono rispettare tre
dimensioni:

 Il primo ha carattere generale ed è il rispetto dei beni in proprietà (enunciato dal primo periodo, primo
comma)

 Il secondo riguarda le ipotesi di privazione della proprietà “nelle condizioni previste dalle legge e dai
principi generali del diritto internazionale”(posto dal secondo periodo del primo comma)

 Il terzo riconosce agli Stati nazionali il potere di regolamentare l’uso dei beni in proprietà
conformemente all’interesse generale (secondo comma)

Sono tutti enunciati legati fra di loro: il secondo e il terzo riguardano fattispecie particolari di comprensione
del diritto di proprietà e devono essere interpretati alla luce del principio all’interno del primo paragrafo del
primo comma.

Ha una particolare importanza la giurisprudenza formata sul primo periodo dell’Art. 1, Protocollo n°1
(principio del rispetto dei beni), il quale obbliga a verificare se è stato mantenuto un giusto equilibrio tra gli
interessi generali della comunità e i dettami della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.

Il legislatore deve mantenere il giusto equilibrio tra questi due e anche attraverso la previsione di un adeguato
indennizzo per i vincoli che incidono sull’utilizzo effettivo del bene e quindi il suo valore di mercato. È
questo il caso in cui il vincolo reca al privato una perdita patrimoniale.

Questa esigenza di giusto equilibrio vale anche nell’ipotesi di un totale annullamento del diritto di proprietà a
seguito di un atto di esproprio o di forme espropriative “larvate (ossia presentano un aspetto diverso da quello
reale) o di fatto”.

Invocando il principio del rispetto dei beni, la Corte EUD ritiene che l’equilibrio venga infranto anche quando
l’amministrazione pubblica ponga dei vincoli d’inedificabilità, impedendo il pieno godimento del diritto di
proprietà.

Il punto decisivo qui è il fatto che viene considerata una riduzione del valore sul mercato del bene per effetto
dell’atto della P.A. (Pubblica Amministrazione) e la riduzione di poter vendere il bene.

Sia la Corte di Giustizia UE che quella di Strasburgo intendono in modo estensivo la nozione di bene in senso
giuridico, identificandolo con l’interesse patrimoniale connesso al bene e al suo utilizzo e valorizzazione sul
libero mercato.

Si potrebbe dire che anche per i diritti della sfera economica privata valga la garanzia del contenuto essenziale
come “limite dei limiti”, questione, che, però, resta controversa.

Inoltre, si può dire che i diritti di libertà ed economici si interfaccino frequentemente, come testimoniano gli
sviluppi giurisprudenziali illustrati.
CAPITOLO 6: Carte costituzionali ed economia

1. L’economia e il suo impatto sulla forma di stato

Oggi si può dire più di ieri che “dove c'è economia c'è diritto e dove c'è diritto c'è economia”. I due settori
portanti dell’organizzazione di una società si sono venuti sempre più a intrecciare l'uno con l'altro. A seconda
dei periodi storici, può essere il diritto a regolare l'economia ovvero l'economia imporre le scelte giuridiche.
E’ questo il tema dell'ordine giuridico del mercato, che dovrebbe corrispondere all' ordine economico:
pertanto il mercato, come incontro di scelte, non dovrebbe essere concepibile senza il diritto, come incontro di
pretese.

Vi è un interrogativo non risolto: Il mercato, ovvero l'economia materiale, è governata da principi


discrezionalmente imposti dal legislatore, oppure è quest'ultimo che deve finire con l’agire entro limiti
derivanti dai principi posti dall’economia?

Intorno a questa domanda si possono però sviluppare ragionamenti diversificati a seconda delle fonti. E
quindi, la possibile tensione fra economia e diritto si può venire a manifestare attraverso i provvedimenti di
natura legislativa che Parlamento e Governo realizzano. Il legislatore si limita a recepire e normare quanto già
prodotto dal mercato economico. Si pensi poi, a periodi caratterizzati dalla cosiddetta crisi economica, che
impongono misure d'urgenza, adottabili con provvedimenti legislativi, con lo scopo di arginare gli effetti
negativi della crisi. Proprio le crisi economico finanziarie fanno emergere la consapevolezza che la
globalizzazione dell'economia richiede una disciplina giuridica pubblica anch'essa globale, e quindi regole di
diritto certe e controlli severi sul loro rispetto. Le crisi, non si possono più affrontare solo con misure di
carattere meramente economico e nemmeno con misure solo interne ai singoli Stati per il tramite di
provvedimenti legislativi.

Allora, ci si deve elevare alla fonte della costituzione per individuare gli spazi entro i quali la tensione fra
legislatore ed economia può dilatarsi, ovvero ridursi. È nella costituzione, che vanno individuati i principi che
regolano le scelte economiche di una comunità. È nella costituzione, che si radica la forma di Stato attraverso
la quale si determinano i rapporti tra individuo e autorità e si modella un sistema di interventismo più o meno
ficcante dello Stato in economia. È nella costituzione, che si sviluppano quell’insieme di principi
fondamentali sui quali si basano, in un ordinamento giuridico, i particolari istituti giuridici che reggono i
processi di produzione e distribuzione della ricchezza. L'insieme di questi principi fondamentali si raccolgono
intorno al nucleo della “costituzione economica”: dovrebbe esplicitarsi entro il perimetro delle norme
costituzionali riservate ai rapporti economici, ma questi non sono affatto comprimibili perché si manifestano
in più parti della normazione costituzionale.

Dalle norme della costituzione economica ne discende una significativa impronta della forma di Stato. Quindi
lo stato sociale-assistenziale si qualifica per un intervento statale di gestione dell'economia e di una spesa
pubblica a favore dell’assistenzialismo e dei servizi sociali della cittadinanza. Lo stato liberale, viceversa, si
manifesta per una tendenziale laissez faire nelle scelte di natura economica e per una limitazione dell'attività
statale in favore dell'attività privata e dell’individualismo. Va però detto che negli stati costituzionali
contemporanei difficilmente si opera una divaricazione netta della scelta sulla forma di Stato: sociale oppure
liberale, come se tertium non datur. Il nuovo modello è deducibile sulla base di un'analisi comparatistica delle
esperienze costituzionali iniziate in occidente negli anni della Repubblica di Weimar e del New Deal di
Roosvelt e protrattesi nel tempo. Nella seconda metà del XX secolo la forma di Stato si è venuta sempre più
progressivamente esprimendosi attraverso la democrazia liberale, che combina tutele dei diritti sociali con
crescenti modi di liberalizzazione, e quindi privatizzazione, nell’economia, laddove l'intervento dello Stato si
riduce a un ruolo sussidiario. Il principio costituzionale della sussidiarietà può significativamente orientare un
certo sviluppo della forma di Stato, valorizzando l’intervento del privato nell’ambito dei servizi sociali
riducendo la presenza dello Stato nell'economia. Si è venuta comunque affermando l'idea di “un'economia
mista”, che escluda gli estremi e proprio a tutelare il pluralismo in campo economico. Senza dimenticare che
nello stato costituzionale odierno, come recita l'articolo 3 della costituzione italiana, “è compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza
dei cittadini”. Ecco perché il compito centrale dello Stato di democrazia liberale è anche quello di perseguire
fini sociali, che si situa, “in una costituzione economica materiale ad economia mista”. Per quanto riguarda il
tema della sussidiarietà si tratta di un principio costituzionale che funge da “grimaldello” per aprire ai privati
laddove prima era del pubblico, con riferimento alla gestione di una serie di servizi sociali e attività
economiche.

Intesa nel senso di orizzontale, la sussidiarietà viene riferita al rapporto fra lo stato e i cittadini, sia come
singoli sia nelle formazioni sociali con l'esplicito intento di lasciare più spazio possibile all'autonomia privata
riducendo così all'essenziale l’intervento pubblico.

Possiamo “catturare” tre usi pragmatici del termine sussidiarietà:

a) Il primo significato è quello che attiene al rapporto classico tra società e stato, tra libertà e autorità, tra
iniziativa privata e potere impositivo dello Stato: a questo significato appartiene il dibattito sulla
sussidiarietà economica, che risulta essere intriso di convincimenti di carattere filosofico-politico-
sociale che spaziano e ruotano dal liberismo classico fino all'estremo opposto del collettivismo
socialista, senza con ciò escludere un' equilibrata terza via, che tenga conto delle istanze dell’uno
(liberismo) e dell’altro (collettivismo).

b) Un secondo significato di sussidiarietà attiene alla teoria delle fonti del diritto oggettivo: teoria che
presuppone la titolarità del potere di normazione in capo allo stato-persona oppure agli enti dotati di
sovranità; quindi, alla possibilità di normare in via autonoma ed esclusiva da parte di singoli enti
legittimati e competenti all'adozione dell'atto, salvo la possibilità di intervenire con legge statale
laddove l'atto-fonte non riesce da solo, a spiegare gli effetti giuridici desiderati.

c) Infine, un terzo significato di sussidiarietà, è quello che concerne l'organizzazione amministrativa,


ovvero i diversi livelli di espressione delle funzioni e delle competenze pubbliche, e quindi il
decentramento amministrativo strutturato sulla base di una diversa articolazione del rapporto centro-
periferia, che è determinato in virtù del principio di sussidiarietà in senso verticale.

I tre usi pragmatici del termine sussidiarietà in diritto costituzionale sopra riferiti non vanno però visti e letti
come separati l'uno dall'altro, ma piuttosto come tre momenti di un'unica essenza, che caratterizzano
l'impianto ordinamentale statale: infatti la sussidiarietà nel diritto costituzionale riguarda la forma di Stato,
quindi i rapporti tra individuo e autorità.

altra questione riguarda l’erompere della autorità amministrative indipendenti, quali regolatori di strategici
settori del mercato, che ha finito per sottostare all' indirizzo politico statale la gestione di rilevanti funzioni di
impatto è ricaduta economica, quali la concorrenza, la comunicazione, la borsa, l'energia. Si pensi, soprattutto,
alla concorrenza quale principio intorno al quale fare funzionare il mercato, ovvero garantire una sufficiente
pressione competitiva che sia tale da assicurare alla collettività il massimo benessere perseguibile: per favorire
quel processo dinamico di rivalità tra le imprese che sta alla base dell’efficace funzionamento dei mercati.
Proveniente dagli Stati Uniti d'America con lo Sherman Act del 1890, e affermandosi nel diritto comunitario,
oggi la disciplina antitrust a tutela della concorrenza è presente in tutti i maggiori paesi industriali, e si è
dovuta collocare negli interstizi della normativa costituzionale valorizzando oltremodo la formula della “libera
iniziativa economica privata”.

1. Gli effetti economici della Ue sulle carte costituzionali

Gli effetti che il nuovo ordinamento giuridico europeo ha prodotto sugli Stati membri dell'unione, e
specialmente in punto di costituzione economica, sono una conseguenza di una serie di tappe che hanno
portato all'approvazione di una serie di trattati culminati a oggi con quello di Lisbona del 2007, che può essere
ritenuto senz'altro la costituzione europea, perché prevede e prescrive diritti, doveri e organizzazione
istituzionale dell'unione europea, sia pure non privo di criticità.

Prima questione che deve essere evidenziata è quella riferita alla limitazione della sovranità degli stati. È
chiaro che il progressivo formarsi dell'unione europea ha significativamente eroso ampie porzioni di sovranità
degli ordinamenti nazionali. La legislazione non è più monopolio degli stati, che si trova nella condizione di
dover recepire le direttive ovvero subire regolamenti comunitari senza nemmeno poterli discutere. La
giurisdizione deve fare i conti con forme di ulteriori gradi di giudizio sovranazionali, che imprimono sempre
più indirizzi giurisprudenziali, aventi forza vincolante, in punto di interpretazione dei diritti di libertà e di
diritti sociali dei cittadini europei. La costituzione economica degli Stati membri, è stata sostanzialmente
riscritta attraverso le regole fissate nei trattati, specialmente Maastricht e Amsterdam, considerate come
costituzioni economiche europee. Si può definire dunque come una diffusa erosione della sovranità degli stati.

Facendo una breve riflessione, nella convinzione che è in atto una dislocazione di alcune componenti della
sovranità statuale presso altre istituzioni, dall’entità sovranazionali fino al mercato dei capitali globali. Il
declino della sovranità, come detto, lo si individua altresì nella crisi economica e finanziaria degli stati,
ovvero nello smarrirsi del controllo e gestione del proprio bilancio pubblico. Pertanto, si invoca una già
realizzata sovranità dell'unione europea, con la relativa perdita di capacità di decisione da parte degli Stati
membri; e la si legittima in forza dei trattati, che hanno soppresso le monete locali a favore di una moneta
unica europea, ovvero che hanno creato la figura del cittadino europeo, con i suoi diritti fondamentali e le
garanzie giurisdizionali. Ma è davvero la fine della sovranità? certo, se crepuscolo della sovranità c'è stato,
deve essere però riferito soltanto a uno dei due volti della stessa, ovvero quello statale.

Rimane intatta allora, la sovranità popolare. Questa va intesa essenzialmente come un principio generale, il
quale determina le forme di partecipazione giuridica, sociale e politica dei cittadini al consolidamento di uno
stato di democrazia liberale, e che rende effettiva la partecipazione attraverso fattispecie costituzionali, che
diano al popolo la possibilità di esprimersi sia in forma individuale che in forma collettiva. Allora la sovranità
del popolo rappresenta una forma di pluralismo che va ben oltre il solo assetto della struttura di governo; E si
dispiega, in maniera articolata, all'interno di varie istituzioni in cui gli interessi della cittadinanza potranno
essere soddisfatti. La sovranità popolare è da ritenersi un principio cardine della democrazia liberale
contemporanea in quanto su di esso vengono a fondarsi tutte le forme di partecipazione della cittadinanza,
intendendo con esse, non solo il voto, ma anche i diritti fondamentali e libertà costituzionali.

Per quanto riguarda le problematiche degli effetti economici dell’Unione Europea sulle carte costituzionali,
l'effetto dell'euro è una delle principali cause. Un'autorevole dottrina ha sostenuto che “l'unione monetaria
non è stata realizzata. L'unione economica non è stata creata”, muovendo altresì serrate critiche nei confronti
del regolamento numero 1466 del 1997, ritenuto illegale, il quale non solo impedisce la crescita ma crea
depressione. Laddove si qualifica l'entrata in vigore della moneta unica europea, l'euro, come un colpo di
Stato effettuato in danno degli Stati membri, dei loro cittadini e dell'Unione. E con riferimento alle questioni
costituzionali si è poi scritto che “il diritto costituzionale degli Stati membri è stato violato perché non sono
state osservate le norme costituzionali interne da osservarsi nella ratifica dei trattati. La sovranità degli Stati
membri è stata vulnerata perché è stata loro sottratta la funzione esclusiva da esercitarsi, singolarmente e come
gruppo, di promuovere lo sviluppo dell'unione europea della zona euro come le proprie politiche economiche.
La costituzione degli stati è stata violata perché non sono stati imposti ai loro organi interni obblighi e
condotte che i rispettivi ordinamenti costituzionali non contemplano”.

Un ulteriore punto importante è quello riferito a una delle modifiche strutturali fondamentali che consentono
di far funzionare l'unione monetaria senza nuovi poteri fiscali per la Bce, ovvero il pareggio di bilancio
imposto attraverso il fiscal compact. Questa regola crea dei vincoli addizionali perché aggiunge al pareggio di
bilancio anche la regola della riduzione del debito pubblico del 5% all'anno a scalare, per l'eccesso del
rapporto debito/Pil rispetto al 60%. Nel caso dell'Italia, si è sostenuto, che la regola che ci viene data con il
fiscal compact non è il pareggio ma è surplus di bilancio: “il vincolo europeo relativo alla riduzione del debito
pubblico che viene introdotto insieme al meccanismo europeo di stabilità (MES), che dovrebbe servire per
aiutare gli Stati che hanno una crisi debitoria, comporta per l'Italia quasi esclusivamente una politica di
bilancio anomala di surplus decrescente, basata non su un criterio economico di fiscal policy, ma su un
principio esogeno”. Salvo poi riconoscere che il principio del pareggio di bilancio appare attualmente come
l'unico modo serio per consentire alla Bce di assolvere ai compiti di stabilizzazione monetaria, ma soprattutto
appare utile proteggere i diritti delle future generazioni nell'unione europea.

Qualsiasi sia il giudizio, positivo o negativo, sul processo di integrazione europea, va constatato come la
stretta connessione realizzata tra le economie degli Stati membri ha affermato una costituzione economica
europea. Un'ampia serie di principi e regole di disciplina del libero mercato nonché strumenti e istituti di
governo dell'economia che le summenzionate recenti riforme sui limiti alla spesa pubblica hanno
ulteriormente rafforzato, sempre più sovrapponendo la costituzione economica europea alle costituzioni
economiche nazionali. Due casi descrivono questo processo di tendenziale sovrapposizione: Italia e Germania,
sulle quali sarà utile a questo punto volgere l'attenzione. Due ordinamenti nati senza un chiaro modello
economico da perseguire, nei quali, però, sin dai primi anni, i principi neoliberali della costituzione
economica europea si sono affermati, sino a seguito delle più recenti riforme costituzionali nazionali,
determinando una sostanziale connessione non solo tra le disposizioni di principio delle due costituzioni
economiche statali, ma, soprattutto, dei concreti strumenti di governo dell'economia.

2. “costituzione economica” e governo dell’economia in Italia

2.1. il “modello contesto”: l’economia nei lavori della costituente

La costituzione italiana del 1948 ha riservato grande attenzione all'economia. Nonostante la complessa
composizione politica, tutti i partiti si resero conto della necessità di partecipare alla nascita di una nuova
costituzione democratica, e non di parte, accogliendo un modello rispondente all'economia di mercato. A
conferma di tale conclusione, emblematica è sicuramente la seduta del 9 maggio del 1947, quando venne
rigettato il noto “emendamento Montagnana” con il quale si ponevano di ancorare la politica economica ad
una forma di pianificazione. Tale rigetto determinò la scelta in favore di un modello economico basato sulla
libera iniziativa economica e la libera proprietà, ovvero i presupposti per la realizzazione del libero mercato, il
quale, seppur non espressamente menzionato, pare, uno dei protagonisti del modello economico accolto dal
costituente. Così sembrerebbe nonostante i contrafforti atipici rispetto ad un modello liberale puro, e
potenzialmente invasivi delle libertà economiche, con cui il costituente intendeva garantire gli individui e la
collettività, in tal senso, brevemente, vanno enfatizzati, tra gli altri limiti: l'unione sociale, l'intervento
pubblico, i controlli e la pianificazione. Disposizioni tuttavia mediate che consentiranno di escludere, sia le
suggestioni collettiviste accarezzate dai comunisti, sia i possibili accessi liberisti. La ricercata elasticità
consentì per molto tempo una lettura ambigua della costituzione economica, a tal punto da portare autorevoli
costituzionalisti ad immaginare la realizzazione anche in Italia ad un’economia socialista. Nonostante ciò, le
ambigue fattispecie costituzionali hanno consentito interpretazioni nel senso di far sviluppare ed affermare il
modello di produzione capitalista. Non bisogna dimenticare, infatti, come, inizialmente, nel momento in cui
entrava in vigore la carta repubblicana, l'economia nazionale si caratterizzava per un intervento vastissimo
dello Stato sia indirettamente come gestore delle attività economiche, sia direttamente come imprenditore.
Sono anni in cui ancora vigono leggi adottate nel precedente ordinamento liberale primo fra tutti il Codice
civile, ma soprattutto, molte delle leggi volte ad autorizzare e controllare le attività economiche. L'intervento
dello Stato avviene altresì a supporto finanziario di enti e imprese pubbliche e private attraverso la cassa
depositi e prestiti, l'istituto per la ricostruzione industriale nonché attraverso la cassa per il mezzogiorno. Il
modello di partenza era dunque un modello economico sicuramente legato al testo costituzionale. Un modello
però assolutamente differente: opposto a quello che si sarebbe successivamente realizzato dopo l'attuazione
dei principi dell'ordinamento comunitario.

2.2. l’avvento dell’Unione europea e la “nuova costituzione economica”

La vera trasformazione del mercato dell'economia e di conseguenza del suo ordinamento giuridico italiano, si
ha con il trattato sull'unione europea del 1992. Maastricht da un canto continua l'azione iniziata con i trattati
istitutivi, ma dalle altre fonde irreversibilmente i destini economici degli Stati membri.

Dopo Maastricht le mutate regole europee imponevano l'avvio di riforme, soprattutto nella disciplina
dell’intervento statale nell'economia, ponendo alcuni principali obiettivi: ridurre il debito pubblico, scollegare
quanto più possibile la politica dalla gestione di società ed enti pubblici economici; favorire il libero mercato e
la concorrenza; rimuovere quelli che potevano essere configurati come aiuti di Stato per le imprese; ridurre gli
sprechi e aumentare l'efficienza nella gestione delle risorse pubbliche. Tutti questi obiettivi avevano un fine
comune trasformare lo stato gestore, imprenditore virgola in stato regolatore.

Dopo la sigla del trattato di Maastricht anche l'Italia subordina le proprie politiche, oltre che al più generale
coordinamento europeo soprattutto al fine di concretizzare quei principi che sin nei trattati istitutivi erano
fissati, ma che adesso non possono più restare nei programmi, liberando il mercato e trasformando l'intervento
pubblico nell'economia. Prima fa tutte va ricordata l'istituzione dell'autorità garante della concorrenza e del
mercato antitrust, la quale per definizione si pone in una posizione di amministrazione terza ed imparziale.
Attraverso tale autorità lo stato non regolamenta più il mercato, uscendo dal circuito Parlamento-governo,
limitandosi a vigilarlo e orientarlo, adottando i soli provvedimenti volti a garantire la sua libertà e la piena
concorrenza in ossequio ai principi comunitari. Quello delle autorità indipendenti è un modello che si è
affermato nella legislazione seguita come noto, dall’istituzione di numerose altre authorities.

Altra riforma volta trasformare l'economia e il suo governo e la disciplina in tema di privatizzazioni e le
connesse liberalizzazioni. Tale riforma risulta assai incisiva, scardinando il modello iniziale dello Stato
imprenditore, abolendo riformando l'ordinamento delle imprese pubbliche e degli enti pubblici economici,
che, come detto, avevano caratterizzato l'economia nazionale immediatamente successiva alla costituzione
repubblicana. Attraverso la privatizzazione si mira ad adeguare l'ordinamento italiano a quello europeo, sotto
un duplice profilo: in primo luogo, al fine di ripianare da parte del Tesoro le perdite delle imprese partecipate,
che venivano configurate come un aiuto di Stato e quindi in contrasto con la disciplina comunitaria , ma anche
all'ulteriore fine di recepire risorse per il bilancio dello Stato e così ridurre l'elevato debito, e rientrare nei
parametri fissati nel trattato di Maastricht: preso atto del carattere cronico del deficit finanziario di molte
imprese controllate e dell' incapacità di portare avanti un processo di ristrutturazione, il governo non aveva
altra opzione se non quella della loro dimissione.

Tra le varie innovazioni apportate da Maastricht quella che ha prodotto maggiori effetti sul governo
dell'economia e senza dubbio l'introduzione di vincoli alle politiche di spese di bilancio. Tali parametri, nel
più generale contesto di competenza economica e monetaria delle istituzioni europee, hanno disegnato
sicuramente un ordinamento costituzionale economico. In particolare, i vincoli al cosiddetto deficit spending,
più di altre previsioni, sembravano a segnare il punto di cesura rispetto al passato, perché, di fatto, limitavano
lo strumento attraverso il quale si sono finanziate le riforme più onerose, in primo luogo, quelle connesse ai
diritti sociali. Non è un caso, che dopo Maastricht siano seguite le riflessioni più critiche sulla compatibilità
dell'ordinamento europeo con le costituzioni nazionali. Altresì, è un dato di fatto, però come la nuova
costituzione economica italiana abbia risolto le ambiguità interpretative a favore di una tendenziale
connessione con quella che sempre più appare come una costituzione economica europea.

3.3 Le riforme mancate e quelle “imposte”, tra crisi economica e globalizzazione

I primi anni 2000 sono caratterizzati dall’approvazione di riforme non adeguate ai mutamenti di un’economia
del mercato che è sempre più globale. La riforma costituzionale del art. 117 del 2001 scompone e trasferisce
alla Regione competenze in materia economica che in origine appartenevano allo Stato. In questo modo le
Regioni assumono un ruolo dominante nel governo dell’economia, al punto che la Corte costituzionale arriva
a domandarsi se lo Stato disponga ancora di strumenti per intervenire direttamente sul mercato. La Corte, con
la lettura estensiva alla “tutela della concorrenza”, legittima lo Stato a legiferare sia a tutela sia a promozione
del mercato con politiche di intervento nell’economia. In questo ambito appare evidente la forte connessione
tra il governo dell’economia nazionale e quello europeo: le decisioni della Corte in merito ai limiti alle
politiche economiche nazionali seguono le tendenze del diritto dell’UE. Ad esempio la sentenza n. 325 del
2010 sottolinea che i servizi pubblici locali di rilevanza economica non rientrano più nella disponibilità del
legislatore statale perché direttamente connessi al diritto dell’UE.

La connessione è ancora più evidente dopo la riforma costituzionale attuata con la legge n.1 del 2012. La
novità è che il ricorso al debito per finanziare delle politiche di spesa diviene un’eccezione che deve rispettare
specifiche condizioni della “legge organica” di contabilità. La riforma chiarisce inoltre che il bilancio
coordina i rapporti con le autonomie territoriali minori e con l’UE come si può notare negli art. 97 Cost e 119
c. 1 Cost. Quindi le autonomie sono coordinate dallo Stato sotto la direzione dell’UE.

4. Da Weimar al Grundgesetz, disciplina e governo dell’economia nel Diritto costituzionale tedesco

4.1 Weimar e il problema della “costituzione economica”

La Costituzione di Weimar (1919) è la prima raccolta di disposizioni volte a regolare l’economia, ciò che la
differenzia dalle precedenti è il superamento del principio individualistico e l’affermazione della parità
sociale. In questo contesto si sviluppa il dibattito sul modello economico: un gruppo di accademici conosciuti
come ordoliberali promuovono un modello che prevede l’intervento dello Stato per assicurare il corretto
funzionamento del mercato. Nonostante ciò, nella loro lettura la “costituzione economica” godeva comunque
di autonomia dalla costituzione politica, a differenza del modello contenuto nella Costituzione di Weimar in
cui questa autonomia veniva contestata.

4.2 Il Grundgesetz e l’assenza di modello economico

Al contrario della Costituzione di Weimar, la Legge fondamentale non prevede espressamente libertà
economiche ed in generale sono pochissime le disposizioni in tema economico. Inoltre i riferimenti al modello
economico sono generici e contraddittori. La mancanza di regole riguardanti l’economia all’interno della
Legge fondamentale era giustificata dalla convinzione che questa legge restasse in vigore solo per un breve
periodo transitorio.
Nonostante l’assenza di un modello economico, in Germania si è affermato un sistema di libero mercato
concorrenziale grazie al legislatore ed al Tribunale costituzionale che hanno aperto il mercato seguendo i
mutamenti dell’ordinamento europeo. Nella costituzione di Bonn i rapporti economici erano regolati dal
codice civile e dal codice commerciale. Significativa è la legge contro le limitazioni alla concorrenza (1957)
che protegge direttamente il mercato favorendo la libera concorrenza. Inoltre un ulteriore segnale di favore
verso il libero mercato è l’esigenza di limitare la spesa pubblica e il ricorso al debito e quindi l’intervento
pubblico.

4.3 Il processo di unificazione e la prima convergenza con la “costituzione economica” europea

I primi anni ’90 rappresentano un momento di trasformazione in tutta Europa. L’assenza di un modello
economico definito all’interno della Costituzione ha favorito, sia in Italia che in Germania, l’affermarsi di una
costituzione economica europea. Le novità di Maastricht trovano un terreno particolarmente fertile in
Germania a causa dell’eccessivo debito e della crisi delle finanze pubbliche che seguirono l’unificazione.
Vengono attuate diverse riforme con l’obiettivo di ridimensionare la spesa pubblica ma allo stesso tempo
anche di realizzare le medesime condizioni di vita in tutto il paese. Nonostante questo, i principi di Maastricht
non riuscivano ad essere attuati in Germania. La crisi era anche aggravata da un principio di solidarietà
secondo il quale i Lander più ricchi dovevano sostenere quelli più poveri. Si genera malcontento fino ad
arrivare al 1999 quando viene ritenuto costituzionalmente illegittimo costringere i Lander più ricchi a questo
trasferimento di risorse.

4.4 Le Foderalismusreformen e le regole di governo dell’economia tra continuità e processi di integrazione


europea

La reazione politica arriva attraverso riforme riguardanti il federalismo che rafforzavano la connessione con
l’ordinamento europeo. Molto importante è la prima riforma della Costituzione economico-finanziaria all’art.
109 GG che fissa delle responsabilità per gli enti territoriali che non rispettino i parametri di spesa. Non si
riesce però a completare il processo di riforma e ad introdurre dei limiti all’indebitamento.

La seconda riforma realizza una connessione diretta con l’ordinamento europeo al quale viene lasciata la
definizione dei limiti di spesa e di debito.

Il contesto era quello di una grave crisi finanziaria infatti dal 2003 al 2006 la federazione ha sforato il Patto di
stabilità e di crescita europeo. Questa seconda riforma aveva proprio lo scopo di evitare future violazioni del
Patto. Per fare ciò viene inevitabilmente accentrato il governo dell’economia ma non in capo alla Federazione
come in passato, bensì a livello europeo.
CAPITOLO 7 – L’articolo 41 cost. e il multiforme concetto di utilità sociale di Giuliano lemme

INTRODUZIONE

Il tema del rapporto tra impresa e mercato e della regolamentazione di quest’ultimo in maniera compiuta da
parte delle istituzioni pubbliche assunto da decenni un’assoluta centralità, tanto che il legislatore costituente vi
dico il gruppo di norme più importante tra quelle concernenti i rapporti economici. Questo perché nell’ultimo
periodo si è accentuata la tendenza a vedere il binomio libertà di iniziativa economica-limiti e correttivi
pubblici come chiave di volta per il disegno di Stato capitalistico moderno.

Il mercato è luogo di conflitti tra più soggetti aventi interessi potenzialmente contrapposti, e il ruolo dello
Stato è dunque quello di identificare:

- i fini e i soggetti da tutelare

- gli strumenti normativi atti a garantire tale tutela

Il rapporto impresa-mercato e la sua regolazione è da sempre al centro di accesi dibattiti e l’ art.41,


probabilmente l’articolo più importante del Titolo III della parte I Costituzione, è tra le norme che
causarono più contrasto in seno all’Assemblea Costituente. Il motivo è evidente: le forze opposte, quelle di
ispirazione liberale e cattolica e quelle di ispirazione socialcomunista, vedevano il punto dell’iniziativa
economica privata e dei suoi limiti come quello Sul quale poteva definitivamente indirizzarsi l’impianto della
costituzione nell’uno o nell’altro senso.

Ne derivò, dopo un lungo dibattito, un testo che identifica:

I comma - L’iniziativa economica privata è libera

 principio di ispirazione liberista, si basa sulle teorie di efficienza del mercato e libertà individuale

II comma - Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana

 Serie di limiti

III comma - La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali

 principio di programmazione, di impostazione socialista

Vi furono osservazioni e critiche riguardo a questo articolo poiché potrebbero sembrare disarmonica e
contraddittorie, in quanto frutto di compromesso. Per verificare la fondatezza di queste critiche, possiamo
procedere in due modi:

- applicare un metodo induttivo ed esaminare come l’articolo 41 sia stato applicato, verificandone la
funzionalità;

- seguire un metodo deduttivo ed esaminare, partendo dal testo della norma, se effettivamente contenga
le antinomie e discrasie evidenziate.
IL PRIMO COMMA E IL VERSANTE PRIVATISTICO

L’equivoco creato da questo comma è dato dal credere che stabilisca l’assoluta libertà dell’avvio
dell’iniziativa economica, per poi sottoporla nel suo svolgimento ai limiti previsti dal secondo comma. Ciò è
sbagliato, infatti il principio di libertà dell’impresa è riferito ad ogni momento della vita di questa, e non solo
a quello iniziale. Il primo comma serve a identificare un principio intrinsecamente limitato, ossia il
riconoscimento di una libertà solo nel quadro dei limiti individuati dai pubblici poteri.

Nell’interpretazione prevalente, la valenza del primo comma è pertanto di tipo “debole”: la libera iniziativa
economica, connaturata a tutti i sistemi di tipo capitalistico, è un dato di partenza che viene preso in
considerazione al solo duplice scopo di stabilire l’origine libertiana del nostro sistema, e al contempo di
enfatizzare i limiti nei commi seguenti. Giuliano Amato aveva definito questo modello economico come
protezionismo liberale.

IL SECONDO COMMA E UTILITA’ SOCIALE

Se dovessimo leggere i commi che seguono (specialmente il secondo), in termini di antinomia e di


contraddizione, dovremmo affermare che il Costituente valorizzava l'iniziativa economica privata solo
apparentemente, ma in realtà la contrapponeva a quella pubblica, questa sì, realmente libera dalle limitazioni
imposte alla prima.

Questa lettura, tuttavia, non comprenderebbe un dato fondamentale: l’utilità sociale, contro la quale
l’iniziativa privata non può svolgersi, è comunque una caratteristica, un predicato di quest’ultima.si spiega
meglio: l’iniziativa economica, in generale, è sempre socialmente utile, in quanto contribuisce
all'accrescimento del benessere della collettività. Quindi utilità sociale è già comunque insita nella libertà di
impresa. Il discorso dunque importante, non è quello di stabilire se la comprensione dell’iniziativa
imprenditoriale sia giustificata in termini di utilità pubblica, ma di verificare semmai quando la prima crei più
disutilità che utilità. La norma quindi non andrebbe letta in termini di contrapposizione ma in termini di
bilanciamento comparativo tra la libertà dell’iniziativa economica privata e la sua utilità sociale.

Resta da approfondire il termine utilità sociale cui l'articolo 41 fa riferimento.

La carta costituzionale fa riferimento in numerose occasioni alla socialità.

 Art.2 Cost. in cui si parla di solidarietà economica e sociale

 Art.3 Cost. in cui si parla di rimozione degli ostacoli economici e sociali

Quello del richiamo ai doveri sociali, è tratto comune sia alla dottrina cattolica, che a quella socialista. Da
questo deriva la particolare attenzione del costituente a fare dell’iniziativa economica uno strumento specifico
di eliminazione delle diseguaglianze sociali, attraverso la sua valorizzazione funzionale.

L'Assemblea Costituente, nella genericità della stessa espressione utilità sociale, voleva consentire il continuo
aggiornamento della nozione, alla luce dell’evoluzione socioeconomica della Repubblica. Quindi la nozione
di utilità sociale va di volta in volta individuata in maniera specifica, ed è per questo che non è stata fissata e
definita in modo perentorio dall’assemblea costituente: per non ancorare il concetto ad un preciso momento
storico. Al legislatore, alla pubblica amministrazione, alla dottrina, ai giudici ed alla stessa Corte
Costituzionale, spetta il compito di individuare, momento per momento, il significato da attribuirvi, in base ad
un contesto necessariamente mutato rispetto a quello originario.

A sostegno di questa tesi possiamo fare riferimento all'evoluzione nel tempo dei significati attribuiti al termine
“utilità sociale”.
Subito dopo il 1948 ci si riferiva a utilità sociale in termini di

- benessere economico collettivo attuato tramite il necessario intervento dello Stato;

- al massimo livello di occupazione possibile (tesi socialista);

- diffusione del benessere tra tutti coloro che possono ragionevolmente ambirvi (tesi più liberale).

Oggi si fa spesso riferimento all’utilità sociale in termini di

- efficienza del mercato;

- assenza di spunti anticoncorrenziali (libera concorrenza)

- tutela dei consumatori;

- tutela delle imprese le une dalle altre.

Non mancano tuttavia opinioni diverse che vedono l’utilità sociale in termini di

- rispetto dell’ambiente

- salute dei cittadini

- fattore di chiusura di settori del mercato all’iniziativa economica privata

- decrescita economica

Per quanto riguarda le tesi più recenti, non vi è dubbio sull’attualità di quella che legge l’art. 41 II comma
Cost. in stretto rapporto al mercato e alla sua efficienza, in particolare con riferimento alla tutela della libera
concorrenza ma soprattutto dei consumatori. Il riferimento all’efficienza del mercato concilia le opposte
esigenze dell'imprenditore, da un lato, e dei consumatori dall'altro: i primi gioveranno del corretto
svolgimento delle dinamiche concorrenziali, i secondi dalle medesime dinamiche concorrenziali trarranno
vantaggio in termini di minor costo, maggiore innovatività e qualità. Quindi la tutela della concorrenza trova il
suo fondamento costituzionale nell’articolo 41, più che in altre norme.

La libera concorrenza svolge un ruolo di bilanciamento tra libertà di iniziativa economica e utilità sociale. Il
principio di libera concorrenza previene la formazione di monopoli e di posizioni dominanti nocive al corretto
funzionamento del mercato e consente ai consumatori, e in generale alla collettività, di ottenere vantaggi e
prodotti migliori. Dunque una sorta di ideale chiusura del cerchio tra libertà di iniziativa economica privata ed
utilità sociale.

Modernità dell'utilità sociale

Tra le interpretazioni moderne del significato di utilità sociale: TUTELA AMBIENTE E SALUTE

Evidentemente contrapposta alle teorie più spiccatamente liberiste, il limite del rispetto dell’ambiente e della
salute umana si pone sia in rapporto con l’utilità sociale, che con la sicurezza umana.

Iniziativa economica e tutela dell'ambiente e della sicurezza sono ovviamente contrastanti, anche al di là di
episodi drammatici come

ILVA - caso in cui si contrappongono due diritti, cioè diritto alla salute, art.32 Cost. e l’iniziativa economica
privata come veicolo per dare lavoro;
Lockdown - con il quale si sono chiuse attività commerciali per il contenimento dell’epidemia di Sars-
Covid19.

Il problema che risiede nel prendere in considerazione la tutela ambientale come chiave di lettura del Co.2
risiede nel fatto che le persone, in relazione a questa tematica, hanno un approccio particolare. I servizi sono
utili, ma le attività che li producono a volte potrebbero comportare rischi per l’ambiente o la salute, accertati o
ipotizzati; oppure potrebbero essere utili per l’ambiente ma dannose per il paesaggio (es. impianti eolici).

L’unica strada ragionevole è una comparazione tra i due interessi in gioco, e nel caso concreto sul
danneggiamento che l’adesione all’uno provocherebbe all’altro. Nella pratica si deve riscontrare l'esistenza di
una proporzionalità tra danno all’ambiente o pericolo per la salute ed utilità dell’iniziativa, anche alla luce di
pareri tecnici che ne accertino il grado di pericolosità.

L'art. 191 del trattato FUE (Funzionamento Unione Europea) stabilisce l’aderenza dell’UE al principio
di precauzione, in base al quale, ove vengano identificati potenziali rischi di un’attività economica, senza che
tali rischi possano essere smentiti in modo scientifico, l'attività non può essere autorizzata.

In tempi più recenti, il dibattito sia indirizzato sul concetto di sviluppo sostenibile, ovvero sarebbe ritenuta
conciliabile solo l’attività economica che nel complesso non possa essere giudicata “insostenibile” per
l’ambiente.

Il problema in questo caso è la scarsa prevedibilità scientifica dell’impatto della ricerca tecnologica sul
consumo di risorse: le attività economiche oggi giudicate da alcuni non sostenibili potrebbero divenirlo a
seconda del quadro di innovazione e delle scoperte scientifiche tecnologiche prese a riferimento. Es.
Secondo alcune previsioni fatte nel corso degli anni ‘80 (shock petrolifero) il petrolio si sarebbe esaurito entro
il 2010, ipotesi rivelatasi errata.

L’INTERVENTO PUBBLICO

Alcune tesi ritengono incompatibile l'economia di mercato aperto, quindi l'iniziativa economica privata, con
alcuni settori che sarebbero riservati all'intervento pubblico, ad es. sanità e istruzione. In altri termini: vi sono
alcuni servizi pubblici che difficilmente si prestano a fornire una redditività tale, da consentire ai privati, senza
scadimento del servizio o innalzamento del corrispettivo preteso dei cittadini, di intervenirvi  es. campo
dell'istruzione e il suo il principio di gratuità fa sì che l'intervento privato non possa essere che residuale e
diretto solo ad alcune ristrette fasce della popolazione.

Il dibattito su questo punto è destinato a mantenersi vivace, specie in periodi di crisi nei quali lo Stato ha
difficoltà a reperire risorse per i servizi pubblici fondamentali, ed è dunque più incline ad accogliere istanze
dei privati tese a concorrere all’erogazione di tali servizi.

L'interpretazione della Consulta

La Corte costituzionale ha seguito, nel tempo, le evoluzioni del significato di utilità sociale, riconoscendo il
valore fondante e primario di tale concetto ma sottolineando come il limite dell'utilità sociale non debba
tradursi in una eccessiva mortificazione della libera iniziativa economica privata.

Sicurezza, libertà, dignità umana


Il Co.2 pone all'iniziativa economica privata altri limiti (oltre l'utilità sociale) cioè, impossibilità di recare
danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. (Riferimenti a questi concetti si trovano anche all’art.36
Cost, e costituiscono rafforzativi del concetto di utilità sociale).

Il Co.2 impedisce all'iniziativa imprenditoriale di attuare politiche di minimizzazione dei costi, che potrebbero
passare per una riduzione delle retribuzioni dei dipendenti e per l' allentamento delle misure di sicurezza.

L'ultimo comma

L’ultimo comma stabilisce il principio della programmazione legislativa dell'attività economica ai fini
sociali. Tale programmazione riguarda non solo l'iniziativa economica privata ma anche quella pubblica,
Segno evidente dell’attenzione all’intero novero delle iniziative economiche, e della loro finalizzazione
complessiva all’utilità sociale.

Anche se di chiara ispirazione socialista, sarebbe riduttivo liquidare l'ultimo comma come una semplice
concessione al PCI. Va ricordato che anche durante il regime l'Italia aveva vissuto esperienze di pianificazione
economica, tant’è che si arrivò, con la legge N.48/1967, ad istituire il CIPE (Comitato Interministeriale per la
Programmazione Economica).

Spesso in passato i controlli erano visti come una mortificazione della libertà di iniziativa economica. Ad oggi
si enfatizza il carattere libero delle attività, tuttavia, occorre considerare che il controllo sulle attività
economiche è giustificato dal Co.2, poiché necessario per verificare l'eventuale contrasto con l'utilità sociale.

Conclusioni

In base a quanto detto possiamo ritenere l'art. 41 Cost. ancora attuale e compatibile con il mercato e le sue
libertà, nonostante i mutamenti socioeconomici intervenuti tra il 1948 e oggi.

Non sono mancati tentativi e proposte di modifica. Tra le varie si ricorda il disegno di legge costituzionale
4144 del 2011 sostenuto da Silvio Berlusconi. La proposta fatta è da ritenere:

Ridondante rispetto al comma due: poiché la previsione in base alla quale tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge è permesso, sembra inutile. Tale formulazione avrebbe inoltre impedito ai magistrati di
applicare analogicamente le norme in base alla fattispecie concreta.

Pericolosa rispetto al comma tre: poiché avrebbe abolito il principio di programmazione e controllo,
introducendo di conseguenza una metodologia di controllo ex post, favorendo abusi anche in danno della
sicurezza.

Dopo varie vicissitudini, il testo è stato prima accantonato e poi è venuto meno con la fine della legislatura.

L’opinione di Giuliano Lemme è che l’attuale formulazione, quella originaria, sia ancora attuale e pienamente
compatibile con il mercato, con le sue libertà, ma anche con i diritti e doveri reciproci della collettività.
CAPITOLO 8: La costruzione del mercato unico in Europa: le strutture della concorrenza (Giuliano
Lemme)

1. La nascita dell’unità europea

L’idea di gettare in Europa le basi di una convivenza stabile e pacifica tra gli stati prende forma negli anni
della Seconda Guerra Mondiale. Dopo la sua fine, nel 1951, viene creata la Comunità Europea del Carbone
e dell’Acciaio (CECA), a cui partecipano: Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Italia Germania e Francia. I
paesi volevano inaugurare sul piano economico e politico una stagione nuova: proprio i giacimenti di carbone
e ferro, infatti, erano state le principali cause dei conflitti e contribuivano in maniera determinante
all’industria bellica. Uno sfruttamento comune e regolamentato diventava quindi un efficace strumento di
prevenzione.

L’idea di pacificazione economico-politica fu perfezionata nel 1957, con la nascita della Comunità
Economica Europea e della Comunità Europea per l’Energia Atomica, sempre tra gli stessi paesi
fondatori. Nel 1967, con il Trattato di Integrazione, tre comunità misero in comune e organizzazioni e i
rispettivi organi.

L’assetto attuale dell’Unione Europea (divenuta tale nel 1992) è dovuta da una serie di atti:

a. l’Atto Unico Europeo del 1986, che introdusse importanti modifiche istituzionali e prospettò la
creazione di una Unione Europea;

b. il Trattato sull’Unione Europea (Trattato UE) firmato a Maastricht nel 1992, in cui si integravano le
competenze della Comunità, di tipo strettamente economico, con attribuzioni politiche (su giustizia,
sicurezza, politica estera…)

c. il Trattato di Amsterdam del 1997, che rafforzava la cooperazione politica tra gli Stati membri
introducendo il principio del progressivo abbattimento delle frontiere interne;

d. il Trattato di Nizza del 2001, ha esteso ancora di più le competenze dell’Unione verso i diritti
sociali;

e. il Trattato di Lisbona del 2008, che affiancava al Trattato UE il Trattato sul Funzionamento
dell’Unione Europea (Trattato FUE).

Ad oggi gli stati membri sono 27 e vi è stata un’unica defezione, quella del Regno Unito a seguito del
referendum del 2016.

2. Il problema della concorrenza

Alla lettera b) dell’art. 3, il Trattato FUE definisce tra i settori di competenza esclusiva dell’Unione la
“definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno”. Al centro
dell’azione dell’UE vi è sempre il mercato, oggetto principale dei Trattati originari del 1951 e 1957: sotto
questo profilo, i Trattati segnano la nascita di un diritto antitrust europeo.

Il trattato UE ha l’ambizioso scopo di instaurare “un'economia sociale di mercato” (art.3 co.3), cosa che si
contrappone al liberalismo puro.
Le regole generali sull’attuazione e il funzionamento del mercato unico europeo sono interconnesse con le
norme che tutelano la concorrenza. Questo perché la concorrenza è al contempo strumento di attuazione del
mercato comune, e sua finalità. Letti in questa chiave, i quattro pilastri su cui poggia la costruzione del
mercato unico (libertà di circolazione delle persone, delle merci, dei capitali, libertà di stabilimento),
concorrono con le norme dedicate alla concorrenza (divieto di intese restrittive e di abuso di posizione,
restrizione degli aiuti e delle concentrazioni) alla creazione di un contesto in cui i consumatori possano
beneficiare del prezzo più basso possibile per il migliore prodotto possibile.

I diritti dei consumatori sono posti nell’ambito dell’unione in connessione con le libertà fondamentali. La
libertà del consumatore è un predicato della cittadinanza europea, nella sua ampia accezione di cittadinanza
economica.

3. Le quattro libertà: libertà di circolazione delle persone (e in particolare dei lavoratori)

Gli strumenti sui quali poggia la costruzione del mercato unico europeo riguardano le quattro libertà
fondamentali di circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi.

Per quanto riguarda la libertà di circolazione delle persone, più precisamente dei lavoratori dipendenti, questa
è prevista dagli artt.45 segg. del Trattato FUE ed è consentito derogare (cioè la legge non si applica) solo in
casi eccezionali o per gli impieghi nella pubblica amministrazione, ma non tutti. Inoltre, la nozione di
lavoratore va interpretata alla luce del diritto europeo, e non dei singoli diritti nazionali.

L’applicabilità dell’art. 45 ha come presupposto: un vincolo di subordinazione, una durata prolungata della
prestazione lavorativa e una remunerazione. La norma si applica anche a chi è in cerca di occupazione e ai
familiari del lavoratore. Questa libertà è però stata alla base delle resistenze di alcuni Stati all’allargamento
dell’Unione, soprattutto verso i Paesi dell’est, le cui condizioni economiche erano diverse da quei Paesi che
hanno costituito il nucleo fondamentale della comunità.

La libertà di circolazione dei lavoratori implica il divieto di qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità,
sia diretta che indiretta.

Le deroghe alla libertà riguardano i motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, ma
anche gli impieghi nella pubblica amministrazione. Le deroghe non devono però diventare motivi di
restringimento alla libera circolazione.

Per quanto riguarda la deroga per gli impieghi nella pubblica amministrazione, la norma riguarda i “posti che
implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno
oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche ”. Ad esempio, si può
impedire di accedere a gradi elevati dell’esercito ma non di diventare docente universitario.

La libera circolazione presuppone un coordinamento tra i sistemi di sicurezza sociale degli stati membri, cui
provvede il Reg. 883/2004/CE.

3. Libera circolazione dei servizi

La libera circolazione dei servizi è prevista dagli artt. 49 segg. del Trattato FUE, che prende in
considerazione due aspetti:

a. la libertà di stabilimento (artt. 49-55): diritto dei professionisti e delle imprese di stabilirsi nel
territorio di un altro Stato membro per prestarvi la proprio attività. Il diritto si divide a sua volta in:
o primario: diritto di stabilire in uno Stato la propria attività in maniera esclusiva (es. si
costituisce società nel territorio di quello Stato);

o secondario: diritto di esercitare l’attività in un altro Stato mantenendo però la sede


principale nel proprio (riguarda quindi la facoltà di costruire filiali, agenzie,
succursali)

b. la libera prestazione dei servizi (artt. 56-62): possibilità di eseguire prestazioni in un altro Stato
membro senza materialmente stabilirsi.

Per quanto riguarda il diritto di stabilimento, come per la libertà di circolazione delle persone, vige un criterio
di interpretazione molto ampia, e ha avuto una delle sue applicazioni più note e dibattute per quanto riguarda
determinate professioni ad accesso regolamentato, come quella di avvocato.

Altro profilo rilevante riguarda gli ostacoli di natura fiscale, visto che le società cercano spesso di stabilirsi nei
paesi a regime più favorevole.

In merito alla libera prestazione dei servizi, il discorso fiscale è più complicato. Manca una totale
armonizzazione fiscale unitaria e gli Stati membri potrebbero introdurre delle distorsioni che rischiano di
scoraggiare la prestazione dei servizi in uno Stato diverso dal proprio. La Corte di Giustizia, per stabilire
criteri uniformi di interpretazione, ha elaborato un test (test Webb) per verificare il carattere discriminatorio o
meno di una legislazione.

Per la libera circolazione dei servizi, è di grande rilievo la Direttiva 2006/123/CE (nota come direttiva servizi
o direttiva Bolkenstein), volta a facilitare e garantire l’effettività dei diritti connessi alla libertà di circolazione
dei servizi. La direttiva impone semplificazioni delle procedure e dei requisito di accesso al mercato dei
servizi, anche tramite l’istituzione di sportelli pubblici. Queste semplificazioni si impongono anche alle
situazioni di mercato interno, cioè quando il prestatore di servizi agisca unicamente all’interno del proprio
Stato.

Nella proposta di direttiva era previsto il principio dell’home country: i prestatori di servizi sarebbero stati
assoggettati alla normativa del paese di origine. Nel testo definitivo, però, si è ritornati al principio di host
country, cioè la sottoposizione alla normativa del paese di effettiva prestazione, e sono stati elencati e ridotti i
casi di restrizione alla libertà di prestazione dei servizi.

5. Libera circolazione delle merci

(Tutti gli articoli citati fanno parte del Trattato FUE)

È prevista agli artt. 28 segg. del Trattato FUE e si articola in due aspetti fondamentali: l’ unione doganale e il
divieto di restrizioni quantitative

1) Unione doganale
L’art.30 vieta di imporre dazi all’esportazione o all’importazione tra gli stati membri: si vieta la
discriminazione tra prodotti nazionali (esenti da dazi) e comunitari (che potrebbero avere dazi).

L’art. 31 impone invece l’adozione di una tariffa doganale unica verso gli stati extracomunitari perché, se
ogni paese membro adottasse tariffe diverse, i paesi extracomunitari sceglierebbero gli stati con la tariffa più
favorevole per far transitare le merci nell’unione.

L’art. 31 impone anche il divieto di istituire tasse di effetto equivalente ai dazi. È una norma antielusiva e
viene applicata a qualsiasi misura di carattere pecuniario che colpisca le merci quando valicano una frontiera.
In breve, bisogna verificare se la tassa sarebbe applicata comunque allo stesso prodotto se questo non fosse
stato importato da un altro Stato comunitario.

Altra norma antielusiva è l’art. 110, che vieta le imposizioni discriminatorie alle merci comunitarie rispetto ai
prodotti nazionali similari, per evitare che gli stati favoriscano le proprie merci adottando regimi fiscali
differenziati e non giustificati dalle caratteristiche del prodotto.

I prodotti similari sono quelli che si rivolgono allo stesso ambito di consumo e sono quindi concorrenti. La
norma vuole prevenire che questi vengano tassati quando sono importati da altri stati comunitari.

2) Divieto di restrizioni quantitative (artt.34 segg.),

Riguarda tutte le misure volte a impedire o limitare l’entrata o l’uscita di merci di uno Stato membro. Si vuole
quindi impedire che il mercato unico sia inattuato a causa di misure protezionistiche dei singoli stati.

Il Trattato fa riferimento a “misure ad effetto equivalente” con cui lo Stato membro, senza avvalersi di un
provvedimento esplicito di restrizione quantitativa, agisce ostacolando il commercio intracomunitario. La
corte di giustizia interpreta la norma in maniera estensiva, includendo un ampio numero di casi. In generale si
è adottato il principio di mutuo riconoscimento, per cui le merci autorizzate in uno Stato membro sono
ammesse automaticamente alla circolazione comunitaria.

Vi sono però delle deroghe, previste dall’art. 36, secondo cui le misure ad effetto equivalente sono
giustificate da motivi di “moralità pubblica, ordine pubblico, pubblica sicurezza, tutela della salute e della
vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico,
storico e archeologico o di tutela della proprietà industriale e commerciale”. Un esempio è il divieto di
importazione di carne dal Regno Unito durante l’epidemia di mucca pazza, oppure le restrizione
all’esportazione di beni culturali previsto in Italia dagli artt. 65 segg. del d.lgs.22.1.04 n. 42.

Bisogna ricordare che la libera circolazione viene vista da molti come un ostacolo alla difesa dei prodotti
locali di qualità, soprattutto nell’ambito agroalimentare.

6. Libera circolazione di capitali

Prevista dagli art. 63 segg. del Trattato FUE, si compone del divieto di restrizioni ai movimenti di capitale e
del divieto di restrizioni ai pagamenti, e vale anche verso i paesi terzi. Questi sono due aspetti di uno stesso
principio: il movimento di capitali implica che un soggetto trasferisca denaro a sé stesso in un altro paese
membro, il pagamento implica il trasferimento ad un altro soggetto.

Le uniche deroghe riguardano ragioni imperative di interesse pubblico, nel rispetto del principio di
proporzionalità.
Questa libertà è funzionale anche ad altre libertà: ad esempio, la libertà di stabilimento non si potrebbe attuare
senza la possibilità di trasferire capitali necessari alla sua attuazione.

La Commissione Europea nel 2015 ha immaginato la creazione di un'unione dei mercati dei capitali, tesa al
finanziamento delle piccole e medie imprese e della costruzione di infrastrutture.

7. Gli interventi specifici in tema di concorrenza

La concorrenza è uno strumento essenziale per realizzare il benessere dei cittadini attraverso la promozione
dei loro diritti di consumatori, ma è anche fattore di progresso economico a vantaggio delle imprese virtuose.

È quindi uno strumento economico ma anche politico e sociale.

Il Trattato FUE realizza la tutela della concorrenza con quattro strumenti principali:

- quelli rivolti alle imprese: divieto di intese restrittive e di abuso di posizione dominante,
regime delle concentrazioni;

- quello rivolto agli stati: regime degli aiuti di Stato.

Come previsto dall’art. 3 co.1 lett. b), la concorrenza è materia di competenza esclusiva dell’Unione.
Tuttavia, è ormai accolto il principio della doppia barriera: si applica il diritto nazionale per quanto riguarda
gli effetti limitati al mercato interno, mentre si applica il diritto europeo per gli effetti estesi al mercato
comunitario. Le norme italiane sono comunque modellate in maniera letterale su quelle europee.

8. Le intese restrittive

Il primo strumento di tutela della concorrenza è il divieto di intese restrittive, stabilita dall’art. 101 del Trattato
FUE: “sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di
associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra stati membri
e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza
all’interno del mercato interno”.

Ci sono molti problemi interpretativi. Sono presi in considerazione tre tipi di intese: accordi, decisioni di
associazioni di imprese e pratiche concordate: quest’ultima è di difficile interpretazione e si riferisce a
comportamenti, non preceduti da un accordo formale, che creano distorsioni nella concorrenza. (es. pratica
concordata: riunione in cui si decide di tenere un comportamento comune).

L’accordo può essere anche verbale: anche i gentlemen’s agreements possono essere sanzionati.

Inoltre, non è necessario che l’accordo, la pratica o la decisione abbiano come oggetto diretto la distorsione
della concorrenza. La norma parla di oggetto o effetto: si considerano anche gli effetti potenziali dell’intesa,
non solo l’effetto immediato.

La norma elenca una serie di clausole tipiche: alcuni casi sono eclatanti (es. accordi sui prezzi), in altri
l’effetto distorsivo è più sfumato.

Per quanto riguarda la Corte, per la tutela della concorrenza si è stabilita negli ultimi anni un’inversione
dell'onere della prova: le imprese incolpate sono tenute a dimostrare di non aver partecipato ad intese
restrittive nel caso in cui non si siano dissociate pubblicamente dalla pratica sospetta e non l’abbiano
denunciata.
Vi sono eccezioni: non si applica nel caso in cui le intese “ contribuiscono a migliorare la produzione o la
distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico”. Questo perché la stessa norma
andrebbe a scapito dell’efficienza del mercato e dei consumatori. Gli accordi a favore dello sviluppo
tecnologico favoriscono sempre il consumatore: la qualità del prodotto migliora e il suo costo diminuisce.

9. L’abuso di posizione dominante

È previsto dall’art. 102 del Trattato FUE. Non vieta alle imprese di assumere una posizione dominante, ma di
abusarne: così, il trattato aderisce alla nozione dinamica di monopolio, anziché alla sua forma statica.

Vi è una posizione dominante quando una o più imprese sono in grado di svincolarsi dalle regole competitive.
Possono, ad esempio, fissare unilateralmente i prezzi senza temere contraccolpi dovuti alle più favorevoli
politiche commerciali di altre imprese.

Si ha abuso quando l’impresa:

- trae dalla sua posizione vantaggi che non avrebbe ottenuto in condizioni di piena concorrenza:
ad esempio fissando prezzi eccessivi, iniqui, discriminatori e condizioni non eque

- quando agisce per rafforzare la sua posizione monopolistica: ad esempio, la pratica dei prezzi
predatori, politiche aggressive di sconti, rifiuto di contrarre o di concedere ai concorrenti le
proprie strutture.

10. Le concentrazioni

Si ha concentrazione quando avviene una fusione tra più imprese o l’acquisizione di un’impresa da parte di
un’altra. In tutti e due i casi l’effetto è di una potenziale diminuzione del livello ottimale di concorrenza in un
determinato mercato, causato dalla riduzione delle imprese che contribuiscono ad alimentare l’offerta. È
evidente soprattutto per la fusione e se le imprese “unite” appartengono allo stesso settore o a settori
verticalmente contigui. Nell’acquisizione, oltre a questo effetto, si adotta anche un’unica strategia
imprenditoriale tra l’impresa controllante e quella controllata.

L’UE regola il regime delle concentrazioni attraverso vari regolamenti, l’ultimo dei quali è il Reg. (CE)
139/2004.

Per capire se ad una operazione di concentrazione si può applicare la normativa europea, bisogna verificare
l’effetto che ha sul mercato unico. Vi è una soglia di rilevanza – dimensione comunitaria – che si basa sul
fatturato realizzato dalle imprese interessate: se la soglia è superata, l’operazione può essere autorizzata solo
se compatibile con il mercato comunitario, quindi se non ostacola la concorrenza effettiva. Questa verifica
spetta alla Commissione Europea e, se l’obbligo non viene rispettato, può disporre la separazione delle società
e irrogare un’ammenda sino al 10% del fatturato totale delle imprese interessate.

11. Gli aiuti di Stato

Disciplinati dagli artt. 107 e segg. del Trattato FUE.

Secondo l’art. 107, sono aiuti quelli che comportano una elargizione pubblica che favorisca talune imprese o
produzioni, pregiudicando il corretto scambio tra gli stati membri e conseguentemente la concorrenza. Il
criterio per identificare quale misura costituisce un aiuto è ampio: oltre all’erogazione diretta a fondo perduto,
ci sono anche i prestiti, le garanzie, le partecipazioni al capitale, le esenzioni fiscali, il finanziamento
all’acquisto.

Non contano le motivazioni alla base dell’aiuto, ma solo gli effetti distorsivi della concorrenza.

Il soggetto favorito riguarda talune imprese o talune produzioni: non contano i casi in cui si aiuta un interno
mercato, ma solo quando si aiutano alcune imprese all’interno di quel mercato. Questo perché gli aiuti
generali, diretti equamente a tutte le imprese, non hanno effetti distorsivi.

Sul pregiudizio allo scambio tra stati membri la Corte si è espressa più volte adottando criteri ampi. Il
pregiudizio può anche essere solo potenziale, nel senso di poter pregiudicare la penetrazione di imprese
comunitarie su un mercato nazionale. Non è necessario che gli aiuti favoriscano alcune imprese nazionali in
un mercato dove già operano imprese comunitarie, in quanto rafforzare la posizione di una impresa in un
mercato chiuso può renderlo più impermeabile, violando così il principio della libertà di stabilimento.

La materia degli aiuti alle imprese è sensibile; in tempo di crisi le sovvenzioni sono uno strumento di
salvataggio, ma anche di un indirizzamento dell’economia verso settori più virtuosi.

Lo stesso art. 107 prevede una serie di casi nei quali gli aiuti possono essere concessi, poiché compatibili con
il diritto comunitario. Si tratta di aiuti a carattere sociale concessi a singoli consumatori, che non contengano
discriminazioni circa ‘origine dei prodotti, e degli aiuti conseguenti a calamità naturale.

Vi sono poi aiuti definiti esentabili. Sono aiuti:

- in favore di imprese operanti in regioni disagiate

- volti a realizzare progetti di comune interesse europeo

- per lo sviluppo di certe attività o regioni economiche, che non alterino le condizione degli scambi ecc…

In questo modo si vuole attenuare il rigore di un divieto che toglierebbe agli stati la possibilità di operare in
settori di particolare delicatezza e rilevanza sociale.

12. Le procedure

Per le violazioni agli artt. 101 e 102 del Trattato FUE, la Commissione si occupa di assicurarsene il rispetto e
può accertare le infrazioni, inibirle e sanzionarle. Può anche accettare impegni dalle imprese interessate o
ammetterle a programmi di clemenza (leniency programmes), che consentono alle imprese che autodenuncino
un’intesa restrittiva di beneficiare di una riduzione della sanzione o esentarle del tutto. Su questo punto, c’è un
potere di contrattazione tra Commissione e imprese.

La Commissione può anche dichiarare preventivamente che a certe categorie di intese il divieto non si applica:
in questo il potere viene esercitato su delega del Consiglio.

Poteri simili spettano alle Autorità nazionali sulla concorrenza per le infrazioni avvenute nei territori di
rispettiva competenza. In Italia esiste l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato. Le Autorità sono
soggette al potere di coordinamento della Commissione, con cui formano l’ECN (European Competition
Network). Un potere applicativo spetta infine ai giudizi nazionali.

Anche per gli aiuti di Stato la competenza è della Commissione, che esamina in maniera permanente gli aiuti
esistenti ed esamina la compatibilità con il mercato comune degli aiuti nuovi. Per farlo svolge un’indagine
formale e al termine può considerare che la misura:
- non costituisce un aiuto

- è un aiuto compatibile con il mercato comune

- è compatibile ove rispetti certe condizioni

- è incompatibile e quindi vietarla, assoggettando lo Stato che ha concesso l’aiuto all’obbligo di


recupero.

13. Conclusioni

Il complesso delle norme e delle interpretazioni riguardanti la costruzione del mercato unico in Europa e le
politiche della concorrenza rafforzano l’idea di una Costituzione economica europea come momento centrale
delle libertà costituzionali dei paesi membri.

Il tema della libertà economica va gradualmente sovrapponendosi e assumendo importanza centrale rispetto a
quello delle libertà civili, fulcro delle Carte costituzionali. Ne è testimonianza in Italia il dibattito sull’art. 41
della Costituzione.

Il tema della concorrenza, e quello del mercato, come momento di realizzazione ideale del benessere e della
tutela dei consumatori, è destinato a rafforzare il suo ruolo di centralità. Sempre che gli strumenti sinora
individuati si rivelino veramente efficaci e adatti allo scopo.
CAPITOLO 9: Il mercato finanziario e le organizzazioni di mercato in Italia ( a seguito della Mifid II)

1.Il mercato come insieme delle negoziazioni avente a oggetto i prodotti finanziari

Il mercato finanziario corrisponde all’ambito -nazionale o internazionale- in cui avvengono le negoziazioni


che determinano la circolazione dei prodotti finanziari tra i sottoscrittori e altri investitori. È il contesto dove
gli emittenti ottengono la liquidità di cui necessita la propria impresa attraverso il collocamento più agevole di
strumenti finanziari circolabili.

Le organizzazioni invece, vengono predisposte per consentire le negoziazioni fra gli intermediari che
rappresentano le proposte di offerta e domanda aventi ad oggetto gli stessi prodotti finanziari.

Per tali differenti organizzazioni si pone il medesimo problema riguardante la qualità delle negoziazioni e i
rimedi offerti per le ipotesi in cui si realizza un abuso o una manipolazione di mercato. Riferimenti normativi:

Art 41/ 47 rappresentano ‘l’ombrello’ che la normativa interna offre all’iniziativa economica privata e
all’attività che insiste sul risparmio.

Lo stesso ruolo è svolto in ambito comunitario dalle norme dei trattati inerenti alle negoziazioni di prodotti
finanziari ( la direttiva MiFID, MiFID II, e il Regolamento MiFir) , all’informazione necessaria per ogni
immissioni sul mercato di strumenti finanziari ( Regolamento Prospetto 2017/1129/UE) , nonché al contrasto
dei comportamenti che rappresentano una alterazione rispetto al normale funzionamento del mercato- direttiva
sul Market Abuse e Transparency Directive.

A livello di norme primarie, la regolazione rilevante in ambito finanziario si ritrova nel TUF, TUB,CAP.

Quando alle norme secondarie rilevano il Reg. MERCATI, il Reg. Emittenti e il Reg. Intermediari nelle
previsioni dettate sull’attività di negoziazione di strumenti finanziari, nonché il Reg. sulla Gestione Collettiva
del Risparmio. Ad essa, tuttavia, si affianca la regolazione privatistica derivante dalle norme che sono frutto
dell’autonomia delle società di gestione di mercato e degli intermediari.

2. Il mercato come attività oggetto di imprese commerciali specializzate. I mercati regolamentati

Nel nostro Paese l’organizzazione e la gestione di sistemi finalizzati allo svolgimento delle negoziazioni di
prodotti finanziari è riservati a speciali imprese commerciali strutturate come società per azioni, sottoposte a
vigilanza prudenziale da parte di autorità pubbliche.

I soggetti da cui è esercitata tale attività sono le Società di Gestione del Mercato ( SGM), iscritte in un albo
tenuto dalla Consob.

Le SGM operanti in Italia sono Borsa Italiana S.p.A e MTS S.p.A.

Borsa italiana gestisce:

-Mercato Telematico Azionario (MTA);

-AIM Italia dedicato alle piccole e medie imprese ad alto potenziale di crescita;

-Mercato telematico degli Investimenti Vehicles ( MIV);


-Borsa Italiana Equity MTF, comprendente il GEM ( Global Equity Market) e il TAH, mercato serale;

-Mercato degli strumenti derivati ( IDEM) per la negoziazione degli strumenti finanziari;

-Mercato telematico degli Exchange Traded Founds ( ETF plus) quali ETF,ETC,ETN e OICR aperti;

-Mercato Telematico delle obbligazioni e titoli di stato ( MOT);

-ExtraMOT per tutte le obbligazioni corporate di emittenti italiani ed esteri;

-ExtraMOT PRO esclusivo per gli investitori professionali;

-Mercato telematico dei securitised derivatives ( SeDeX).

La MTS S.p.A. invece amministra il mercato regolamentato degli scambi all’ingrosso aventi ad oggetto:

-il Mercato Telematico all’Ingrosso dei Titoli di Stato ( MTS Italy);

-MTS Depo sistema multilaterale di scambio di depositi monetari in euro;

E i tre sistemi multilaterali:

a) BondVision Europe per la negoziazione via internet all’ingrosso di Titoli di Stato europei;

b) MTS cash domestic, piattaforme che trattato bond di Stato “ locali” di diversi emittenti sovrani;

c) EBM, mercato dei benchmark dei titoli di Stato dell’area euro e sovranazionali.

Requisiti per una SGM:

1)risorse finanziarie adeguate stabilite da Consob pari ad almeno cinque milioni di euro;

2) un programma di attività verificato sulla base della normativa primaria e secondaria e approvato dalla
stessa Autorità di Vigilanza;

3)regolarità di funzionamento e conformità alle prescrizioni primarie e secondarie;

4)un regolamento del mercato gestito che sia conforme alle disposizioni in tema di negoziazione degli
strumenti finanziari e regolazione degli scambi monetari conseguenti;

5) un sistema per l’ammissione alle negoziazione degli strumenti finanziari e dei soggetti abilitati alla
negazione;

6) partecipanti al capitale dotati dei requisiti di onorabilità definiti dalla Consob:

7) esponenti aziendali dotati di requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza stabiliti dalla normativa
secondaria della Consob;

8) un sistema di liquidazione, compensazione e garanzia delle operazioni vigilato dalla Banca d’Italia e dalla
Consob.

Le SGM sono tenute a sottoporre il proprio bilancio annuale alla revisione contabile obbligatoria.

Quando la partecipazione al capitale delle SGM dei soggetti abilitati eccede il 5%, la SGM ha l’obbligo di
comunicare la notizia alla Consob, che potrà entro novanta giorni opporsi all’acquisto che modifichi la
struttura proprietaria della SGM.
3. I mercati e gli intermediari finanziari

Gli intermediari finanziari costituiscono uno dei principali “attori” del mercato finanziario.

Essi realizzano gli incarichi di acquisto e vendita di strumenti finanziari ricevuti dai clienti, provvedendo alla
distribuzione dei prodotti finanziari richiesta dagli emittenti. Spetta all’intermediario decidere in quale ambito
portare a compimento l’ordine: agendo sul proprio patrimonio con la dismissione di strumenti finanziari in
esso già presenti; agendo su una propria piattaforma di negoziazione o su quella di un altro intermediario o
direttamente attraverso un mercato regolamentato.

Gli intermediari possono essere ricondotti a tre tipologie aventi rispettivamente origine bancaria, finanziaria e
assicurativa.

-intermediari finanziari corrispondenti alle società finanziarie, in questa categoria rientrano le società di
leasing e di factoring e le altre finanziarie elencate nell’albo tenuto dalla Banca d’Italia.

-tra gli intermediari finanziari non bancari indicati come “soggetti abilitati “, sono comprese le SIM e le
imprese d’investimento comunitarie ed extracomunitarie, le SGR, le SGA e le altre società di gestione non
armonizzate, le SICAV e le SICAF, le banche d’Italia, comunitarie ed extracomunitarie autorizzate a svolgere
i servizi e le attività d’investimento.

-intermediari finanziari assicurativi, che svolgono un’attività di collocamento dei prodotti assicurativi
attraverso la rete di distribuzione bancaria e finanziaria.

Agli intermediari spetta anche un’attività tipicamente finanziaria, costituzione e gestione di servizi
multilaterali di negoziazione di attivi di conto corrente.

Gli intermediari ottimizzano la gestione e il rendimento dei depositi monetari in euro negoziandone i saldi
attivi anche a livello internazionale ricavando, in tal modo, un flusso di proventi che rientrano nei propri
bilanci.

4. I sistemi alternativi di negoziazione

Accanto ai mercati regolamentati sussistono oggi una serie di sistemi alternativi di negoziazione che possono
essere gestiti sia dalle SGM, sia dagli intermediari finanziari.

Nel primo caso costituiscono un completamento nell’operatività della SGM.

Viceversa la gestione di una MTF/OTF da parte degli intermediari finanziari costituisce un ulteriore servizio
d’investimento che è messo a disposizione dei propri clienti, ma anche di altri intermediari finanziari con la
rispettiva clientela.

I sistemi alternativi di negoziazione si specificano in tre modalità:

-la gestione da parte dell’intermediario di un proprio sistema multilaterale di negoziazione denominato anche
Multilateral o Organized Trading Facility ( MTF/OTF);

-l’operatività come internalizzatore sistematico;


-il modo di relazionarsi con i propri clienti da market maker.

Le MTF/OTF costituiscono oggi, un sistema multilaterale di negoziazione che corrisponde funzionalmente ai


mercati regolamentati. In essi, i potenziali venditori e acquirenti di strumenti finanziari quotati hanno la
possibilità di incontrare più facilmente le controparti, decidendo di rivolgersi a queste invece che ad altre
piattaforme di negoziazione.

La presenza di una multilateral trading facilita consente di conseguire il miglioramento concorrenziale


dell’efficienza del sistema finanziario, incrementando la liquidità nei mercati regolamentati.

Gli internalizzatori sistematici, invece, offrono ai propri clienti la possibilità di negoziare in modo sistematico,
organizzato e frequente gli strumenti finanziari quotati a condizioni migliori rispetto a quelle disponibili nel
medesimo intervallo di tempo sui mercati regolamentati.

I market makers corrispondono ad intermediari finanziari che negoziano, in modalità continuativa sui mercati
regolamentati e sulle MTF/OTF, proponendosi come controparte diretta in acquisto o in vendita a prezzi da
essi stessi stabiliti e pubblicati sul proprio sito. Sono iscritti in appositi elenchi tenuti rispettivamente dalla
Banca d’Italia ed MTS, il che induce a qualificare l’iscrizione come effetto di un mero rapporto contrattuale
tra l’intermediario e le SGM.

Sono i flussi di domanda e di offerta di strumenti finanziari, nonché di “ interessi multipli di negoziazione” a
condizionare positivamente l’andamento di un mercato e dunque ad agevolare contemporaneamente il suo
buon funzionamento e quello dell’impresa riferita ai vari intermediari finanziari operanti sullo stesso.

5. Le organizzazioni di mercato e le tipologie di investitori

Nelle organizzazioni di mercato gli scambi di prodotti finanziari avvengono secondo le norme definite dal
soggetto che regola gli scambi, in un rapporto di necessaria conformità rispetto alla disciplina pubblicistica
inerente al settore finanziario.

Comune a tutte le organizzazioni di mercato è la vigilanza pubblicistica, ovvero la necessità di controllo


esterno rimesso ad autorità indipendenti, come la Consob, la Banca d’Italia e l’IVASS, ma anche l’Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato ( AGCM).

I costruttori e gestori di organizzazioni di mercato impostano il regolamento delle negoziazioni in funzione


della scelta d’investitori appartenenti a una determinata categoria.

Gli investitori si distinguono in funzione di un livello di protezione crescente. Si consentono modalità di


contrattazione più o meno rigide a seconda del livello di conoscenza rispetto ai prodotti e alle forme di
negazione. Gli investitori si suddividono in 3 categorie:

-investitori professionali;

-controparti qualificate;

-investitori al dettaglio.

I primi sono coloro ai quali l’ordinamento attribuisce il livello di protezione più basso in quanto possiedono
conoscenze, esperienze e informazioni tali da consentire di prendere consapevolmente le migliori decisioni
rispetto agli investimenti e da valutare correttamente i rischi che assumono.
Con l’entrata in vigore della MIFID II la nozione di investitore professionale viene implementata con il
riferimento espresso alla “competenza “, attitudine che allude alla capacità dell’investitore di utilizzare le
informazioni acquisite per derivarne un giudizio più adeguato circa la rispondenza dello strumento finanziario
alle proprie necessità. La stessa direttiva si esprime anche a proposito delle varie categorie dei clienti
professionali e distingue i “clienti professionali” di diritto e i “clienti professionali su richiesta”.

In Italia, tra i clienti professionali di derivazione pubblica sono da menzionare ad es. INPS, INAIL, Cassa
Depositi e Prestiti, il ministero dell’Economia.

Tra gli investitori professionali privati sono da ricomprendere , ad es.le imprese quotate, gli intermediari, gli
OICR e i loro gestori.

I clienti professionali su richiesta invece richiedono di essere trattati con un livello di protezione differente e
quindi di poter accedere ad altri servizi d’investimento, all’esito di un processo imperniato su più stringenti
criteri d’identificazione applicati dall’ intermediario e un più rigoroso iter procedimentale .

In tale valutazione assumono importanza la sussistenza di almeno 2 dei 3 requisiti:

-valore complessivo del portafoglio titoli e del deposito in conto corrente che dev’essere superiore a 500.000
euro;

-frequenza media di 10 operazioni a trimestre di dimensioni significative;

-possesso di una conoscenza adeguata al lavoro professionale nel settore finanziario.

Controparti qualificate -> soggetti ai quali sono prestati i servizi di esecuzione di ordine, negoziazioni per
conto proprio e ricezione e trasmissione di ordini. Corrispondono in larga misura agli investitori professionali
privati e godono di un livello di protezione più basso rispetto ai clienti al dettaglio, poiché non si applicano
una serie di norme dettate dal Reg. Intermediari a protezione del cliente.

Investitori al dettaglio-> categoria con il livello massimo di protezione riconosciuto dall’ordinamento e


giustifica la scelta di riservare lo stesso ai soggetti che si ritengono non possedere un livello di informazioni
adeguato ad operare liberamente sui mercati. Il “ dovere di protezione” ai traduce nell’obbligo di fornire al
cliente al dettaglio le informazione ritenute necessarie per consentirgli scelte consapevoli d’investimento.

La MIFID II ha previsto per gli investitori al dettaglio il “ rendiconto scritto sull’adeguatezza” e in esso
devono essere segnalati:

-la corrispondenza tra la consulenza prestata e le preferenze, esigenze e altre caratteristiche espresse dal
cliente al dettaglio;

-la relazione accurata in merito, che dovrà contenere anche la garanzia che il cliente non subisca perdite se la
relazione presenta in modo inaccurato o inesatto la raccomandazione personale.

L’ordinamento prevede la possibilità per il cliente di rinunciare per una singola o per un blocco di operazioni
alle tutele che quella classificazione gli assicura. Il “sistema degli ascensori”, è la possibilità per il cliente di
decidere di passare da un livello ad un altro di protezione.

I mercati regolamenti, le MTF/OTF riferite a Borsa Italiana S.p.A. e i sistemi multilaterali di negoziazione,
gestiti da TLX SIM S.p.A. costituiscono delle organizzazioni di mercato fatte per conseguire l’interesse degli
investitori al dettaglio mentre le MTS S.p.A sono dedicate all’investimento da parte d’investitori professionali
scelti come controparti principali nelle proprie negoziazioni.
6.Gli abusi di informazioni privilegiate e le manipolazioni di mercato. L’intervento del regolatore
pubblico

Una caratteristica propria di ogni organizzazione di mercato è legata al bisogno d’informazione che è proprio
di tutti i contesti in cui sussistono fortissime asimmetrie informative tra i vari soggetti che operano in
quell’ambito. “Informazioni privilegiate “ o price sensitive sono le informazioni di carattere non generico ma
“preciso” riguardanti sia uno o più emittenti strumenti finanziari, sia uno o più strumenti finanziari che, se
rese pubbliche, risultano capaci di influenzare pesantemente l’andamento dei prezzi di sul mercato.

Gli emittenti, gli intermediari o le SGM sono i soggetti che devono rendere disponibili al pubblico tali
informazioni sugli strumenti finanziari in circolazione.

Il “Sistema di diffusione delle informazioni regolamentate” è un sistema di diffusione elettronica delle


informazioni regolamentate, autorizzato dalla Consob, che collega i propri utilizzatori ai media.

Ai vari gestori dei mercati compete il potere di verificare se e fino a che punto gli emittenti si conformano a
quanto prescritto nella propria disciplina. La sanzione per la difformità risiede nel potere di sospendere gli
strumenti finanziari dal mercato e di revocare l’ammissione a quotazione.

Oltre ai rimedi legati all’imposizione di penetranti doveri di protezione a carico degli intermediari e della
società di gestione del mercato, è stata predisposta una disciplina penale e amministrativa che ha sostituito le
due precedenti fattispecie dell’aggiotaggio e dell’ insider trading. ( Le due ipotesi regolate nel titolo I-bis del
TUF, concernenti “l’abuso delle informazioni privilegiate”,e le “ manipolazioni di mercato”).

Vengono conferiti alla Consob poteri istruttori e di irrogazione diretta di sanzione amministrative e accessorie
a seguito dell’accertamento degli illeciti. Gli ampi poteri istruttori attribuiti al regolatore pubblico si
sostanziano nel:

-richiedere notizie, dati o documenti sotto qualsiasi forma fissando il termine per la relativa comunicazione ;

-ottenere le registrazioni telefoniche esistenti stabilendo il termine per la relativa comunicazione ;

-effettuare audizione del personale;

-sequestrare i beni confiscabili;

-procedere ad ispezioni e/o perquisizioni.

Quanto alla irrogazione di sanzioni amministrative e accessorie la Consob può:

-determinare la perdita dei requisiti di onorabilità a carico dei soci e degli esponenti aziendali;

-interdire lo svolgimento dell’attività a carico dell’autore della violazione;

-far valere la responsabilità amministrativa dell’ente che ha beneficiato dei risultati positivi dell’illecito;

-disporre la pubblicazione della sentenza o della propria decisione;

-stabilire la confisca dei proventi dell’illecito;

-applicare le sanzioni accessorie previste nel codice penale per una durata non inferiore a sei mesi e non
superiore a due anni.
CAPITOLO 10: Small business in Europa. Regolamentazione giuridica a geometria variabile

1.Osservazioni preliminari in ordine all’assenza di una politica industriale comune in Europa

Ogni considerazione relativa alla valutazione dell’efficacia della regolamentazione giuridica in tema di
politiche industriali deve tenere conto della complessità delle politiche di sviluppo economico all’interno degli
Stati Membri dell’Unione Europea dal secondo Dopoguerra ad oggi. Tale complessità ha influenzato le
relazioni industriali degli Stati attraverso tensioni politiche, avvenimenti storici e sociali.

A ciò si aggiunge la scarsa sensibilità politica nei confronti dell’impresa di dimensione minore, che viene
considerata indicatore dell’arretratezza di un paese, a differenza della grande dimensione che garantisce il
successo economico di un’impresa. Le grandi imprese infatti sono viste come sedi dell’incontro fra capitale e
scienza: l’organizzazione scientifica dei processi produttivi e distributivi progredisce nelle divisioni delle
grandi imprese, manifestando nuove opportunità di economie di scala e di varietà. Dunque la piccola impresa,
in un’economia industriale moderna, può avere o un ruolo interstiziale o un ruolo dipendente dalle strategie
delle grandi imprese.

Questa visione riduttiva del ruolo della piccola impresa si accompagna spesso ad un’eventuale presenza di
medie imprese, cioè imprese che stanno crescendo per raggiungere le dimensioni delle grandi e con queste
un’autonomia industriale ed economica. Solo elevati tassi di natalità delle imprese possono garantire la
conservazione di una certa quota di piccole imprese nell’economia.

2.La regolamentazione giuridica europea dell’industria di dimensione minore. Il micro, piccolo e medio
imprenditore come motore dello sviluppo economico

Il Trattato originario istitutivo della Comunità europea firmato a Roma il 25 marzo 1957 non dedica alcun
riferimento alla politica industriale.

La creazione del mercato unico rappresenta la prima direttrice della politica industriale in Europa, ed anzi
diventa un requisito indispensabile per dare consistenza a qualsiasi progetto di politica industriale
sovranazionale. Quindi si inizia a creare un’area di libera circolazione delle merci (e in prospettiva di persone,
servizi, capitali) tramite la rimozione delle barriere commerciali tra gli Stati Membri e l’istituzione di tariffe
comuni verso i Paesi extra comunitari.

La definizione di micro, piccole e medie imprese (PMI) è contenuta nella Raccomandazione della
Commissione europea del 6 maggio 2013, all’allegato I, Titolo I, che all’articolo 2 specifica che “la categoria
delle micro, piccole e medie imprese è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui
fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni
di euro. Si definisce piccola impresa un’impresa che occupa meno di 50 persone e realizza un fatturato annuo
o un totale di bilancio annuo non superiori a 10 milioni di euro. Si definisce microimpresa un’impresa che
occupa meno di 10 persone e realizza un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a 2
milioni di euro”.

Oggi le piccole e medie imprese europee sono definite la colonna portante dell’economia europea: l’Europa
può contare su 25 milioni di piccole e medie imprese che danno lavoro a circa 100 milioni di persone,
generano più della metà del PIL dell’Europa e garantiscono un valore aggiunto in tutti i settori dell’economia.
Inoltre le Small Business Enterprises garantiscono un benessere economico diffuso tra la popolazione,
costituendo un veicolo di inclusione per categorie socialmente deboli o fragili, come ha affermato il
legislatore statunitense che nel 1953 ha emanato uno Small Business Act.

Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in materia di industria dispone che l’Unione è competente
a “svolgere azioni intese a sostenere, coordinare e completare l’azione degli Stati membri” (art. 6, comma
primo). Mentre il successivo art. 153, comma secondo, afferma che Parlamento e Consiglio europeo possono
adottare in alcuni settori importanti per il mercato e le società le “prescrizioni minime applicabili
progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato
membro”, che comunque “evitano di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici che ostacolino la
creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese”.

Il seguente art. 173, comma primo, stabilisce poi che tra i compiti dell’Unione vi sia anche quello di
provvedere “affinchè siano assicurate le condizioni necessarie alla competitività dell’industria dell’Unione”,
ed infatti l’azione dell’Unione e degli Stati membri è intesa “ad accelerare l’adattamento dell’industria e
delle trasformazioni strutturali, a promuovere un ambiente favorevole alle iniziative e allo sviluppo delle
imprese di tutta l’Unione, a promuovere un ambiente favorevole alla cooperazione tra imprese, a favorire un
migliore sfruttamento del potenziale industriale delle politiche d’innovazione, di ricerca, di sviluppo
tecnologico”.

Queste disposizioni affermano che all’Unione spettano compiti di sostegno e valorizzazione del settore, ma
non di intervento diretto. Ma il successivo comma terzo dell’art. 173 introduce una clausola di salvaguardia
che permette all’Unione di intervenire ponendo in essere “misure specifiche destinate a sostenere le azioni
svolte negli Stati membri al fine di realizzare gli obiettivi di rafforzamento delle basi scientifiche e
tecnologiche”.

Il primo atto di presa di coscienza dell’impatto economico delle PMI all’interno del territorio europeo avviene
con l’emanazione di due Acts: lo Small Business Act del 2008 e del 2011.

Il primo di questi enuncia un Decalogo di Principi che rappresentano una sorta di Programma di azione per le
PMI. Tra essi si segnala il III Principio “Formulare regole conformi al principio “Pensare innanzitutto in
piccolo”, dove si sottolinea l'urgenza di predisporre di una riduzione degli oneri amministrativi e normatici
che gravano su di esse. L'idea di fondo è che ogni attività debba essere disponibile ed idonea alle piccole
dimensioni, che godono di risorse più limitate rispetto alle grandi imprese.

Le Small Business Act vincolano politicamente gli Stati membri al raggiungimento degli obiettivi in essi
indicati, in virtù del fatto che non tutti gli Stati possiedono una disciplina specifica ed omogenea per le PMI,
con conseguenti gravi effetti sulla coesione economica e sociale dell'UE.

Al fine di adeguare la normativa dei singoli Stati membri al principio di “Pensare innanzitutto in piccolo”, la
Commissione europea controllerà rigorosamente il rispetto del Protocollo sull'applicazione dei principi di
sussidiarietà e di proporzionalità, ridurrà al minimo spese e oneri per l'impresa, valuterà l'impatto delle
prossime iniziative legislative e amministrative sulle PMI, incentiverà gli Stati ad introdurre misure di
flessibilità rivolte alle PMI nell'attuare la legislazione dell'UE.

In attuazione al Principio IV “Rendere le pubbliche amministrazioni permeabili alle esigenze delle piccole e
medie imprese”, l'Unione europea invita gli Stati membri a semplificare il tempo necessario a costituire
un'impresa, ad accelerare l'inizio delle attività commerciali semplificando licenze e permessi.

Lo Small Business Act del 2011 focalizza l'attenzione sulla necessità di promuovere in tutta l'Unione
l'applicazione del Principio “Una sola volta”, secondo il quale “le autorità pubbliche e gli organi
amministrativi devono astenersi dal richiedere nuovamente informazioni, dati, documenti o certificati che
siano già stati forniti nel contesto di altre procedure”.

Con Europa 2020 la Commissione presenta “Sette Iniziative Faro” per l'industria, volte ad attuare una
crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Quattro di esse, cioè L'Unione dell'innovazione, Un'agenda
digitale europea, Una politica industriale integrata per l'era della globalizzazione, e Un'agenda per nuove
competenze e per l'occupazione: un contributo europeo verso la piena occupazione, sono strettamente
connesse al miglioramento della competitività industriale.

In particolare, l'iniziativa Una politica industriale integrata per l'era della globalizzazione indica il ruolo che
l'UE assume in materia di politica industriale, ovvero la “gestione di interventi nazionali non coordinati”, cui
“devono ora subentrare interventi europei coordinati”. Più precisamente, la gestione europea della politica
industriale si articola su due assi: Consiglio e Parlamento. È essenziale migliorare il coordinamento e
l'interazione delle diverse politiche concorrenziali, avere una più stretta cooperazione con gli Stati membri e
un più attento monitoraggio dei risultati e della resa in termini di concorrenzialità degli interventi compiuti a
livello europeo e di Stati membri.

La necessità di costruire una politica industriale europea è poi riaffermata nello Small Business Act del 2011,
finalizzato alla definizione di una politica industriale per l'era della globalizzazione dove migliorare il clima
imprenditoriale e favorire lo sviluppo di una base industriale solida e sostenibile in grado di competere su
scala mondiale. La Commissione definisce un quadro per una politica industriale moderna che sostenga
l'imprenditoria, guidi l'industria e la prepari ad affrontare le sfide della globalizzazione, promuova la
competitività delle industrie primarie, manifatturiere e terziarie europee e le aiuti a cogliere le opportunità
offerte dalla globalizzazione e dall'economia verde. Il quadro completerà la catena del valore, dall'accesso alle
materie prime al servizio post vendita.

Le principali ragioni di questa nuova impostazione della politica industriale a livello europeo risiedono nello
scarso coordinamento degli Stati membri in materia di politica industriale, e nella loro incapacità di porre in
essere strategie politiche ed economiche nazionali adeguate a rendere competitivo il settore industriale.

Lo stretto legame tra politica industriale, PMI e politiche sociali viene riaffermato anche nella Comunicazione
della Commissione europea del 30 novembre 2011, recante il Programma quadro di ricerca e innovazione
“Orizzonte 2020”, che stabilisce tre priorità: la Scienza in eccellenza, la Leadership industriale e le Sfide della
società. La Leadership industriale sottolinea la necessità di promuovere l'attività strutturale delle aziende,
incentivando grandi investimenti in tecnologie industriali essenziali, che a loro volta miglioreranno il
potenziale di crescita delle aziende europee fornendo loro livelli adeguati di finanziamento. Ciò consentirà di
fornire un sostegno all'innovazione nelle piccole medie imprese, che possiedono l'agilità per immettere sul
mercato scoperte tecnologiche e innovazioni nel campo dei servizi.

Il Programma quadro di ricerca e innovazione “Orizzonte 2020” individua alcuni strumenti per agevolare le
micro imprese e le PMI, che consentono di presentare le loro idee più innovative (sia innovazioni di alta
tecnologia e derivate dalla ricerca, sia di ordine sociale) per fare fronte alle sfide a livello dell'Unione.

Interessante è anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 15 settembre 2016, che richiama la Relazione
dell'European Banking Authority (EBA) che afferma che la contrazione del credito interessa maggiormente le
imprese più piccole e più giovani rispetto a quelle più grandi e più vecchie.

Il Programma per la competitività delle imprese e le piccole e medie imprese 2014-2020 (COSME) definisce
due obiettivi di carattere generale e quattro obiettivi specifici da perseguire per migliorare la competitività
delle imprese: 1)rafforzare la competitività e la sostenibilità delle imprese dell'Unione, in particolare le PMI
2)promuovere una cultura imprenditoriale nonché la creazione e la crescita delle PMI 3)migliorare l'accesso
delle PMI ai finanziamenti sotto forma di capitale proprio e di debito e l'accesso ai mercati sia dell'Unione sia
a livello mondiale 4)migliorare le condizioni quadro per la competitività e la sostenibilità delle imprese
dell'Unione.

Il Programma COSME prevede anche la creazione di una Rete Enterprises Europe Network, allo scopo di
fornire servizi integrati di sostegno alle PMI che vogliono esplorare le opportunità offerte dal mercato interno
e dai Paesi terzi. In particolare la Rete è una sorta di sportello al quale le PMI possono rivolgersi per reperire
informazioni qualificate e consulenze specializzate.

La Commissione europea ha anche emanato un Piano di azione imprenditorialità 2020. Rilanciare lo spirito
imprenditoriale in Europa, in cui si rappresentano tre Linee di azione relative a strumenti giuridici ed
economici finalizzati alla creazione di nuove imprese e nuovi imprenditori. La Linea di azione 1 è dedicata
all'istruzione e formazione all'imprenditorialità per sostenere la crescita e la creazione di imprese, e la Linea
di azione 3 è relativa alle nuove figure di imprenditori (donne, anziani, migranti, disoccupati, giovani). La
Linea di azione 2 identifica sei ambiti chiave per rimuovere gli ostacoli che impediscono la creazione e la
crescita di tali imprese: 1)accesso ai finanziamenti 2)sostegno agli imprenditori nelle fasi cruciali del ciclo
vitale dell'impresa e della sua crescita 3)sprigionare le nuove opportunità imprenditoriali nell'età digitale
4)trasferimenti di imprese 5)procedure fallimentari e seconda opportunità per gli imprenditori onesti
6)riduzione dell'onere normativo.

La necessità di costruire una Regolamentazione intelligente per le imprese è prevista dalla Comunicazione
della Commissione del 18 giugno 2014, Regulatory Fitness and Performance Programm (REFIT): State of
Play and Outlook, che si propone di creare un quadro normativo semplice, chiaro e prevedibile per lavoratori
e cittadini. Questo programma mira a ridurre la burocrazia, rimuovere gli oneri normativi, semplificare e
migliorare la progettazione e la qualità della legislazione in modo che gli obiettivi politici siano raggiunti e i
benefici della legislazione dell'UE siano garantiti al minor costo e con il minimo onere amministrativo.

Sebbene le PMI siano le principali prenditrici di credito del sistema bancario, tale rapporto è definito in modo
sfumato all'interno dei recenti Regolamenti europei. Non riservano particolare attenzione alle PMI alcuni
specifici Regolamenti emanati in materia bancaria e finanziaria, di seguito alcuni esempi.

Il Regolamento n. 1092 del 2010, che istituisce il Comitato europeo per il rischio sistemico che si occupa di
esse solo all'art. 12, in cui prevede che i candidati al ruolo di componenti per il Comitato Scientifico
Consultivo possano essere scelti “in base alla loro competenza generale e non in funzione del loro diverso
percorso professionale nel mondo accademico o in altri settori”.

Egualmente i Regolamenti europei n. 1093, n. 1094 e n. 1095 del 2010 rispettivamente relativi all'istituzione
della Autorità europea di vigilanza bancaria, dell'Autorità europea di vigilanza sulle assicurazioni e sulle
pensioni aziendali e professionali e dell'Autorità di vigilanza degli strumenti finanziari e dei mercati,
dedicano alle PMI gli art. 37 dei loro testi normativi, che isituiscono il Gruppo delle Parti interessate, che
viene consultato sulle misure adottate, sulle norme tecniche di regolamentazione di attuazione, nonché sugli
orientamenti e sulle raccomandazioni delle singole Autorità sopra citate.

All'art. 37 del Regolamento europeo n. 1093, ad esempio, è stabilito che tale Gruppo nel settore bancario si
compone di 30 membri. Tali membri comprendono:

− 13 membri che rappresentano in modo proporzionato gli istituti finanziari operanti nell'UE, di cui tre
rappresentano le banche cooperative e le casse di risparmio

− 13 membri che rappresentano i dipendenti degli istituti finanziari operanti nell'UE, i consumatori, gli
utenti dei servizi bancari e i rappresentanti delle PMI
− 4 membri che sono esponenti del mondo accademico indipendenti e di altissimo livello

Nel settore dell'assicurazione e della riassicurazione il Gruppo delle Parti interessate si compone di 30
membri. Tali membri comprendono:

− 13 membri che rappresentano in modo proporzionato le imprese di assicurazione e di riassicurazione e


gli intermediari assicurativi operanti nell'UE, di cui tre rappresentano le imprese di assicurazione e
riassicurazione cooperative e mutualistiche

− 13 membri che rappresentano i rappresentanti dei dipendenti delle imprese di assicurazione e di


riassicurazione e degli intermediari assicurativi operanti nell'UE, i consumatori, gli utenti dei servizi
assicurativi e riassicurativi, i rappresentanti delle PMI e i rappresentanti delle pertinenti associazioni
professionali

− 4 membri che sono esponenti del mondo accademico indipendenti e di altissimo livello

Il Gruppo delle Parti interessate nel settore dei fondi pensionistici aziendali e professionali si compone di 30
membri di cui:

− 13 membri che rappresentano in modo proporzionato gli enti pensionistici aziendali e professionali
operanti nell'UE

− 13 membri che rappresentano i rappresentanti dei dipendenti, i rappresentanti dei beneficiari, i


rappresentanti delle PMI e i rappresentanti delle pertinenti associazioni professionali

− 4 membri che sono esponenti del mondo accademico indipendenti e di altissimo livello

Nel settore finanziario il Regolamento n. 1095 afferma che il Gruppo delle Parti interessate si compone di 30
membri:

− 13 membri che rappresentano in modo proporzionato i partecipanti ai mercati finanziari operanti


nell'UE

− 13 membri che rappresentano i rappresentanti dei dipendenti dei partecipanti ai mercati finanziari
operanti nell'UE, i consumatori, gli utenti dei servizi finanziari e i rappresentanti delle PMI

− 4 membri che sono esponenti del mondo accademico indipendenti e di altissimo livello.

Anche i due pilastri su cui si fonda l'Unione bancaria europea, e precisamente il Regolamento europeo n. 1024
del 2013 (che attribuisce alla Banca centrale europea compiti specifici in merito alle politiche in materia di
vigilanza prudenziale degli enti creditizi) e il Regolamento n. 806 del 2014 (che fissa norme e una procedura
uniformi per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese di investimento nel quadro del meccanismo
di risoluzione unico) non fanno riferimento alle PMI. Questo appare strano perché tra i destinatari di tale
regolamentazione normativa vi sono i consumatori, e cioè persone, famiglie e imprese, oltre che le banche
stesse e la pubblica amministrazione.

3.Il Digital Single Market nella regolamentazione giuridica europea e la nuova “Strategia per le PMI
per un'Europa sostenibile e digitale”

Le nuove tecnologie richiedono la costruzione di un mercato unico digitale a livello europeo.

L’UE ha elaborato una prima Strategia europea per il mercato unico digitale che si prefiggeva l’eliminazione
delle differenze che separano il mondo online dal mondo offline, al fine di abbattere le barriere che bloccano
l’attività online attraverso le frontiere. Essa si proponeva di migliorare l’accesso ai beni e ai servizi digitali e
di creare un ambiente dove i Network e i servizi digitali potessero prosperare.
L’UE possedeva molti punti di forza necessari per sfruttare appieno i vantaggi del mercato unico digitale, tra
cui una solida industria manifatturiera di base e un ecosistema di start up in rapido sviluppo che, combinati
con i processi industriali automatizzati e una forza di lavoro qualificata, possono trainare la crescita nel futuro.

La costruzione di un Single Digital Market risulta particolarmente importante per le Small Business, che
affrontano il processo di digitalizzazione con maggiori difficoltà rispetto alla grande industria. La
digitalizzazione delle imprese di piccola dimensione si presenta come un procedimento non privo di ostacoli e
rischi: le piattaforme online, infatti, hanno svolto da un lato un ruolo di promozione economica e commerciale
importante, stimolando l’innovazione; dall’altro però vi sono delle criticità relative ad alcune piattaforme che
mettono in atto pratiche svantaggiose per gli utilizzatori (ad esempio il delisting di prodotti o servizi senza il
dovuto preavviso o senza effettiva possibilità di ricorso).

Per supportare l’industria europea a cogliere i vantaggi della tecnologia digitale, la Commissione europea il 9
febbraio 2020 ha adottato due Comunicazioni: Plasmare il futuro digitale dell’Europa e Una strategia
europea per i dati.

Nella nuova Strategia per le PMI per un’Europa sostenibile e digitale, assumono un ruolo centrale lo
sviluppo e il potenziamento di un’economia dei dati. Questa strategia si basa su tre pilastri tesi a innovare il
settore dell’imprenditoria medio piccola: 1) potenziare le capacità e sostenere la transizione verso la
sostenibilità e la digitalizzazione 2) ridurre l’onere normativo e migliorare l’accesso al mercato 3) migliorare
l’accesso ai finanziamenti.

In particolare, in relazione al secondo pilastro, la Commissione ha avviato la sperimentazione di un nuovo


strumento, la Piattaforma Fit for the Future, che ha come compito principale quello di coadiuvare la
Commissione, esprimendo pareri sugli argomenti individuati nel suo programma di lavoro annuale. A tal fine
la Piattaforma raccoglie dati, elementi concreti e contributi sulle possibilità di ridurre gli oneri e di
semplificare la legislazione dell’Unione senza compromettere la realizzazione dei suoi obiettivi, tenendo
conto anche della densità legislativa, e riflette su come la digitalizzazione e l’uso di strumenti elettronici
possano contribuire alla realizzazione dei suoi obiettivi.

La Piattaforma è lo strumento principale su cui si fonda la Platform economy, termine con cui si fa riferimento
a tutte le attività derivanti da transazioni commerciali effettive o previste nel mercato interno e agevolate
direttamente o indirettamente da piattaforme online, in particolare servizi di intermediazione online e motori
di ricerca online.

L’evoluzione tecnologica ha prodotto una differenza tra le varie tecnologie, dalle piattaforme di prima
generazione come Google e Yahoo, alla creazione di mercati online come eBay o Amazon, fino alla più
recente generazione che ha interessato l’economia dei servizi, da Uber a Airbnb alle piattaforme di
crowdfunding o sociale lending. Quindi la Platform rappresenta un’innovazione epocale.

La Platform to Business disciplina i servizi di intermediazione online e i fornitori di essi, in quanto tali servizi
possono essere cruciali per il successo commerciale delle imprese che li utilizzano. L’incremento delle
intermediazioni delle transazioni attraverso i servizi di intermediazione online conduce ad un aumento della
dipendenza da tali servizi degli utenti commerciali, in particolare le PMI per raggiungere i consumatori.

Tornando alla Piattaforma Fit for the Future, che si propone di riunire le competenze delle pubbliche
amministrazioni, delle parti sociali, delle piccole e grandi imprese, delle organizzazioni per la protezione dei
consumatori, la salute e l’ambiente e di altre organizzazioni non governative, essa è incaricata di elaborare un
Programma di lavoro annuale volto alla semplificazione e alla riduzione degli oneri incidenti sull’attività
delle PMI.
La nuova Strategia europea auspica anche l’attivazione di strumenti specifici finalizzati a realizzare tale
processo, tra essi si ricordano i Corsi accelerati per la digitalizzazione e i programmi per Volontari digitali,
volti a consentire a giovani qualificati e anziani dotati di esperienza di condividere le loro competenze digitali
con le imprese tradizionali.

Il Programma Europa digitale per il periodo 2021-2027 introduce per le PMI il ricorso allo strumento del
Digital Innovation Hub (DIH), che persegue l’obiettivo di garantire alle PMI di usufruire di servizi di
consulenza a portata di mano in maniera digitale. I Digital Hubs sono un modello organizzativo innovativo di
natura digitale utile a supportare le PMI nel divenire più competitive per quanto riguarda i loro processi di
business/produzione, prodotti o servizi utilizzando le tecnologie digitali. Le DIHs sono distribuite in tutta
Europa, ma presentano strutture diverse, inclusi gruppi di organizzazioni, programmi o iniziative specifiche.
Strutture meno frequenti includono joint ventures, alleanze e agenzie regionali. La maggior parte delle DIHs
presenta un coordinatore. Per attivare il motore della Digital Transformation le PMI necessitano di un
supporto specifico per l’adozione delle tecnologie digitali.

Il Digital Hub è definito come un soggetto giuridico designato o selezionato nell’ambito di una procedura
aperta e competitiva per svolgere i compiti previsti dal programma, in particolare assicurare l’accesso a
competenze tecnologiche e strutture di sperimentazione, come attrezzature e strumenti software, allo scopo di
rendere possibile la trasformazione digitale dell’industria: in questo senso, essi potranno svolgere anche una
funzione di intermediazione tra PMI e università/erogatori di formazione a livello locale.

I DIHs sono strumenti finalizzati a porre in essere azioni volte a:

-fornire servizi di trasformazione digitale orientati alle PMI e alle imprese a media capitalizzazione

-trasferire competenze e know-how tra le regioni

-fornire servizi tematici (quelli correlati all’intelligenza artificiale, al calcolo ad alte prestazioni, alla
cybersicurezza e alla fiducia) alle amministrazioni, alle organizzazioni del settore pubblico, alle PMI e alle
imprese a media capitalizzazione

-erogare sostegno finanziario a terzi

4.Considerazioni conclusive. Un quadro regolatorio “a geometria variabile” per le Small Business

Il presente studio evidenzia la necessità di costruire una nuova disciplina giuridica europea per le imprese di
dimensione minore, nella considerazione che gli attuali segmenti di regolamentazione compongono un quadro
regolatorio “a geometria variabile”, in cui principi e regole non trovano un’armonica, ordinata, unica e logica
composizione a livello giuridico.

La Comunicazione n. 456 del 27 maggio 2020 “Il momento dell’Europa: riparare i danni e preparare il
futuro per la prossima generazione” ha sottolineato come la pandemia e le sue conseguenze sulle nostre vite e
sulle nostre economie hanno messo in luce l’importanza della digitalizzazione in tutti i settori dell’economia e
della società dell’UE. In particolare, le risorse aggiuntive assegnate al Fondo Europeo di Sviluppo Regionale
devono essere utilizzate per sostenere investimenti in prodotti e servizi a carattere sanitario, per sostenere le
PMI fornendo loro capitale di esercizio o sostegno agli investimenti, per investimenti che contribuiscono alla
transizione verso un’economia verde e digitale, per realizzare infrastrutture che consentano la prestazione di
servizi di base ai cittadini e per mettere in atto misure economiche nelle regioni più dipendenti dai settori
maggiormente colpiti dalla crisi.

Tale rivoluzione digitale segna il passaggio da un capitalismo tradizionale ad un capitalismo digitale, ed


impone di ripensare al rapporto giuridico tra pubblico potere e impresa, tra libertà e autorità.
In questo nuovo contesto le Small Business possono trovare una collocazione normativa capace di valorizzare
le loro potenzialità in termini di fatturato e di inclusione sociale.
CAPITOLO 11: Il diritto italiano antitrust

1. Uno storico ritardo

l’Italia inizia a regolare la concorrenza con circa 100 anni di ritardo rispetto agli americani ( Sherman Act,
1890). La causa di tale ritardo è stata identificata del capitalismo italiano, nel quale lo Stato regolava
indirettamente il mercato attraverso le partecipazioni. Per molto, la concorrenza in Italia è stata regolata dal
C.C., ma col tempo ciò è diventato sempre più limitante perché in Europa si basava il fondamento del mercato
libero su di essa.

Il legislatore ha regolato la disciplina organica sulla concorrenza, sulla base del modello europeo, dal 1957 al
1990 (37 anni), infatti il 10 ottobre 1990 venne siglata una legge antitrust coerente con quella comunitaria.

2. Rapporti con il diritto comunitario

Sintesi del rapporto tra il diritto comunitario e quello nazionale; l’applicazione della l. 287/90 dispone che :

a. le norme nazionali come residuali, cioè valide solo quando non si applicano quelle comunitarie (le
norme comunitarie si applicano anche se si resta all’interno della nazione ma l’operato intacca il
mercato comunitario);

b. le norme nazionali da interpretare secondo i principi comunitari in materia di concorrenza à le norme


nazionali recedono rispetto al diritto comunitario, quando in contrasto.

Il Regolamento CE n. 1/03 rende le norme comunitarie direttamente applicabili e le eventuali violazioni


verificabili ex post dalle Autorità nazionali nel mercato concorrenziale.

La Commissione ha il potere di garantire l’applicazione uniforme del diritto antitrust europeo e ciò viene
coordinato attraverso l’European Competition Network (Autorità nazionali + Commissione) .

L’applicabilità delle norme comunitarie parte delle Autorità nazionali ha fatto sì che queste acquisissero un
maggiore ruolo nella repressione di violazioni di impatto comunitario. L’ECN consente che più mercati
nazionali siano gestite in parallelo dalle rispettive Autorità, a meno che non sia richiesto l’intervento della
Commissione a causa della rilevanza e dell’impatto della violazione.

3. L‘Autorità

L’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (AGCM) è qualificata nel modello delle autorità
amministrative indipendenti, il quale è stato perfezionato con la l. 287/90. Dagli anni ’90 lo Stato passa
gradualmente da imprenditore a regolatore grazie alle privatizzazioni a alle liberalizzazioni. Con l’uscita dal
mercato, da parte dello Stato, è stato necessario individuare soggetti che assicurassero di non abbandonare a
loro stessi gli operatori che agiscono nel mercato. Punti chiave delle Autorità:

- Devono essere neutre e indipendenti rispetto a poteri esterni (politici o delle lobbies imprenditoriali)

- Devono tutelare l’efficienza del mercato, ma anche i consumatori/utenti

Criteri di nomina dei componenti (l. 287/90):


- Requisiti di alta professionalità dei componenti à i tre membri devono essere scelti nell’ambito di
categorie che garantiscono una particolare competenza nelle materie oggetto di intervento; il
presidente deve aver ricoperto ruoli istituzionali di responsabilità e rilievo

- Garanzie di indipendenza à i componenti vengono nominati dal Presidente del Senato e dal Presidente
della Camera. Il ruolo altamente istituzionale di questi soggetti, che le svincola dal potere politico,
garantendo la neutralità e meritocrazia della scelta. A garanzia dell’indipendenza contribuiscono
anche La durata e la non rieleggibilità .

Il modello AGCM È il più completo e efficiente per garantire la corretta attuazione della gestione delle crisi
criticità del mercato. L’adozione dei criteri di indipendenza e professionalità è attuata in modo coerente e
incisivo, anche se possono essere eletti esponenti dei settori economici che sono potenzialmente meno neutrali
rispetto agli interessi in gioco.

4. Le competenze

Le competenze del AGCM offrono un quadro dei poteri dell’Autorità e sono:

a. La tutela della concorrenza attraverso il controllo sulle intese restrittive, sugli abusi di posizione
dominante e sulle concentrazioni;

b. La tutela dei consumatori dalle pratiche commerciali scorrette delle imprese;

c. La risoluzione del conflitto di interessi riguardanti titolari di cariche di governo;

d. Il rating di legalità delle imprese.

Le modalità con le quali l’Autorità svolge la propria azione di controllo sono:

- Indagini conoscitive sui settori economici

● per verificare che l’incumbent (=operatore ex monopolistico) non pratichi prezzi predatori che
taglino il mercato ai nuovi operatori

● per verificare che non vi siano accordi per la spartizione di risorse e clientela all’interno del
mercato neo-liberalizzato

L’Autorità non può esercitare i poteri che potrebbe esercitare in altri ambiti di intervento, infatti, queste
indagini non sono necessariamente strumentali all’adozione di sanzioni anche se possono esserne gli
antecedenti.

- Perizie

- Consulenze

- Indagini statistiche

L’AGCM segnala ogni atto normativo, in vigore o in via di formazione, o amministrativo che possa ledere il
corretto svolgersi della concorrenza, ma può anche essere interpellato da Parlamento e Governo per dare un
parere preventivo sulle loro iniziative. La segnalazione è fondamentale nei settori liberalizzati, nei quali era
necessario comprendere la forma e gli strumenti normativi da porre in essere per garantire il rispetto dei diritti
dei consumatori e degli utenti e allo stesso tempo aprire il mercato, in maniera più efficace possibile, anche a
operatori comunitari.

5. I procedimenti

Nella tutela generale della concorrenza, i poteri dell’autorità si esplicano significativamente nei procedimenti
sanzionatori e nei procedimenti sulle concentrazioni.

I procedimenti sanzionatori hanno la struttura delle intese restrittive e dell’abuso di posizione dominante tipica
delle attività amministrative. Fasi: pre istruttoria e attivazione del procedimento, istruttoria, chiusura e
pronuncia del provvedimento, eventuale fase del controllo giurisdizionale. L’impulso iniziale di tutelare il
mercato e la concorrenza porta l’Autorità ad intervenire in un ambito il più ampio possibile; cioè l’autorità
interviene a seguito di denunce di soggetti controinteressati e/o di indagini generali da parte della stessa
AGCM.

Da non molto, con i leniency programmes (=programmi di clemenza) si può attivare un procedimento
attraverso delle specie di autodenuncia nelle quali un’impresa facente parte di un cartello ne segnala
l’esistenza e i dettagli al fine di permettere all’Autorità di intervenire. Si sono rivelate fondamentali
soprattutto nei casi in cui le intese/cartelli non erano individuabili dall’esterno, come ad esempio nel mercato
anglosassone, che le ha fatte nascere e le ha perfezionate prima che fossero adottate dal diritto comunitario.
Quindi, un’impresa “pentita” che entra a far parte del programma di clemenza è esonerata dalla sanzione in
modo parziale o totale, così che sia incentivata a denunciare tali comportamenti. Se nella fase preistruttoria
sorge il sospetto di violazione si avvia la fase istruttoria, che sarà notificata all’impresa e ai controinteressati.
Se l’Autorità è chiamata ad agire per violazione di norme comunitarie, l‘avvio del procedimento va segnalato
anche alla Commissione e alle eventuali Autorità nazionali competenti. L’Autorità dispone anche di poteri
cautelari, anche se la discrezionalità è ampia visto che la norma non specifica le misure adottabili. La
mancanza di specificità è una virtù, in quanto la singola misura si può modulare in rapporto alla situazione
concreta. Esaurita l’istruttoria ed espletata l’audizione finale, l’Autorità può accertare la violazione e inibire
l’efficacia del cartello/dell’intesa; se la violazione della concorrenza è particolarmente grave l’Autorità le
sanziona. Di frequente le imprese si impegnano davanti all’autorità ad interrompere il comportamento
anticoncorrenziale e, se tali impegni vengono giudicati idonei, l’AGCM li accetta e rendendoli obbligatori e
chiudendo il provvedimento di infrazione (può essere aperto se gli impegni non vengono mantenuti). Anche
questo procedimento sollecita la collaborazione delle imprese, che possono evitare la sanzione e tutelano le
norme anticoncorrenziali.

6. La tutela giurisdizionale

Ci sono due profili da esaminare: l’impugnabilità delle decisioni dell’AGCM e la tutela davanti al Giudice
ordinario. Le decisioni dell’autorità sono soggette al sindacato del Tribunale Amministrativo Regionale del
Lazio, che non può essere sul merito del provvedimento ma deve essere un sindacato di legittimità. La tutela
davanti al giudice ordinario è volta alla declaratoria di nullità dei comportamenti anticoncorrenziali ed al
risarcimento del danno causato dai privati. Viene protetto l’interesse pubblico attraverso la repressione dei
comportamenti anticoncorrenziali e vista la neutralità del Giudice ordinario nei confronti degli interessi
pubblicistici ed amministrativi, viene salvaguardato il rispetto delle regole dei privati soprattutto verrà in
rilievo il profilo risarcitorio. Competente delle controversie di quest’ultimo in materia di proprietà industriale
e intellettuale è il Tribunale competente per territorio.
7. Le concentrazioni

(Fattispecie analoga a quella affrontata nel capitolo dedicato alla concorrenza sul piano comunitario). Bisogna
stabilire il piano di applicazione tra le competenze nazionali e le normative europee, il riparto avviene sulla
base di soglie di fatturato, che ove superate portano a definire la concentrazione di “dimensione comunitaria”.
Qualora non superino le soglie comunitarie le concentrazioni sono sottoposte al vaglio dell’Autorità
nazionale, ma anche in questo caso ove sono stabilite soglie al di sotto delle quali le concentrazioni sono
indifferenti, l’Autorità non ha obbligo di vaglio. La procedura europea e quella nazionale si basano sulla
notifica preventiva delle concentrazioni dell’Autorità, valutandone la compatibilità con il sistema della
concorrenza. Le concentrazioni possono avere effetti positivi per il mercato nel suo complesso, attraverso
economie di scala e miglioramento tecnologico, tuttavia la diminuzione degli operatori limita la competizione.
Per consentire una valutazione più oggettiva sono stati elaborati una serie di test, tra i quali:

Test di dominanza à a causa della concentrazione venga a crearsi nel mercato una nuova posizione dominante;

Test SIEC introdotto dal Regolamento europeo 139/2004, per introdurre elementi di valutazione che riescano
a simulare lo stato di compressione effettiva di concorrenza per effetto della concentrazione.

La concentrazione può essere limitata, autorizzata o vietata, sull'esecuzione di misure correttive vigila
l’Autorità.

8. Le autorità settoriali: il settore bancario

Nel mercato bancario i clienti rappresentano la popolazione adulta e le banche hanno una funzione di
intermediazione per la circolazione del denaro, contribuendo al funzionamento dell’intero mercato. L’assetto
bancario trova l’attenzione della costituzione all’art.47 e la presenza di profili di avversione al rischio che non
hanno corrispondenti negli altri settori di mercato. A tale disciplina, che enfatizza la tutela del cliente, faceva
da corollario l’affidamento dei profili di tutela della concorrenza ad un soggetto diverso da quello attuale ossia
la Banca d’Italia. Le ragioni risiedono nella correlazione tra attività di vigilanza regolamentare e verifica del
corretto svolgersi della concorrenza, e anche nel fatto che l’avversione al rischio - obiettivo primario della
vigilanza - condiziona il profilo concorrenziale, nel senso che dovendo scegliere tra una gestione più aperta
alla competitività, ma più rischiosa, ed una meno rischiosa ma meno aperta all’innovazione competitiva la
seconda scelta dovesse prevalere. La vigilanza sulla concorrenza nel settore bancario è affidata a l’AGCM
attraverso la l. 28.12.05 n.262.

9. Il settore delle comunicazioni

La disciplina è ancora diversa poiché incentrata su una autorità settoriale come la AGCOM, istituita con l.
31.7.97 n. 249, la disciplina comprende reti di comunicazione, media diffusivi e anche l’editoria. L’autorità è
composta da quattro organi:

- Il presidente, nominato con decreto dal presidente della repubblica su designazione del premier,
d’intesa con il ministro per lo sviluppo economico previo parere delle commissioni parlamentari
competenti.

- Vi sono due commissioni di due membri ciascuna elette per metà del senato e per metà dalla camera:
la commissione per le infrastrutture e le reti e la commissione per i servizi e prodotti.

- Il consiglio formato dal presidente e dalle due commissioni.


Con il d.lgs. 31.7.05 n.177 l’AGCOM acquisisce poteri in tema di rispetto della normativa sulla concorrenza,
in particolare nella comunicazione di massa, integrando la regolamentazione e la vigilanza nel settore che era
presenta già all’atto di istituzione. L’AGCOM protegge i principi concorrenziali assicurando un mercato
neutrale e garantendo il pluralismo nell’informazione. L’autorità deve fare i conti con temi politici ed
economici che sorgono da un sistema complesso alimentato dal complessivo delle emittenti, dei mass media e
dalla raccolta pubblicitaria. L’AGCOM in caso di violazioni, affollamento pubblicitario, accerta con
procedimento in contraddittorio l’esistenza ed impone sanzioni e misure correttive.

10. Il settore dell’energia

I compiti di vigilanza e tutela della concorrenza fanno capo all’Autorità di Regolazione per Energia Reti e
Ambienti l’ARERA, istituita dall’1.1.18 a discapito della AEEG. È composta dal Presidente e da quattro
membri tutti nominati con decreto del PdR, designata dal ministro per lo sviluppo economico e dal ministro
per l’ambiente e ratificata dal Consiglio dei ministri, previo parere vincolante di una maggioranza dei due terzi
delle commissioni parlamentari competenti. La precarietà del settore non impone solo poteri in tema di
concorrenza, ma anche di determinazione delle tariffe per l’accesso alle infrastrutture di rete dei prezzi
dell’energia, trattandosi di un servizio pubblico essenziale è altresì richiesta la verifica della qualità del
servizio erogato.

11. Il settore dei trasporti

L’Autorità di regolazione dei Trasporti, ai sensi della l. 22.12.11 n.214, ha poteri di vigilanza su tutti i settori
di trasporto con facoltà di determinazione delle tariffe e delle condizioni per l’accesso alle infrastrutture, per
l’attribuzione delle concessioni e per la tutela degli utenti. Anche in questo si tratta di un servizio pubblico sul
quale sono necessari controlli sulle tariffe applicate al cliente finale ma anche della qualità del servizio
erogato. L’Autorità è composta dal Presidente e da due componenti, nominati con criteri analoghi a quelli
ARERA.

12. Conclusioni

(Consob e IVASS autorità non trattate poiché sono presenti su altri capitoli). I mercati settoriali hanno lo
scopo di valorizzare la protezione specifica e più ampia in determinati segmenti di mercato specie se questi
riguardano i servizi essenziali. Il diritto antitrust può essere qualificato come un multipurpose essendo volto a
tutelare più interessi anche confliggenti, questa impostazione è allineata e coerente con la legislazione europea
nella quale la tutela della parte debole del mercato sta assumendo sempre più un ruolo assolutamente centrale.
CAPITOLO 12: I meccanismi europei di vigilanza e di risoluzione delle crisi bancarie

1. L’integrazione finanziaria in Europa: dal mercato unico all’Unione Bancaria

La creazione del mercato unico dei servizi bancari ha inizio con la prima direttiva di coordinamento delle
disposizioni in materia bancaria del 1977 (dir. 77fi80/CEE). Questa direttiva ha stabilito una "definizione"
comune di banca, o meglio di "ente creditizio" e ha armonizzato le condizioni di accesso al mercato bancario.
Con l'atto unico europeo, entrato in vigore il 1° Luglio 1987, è stato affermato che le disposizioni europee in
vigore in uno Stato membro sono considerate equivalenti a quelle applicate da un altro Stato membro. Sulla
base di questo atto, è stata emanata la seconda direttiva di coordinamento in materia bancaria (dir.
646/89/CE). La direttiva del 1989 ha stabilito le regole di armonizzazione minima nel settore creditizio, al fine
di consentire il mutuo riconoscimento delle normative bancarie. Da quel momento, le banche hanno potuto
operare in tutto il territorio europeo sulla base dell'autorizzazione del paese d'origine, rimanendo assoggettate
al controllo delle autorità competenti di quest'ultimo paese (home country control) svolto sulla base delle
regole del paese di insediamento. Unica eccezione a questo è la vigilanza sulla liquidità delle succursali che è
rimasta affidata alle autorità competenti dello Stato ospitante. Le autorità ospitanti hanno conservato alcuni
poteri nei confronti delle succursali come l'invio di informazioni necessarie per lo svolgimento di tali compiti.

Anche la seconda direttiva comunitaria non comportò un incremento straordinario nella circolazione dei
servizi bancari fra i paesi comunitari. Il rapporto fra banche e clienti è caratterizzato da un elemento fiduciario
molto forte. Per questo motivo i mercati bancari sono locali come ci insegna anche la regolamentazione
antitrust. Inoltre, per operare in altri paesi non basta l'armonizzazione delle regole bancarie. La realizzazione
del mercato unico fu rallentata da due punti deboli del meccanismo del mutuo riconoscimento. In primo
luogo, il timore della concorrenza esterna non ha costituito un incentivo sufficiente a uniformare le proprie
regole a quelle degli altri Stati membri, con la sola eccezione delle disposizioni minime imposte dalla seconda
direttiva comunitaria. Il secondo punto di debolezza era rappresentato dal fatto che il principio dell'home
country control presuppone un sistema forte di cooperazione fra le autorità di vigilanza dei paesi membri, che
pur previsto (memorandum of understandings su base bilaterale), nei fatti è risultato poco efficace. Il
“Rapporto dei saggi” (c.d rapporto di Lamfalussy) sulla “security regulation” in Europa, pubblicato nel
novembre 2000, ha promosso la nascita di nuovi organismi con competenze specifiche di ausilio alla
Commissione, composti anche da rappresentanti delle autorità competenti degli Stati membri, per favorire
un'armonizzazione più intesa delle regole: armonizzazione massima. La riforma ha dato avvio a un sistema di
formazione delle norme comunitarie articolato su quattro livelli: le direttive di principi (primo livello); le
direttive di attuazione (secondo livello); le interpretazioni, raccomandazioni, nonché linee guida di attuazione
della disciplina comunitaria emanate dai nuovi organismi creati con la riforma (il terzo livello); i controlli
della commissione sul rispetto della disciplina comunitaria da parte degli Stati membri (quarto livello). Per
quanto riguarda il settore bancario venne istituito il Comitato Europeo dei Supervisori Bancari (CESB)
composto da rappresentanti di alto livello delle autorità di vigilanza e delle banche centrali dell'Unione
Europea. Le funzioni riguardavano la consulenza tecnica alla commissione europea in merito a proposte
normative in materia bancaria, la promozione di un’applicazione uniforme delle direttive comunitarie, la
convergenza delle pratiche di vigilanza da parte degli Stati membri, il rafforzamento della cooperazione nel
campo della vigilanza. La riforma non toccò il principio della vigilanza decentrata affidata alle autorità del
paese dove la banca ha sede principale. Un passo avanti nel coordinamento è stato effettuato con la riforma
della direttiva 2006/48 che ha trasposto nell’ordinamento europeo i principi stabiliti con l'accordo di Basilea
II. In essa è mantenuto fermo il principio dell'home country control e quello del consolidated supervisor per
l'esercizio della vigilanza consolidata. Per ogni gruppo di dimensione europea furono costituiti collegi di
supervisori composti da rappresentanti delle autorità nazionali. La crisi finanziaria iniziata nell’estate del 2007
ha dato luogo a una nuova riforma sulla base di uno studio condotto da esperti europei “comitato dei saggi”
presieduto da Jack De Larosière. La riforma è stata approvata dal Parlamento e dal Consiglio Ue nel 2010 con
l'obiettivo ambizioso di rafforzare in maniera rilevante le istituzioni europee della finanza.

Si è trattato però di un compromesso che non ha cambiato radicalmente l'assetto precedenti. Sono nate 4
nuove autorità: il Comitato Europeo per il rischio sistemico (CERS) con finalità e poteri di carattere
macroprudenziale e il Sistema Europeo di vigilanza Finanziaria (SEVIF) rappresentato da un network di tre
autorità dedicata alla vigilanza micro-prudenziale; per il settore bancario l'Autorità Europea per la vigilanza
bancaria (ABE), per il settore dei mercati mobiliari l'Autorità Europea degli strumenti Finanziari e dei Mercati
(AESFEM) e per il settore delle assicurazioni e dei fondi pensione, l' Autorità Europea delle Assicurazioni e
delle Pensioni aziendali e professionali (AEAP). Le tre autorità settoriali hanno sostituito le precedenti create
a seguito della riforma Lamfalussy.

I poteri affidati a queste autorità sono limitati e non si può ritenere sia stato creato un sistema di controlli sugli
intermediari finanziari sovraordinato a quello degli Stati membri. Le nuove autorità hanno il compito di
sviluppare proposte regolamentari per definire standard tecnici comuni; risolvere casi di disaccordo fra i
supervisori nazionali, quando la normativa vigente richiede al loro coordinamento; contribuire da assicurare
un’applicazione uniforme delle regole comunitarie; svolgere un ruolo di coordinamento in situazioni di
emergenza. Solo la AESFEM ha ricevuto poteri di controllo diretti su un operatore dei mercati finanziari,
ossia sulle rating agencies.

Il CERS ha il compito di ridurre la possibilità di rischi sistemici e di migliorare la resistenza del sistema
finanziario a fronte di shock punto per perseguire questi obiettivi ha pochi poteri. Può emanare warnings e
raccomandazioni, generali o specifiche. Non esiste un potere sanzionatorio; l'attuazione si basa su un
meccanismo di Act or explain. Se si rileva un rischio deve avvisare il consiglio europeo, che attiva un
procedimento per definire l'esistenza di una situazione di emergenza. L’ABE (reg. UE 1093 del 2010) non ha
potestà di controllo diretto su singole istituzioni, neppure su quelle di dimensioni europee. Oltre al compito di
uniformare le regole al fine di arrivare a un effettivo single rule book, può intervenire per limitare le carenze
emerse nel lavoro dei collegi dei supervisori costituiti dalle autorità nazionali e coordina il lavoro degli stessi
per concordare interventi su grandi intermediari in difficoltà. L’ABE può vietare alcune attività nell'ottica di
protezione dei consumatori e di salvaguardia e integrità del buon funzionamento dei mercati. Il potere più
incisivo della nuova autorità bancaria europea, peraltro, si è rivelato quello di monitoraggio dei rischi e di
analisi che danno luogo a stress test sul sistema bancario per verificare la solidità di singoli intermediari e la
stabilità del sistema nel suo insieme; gli stress test sono basati su metodologie armonizzate e verifiche tra
gruppi appartenenti a categorie omogenee ("peer reviews"). Questi ultimi compiti sono svolti dall'ABE in
stretto raccordo con il CERS. Sulla base di primi stress test effettuati nel 2011, l'ABE ha emanato alcune
"raccomandazioni" in favore dell'innalzamento complessivo dei livelli di capitalizzazione delle banche
europee durante la crisi finanziaria; questa richiesta è stata soggetta a molte critiche da parte degli Stati
membri a causa del fatto che in molti casi la ricapitalizzazione era complessa e molto costosa per le banche in
un periodo di depressione dei mercati finanziari. Lo scopo delle nuove autorità create nel 2010 è stato
soprattutto quello di rafforzare la cooperazione fra vigilanze nazionali e migliorare I'armonizzazione delle
regole. Nonostante la crisi nel 2010, infatti, i paesi europei non erano ancora disposti a cedere parte dei loro
poteri ad autorità sovranazionali, soprattutto considerato il necessario coinvolgimento delle finanze nazionali
in caso di crisi di intermediari di rilevanti dimensioni. Agli inizi del 2012, nonostante fosse terminata la fase
acuta della crisi finanziaria, le autorità europee e i paesi aderenti hanno compreso che i problemi non erano
stati risolti e che-le soluzioni immaginate nel 2010 non erano sufficienti a.fronteggiare una nuova fase di
instabilità finanziaria. In alcuni Stati il debito pubblico era cresciuto in maniera importante, con conseguenti
difficoltà nella gestione dello stesso nei mercati finanziari proprio a causa dei fallimenti bancari. L’intreccio
tra le debolezze del sistema bancario e problemi di-finanza pubblica è emerso in maniera evidente in Spagna.
Un intervento pubblico di salvataggio da parte del Governo spagnolo era difficile a causa delle tensioni nel
mercato dei titoli del debito pubblico di questo paese, in cui si è registrato nell'ultimo anno e mezzo un forte
incremento dello spread con i bund emessi dal Governo federale tedesco. Un sostegno da parte dell'Europa
alle banche spagnole è stato strutturato in attuazione del Trattato sul Meccanismo di Stabilità Europeo CMES)
siglato nel 2012 fra i paesi aderenti all'area euro.
Il sostegno, chiesto dal governo spagnolo nel giugno 2012 è stato fornito attraverso un prestito al Fondo de
Restructuracion Ordenada Bancaria (FROB) per la ricapitalizzazione delle banche. In questo clima, ha
origine la Road Map verso la Banking Union del settembre 2012 redatta dalla Commissione Europea.

Il documento riconosce che ulteriori passi nella creazione di un sistema di regole comuni per le banche sono
importanti, ma non sono più e, a seguito della crisi-finanziaria, si è creato un pericoloso legame fra rischio del
debito sovrano e debolezze del sistema bancario. In un ambito di paesi aventi una moneta unica è molto
importante accentrare anche le competenze di supervisione sulle banche. Inoltre, la Commissione ha
constatato la mancata realizzazione di un vero mercato comune ed ha chiaramente sostenuto la posizione della
Banca Centrale Europea (BCE) secondo cui la persistente frammentazione del sistema bancario europeo rende
poco efficace la trasmissione degli impulsi di politica monetaria all'economia reale nell'area dell'Euro.
Al fine di ridurre la frammentazione e favorire la creazione di un sistema bancario unitario in Europa, la
Commissione europea ha approvato un progetto di riforme importanti basato su tre pilastri: un meccanismo
unico di supervisione sulle banche cioè il Meccanismo di Vigilanza Unico (MVU) ; un meccanismo unico per
la risoluzione delle banche in difficoltà denominato Meccanismo di risoluzione Unico (MRU) e
l’armonizzazione e il rafforzamento dei sistemi di garanzia dei depositi. Esse rappresentano un tassello di di
un sistema di riforme, teso a ripristinare la fiducia nell'Euro, che in una visione di lungo periodo mira alla
realizzazione di un'integrazione economica e fiscale in Europa.

Il sistema di autorità creato all'indomani della crisi finanziaria (SEVIF) rimane in vigore per tutti i paesi
membri. Il Regolamento (UE) n. 1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013 attribuisce alla BCE compiti
specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi. Più complessa e lenta è
stata la trattativa per la definizione di un meccanismo unico di risoluzione delle crisi. Il 15 luglio 2014 il
Parlamento europeo ha approvato tre provvedimenti legislativi: il regolamento che istituisce un meccanismo
di risoluzione unico; una direttiva che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione delle banche (cm.
2014/59/UE); l'aggiornamento della direttiva sui sistemi di garanzia dei depositi che contiene una profonda
armonizzazione dei regimi nazionali di garanzia che sono istituiti in ogni Stato membro. Il regolamento sul
Meccanismo di Risoluzione Unico (MRU) istituisce un Fondo di Risoluzione Unico (FRU), costituito da
contributi obbligatori delle banche europee. Il.Fondo non è interamente disciplinato dal regolamento sul
MRU. Alcuni aspetti necessari per istituire il Fondo, come ad esempio il trasferimento dei contributi raccolti a
livello nazionale nei confronti del Fondo unico e la "mutualizzazione" dei «compartimenti nazionali" sono
disciplinati da un accordo intergovernativo istituito tra gli Stati membri partecipanti che è stato firmato il 21
maggio 2014. In definitiva sono stati oggetto di disciplina tutti e tre i pilastri dell'Unione bancaria, anche se
l'accentramento di competenze in capo ad autorità europee è stato realizzato solo per il MVU e per il MRU,
ma non per i sistemi di garanzia dei depositi.

Nel 2010 un rapporto preparato su richiesta della Commissione Europea aveva esplorato la possibilità̀ di
istituire un sistema di garanzia dei depositi Pan-europeo sotto forma di un unico ente. Questa soluzione è stata
esclusa a causa delle difficoltà di raggiungere un compromesso politico. La Commissione, quindi, ha
abbandonato l'idea di un unico sistema di assicurazione dei depositi, ma ha modificato la disciplina
comunitaria (direttiva 2009/14/UE) per rendere possibile il coordinamento dei sistemi nazionali con le nuove
regole sulla risoluzione delle banche e sul funzionamento del Fondo di Risoluzione Unico. Nel novembre
2015 la Commissione europea ha presentato una proposta legislativa per giungere alla creazione di un Sistema
europeo di assicurazione dei depositi. La proposta si basa sui sistemi nazionali esistenti di garanzia dei
depositi e raccomanda una graduale introduzione del Sistema europeo. La proposta nel 2020 non è stata
ancora approvata, per ragioni prevalentemente di ordine politico.

2. Il meccanismo di Vigilanza Unico (MVU)

Il regolamento 1024/2013 stabilisce un Meccanismo Unico di Vigilanza per le banche dell'area dell'Euro,
aperto agli altri Stati membri che intendono aderirvi con accordi di cooperazione rafforzata. Il fondamento
legislativo del MVU è l'art. 127, par. 6, del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE): "Il
Consiglio, deliberando all'unanimità̀ mediante regolamenti secondo una procedura legislativa speciale, previa
consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea, può affidare alla Banca centrale
europea compiti specifici in merito alle politiche che riguardano la vigilanza prudenziale degli enti creditizi e
delle altre istituzioni finanziarie, escluse le imprese di assicurazione.". In tal modo si è evitato di creare
un'autorità̀ ad hoc, accelerando il processo di accentramento delle competenze in sede europea. Il regolamento
del Consiglio europeo prevede il trasferimento alla BCE dell'intero set di strumenti di vigilanza prudenziale
fino ad oggi disciplinati dalla normativa europea e da quelle dei Paesi membri. Per evitare i possibili problemi
in tema di conflitto di interessi fra le funzioni di politica monetaria e di vigilanza sulle banche a fini di
stabilità, l'art. 19 del reg. 1024, individua in un organo diverso dal Consiglio direttivo della BCE, un
"Consiglio di vigilanza" incaricato della pianificazione e dell'esecuzione di questi compiti, anche se esso non
ha "poteri decisionali" che spettano secondo il Trattato solo al Consiglio direttivo. Il Regolamento 1024
stabilisce che il Consiglio di vigilanza sottopone al Consiglio direttivo una bozza di decisione che si considera
approvata in assenza di obiezioni da parte di quest'ultimo entro 10 giorni. La BCE ha limitate potestà
regolamentari. In particolare, secondo l'art. 4, par. 3 del reg. la BCE applica tutta la normativa pertinente
dell'Unione e, se tale normativa dell'Unione è composta da direttive, la legislazione nazionale di recepimento
di tali direttive. Laddove la normativa pertinente dell'Unione sia costituita da regolamenti e al momento tali
regolamenti concedano esplicitamente opzioni per gli Stati membri, la BCE applica anche la legislazione
nazionale di esercizio di opzioni". La BCE può quindi adottare "orientamenti e raccomandazioni" nel quadro
delle norme tecniche adottate dall'ABE e dalla Commissione. La BCE può inoltre adottare regolamenti "solo
nella misura in cui ciò sia necessario per organizzare o precisare le modalità di assolvimento di tali compiti».
L’ampliamento delle potestà regolamentari della BCE deriva dal fatto che essa è divenuta "autorità
competente" ai sensi del single rulebook (sistemi di norme comunitarie in materia prudenziale composto dalla
direttiva 2013/36/UE)

Il MVU è composto dalla. BCE e dalle autorità nazionali competenti dei paesi dell'area dell'euro. Tutte le
banche dell'area euro sono assoggettate al MVU ma ripartite in due sottogruppi: quelle delle banche “ of
significant relevance" (circa 130 intermediari individuati in base ad una serie di parametri fissati dal
Regolamento; il primo criterio fa riferimento alla dimensione della banca, ossia include nella lista delle
banche of significant relevance quelle con un attivo superiore a 30 miliardi di curo) e quelle meno rilevanti
c.d. "less significant". In principio, spetta alla BCE la vigilanza sulle prime e alle autorità̀ nazionali quella
sulle seconde. In concreto non è irrilevante il ruolo svolto dalle autorità nazionali nei procedimenti di
competenza della BCE, mentre quest'ultima ha poteri di indirizzo importanti sull'attività̀ di vigilanza che le
autorità nazionali svolgono nei confronti delle banche less significant. Il grado di accentramento delle
competenze in capo alla BCE è molto forte, soprattutto in funzione dell'obiettivo di assicurare l'unità e
l'integrità del mercato interno e del principio di parità di trattamento delle istituzioni creditizie europee,
sancito dall'art. 1, par. 1 del regolamento (UE) n. 1024/2013. Il framework regulation individua le procedure
di cooperazione tra le autorità nazionali e la BCE in merito alla vigilanza sugli enti "of significant rilevance»
e "less signficant".

2.1. Competenze della BCE e delle autorità nazionali

Individuare un discrimen tra le funzioni della BCE e quelle delle autorità nazionali è piuttosto complesso a
causa del criterio di riparto misto utilizzato dal legislatore; la competenza della BCE viene individuata a volte
sulla base della materia e a volte sulla base delle dimensioni del soggetto vigilato. È possibile distinguere fra
materie di competenza esclusiva della BCE; materie "concorrenti” in cui la competenza è attribuita alla BCE
ovvero alle autorità nazionali sulla base di alcuni criteri; materie di competenza esclusiva delle autorità
nazionali. Le materie di competenza esclusiva della BCE (art.4 Reg.1024/2013) riguardano poteri che
abbracciano profili cruciali dell'azione di vigilanza. In primo luogo, è accentrato in capo alla BCE per tutte le
banche il potere decisionale relativo all'ingresso sul mercato e agli assetti proprietari. Alle autorità nazionali
peraltro sono affidati importanti poteri istruttori nell'ambito di "procedimenti comuni” che prevedono una
"fase nazionale”. La competenza "concorrente" fra BCE e autorità nazionali è legata ad alcuni criteri. Qualora
si tratti di un ente "of signicant relevance" o di un ente che abbia richiesto l'assistenza finanziaria dello
European Financial Stability Facility (EFSF) o dello European Stability Mechanism (ESM) la competenza
sarà della BCE. Nel caso in cui si tratti di un ente "less significant" l'autorità competente è quella nazionale.
Tra le materie c.d. "concorrenti" rientrano quelle che prevedono compiti di ordinaria supervisione. Si tratta di
poteri che afferiscono alla verifica del rispetto della disciplina prudenziale nelle componenti qualitative
(organizzazione, governo societario, remunerazioni), in quelle quantitative (requisiti patrimoniali,
concentrazione dei rischi, liquidità, leverage) e di informativa al pubblico. Per le banche "of significant
relevance" questi compiti sono svolti dalla BCE avvalendosi dei c.d. "Joint Supervisory Teams", fra i cui
membri vi sono anche funzionari delle autorità nazionali. Questo implica che le stesse conservano un ruolo
importante, ai fini istruttori, anche con riferimento alle banche "of significant relevance". Per le banche "less
rilevant" i medesimi compiti sono svolti dalle autontà nazionali che continuano a svolgere un'attività volta a
verificare il rispetto di un insieme di regole armonizzate a livello europeo che incidono sull'intera attività e
organizzazione degli enti creditizi. La BCE sentite le autorità nazionali, possa discrezionalmente decidere di
avocare a sé la vigilanza diretta anche delle banche “less significant” al fine di “garantire l’applicazione
coerente di standard di vigilanza elevati”.

Alla BCE è stata conferita la competenza esclusiva nell’esercizio dei poteri di vigilanza nei confronti di tutte
le banche dei paesi dell'euro. Secondo la Corte, infatti, le autorità nazionali esercitano i controlli diretti sulle
banche less significant su delega della BCE. Va ricordato che esistono materie non ricomprese nel MVU le
quali continuano ad essere di esclusiva prerogativa delle autorità nazionali. Ci si riferisce all'attività di
supervisione in materia di: protezione dei consumatori; contrasto al riciclaggio e al finanziamento del
terrorismo; servizi di pagamento; vigilanza sui soggetti non bancari; controlli sulle banche di paesi terzi che
intendono operare nell'UE attraverso succursali o in regime di libera prestazione di servizi. Si tratta,
evidentemente, di compiti che non hanno attinenza con la vigilanza prudenziale in senso stretto e che l'art.
127, paragrafo 6, del Trattato sull'Unione Europea (TUE), non avrebbe consentito di attribuire alla BCE.

2.2. Il rapporto tra BCE ed autorità nazionali


Analizzando il molo delle autorità nazionali appare chiaro come le stesse siano, di fatto, prive di autonomo
potere decisionale. Le autorità nazionali esercitano un'attività di assistenza non avente contenuto decisorio. Le
autorità nazionali partecipano al processo decisionale della BCE perché un rappresentante delle stesse è
presente negli organi di governo della BCE, sia nel Consiglio di vigilanza sia nel Consiglio direttivo. Ne
consegue che gli atti adottati dalle autorità nazionali debbano essere considerati emanazione di un potere della
BCE e vadano a essa imputati, anche sul piano dell'impugnazione. Ciò non significa che sia completamente
escluso qualsiasi margine di discrezionalità delle autorità nazionali nei procedimenti di vigilanza di
competenza della BCE. Nell'attività di vigilanza è difficile distinguere fra attività istruttoria e attività
decisionale in maniera netta. Il provvedimento finale è il frutto di un'attività e scelte che implicano un margine
di discrezionalità "tecnica" nella fase istruttoria molto rilevante. Per queste ragioni secondo una linea
interpretativa l'accentramento della vigilanza nelle mani della BCE "non si configura come una mera
devoluzione di poteri, ma come un nuovo sistema di esercizio congiunto dei poteri di vigilanza". Anche
nell'ambito degli enti "less significant", che ricadono nella competenza esclusiva delle autorità nazionali, sono
previsti una serie di penetranti poteri in capo alla BCE. Quest'ultima, come si è visto, può impartire
regolamenti ed istruzioni, può richiedere informazioni e soprattutto può decidere di assoggettare alla propria
vigilanza diretta una o più banche "less significant". Il MVU è un meccanismo complesso composto sia dalla
BCE sia dalle autorità nazionali sulle quali grava, in eguale misura, un dovere di cooperazione. Tale obbligo
di cooperazione è quantomeno asimmetrico, dato che sono soprattutto le autorità nazionali a svolgere
un'attività di assistenza e di supporto alla BCE nell'esercizio dei suoi compiti. Si può quindi ritenere che il
MVU rappresenta "un modello di integrazione operativa e organizzativa tra apparati nazionali ed europei" .

3. Meccanismo di Risoluzione Unico e il Fondo di risoluzione·

Il MRU rappresenta il secondo pilastro del progetto di Unione Bancaria.

Il regolamento n. 806, infatti, prevede l'accentramento in capo a una agenzia europea la gestione delle crisi
delle banche che possono dare luogo a situazioni di instabilità sistemica e l'istituzione di un Fondo di
risoluzione unico delle crisi bancarie costituito con i contributi delle banche dei paesi aderenti all'area
dell'euro.
Nella stessa data il parlamento europeo ha adottato la direttiva che istituisce un quadro regolamentare di
risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento (dir. 2014/59/UE). Il testo della
direttiva e quello del regolamento sono stati coordinati. Gli strumenti di gestione delle crisi delle banche sono
gli stessi sia nella direttiva sia nel regolamento. Inoltre, per garantire omogeneità nell'applicazione delle
norme l'art. 5 del regolamento stabilisce che i poteri che la direttiva attribuisce alle autorità nazionali spettano
alla nuova autorità istituita fra i paesi dell’area euro, il Single Resolution Board, per i paesi che aderiscono al
MRU. La base giuridica per la costruzione del MRU è l'art. 114 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione
Europea (TFUE) che consente l'adozione di misure di ravvicinamento delle disposizioni nazionali che hanno
per oggetto l'instaurazione e il funzionamento del mercato interno. Il Single Resolution Board è composto da
un direttore esecutivo, da un componente nominato dalla Commissione, da uno nominato dalla BCE e da un
membro nominato da ciascuno Stato partecipante al meccanismo. Il Board si riunisce in due formazioni:
sessione esecutiva e sessione plenaria. In sessione plenaria il Board adotta decisioni di carattere generale, in
sessione esecutiva vengono assunte tutte le decisioni relative alla gestione della risoluzione. L’attribuzione a
questo nuovo organismo di importanti poteri decisionali in materia di risoluzione delle banche è stata oggetto
di ampio dibattito perché considerata non compatibile con la nota "dottrina Meroni". L'argomento contro
l'accentramento dei poteri in capo al Board ha perso forza a seguito di una sentenza della stessa Corte di
Giustizia del 2014, in merito alla legittimità di un regolamento dell'European Securities Market Autority
(ESMA). La Corte ha escluso l'incompatibilità̀ a condizione che i loro poteri siano analiticamente determinati
e circoscritti ex ante.

La direttiva prevede sostanzialmente 3 fasi per la gestione delle crisi di banche: la pianificazione del
risanamento e della risoluzione; l'applicazione di misure di intervento precoce; la risoluzione. Per "resolution"
si intende una procedura amministrativa che mira a una gestione ordinata della crisi preservando le funzioni
essenziali dell'intermediario e proteggendo i depositanti. Il regolamento stabilisce un meccanismo decisionale
complesso che prevede il coinvolgimento di più autorità per arrivare a una decisione sulla "risoluzione": la
BCE, il Single Resolution Board, la Commissione e il Consiglio Europeo. La procedura ha inizio con una
dichiarazione della BCE che ritiene la banca versi in una situazione di "'failing or likely to fail" e comunica
questa valutazione alla Commissione e al Board. Quest'ultimo delibera la messa in risoluzione della banca
dopo aver valutato se vi è una minaccia sistemica e se non esiste una soluzione alternativa privata. Se
sussistono queste due condizioni adotta una proposta di "'risoluzione. Il programma di risoluzione approvato
dal Single Resolution Board entra in vigore solo se entro 24 ore non vi è opposizione da parte della
Commissione europea (oppure sia approvato da quest'ultima) e da parte del Consiglio dell'Unione europea. Se
il programma di risoluzione prevede la concessione di aiuti di Stato, non si può procedere alla sua adozione
fino a che la Commissione non abbia adottato una decisione favorevole o condizionata in merito alla sua
compatibilità con le norme sugli aiuti di Stato. Il Consiglio Ue può opporsi alla decisione se ritiene che non ci
sia un interesse pubblico rilevante che giustifichi la risoluzione della banca o se vuole approvare o obiettare a
una modifica significativa dell'importo del Fondo unico da utilizzare secondo il programma adottato dal
Comitato. In quest'ultimo caso, il Comitato deve modificare di conseguenza, entro 8 ore, il programma di
risoluzione. Per quanto riguarda la tipologia di strumenti utilizzabili per il superamento della crisi, tanto la
proposta di direttiva quanto quella di regolamento prevedono quattro possibilità: vendita dell'attività
d'impresa; bridge institution (ente ponte); separazione delle attività; bail in (esso prevede che le autorità di
risoluzione possano svalutare azioni e/o posizioni di debito delle banche, come le obbligazioni, ovvero
convertire i debiti in azioni). Si tratta di strumenti che potranno essere utilizzati singolarmente o-combinati da
parte delle autorità preposte. Esso consente alle autorità di risoluzione di ridurre i diritti degli azionisti e
passività, secondo un preciso ordine di priorità, prima della dichiarazione di fallimento, e presenta i profili di
maggiore novità e criticità. Peraltro, è previsto, nella direttiva e nel regolamento, che non tutti i debiti della
banca siano soggetti al bail in; fra le esenzioni principali vi sono i "depositi garantiti" (ovvero quelli di
importo inferiore ai 100.000 euro coperti dal sistema di assicurazione dei depositi già vigente in tutti i paesi
europei), ma anche altre passività garantite, ivi compresi i covered bonds.
Il principio del bail in si fonda sull'idea che il costo della crisi di una banca debba ricadere in primo luogo su
azionisti e creditori della stessa, prima di pesare sulle finanze pubbliche. Il mancato pagamento delle cedole o
il mancato rimborso dei creditori potrebbe attenuare le esigenze di liquidità di una banca in difficoltà, facendo
guadagnare tempo per cercare soluzioni che ne evitino l'insolvenza. Il disegno legislativo prevede che, se il
bail in sia ben disegnato, creditori non debbano sopportare perdite più elevate di quelle in cui sarebbero
incorsi nel caso in cui la banca fallisca e si apra una formale procedura di insolvenza.

3.1. Il Fondo di risoluzione unico delle crisi bancarie

La base giuridica per l'istituzione del Fondo di Risoluzione Unico non è rappresenta solo dal regolamento UE
n. 806/2014. Il Fondo è stato pensato come uno strumento di intervento finalizzato a facilitare la risoluzione e
non a coprire le perdite le quali dovranno essere sostenute prevalentemente dai claim holders delle banche.
Questo non esclude che in casi eccezionali, ovvero quando le risorse interne siano insufficienti a risanare
l'ente, il Fondo possa essere impiegato per assorbire le perdite o fornire capitali. Al fine di assicurare
finanziamenti sufficienti a garantire il buon funzionamento del fondo, il regolamento stabilisce che deve
essere costituito da contributi obbligatori, versati ex ante, da tutte le banche dell'area dell'euro. Il Fondo serve
per assicurare una risoluzione ordinata delle crisi future a condizione che i creditori e gli azionisti si facciano
carico del salvataggio interno per almeno 1'8% delle passività totali e dei fondi propri dell'ente soggetto a
risoluzione. Il Fondo, entro il 2023, deve ammontare all'1 per cento dei depositi delle banche dell'area
dell'euro, ossia dovrebbe ammontare a circa 55 miliardi di euro. Considerate le risorse limitate del Fondo per
gestire crisi di banche sistemiche le istituzioni europee e il Single Resolution Board hanno sollecitato in più
sedi l'individuazione di meccanismi pubblici di "backstop" per il Fondo. Il 4 dicembre 2018, il Parlamento
europeo e il Consiglio dell'Unione europea hanno raggiunto un accordo sui salvataggi bancari, che prevede la
creazione di un backstop pubblico per il Fondo di Risoluzione Unico. L’attuale accordo prevede che il
Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) fornisca al Fondo il supporto finanziario pubblico a livello di area
euro sotto forma di una linea di credito. Il sistema è stato concepito come “finanziamento-ponte”; in effetti,
l'accordo stabilisce la scadenza del prestito a 3 anni con una possibile proroga per un massimo di 2 anni. In
ogni caso, anche questa fonte aggiuntiva per finanziare le procedure di risoluzione sarà disponibile solo come
ultima risorsa e nel pieno rispetto delle norme sugli aiuti di Stato, come qualsiasi altra risorsa finanziaria
pubblica.

4. Conclusioni

Agli inizi del 2021 possiamo affermare che i progressi conseguiti nell'attuazione del progetto della Banking
Union, annunciato dalla Commissione europea nel 2012, sono un successo da un punto di vista politico-
istituzionale. Il progetto della Banking Union rimane incompiuto a causa della mancata realizzazione del terzo
pilastro, ossia un Sistema di Garanzia dei depositi Unico. Il progetto definito dalla Commissione nella Road
Map del settembre 2012 rappresenta un punto di convergenza politico da parte dei Governi dell'area euro
consapevoli che l'accentramento delle competenze in capo a istituzioni e autorità europee era l'unica soluzione
possibile ai problemi posti dalla crisi finanziaria globale e accentuato in Europa dalla crisi dei debiti sovrani
che è seguito alla crisi finanziaria. L’importanza dei progressi realizzati è stata dimostrata nell'ultimo anno in
cui l'avvento della pandemia da COVID-19 ha reso fragili le economie di tutti i paesi innescando una
profonda recessione. La BCE ha usato con decisione i poteri ad essa attribuiti dal MVU per consentire alle
banche di continuare a finanziare imprese e famiglie in difficoltà a causa dei lockdown decisi dai Governi per
ragioni di salute pubblica.

La fase della creazione della Banking Union può essere letta nel segno della continuità con i padri fondatori
dell'Europa che diedero vita alla Comunità del Carbone e dell'Acciaio (CECA).
CAPITOLO 13: I meccanismi europei di vigilanza e di risoluzione delle crisi bancarie

1. Introduzione

In questo capitolo si ripercorrono le tappe per la creazione dell’Unione bancaria e vengono esaminati alcuni
problemi posti dalle regole che governano il Single Supervisory Mechanism (SSM) e il Single Resolution
Mechanism (SRM).

2. Dal rapporto de Laroisière ai Regolamenti istitutivi del SSM

Il primo accenno ufficiale a quello che sarebbe poi divenuto il fulcro dell’Unione bancaria, ossia
l’accentramento della vigilanza presso la Banca Centrale Europea (BCE), è contenuto nel rapporto de
Laroisière del 26.02.2009. Il Gruppo di lavoro che lo ha stipulato ha escluso che la BCE debba essere
coinvolta nella forma di vigilanza microprudenziale, a differenza di quanto concerne per la vigilanza
macroprudenziale. Questo per una serie di ragioni:

1. rischio di ledere la funzione monetaria

2. rischio di pressioni politiche, soprattutto quando le crisi devono essere risolte tramite denaro pubblico

3. complessità di interazione con gli stati membri

4. molti membri SEBC (Sistema Europeo Banche Centrali) non sono competenti in materia di vigilanza

5. la BCE non gestisce, in molti Stati dell’UE, la politica monetaria, dunque non potrebbe essere conseguito
l’obiettivo di vigilanza integrata

6. l’incompetenza della BCE in campo di assicurazioni (prevista dal TFUE), e ciò non garantirebbe una
vigilanza adeguata

Successivamente, il 26.06.2012 viene elaborato il “Report by the president of the European Council Herman
Van Rompuy, Towards a genuine economic and monetary union” in collaborazione con i Presidenti della
Commissione, dell’Eurogruppo e della BCE, dove emergono le caratteristiche essenziali di un progetto per
l’integrazione di aree fondamentali per assicurare la crescita e la stabilità dell’UE.

In particolare, per ciò che riguarda “an integrated financial framework”, i punti per la realizzazione sono:

- una Single european supervision, alla quale spetterà il compito di garantire l’applicazione uniforme delle
regole prudenziali per prevenire la crisi

- a livello istituzionale, vengono distinti il livello nazionale e il livello europeo


- viene creato un “european deposit insurance scheme” per rafforzare la credibilità dei sistemi di garanzia
esistenti

- viene finanziato dalle banche un “european resolution scheme”, volto a sostenere le misure di risoluzione
destinate alle banche sottoposte a vigilanza europea, senza bisogno di attingere al denaro pubblico
- il Single european supervision e l’“european deposit insurance scheme” dovranno essere gestiti da un’unica
autorità europea, la quale dovrà accedere all”European Stability Mechanism

Nel rapporto emerge quindi la consapevolezza delle riforme proposte con il TFUE (Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea).

Sempre nel giugno dello stesso anno (29.06.2012), il Vertice della zona Euro dichiara che la Commissione
avrebbe presentato da lì a poco tempo una proposta relativa al sistema di vigilanza unico, sottolineando che,
una volta istituito, il MES avrebbe avuto facoltà di ricapitalizzare direttamente gli istituti bancari.

il 12.09.2012 la Commissione rende così note le proposte in merito alla realizzazione del SSM (s ingle
supervisore mechanism).

Essa propone al Parlamento europeo e al Consiglio l’adozione di 2 Regolamenti che prevedono la graduale
assunzione da parte della BCE delle principali funzioni di vigilanza su tutte le banche, e una serie di
modifiche al Regolamento istitutivo dell’EBA da apportare in modo da tener conto della nuova funzione
ricoperta dalla BCE.

Nei mesi successivi i soggetti coinvolti (Consiglio, Commissione, Parlamento e Consiglio dell’UE) formulano
le osservazioni rispetto alle diverse questioni, in particolare sui tempi per la piena realizzazione dell’Unione
bancaria.

Questa prima fase si conclude dunque con l’adozione dei provvedimenti istitutivi del SSM: un sistema unico
di vigilanza composto dalla BCE e dalle Autorità nazionali di vigilanza degli Stati che aderiscono all’Euro e
di coloro, non aderenti all’Euro, che decideranno di parteciparvi.

3. Le fasi successive: il SRM e la BRRD

Prosegue il dibattito riguardante il SRM (single resolution mechanism): vengono rilevate delle criticità, in
particolare sul rapporto tra un sistema di vigilanza unico esistente solo su carta e la volontà di realizzare in
tempi brevi una forma di condivisione dei fondi nazionali per la gestione delle crisi bancarie
(mutualizzazione).

Il 10.07.2013 viene ufficialmente proposta dalla Commissione, l’istituzione del SRM come strumento per
garantire la gestione efficiente della crisi delle banche sottoposte al SSM con costi minimi per i contribuenti e
l’economia reale.

La proposta dell’istituzione del SRM prevede le seguenti fasi:

1. la BCE segnala la necessità di risolvere le crisi di banche con sede nell’area euro/partecipanti all’Unione
bancaria

2. viene affidato il compito di istruire il caso al Single Resolution Board (SRB), composto da rappresentanti
della Commissione, della BCE e delle autorità nazionali competenti. Essi definiscono le modalità di
risoluzione della crisi e di intervento dell’European Resolution Fund

3. Sulla base di quanto definito dal SRB, la Commissione decide se sottoporre la banca alla procedura di
risoluzione della crisi, definendone le modalità
4. Le autorità nazionali competenti hanno quindi il compito di esecuzione del piano, sotto la vigilanza del
SRB

5. viene istituito un Single Bank Resolution Fund, posto sotto controllo del SRB, con la funzione di
assicurare il finanziamento di medio termine della banca in crisi. Il fondo è finanziato dalle banche e
sostituisce i fondi nazionali

Tale proposta è stata oggetto di discussione in Consiglio e in Parlamento Europeo, culminata nell’accordo
politico tra i colegislatori del 20.03.2014, in seguito formalizzato dal Parlamento europeo nell’aprile dello
stesso anno, e poi adottato tramite Regolamento n.806/2014.

Nel frattempo, il 24.05.2014 è stato concluso l’integovernamental Agreement on the transfer and
mutualisation of contributions to a single resolution fund, che regola gli impegni degli Stati sottoscrittori in
ordine alla costituzione del single resolution fund.

Il SRM rappresenta quindi lo strumento tramite cui dare attuazione unica alla disciplina europea della bank
ricovery and resolution.

Essa, contenuta nella direttiva europea 2014/59 del 15.05.2014, la quale rappresenta uno dei pilastri
legislativi, con la disciplina dei requisiti patrimoniali e dei sistemi di garanzia dei depositanti, su cui l’Unione
bancaria si fonda.

La direttiva poggia sull’idea che la risoluzione della crisi bancaria non debba fare affidamento sul danaro
pubblico, ma sulle risorse messe a disposizione che a diverso titolo decidono di assumere il rischio d’impresa,
ossia dal settore bancario nel suo complesso.

Inoltre, all’interno della direttiva si trovano vari strumenti per:

- prevenire le crisi (preparation)


- intervenire tempestivamente (early intervention)
- risoluzione di esse (resolution)
Inoltre viene prevista l’introduzione di un “European system of financing agreement”, fondato: sugli accordi
finanziari nazionali, sulla possibilità di essi di finanziarsi a vicenda, sulla mutualizzazione delle risorse degli
accordi finanziari nazionali nel caso di risoluzione delle crisi di gruppo. Questa parte verrà inserita nel Single
Bank Resolution Fund.

4. I limiti all’ambito dell’applicazione del SSM ed il rischio della frammentazione della vigilanza

Il SSM è rappresentato da un sistema composto da BCE + autorità nazionali competenti: la vigilanza


prudenziale è esercitata dalla BCE in modo tendenzialmente esclusivo, o direttamente o avvalendosi delle
autorità nazionali.

Il processo apparentemente semplice in realtà nasconde una serie di criticità, soprattutto in merito alla capacità
di esso di realizzare gli obiettivi dichiarati:
1) Alla base dell’ideazione del SSM c’è l’idea di non frammentare la vigilanza, d’altro canto le regole
uniformi non sono in grado di assicurare l’uniformità dei comportamenti dei soggetti incaricati di
applicare tali regole.

2) il progetto di affidare, in tempi brevi e senza modifiche ai trattati, alla BCE tutta la vigilanza sull’intero
sistema bancario, in realtà è solo di facciata: senza le autorità nazionali di vigilanza essa non avrebbe
potuto svolgere il compito affidatole, e ciò avrebbe fatto riaffiorare il pericolo di frammentazione;

3) per evitare di perdere l’onda rivoluzionaria, si è deciso per una soluzione immediata che ha visto
assoggettare tutte le istituzioni di credito al SSM, precisando successivamente che la BCE avrebbe svolto
solamente il compito di vigilanza prudenziale, e che le altre competenze sarebbero rimaste in capo alle
autorità nazionali, sotto la direzione della BCE.

Inoltre, quando si tratta delle istituzioni di credito, il potere di autorizzare o revocare l’autorizzazione al
trasferimento di partecipazioni rilevanti rimangono in capo alla BCE. Il rischio di frammentazione non può
dirsi quindi del tutto scongiurato.

4) altro pericolo per l’integrità della vigilanza è rappresentato dalla partecipazione al sistema da parte di stati
non aderenti all’euro. La decisione di non modificare i trattati per evitare l’allungamento dei tempi, ha
imposto di strutturare la partecipazione degli stati non-euro al SSM come una “close cooperation” tra
BCE e autorità nazionali competenti.

5) metodi per l’uscita dal sistema:

• La BCE decide di sospendere e terminare la close cooperation quando l’autorità nazionale non esegue le
indicazioni date dalla stessa BCE.

• lo Stato non-euro membro decide di terminare la close cooperation (Art. 7 Reg. 1024/2013) nei seguenti
casi:

- con uscita volontaria da parte di esso, trascorsi 3 anni dalla stipula della close cooperation
- disaccordo dello stato membro su una decisione adottata dal Supervisory Board, qualora il Consiglio
governativo della BCE non concordi con le ragioni di dissenso dello stato membro

- uscita volontaria per disaccordo su una decisione adottata dal Supervisory Board, prima della
decisione del Consiglio governativo

Quindi l’entrata nel sistema è sempre basata su una valutazione discrezionale dello stato membro non
partecipante, cosa che può succedere anche al momento dell’uscita: le banche nazionali, entro i limiti fissati
dall’Unione, possono quindi continuare o riprendere a beneficiare della vigilanza svolta dalle autorità
nazionali.

L’art 127(6)TFUE impedisce di attribuire la vigilanza da parte della BCE sulle imprese di assicurazione, salvo
per gli obblighi di collaborazione tra BCE e EIOPA.

5. I dubbi legati all’organizzazione del SSM: la complessità organizzativa e in particolare il rapporto


tra BCE e autorità europee di vigilanza

La complessità organizzativa del SSM pone dubbi sull’effettiva capacità di garantire l’uniforme applicazione
delle regole prudenziali.
Nel modello, ideato come ibrido, il ruolo della BCE appare affidato al modo in cui i soggetti coinvolti
adempiranno ad una serie di obblighi di cooperazione che si trovano nel Reg.1024/2013.

La forte centralizzazione dei compiti di vigilanza prudenziale presso la BCE avrebbe richiesto la creazione di
un’organizzazione territoriale, ma per evitare prolungamenti di tempo si è giunti a un compromesso:

- le competenze diverse da quelle attinenti alla vigilanza prudenziale restano in capo alle autorità nazionali,
pur facendo formalmente capo alla BCE

- il procedimento di assunzione di provvedimenti di vigilanza da parte della BCE prevede la partecipazione


delle autorità nazionali, le quali dispongono anche di poteri decisori

- alcuni poteri (come ad esempio la vigilanza informativa) sono esercitati direttamente dalla BCE
L’attribuzione delle competenze della BCE è avvenuto indicando solamente il contenuto dell’attività che
dovrà svolgere la BCE, rendendo quindi più complicata l’attuazione del piano.

Inoltre, la regolamentazione del rapporto tra BCE e altre autorità di vigilanza europee è formata da pochissime
regole, quali:

1. obbligo di collaborazione

2. divieto per la BCE di invadere il campo altrui

3. obbligo della BCE di preservare quanto stabilito dalla Commissione su proposta dell’EBA

4. coinvolgimento della BCE quale membro del Board of Supervision, e quale titolare di una sorta di potere
di iniziativa legislativa

6. Il problema dell’indipendenza della vigilanza microprudenziale dalle altre funzioni della BCE
I dubbi concernenti la disciplina del SSM non riguardano ovviamente soltanto il tema dell’effettività della
vigilanza unica, ma toccano una quantità di piani tra di loro interconnessi – come ad es. il ruolo della BCE
nella vigilanza macroprudenziale. Va considerata la questione della prevenzione dei conflitti di interessi tra
vigilanza e politica monetaria, posta dalla scelta di affidare alla BCE entrambe le competenze.
La soluzione del problema è stata individuata in un sistema che salvaguardando la titolarità formale della
vigilanza in capo al Governing council della BCE, assegna le decisioni ad un nuovo Supervisory board
composto da rappresentanti della BCE e delle autorità nazionali competenti. La soluzione è stata inoltre
individuata nell’imposizione di un obbligo generale di assolvere ai compiti di vigilanza in modo del tutto
indipendente da quelli di politica monetaria.

Al Governing council spetta l’ultima parola sulle proposte del Supervisory board, ed è difficile ipotizzare che
le cautele organizzative indicate (ad es. la separazione delle riunioni a seconda che all’ordine del giorno vi
siano questioni riguardanti l’una o l’altra materia) possano determinare un cambiamento dal punto di vista dei
suoi componenti.

7. I profili critici del Single Resolution Mechanism: a) il rapporto tra Single Resolution Board e
National Resolution Authorities
Molti dei problemi che caratterizzano la disciplina del SSM tendono a coincidere con quelli del Single
Resolution Mechanism. Primo, per la regolamentazione dei compiti dei diversi protagonisti della resolution –
in particolare quelli del Single Resolution Board e delle National Resolution Authorities – e dei rapporti tra i
diversi livelli organizzativi.

La ripartizione delle competenze è stata disciplinata tenendo conto dell’impossibilità del Single Resolution
Board di occuparsi della gestione della crisi di qualunque banca avente sede nel territorio degli stati
partecipanti: mentre al SRB è stato assegnato il potere di predisporre i resolution plans e le decisioni
riguardanti le banche o i gruppi di maggiori dimensioni, alle National Resolution Authorities spetta la
responsabilità della resolution delle entities e dei gruppi diversi da quelli appena indicati. Questa necessità ha
però dovuto essere coordinata con la ragione stessa del SRM, rappresentata dalla garanzia dell’applicazione
del resolution regime, oltre che con l’esigenza di assicurare che l’utilizzo del Single Resolution Fund avvenga
sempre sulla base di decisioni assunte dal Single Resolution Board.

Occorre considerare che:

• la decisione in ordine al resolution scheme spetta sempre al Single Resolution Board quando è
necessario l’intervento del Fund;

• al Single Resolution Board competono una serie di poteri di direzione nei confronti delle National
Resolution Authorities;

• le National Resolution Authorities sono lo strumento esecutivo delle decisioni assunte dal Single Resolution
Board nei confronti dei soggetti e nelle materie di competenza di quest’ultimo, attività che avviene
comunque sotto la vigilanza dell’autorità europea, che deve occuparsi direttamente della resolution qualora
la NRA interessata ometta di adeguarsi alle proprie decisioni.

8. Segue: b) La complessità delle procedure decisionali. c) L’organizzazione ed il funzionamento del


Single Resolution Board
La complessità organizzativa connota anche la struttura ed il funzionamento del Single Resolution Board e
l’iter decisionale necessario per addivenire alla resolution a livello centrale, che appaiono a loro volta il
prodotto della necessità di coordinare le esigenze proprie di un sistema unitario di resolution delle crisi
bancarie con gli assetti istituzionali dell’Unione.
Il Single Resolution Board – qualificato come Union agency e dotato di autonoma personalità giuridica – è
composto da una pluralità di membri la cui nomina deve avvenire secondo regole, criteri e da parte di soggetti
a seconda dei casi diversi. Il SRB è stato dotato di un sistema di governance imperniato sulla distinzione tra
executive session e plenary session, che vede la prima forma di session impegnata a decidere su tutte le
materie non espressamente attribuite ad altri organi, mentre la seconda su questioni che possono considerarsi
attinenti al controllo sulla gestione delle attività del Single Resolution Board e su importanti aspetti della
resolution, in particolare l’utilizzo del Fund oltre determinati limiti.
A questa suddivisione organizzativa non corrisponde una sola regola sulla composizione dell’organo e sulle
modalità di voto ma piuttosto una pluralità di regole, a seconda delle materie poste all’ordine del giorno: ad
es. la plenary session decide a maggioranza semplice calcolata per teste, mentre:

• quando è chiamata a deliberare in ordine all’utilizzo del Fund è richiesto al raggiungimento di un quorum
misto;

• in altre ipotesi, che comprendono la raccolta delle ex-post contributions, un quorum ulteriormente diverso.

Quanto alle regole decisionali, sebbene spetti al Single Resolution Board il potere di adottare il resolution
scheme, la valutazione in ordine alla sussistenza del requisito “se l’entità è in fallimento o rischia di fallire”,
spetta alla BCE, che deve segnalarne il verificarsi al Single Resolution Board e alla Commissione; mentre la
stessa valutazione può essere compiuta in modo autonomo dal Board solo nel caso in cui la BCE non abbia
provveduto entro tre giorni.

L’adozione del resolution scheme da parte del Single Resolution Board non perfeziona l’iter deliberativo,
poiché il Board è tenuto a comunicare la propria decisione alla Commissione, la quale può far proprio il
resolution scheme così come gli viene presentato.

La Commissione può proporre al Consiglio di contestare il soddisfacimento del requisito del public interest,
ovvero di approvare o contestare la quantificazione dell’intervento del Fund fatta dal Single Resolution Board
all’interno del resolution scheme. La proposta di utilizzare il Fund attiva una sotto procedura che ha la
funzione di valutare se il ricorso al Fund possa essere considerato compatibile con il mercato interno, e che
vede come protagonisti la Commissione ed il Consiglio, che ha il compito di giudicare sulle eventuali
richieste di deroga in casi eccezionali avanzate dagli stati membri.

9. La mutualizzazione del rischio delle crisi bancarie

La risposta che le norme che disciplinano il SRM offrono all’esigenza di realizzare una piena mutualizzazione
del rischio in capo al sistema bancario europeo, inteso come strumento per spezzare il legame tra debito
sovrano e settore bancario, è affidata al Single Resolution Fund, creato mediante contributi gravanti sulle
banche residenti negli stati partecipanti al sistema.

Le modalità di costituzione del Fund sono anche disciplinate all’interno dell’Agreement on the Transfer and
Mutualisation of Contributions to the Single Resolution Fund, il quale prevede un lungo periodo transitorio
durante il quale i contributi raccolti a livello nazionale e riversati nel Fund rimarranno suddivisi in
compartimenti nazionali e che l’utilizzo delle risorse del fondo dovrà avvenire attingendo in primo luogo alle
risorse offerte dallo stato interessato, mentre sarà possibile attingere ai contributi provenienti dagli altri stati
solo nel caso di incapienza dei prima e in modo graduale, essendo previsto che la parte disponibile cresca
progressivamente nel corso del periodo transitorio.

Fino al termine del periodo transitorio non potrà dirsi pienamente realizzato lo scopo della piena
mutualizzazione del rischio, anche se i sistemi bancari nazionali diversi da quello interessato dalla crisi
potranno a loro volta essere chiamati a contribuire nei limiti e secondo le modalità sopra indicate.

La resolution non deve far affidamento su forme di finanziamento straordinarie a carico degli stati o delle
banche centrali, essendo posto a carico degli azionisti e dei titolari di specifici crediti il rischio che la crisi
debba essere risolta con interventi di carattere patrimoniale, ed essendo subordinato ad una serie di condizioni
l’intervento del Fund, le cui eventuali perdite non possono in alcun caso gravare sul bilancio dell’Unione o su
quello degli stati partecipanti.

10. Considerazioni conclusive

L’attuale regolamentazione della struttura organizzativa e del funzionamento del SSM e del SRM possa
considerarsi per molti versi il risultato di un compromesso tra le ragioni a favore di una rapida unificazione a
livello europeo della vigilanza e della resolution, e gli assetti istituzionali e le politiche dell’Unione quali
emergono dai trattati.
Il risultato è un sistema che deve considerarsi non ancora perfettamente compiuto, risultando critici alcuni
aspetti incidenti sulle funzioni per le quali il SSM e il SRM sono stati creati; in particolare, sulla capacità di
questi di assicurare l’uniforme applicazione delle regole comuni per mezzo di un’organizzazione alla quale
partecipano molti protagonisti le cui rispettive competenze potrebbero sovrapporsi o dare luogo a conflitti o
dubbi.

A questi si deve aggiungere la gradualità del processo di mutualizzazione dei rischi, che allontana l’obiettivo
della completa recisione del vincolo che lega il rischio sovrano alla valutazione del merito di credito.

Innovazioni di così ampio respiro avrebbero avuto bisogno di tempi più lunghi, infatti il legislatore stesso
affida alla Commissione il compito di riferire in ordine a tutti i punti problematici che abbiamo segnalato e di
proporre le necessarie modifiche al sistema.

La riduzione della complessità, intesa nel senso di un maggiore accentramento delle funzioni in capo alle
autorità europee, deve considerarsi l’obiettivo a cui le future modifiche della disciplina del SSM e del SRM
dovrebbero tendere.
CAPITOLO 14: IL MERCATO DEL DENARO: intermediari, mercati e strumenti finanziari.

1. Premessa

La banca costituisce la struttura portante dei sistemi finanziari di tutte le economie moderne, per comprendere
il ruolo che questa ricopre è necessario partire da: mercati, intermediari, strumenti e autorità finanziarie.
Il sistema finanziario viene spesso definito come: “Il sistema nervoso centrale dell’economia, dal quale
partono gli impulsi che regolano, azioni, comportamenti e decisioni.” In un sistema finanziario che si
sviluppa, solitamente accade quanto segue:

- Nascono nuovi strumenti finanziari e nascono nuove opportunità di investimento;

- I mercati in cui gli strumenti finanziari vengono negoziati, modificano il proprio modello di
funzionamento;

- Gli intermediari assumono ruoli diversificati ed entrano in forte concorrenza tra di loro.

2. Il sistema finanziario

Lo studio del sistema finanziario si fonda su due dimensioni:

-STRUTTURALE: analisi dei suoi elementi costitutivi per valutarne caratteristiche e logiche evolutive

-FUNZIONALE: analisi delle funzioni assegnate al sistema e modalità attraverso le quali esse vengono
svolte.

3. La struttura

Guardando alla dimensione strutturale, il sistema finanziario è costituito dall’insieme degli strumenti
finanziari, dei mercati , degli intermediari e delle regole che presiedono al suo funzionamento.

INTERMEDIARI: sono soggetti specializzati nella produzione e negoziazione di strumenti finanziari

MERCATI: luoghi fisici o elettronici degli scambi finanziari.

ORDINAMENTO: norme e autorità di vigilanza che devono assicurare lo svolgimento delle funzioni
assegnate al sistema finanziario in modo efficace ed efficiente.
2.2 Le funzioni

Il sistema finanziario svolge molteplici funzioni, se volessimo fare un’estrema sintesi, potremmo dire che le
principali funzioni sono:

1) trasferimento di risorse finanziari dalle unità in avanzo finanziario (surplus) a quelle in disavanzo
finanziario (deficit); questa funzione prende il nome di funzione creditizia;

2) creazione e circolazione di mezzi di pagamento, funzione monetaria;

3) trasmissione di politica monetaria, funzione di trasmissione di politica monetaria;

4) gestione dei rischi, funzione di gestione e allocazione dei rischi.

Funzione creditizia: facilita il trasferimento di risorse monetarie dai soggetti in avanzo finanziario a quelli
che si trovano in disavanzo finanziario. Il compito del sistema finanziario è quello di allocare efficientemente
le risorse nell’interesse della collettività.

Funzione monetaria: si riferisce alla produzione di moneta e all’erogazione dei servizi di pagamento. Il
sistema dei pagamenti è di primaria importanza per il funzionamento di ogni economia, può essere definito
come l’insieme di norme, di intermediari e di funzioni che permette il passaggio di moneta da un operatore
economico ad un altro.

Funzione di politica monetaria: insieme di azioni intraprese dalla banca centrale, volte a modificare o
orientare la moneta il credito e la finanza. L’attività di erogazione del credito e di produzione di moneta
bancaria svolta delle banche, concorre alla determinazione del volume complessivo dei finanziamenti
all'economia e della quantità complessiva dei mezzi di pagamento. Le banche fungono da trait d’union tra
l’azione della politica monetaria e le decisioni di spesa dell’economia.
Una quarta funzione del sistema finanziario è quella di gestione e allocazione dei rischi. In campo finanziario
il rischio assume un rilievo particolare perché le attività finanziarie sono per natura proiettate verso il futuro e
assumono rischi in virtù delle condizioni che si potrebbero manifestare.

2.3 I canali di finanziamento

L’intervento del sistema finanziario può manifestarsi secondo modalità diverse avvalendosi di canali di
finanziamento, di istituzioni finanziarie e di tecniche operative differenziate per meglio rispondere alle
esigenze degli operatori. Le modalità di collegamento tra risparmio-investimento possono essere individuati
rispondendo a due quesiti: Quale relazione esiste tra i bilanci degli operatori finali e tra questi ultimi e gli
intermediari finanziari? Quale intervento da parte degli intermediari finanziari?

Al primo quesito, è necessario delineare due modalità di collocamento, una diretta e una indiretta. Il
collegamento risparmio-investimento si attua con il canale diretto quando lo scambio finanziario è negoziato
direttamente tra prestatori e prenditori finali. Quando tra prestatore e prenditore finale, si interpone un
intermediario finanziario si è di fronte al canale indiretto.

Quando si parla di canale diretto, il trasferimento dei fondi può realizzarsi attraverso l’intervento di istituzioni
finanziarie o organismi specializzati in grado di assicurare le condizioni per le conclusione delle opportune
operazioni finanziarie. Quando le operazioni non sono intermediare da istituzioni finanziarie, si chiamano
circuiti autonomi, in cui gli stessi prenditori e prestatori provvedono a compiere tutti gli atti e le operazioni
necessarie al trasferimento dei fondi. L’allestimento di tale operazione comporta degli oneri e richiede abilità
e conoscenze per questo spesso si ricorre all’aiuto di istituzioni finanziarie. In tale circostanza il canale diretto
si caratterizza come circuito intermediato.
Canale indiretto, basti pensare al c/c bancario di una famiglia, che chiameremo Gamma, il quale rappresenta
un’attività finanziaria della stessa, mentre rappresenta una passività finanziaria per li stato patrimoniale della
Banca. La banca ha il compito primo di trasformare le passività in attività finanziarie e per tale ragione,
concede ad esempio, un mutuo ad un’azienda. Il canale si definisce indiretto perché la famiglia Gamma non
presta direttamente i soldi all’azienda.

Canale diretto: si presenta quando ad esempio, una famiglia, non presta denaro alla banca ma compra
direttamente le azioni di un’impresa. Quindi la peculiarità sta nel fatto che non c’è intermediazione da parte
della banca.

Circuito finanziario intermediato: è necessario l’intervento di un intermediario finanziario.

Circuito finanziario autonomo: intervento dell’intermediario non necessario.

3. Le componenti del sistema finanziario

3.1 Gli intermediari finanziari

Gli intermediari finanziari sono operatori la cui attività è costituita dalla creazione, detenzione e dalla
organizzazione sistematica di strumenti finanziari , si occupa inoltre di garantire servizi a supporto di
operazioni finanziarie. . Gli intermediari vengono suddivisi in intermediari del canale diretto e indiretto. I
primi si caratterizzano per interventi volti a conciliare le esigenze di operatori finali attraverso l’offerta e sono
rappresentati dagli intermediari creditizi, di partecipazione e assicurativi. Nel canale diretto invece gli
intermediari offrono una vasta gamma di servizi a supporto delle scelte di investimento e disinvestimento del
proprio portafoglio. A questi ultimi viene attribuita la qualifica di intermediari mobiliari.

Gli intermediari creditizi sono accomunati dal fatto di porre in essere le operazioni credito e possono assumere
la qualifica di bancari e non bancari.

La banca è l’unico operatore autorizzato all’esercizio congiunto del credito e della raccolta di fondi presso il
pubblico. La banca svolge tre funzioni:
FUNZIONE CREDITIZIA: funzione primaria che ricopre la banca, infatti è spesso riconosciuta come
azienda di credito.

FUNZIONE MONETARIA: l’accettazione di moneta bancaria come mezzo di pagamento implica la


circolazione della stessa, la banca in questo contesto, rappresenta l’asse portante dei sistemi di pagamento,

FUNZIONE DEI SERVIZI: offrire alla clientela una vasta gamma di servizi di investimento. Ci sono vari
tipi di servizi, esempio: servizi di custodia e amministrazione di strumenti finanziari, servizi di consulenza,
servizi di altro genere, come ad esempio le cassette di sicurezza.

È necessario sottolineare che non esistono solo gli intermediari bancari, ma ci sono anche quelli non bancari, i
quali si occupano del solo esercizio del credito e rientrano nella categoria definita dal TUF, come intermediari
finanziari. .

Gli intermediari non bancari sono:

Società di leasing: finanziamento di beni di consumo durevoli e di beni di investimento di natura mobiliare ed
immobiliare;

società di factoring: acquisto di crediti commerciali da una impresa con notifica al debitore dell’avvenuta
cessione ed assunzione degli oneri derivanti dall’incasso;

società di credito al consumo: prestiti alle famiglie destinati a finanziare l’acquisto di beni di consumo;

Confidi: esercizio in forma mutualistica di attività di garanzia collettiva dei finanziamenti in favore delle
imprese socie o consorziate;

IMEI: istituti di moneta elettronica, sono imprese, diverse dalle banche che svolgono attività di emissione di
moneta elettronica;

istituti di pagamento: intermediari abilitati alla prestazione di servizi di pagamento in regime di mutuo
riconoscimento.;

Società di microcredito: imprenditori che possono concedere finanziamenti di importo contenuto;

SPV: società veicolo per la cartolarizzazione, si occupa di attività di cartolarizzazione.

Gli intermediari di partecipazione, sono imprese che effettuano investimenti in capitale azionario con lo
scopo di controllare altre imprese . Le holding finanziarie esercitano attività di acquisizione e gestione del
capitale di rischio di altre imprese .Il venture capital ha lo scopo sia di promuovere nuove iniziative
imprenditoriali, sia di sostegno della crescita di imprese che hanno superato la fase di Start up , con particolare
riguardo alle aziende di piccole e medie dimensioni, sono attività molto rischiose e per tale ragione,
presentano alti tassi di rendimento nel medio periodo. I Merchant banking sono operazioni sia finanziarie sia
di prestazione di servizi di consulenza finanziaria alle imprese.

Gli intermediari assicurativi sono rappresentati dalle imprese di assicurazione del ramo vita e danni delle
imprese di riassicurazione. I contratti di assicurazione hanno per oggetto il trasferimento dei rischi puri dal
soggetto assicurato alle imprese di assicurazione.
Gli intermediari mobiliari possono essere suddivisi in macrocategorie: intermediari che offrono ai prenditori
di fondi servizi di intermediazione sui mercati primari, sui mercati secondari e offrono servizi di investimento
ai prestatori di fondi.

Gli intermediari possono offrire agli investitori servizi di consulenza e servizi di gestione dei portafogli,
nell’ambito di attività definita come asset Management.

Negli ultimi 20 anni si è affermato un sistema bancario parallelo a quello tradizionale, definito come “ombra”
(shadow banking system). Per sistema ad ombra si intende l’insieme delle attività di intermediazione
creditizia e di trasformazione della liquidità e delle scadenze che hanno luogo al di fuori del sistema bancario
regolamentato, cioè all’ombra del faro dei regolatori. All’interno di questo sistema, gli intermediari che vi
operano sono; società finanziarie, fondi speculativi, fondi di investimenti, società di assicurazione del credito
e di garanzia finanziaria.

3.2 I mercati finanziari

Il termine mercato finanziario, identifica lo spazio economico nel quale vengono scambiate le attività
finanziaria. In relazione alla natura delle attività finanziarie scambiate, il mercato finanziario si presenta
articolato in tre segmenti: creditizio, assicurativo, mobiliare.

Nel mercato creditizio si emettono e si rimborsano attività finanziarie non destinate alla circolazione e sono
personalizzate sulla base delle caratteristiche individuali dei contraenti.

Il mercato assicurativo, si caratterizza per l’emissione di prodotti finalizzati al trasferimento di rischi in capo
ad un intermediario che provvede a ripartirli tra i soggetti esposti

Nel mercato mobiliare si emettono, rimborsano e scambiano attività standardizzate e destinate . Vengono
scambiati valori immobiliari, nonché strumenti finanziari.

Con riferimento ai soggetti si sono accentuate le integrazioni proprietarie tra banche, assicurazioni e
intermediari mobiliari.

Possiamo distinguere tra mercati a negoziazione diretta e mercati aperti.

Negoziazione diretta: le transazioni sono impegnate su un confronto diretto tra le controparti, di natura
bilaterale e personalizzata. Sono a negoziazione diretta il mercato dei depositi, dei prestiti bancari a breve, dei
mutui, del leasing e del factoring.

Nei mercati aperti, le transazioni sono realizzate in via impersonale, secondo regole codificate e mediante
l’adesione degli operatori a condizioni contrattuali prefissate. Sono mercati aperti il mercato delle azioni, delle
obbligazioni societarie, dei titoli di Stato.

I mercati possono essere divisi in mercato primario e mercato secondario. Il mercato primario è relativo
alla creazione e alla nascita degli strumenti finanziari, ad esempio attraverso l'emissione di titoli alla ricerca
del primo collocamento.

Il mercato secondario riguarda la negoziazione di attività finanziarie già in circolazione. Un ulteriore profilo
di classificazione, fa riferimento alla tipologia degli operatori che operano e distingue mercati all’ingrosso, in
cui ci sono grandi quantità e con modalità organizzative adeguate alle loro esigenze e mercati al dettaglio a
cui può accedere la generalità degli investitori
3.3 Strumenti finanziari
Gli strumenti finanziari appartengono alla più generale categoria delle attività finanziarie. Alcune attività
finanziarie presentano caratteristiche atte a facilitarne la negoziazione nei mercati secondari organizzati, che
riguardano principalmente la standardizzazione della forma contrattuale e il regime giuridico di circolazione.
Le attività finanziarie di questo tipo sono denominate strumenti finanziari.

Per strumenti finanziari si intendono:

- valori immobiliari

- strumenti del mercato monetario.

- Quote di un organismo di investimento collettivo del risparmio

- Strumenti derivati

- Quote di emissioni

Valori mobiliari: categorie di valori che possono essere negoziati nel mercato dei capitali, quali ad esempio:
azioni di società, obbligazioni, qualsiasi altro valore mobiliare normalmente negoziato.

“Per strumenti del mercato monetario si intendono categorie di strumenti normalmente negoziati nel mercato
monetario, quali ad esempio, buoni del Tesoro, certificati del deposito te le carte commerciali.”

I contratti finanziari possono essere classificati in quattro importanti macro categorie:

CONTRATTI DI DEBITO Erogazione da parte di un soggetto (creditore) di una somma di denaro, sulla
base di determinati impegni assunti dalla controparte (debitore), sia del capitale
investito, sia dell’interesse.

CONTRATTI DI Trasferimento di risorse da un’impresa da parte di un soggetto che assume la


PARTECIPAZIONE veste di proprietario. Tale conferimento di risorse comporta un rischio per
l’impresa.

CONTRATTI DI Trasferimento dei rischi da un soggetto (assicurato) ad un altro (assicuratore). A


ASSICURAZIONE fronte di un compenso, detto premio assicurativo, l’assicuratore assume un
onere finanziario condizionato al verificarsi di un dato evento futuro e incerto,

CONTRATTI DERIVATI Sono derivati perché il loro valore dipende da altre operazioni o altre variabili
sottostanti.
Oltre alla natura contrattuale, ci sono altri elementi distintivi rilevanti sotto il profilo della valutazione
economico-tecnico degli strumenti finanziari:

DURATA Definisce l’orizzonte temporale dello strumento finanziario (periodo di

impiego del capitale)

RIMBORSO DEL Può avvenire interamente, alla scadenza ultima, secondo piani di rimborso, a
CAPITALE quote di capitale costante, decrescenti o crescenti.

REMUNERAZIONE Assume la forma di tasso di interesse per i contratti di debito e di dividendo per
i titoli azionari. La misura della remunerazione può essere: fissa, indicizzata o
variabile cioè in funzione di determinate

cedole.

NEGOZIABILITÀ Alcuni strumenti sono scambiati in mercati organizzati, mentre altri non

sono oggetto di scambi attivi e vivaci

LIQUIDITA’ Indica la rapidità e l’economicità con cui l’impiego di capitale si trasforma in


moneta

FORMA GIURIDICA Gli strumenti finanziari possono essere divisi in titoli nominativi, quando sono
intestati al legittimo proprietario, e titoli al portatore quando viene

definito come legittimo proprietario il possessore del titolo.

3. I rischi finanziari
La gestione della banca, consiste nell’assunzione e nel controllo di rischi di carattere finanziario. Il rischio è
una fonte di pericolo ed è fortemente legato alla natura dell’attività e degli eventi che si considerano. Il rischio
è la probabilità che si verifichino eventi che producano danni.

Esistono due tipi di rischi: rischi puri e rischi speculativi.

I rischi puri, sono quelli che presentano solo uno scenario negativo (esempio subire una rapina).

I rischi speculativi , presentano la possibilità che l’evento produca sia un danno, sia un guadagno superiore di
quanto atteso.

I rischi tipici dell’attività di intermediazione sono rischi speculativi di natura finanziaria.

Tale attività ( di natura finanziaria) comporta l’assunzione di rischi:

- Rischio di credito e controparte: rappresenta il rischio che una variazione inattesa del merito
creditizio della controparte, del valore delle garanzie prestate o ancora dai margini da essa utilizzati.
Esso rappresenta la componente più importante del rischio complessivo dell’attività di
intermediazione, in conseguenza del peso che l’attività di finanziamento assume sul totale
dell’attività complessiva.

● Rischio di downgrading : fa parte del rischio di credito. Le esposizioni creditizie della banca
subiscono delle perdite quando il merito creditizio dei debitori abbia subito un
deterioramento.

● Altre tipologie di rischio di credito: rischio di concentrazione, ( esposizioni significative


verso singole controparti), il rischio paese (causato da eventi politivi, economici, sociali e
naturali che generano nel debitore l’incapacità di ripagare le proprie obbligazioni), il rischio
di recupero (in funzione dei tempi e dei valori di realizzo) e il rischio sovrano ( rischio di
insolvenza del governo centrale).

- Rischio di mercato: deriva dalla fluttuazione di valore degli strumenti negoziati sui mercati e sugli
strumenti finanziari il cui valore è collegato a variabili di mercato. Nei rischi di mercato fa parte: il
rischio di tasso di interesse🡪 (rischio di reinvestimento o rifinanziamento a condizioni di tasso
differenti tali da condizionare negativamente il margine di interesse della banca) e il rischio di
cambio🡪 posizioni in valuta estera che possono essere influenzate negativamente.

- Rischio di liquidità: consiste nella possibilità che l’impresa o la banca non riescano a far fronte ai
propri impegni di pagamento a causa dell’impossibilità di monetizzare facilmente posizioni in
attività finanziarie senza influenzare in maniera sfavorevole il prezzo.

- Rischio operativo: si tratta della possibilità di subire perdite che derivano dall’inadeguatezza o dalla
disfunzione di procedure di risorse umane o sistemi interni oppure da eventi esogeni. Ne fa parte il
rischio legale perdite derivanti da violazioni di leggi o regolamenti.

- Rischi di compliance e reputazionale: si tratta del rischio di incorrere in sanzioni civili,


amministrative o penali, di perdite operative e la possibilità di subire danni reputazionali legati a
violazione di norme interne o esterne.

Il presidio dei rischi si sostanzia in diversi momenti:

- La definizione delle strategie di gestione dei rischi.

- L’individuazione, la valutazione e il controllo dei vari rischi cui è sottoposta la banca.


- La verifica dell’adeguatezza dei sistemi di misurazione e gestione di tali rischi.
CHIEF RISK OFFICER (CRO)  dirigente decisamente di peso e molto importante, e risponde del suo
operato direttamente all’amministratore delegato

5.Il mondo del FinTech .

5.1 Definizione del fenomeno.

La diffusione delle tecnologie più complesse sta rapidamente trasformando la struttura stessa dell’industria
finanziaria. La digitalizzazione impatta infatti il business delle banche in due modi:

- Produce una potenziale riduzione dei costi e rende più efficienti alcuni processi attraverso una
sempre più spinta loro automazione.

- L’ingresso e l’evoluzione dei nuovi player tende a erodere alcune aree di business bancario.

Il FinTech non può definirsi un settore industriale predefinito e non rappresenta una nuova industria, bensì è
una nuova componente dell’industria finanziaria.

5.2 Gli attori e le aree di operatività.

Gli attori che caratterizzano l’arena competitiva del settore bancario:

- Incumbent : istituti bancari- finanziari- assicurativi tradizionali che offrono l’intera gamma di
servizi oggi anche attraverso una moltitudine di canali telematici.

- Digital banks: nuovi entranti con licenza bancaria di tipo mobile first e utilizzo di modelli di
business innovativi.

- Aziende FinTech: soggetti che con soluzioni tecnologiche a supporto di erogazione di servizi
finanziari realizzano servizi in competizione e\o collaborazione con quelli offerti dal settore
finanziario.
- BigTech : grandi player tecnologici che dispongono di una vera e propria potenza di fuoco in termini
di clienti, risorse finanziarie, know-how, capacità in ambito digitale e presentano un elevato
attivismo nei servizi di pagamento.

- Fornitori di servizi ICT: soggetti che offrono solo supporto dell’utilizzo e nello sviluppo della
tecnologia attraverso soluzioni software e applicative di nuova generazione con il fine di divenire
fornitori o partner delle banche.

Il fenomeno FinTech si è sviluppato da tempo sui mercati finanziari internazionali.


Il primo comparto è quello delle attività connesse al reperimento delle risorse finanziari sia a titolo di capitale
di rischio che a capitale di debito.

Si parla quindi di EQUITY BASED FINANCING

- Equity crowdfunding puro: include le piattaforme che funzionano da vetrina dei progetti di
investimento. Le società fintech forniscono una piattaforma sulla quale le società che hanno bisogno
di reperire fondi possono pubblicizzare la propria iniziativa e gli investitori retail possono acquisire
informazioni al fine di effettuare investimenti.

- Club Deal: trattasi di piattaforme che raccolgono fondi da investitori specificamente individuati. Un
secondo ambito in cui le società FinTech stanno sviluppando i propri servizi è quella relativa al debit
financing che include prestiti e acquisto di titoli di debito. Le due principali modalità sono:

- Lending crowfunding.

- Finanziamenti a breve termine tramite sconto fatture o credito commerciale.

Nel lending crowdfunding quasi sempre le FinTech che operano in questa area non erogano il proprio prestito
e l’innovazione consiste nella possibilità di far concludere direttamente un finanziamento tra soggetti terzi,
clienti della stessa piattaforma, realizzando una sorta di prestito collettivo.

Esistono alcune piattaforme di lending based financing che consentono ai loro clienti di ottenere credito
tramite sconto fatture pro solvendo o pro soluto.

Le attività connesse ai servizi di investimento svolte da FinTech si possono suddividere in:

- Attività di supporto al trading attraverso l’organizzazione di piattaforme e la fornitura di servizi


informativi.

- Attività di gestione finanziaria mediante l’offerta di servizi analoghi a piani di accumulo.

- Attività di servizi di Robo-Advisor e di consulenza finanziaria.

Attività di supporto al trading si tratta di fornitura di informazioni aggregate e rielaborate sui mercati
finanziari, oppure di offerte di trading comprese le più classiche attività di e-trading e quelle più nuove di
copy-trading. Nel caso di e-trading si tratta di interfacce di negoziazione che permettono agli investitori finali
di effettuare scambi di titoli sui mercati sulla base di accordi con il proprio provider.
Le piattaforme di copy-trading si differenziano perché aggiungono la possibilità per gli investitori di copiare
in maniera automatizzata le strategie di trading di altri operatori.

Il salvadanaio elettronico il cui servizio centrale consente tramite un’applicazione di accantonare un


ammontare di denaro per far fronte ad una spesa effettiva.

Il terzo servizio è quello relativo all’ambito della consulenza finanziaria, si tratta di piattaforme online che
sulla base di algoritmi di risk management e asset allocation, offrono agli investitori soluzioni precostruite e
portafogli più o meno personalizzati.

Esistono diversi modelli di Robo-Advisor:

- Modello puro in cui vi è l’automazione del servizio offerto in tutte le sue fasi.

- Modello ibrido che combina o alterna l’elemento umano e quello digitale in una o più fasi della
catena del valore.

- Modello noto come robo4advisor che pone gli strumenti automatizzati a supporto del consulente,
qualificandosi come B2B.
La diffusione del Robo-advisor può aumentare la fruibilità dei servizi di consulenza e la prestazione di
consulenza automatizzata può risultare inadeguata per alcune classi di investitori.

I servizi di pagamento, sono l’ambito di più intensa diffusione del fenomeno del FinTech e comprendono:

- Servizi di trasferimento di moneta.

- Soluzioni di pagamento. Come l’online banking, pagamenti tramite mobile o wearable. Il fenomeno del
Fintech si sta sviluppando nell’ambito dei servizi assicurativi e di previdenza complementare.

6. Per concludere…

Kodak moment evoca un’azienda cancellata dalle nuove tecnologie.

Il colpo di grazie che verrà dato alle banche sarà di piccole dimensioni. Le banche dovranno guardarsi
dall’assalto dei colossi della tecnologia come Google e Amazon. Le grandi banche stanno cercando di
rinnovare i propri modelli di business non solo per resistere ma anche per cavalcare l’onda dell’innovazione,
abbassare i costi e avvicinare i clienti Millennials.
CAPITOLO 15: Il diritto dei consumatori

1. Il diritto dei consumatori – o meglio dei consumi – come branca del sapere giuridico

“Diritto dei consumatori” e “diritto dei consumi” sono definizioni che non coincidono, la prima focalizza e
restringe la disciplina intorno a un soggetto determinato (la persona fisica che abbia la qualità di
consumatore) la seconda guarda alle dinamiche di consumo sul mercato.
Basare la disciplina sul solo profilo soggettivo ha mostrato dei limiti in termini di eccessiva rigidità verso
altre situazioni che meritano di essere tutelate. A conferma di questo, nel 2005 il legislatore ha emanato il
“Codice del Consumo” (fonte del diritto principale della materia) in cui è stato osservato che: “la sua
denominazione riflette una concezione oggettiva della materia regolata, che si contraddistingue per il fatto
che le disposizioni organicamente inserite in questo contenitore si riferiscono ad un atto economico, il
consumo, intorno al quale si intrecciano rapporti giuridici instaurati dagli individui, nelle loro vesti di
consumatori o imprenditori, o instaurati dalle loro rispettive associazioni”.

La disciplina consumeristica mira ad assicurare protezione al consumatore come espressione tipica di un


contraente debole nel rapporto (di consumo) che lo lega al contraente forte e che si sostanzia nell’affermare
l’esistenza di diritti economici del consumatore e nella predisposizione di un sistema di rimedi che
correggano gli squilibri che spesso accompagnano la conclusione e l’esecuzione del contratto tra
professionista e consumatore. Si tratta quindi di definire le regole del mercato più efficienti per garantire la
tutela della persona nel mercato e dal mercato. È perciò importante intervenire con strumenti di regolazione
pubblica e privata per impedire che chi opera sul mercato adotti condotte opportunistiche e predatorie a
danno del consumatore; di questo si occupano le Autorità amministrative indipendenti, in particolare
l’AGCM.

Il diritto dei consumatori appartiene all’area scientifica e normativa del diritto comune, pur presentando
regole speciali che se ne differenziano. È una branca del sapere giuridico a carattere interdisciplinare già
nella sua genesi, considerando che una categoria centrale della teoria microeconomica quale quella del
consumatore è divenuta categoria formante del diritto stesso. Oggi, alla microeconomia si accompagnano
altre discipline tra cui la sociologia e le neuroscienze. Oltre che essere interdisciplinare è forse ancor più
trasversale: attraversa il diritto pubblico, privato e il diritto dei settori regolati, in una sinergia che è propria
del diritto dell’economia.

2. Consumatori e mercato

Il diritto dei consumatori è Law in a Change Society: insegue il cambiamento e si adatta al nuovo contesto
cercando di bilanciare gli interessi in gioco in una logica funzionale al migliore equilibrio del mercato. La
necessaria relazione con il mercato è la prima rilevante caratteristica che connota il diritto dei consumatori.
Sembra evidente che politica della concorrenza e politica del consumatore si integrano necessariamente e la
tutela del consumatore non è più a servizio della tutela della concorrenza.

Il consumatore viene preso in considerazione nel momento dell’acquisto di un bene o di un servizio, ma


anche nella fase precedente e in quella successiva. Non conta solo l’atto negoziale, ma l’intera attività di
impresa o professionale diretta al consumatore, che lo vede coinvolto già in fase di marketing, poi nella fase
precontrattuale e successivamente alla conclusione del contratto. Si è passati dunque all’idea di consumatore
contraente debole in un rapporto contrattuale con un professionista all’idea di un soggetto dinamico del
mercato, un consum-attore capace di esercitare un ruolo attivo nella scelta di acquisto.
La tutela del consumatore non è solo tutela del singolo, ma garanzia di un’intera categoria della quale quel
singolo è esposto. Il consumatore, quindi, riceve tutela anche come portatore di interessi di categoria che
devono trovare adeguata protezione nel mercato. A conferma di ciò, con la disciplina delle pratiche
commerciali scorrette viene dato rilievo a una nuova nozione, quella del “consumatore medio” che non
rappresenta un soggetto reale, ma un soggetto virtuale attento e avveduto, un parametro di valutazione
dell’attitudine di una pratica scorretta ad alterare la capacità di scelta di una categoria di consumatori
destinatari di tale pratica.

La progressiva presa di coscienza del fatto che, le scelte negoziali delle persone sono il risultato di errori
cognitivi frutto dell’irrazionalità che accompagna la decisione e che non è sufficiente dare informazioni per
superare questa condizione di asimmetria (se poi il consumatore non è capace di valutare correttamente i
rischi), ha inciso anche sulle scelte del legislatore, specie nei settori in cui il consumatore è più facilmente
influenzabile (esempio contratti di investimento). Si deve, dunque, tenere conto anche del “consumatore
irrazionale”.

3. La rilevanza del contesto

Negli anni più recenti si è assistito a una serie di mutamenti sociali ed economici che hanno dato al mercato
una fisionomia diversa dal passato, per l’avvento delle nuove tecnologie, del digitale, per il susseguirsi di
crisi economiche, ambientali, sanitarie, per la globalizzazione che si è spinta a tal punto in avanti da rendere
necessari interventi a tutela della sovranità degli Stati anche per assicurare protezioni ai consumatori, NEW
ECONOMY. Il diritto dei consumatori presuppone un’economia di mercato in cui, a monte, la scelta dei
consumatori è garantita dal regime di concorrenza e dalla possibilità per il consumatore di accedere a tutte le
informazioni utili e necessarie per l’acquisto e, a valle, da meccanismi di enforcement che garantiscano il
rispetto delle regole poste a tutela dei consumatori.

I nuovi mercanti e i nuovi intermediari hanno assunto una posizione di vantaggio competitivo tale da
assumere il ruolo di gatekeepers del mercato e condizionare anche i consumatori che dipendono dai servizi
forniti da questi operatori ; dall’altro lato le stesse imprese vanificano ogni sforzo di enforcement sfuggendo
dalla regolazione esistente che era pensata per un’economia reale.

Vi sono le imprese emergenti che creano piattaforme tecnologiche e le gestiscono senza entrare nel merito
delle transazioni che si effettuano, vi sono imprese che invece gestiscono e operano esclusivamente nel
mercato digitale e vi sono, infine, imprese tradizionali che si avvalgono di questi nuovi canali commerciali in
maniera integrativa dei normali sistemi di commercializzazione dei prodotti e dei servizi.

La libera scelta del consumatore consapevole resta il valore da tutelare, ma la transazione vede spesso il
consumatore come prodotto, specie quando il servizio sembra non prevedere una controprestazione.

Un obiettivo prioritario è tutelare il consumatore utente dai cosiddetti algoritmi di profilazione che utilizzano
i dati resi disponibili dagli stessi utenti sul web per costruire intorno a ciascuno il proprio mercato di
riferimento. Il ruolo degli utenti rappresenta il baricentro dello sviluppo delle nuove tecnologie in quanto i
servizi saranno designati e sviluppati sulle loro esigenze.

Anche l’intelligenza artificiale sfida il legislatore , che riconosce in essa una grande opportunità per i
consumatori ma deve individuare un modo per governarne i rischi, sia per quel che concerne l’uso dei dati
sia perché può rivelarsi pericolosa per la salute dei consumatori.

La Commissione Europea interviene in questo senso creando uno spazio digitale più sicuro per i
consumatori, in cui i loro diritti siano tutelati, e garantire condizioni di parità che consentano all’innovazione
di fornire servizi più nuovi e migliori a tutti i cittadini. È stato approvato il Digital Services Act, che mira a
definire nuove maggiori responsabilità delle piattaforme online e vuole garantire che i consumatori siano
protetti in modo efficace contro i prodotti, i contenuti e le attività illegali sulle piattaforme online così come
lo sono offline.

Il consumatore di oggi spesso lascia il versante della domanda e si colloca su quello dell’offerta sul mercato,
utilizzando le possibilità date dalle piattaforme digitali. Prosumer, indica la partecipazione del consumatore
al processo produttivo che fa sfumare la distinzione tra produttore e consumatore su cui si fonda il diritto dei
consumatori. Condividendo le loro esperienze e le loro risorse attraverso l’utilizzo di piattaforme
tecnologiche, gli utenti stessi generano autonomamente nuovi servizi che vanno ad aggiungersi a quelli
offerti sul mercato tradizionale e che competono con essi.

In pochi anni siamo dunque passati da un’economia tradizionale, alla New Economy, alla Social Economy e
ora alla Digital Economy.

4. I limiti della nozione di consumatore

La nozione di consumatore scelta dal legislatore e ribadita dalla Corte di giustizia afferma la tesi secondo la
quale ”consumatore” è da qualificarsi unicamente come la persona fisica che agisce per il soddisfacimento di
esigenze di natura personale o familiare. Viene, dunque, ad essere utilizzato un parametro oggettivo che tiene
conto della natura e delle finalità obiettive dell’atto e dei beni negoziati, senza dare rilievo all’intenzione
soggettiva del contraente e ai motivi che lo hanno indotto a stipulare, al contesto di mercato in cui il soggetto
agisce. Partendo dai limiti della nozione di consumatore, vi è chi ha proposto di superare la categoria del
contratto dei consumatori a favore della figura del contratto asimmetrico: secondo cui il bisogno di
protezione del cliente sta principalmente nel fatto che il cliente è un outsider rispetto alla prestazione
caratteristica; così dal consumatore si passa al cliente, destinatario di una prestazione caratteristica fornita da
un professionista, indipendentemente dalla sua qualità di consumatore. Questi tentativi volti a superare le
strettoie che si legano alla definizione di consumatore mettono in evidenza che esiste un’esigenza di
avvalersi di strumenti e tecniche di tutela previste per i consumatori anche per i soggetti diversi dal
consumatore in senso stretto.

La Corte di giustizia ha aperto recentemente uno spiraglio ad un allargamento di vedute offrendo


un’interpretazione teologica della nozione “consumatore” che copre anche il condominio, benché
nell’ordinamento italiano non sia qualificabile come persona fisica.

Si è poi parlato di una “frantumazione” della nozione di consumatore, intesa nella definizione di diritto
positivo come relativa a colui che utilizza o acquista per soddisfare esigenze della vita privata un bene o un
servizio. Il consumatore si è infatti “frazionato” in figure diverse la cui tutela è garantita dall’operatività di
silos normativi verticali, che disciplinano per settore di attività le regole di condotta dell’impresa nei rapporti
con il consumatore.

Nel contesto dei mercati finanziari i consumatori sono fruitori di servizi per loro natura complessi, per i quali
assumere una “scelta consapevole” può diventare molto difficile. Si deve a questo particolare ambito del
diritto dell’economia, l’elaborazione delle categorie più efficaci e innovative del diritto dei consumatori: la
trasparenze. Il consumatore viene indicato con specificazioni quali, ad esempio, l’investitore retail o il
risparmiatore – consumatore che trovano una protezione rafforzata rispetto alla clientela professionale o
istituzionale. Recentemente è entrato in crisi il metodo di emanare “per silos verticali” perché ha dato luogo
ad un complesso intreccio di fonti nazionali e sovranazionali, che hanno portato a registrare nel nostro
ordinamento la compresenza di diverse serie normative, che convergono a disciplinare la posizione dei
clienti in maniera frantumata e con gradi di tutela differenziata. I limiti dell’attuale modello di regolazione
mostra le difficoltà in cui è incorsa la regolazione per silos verticali che disciplina l’attività in base ai
soggetti, con overlapping tra le regole che rendono meno efficienti le tutele di cui approfittano gli operatori
per utilizzare le regole a proprio favore.
5. Individualismo e solidarietà del consumatore

Crisi economica prima e crisi pandemica ora, pur avendo natura diversa, hanno entrambe profondamente
inciso sulle dinamiche dei consumatori, rendendoli ancora più vulnerabili e legittimando istanze di tutela
diverse a cui il legislatore europeo e domestico hanno tentato di rispondere. Tra queste istanze assumono un
certo rilievo quelle relative al consumatore sostenibile. Oggi il consumatore è inserito in un nuovo percorso,
in cui non è visto solo come parte debole nel rapporto con un contraente forte, ma anche come stakeholder
che ha l’interesse ad un’economia sostenibile green, social e digital.

Decarbonizzazione ed economia circolare ne costituiscono esempi, ma non sono i soli: smart cities e
tecnologie smart e servizio dell’ambiente e della salute, delle disabilità, politiche inclusive dell’impresa,
responsabilità nella catena di fornitura, cybersecurity, tutela dei minori online, privacy.

Il legislatore è perciò chiamato a tutelare il consumatore impegnato in questa nuova sfida, ma anche a
responsabilizzarlo per renderlo proattivo nella transizione. L’obiettivo è un’economia solidale necessaria in
cui si instauri un rapporto di cooperazione tra istituzioni, imprese e consumatori.

In qualche misura si può ritenere che il passaggio dall’individualismo del consumatore alla solidarietà
economica e sociale consenta di ravvisare un ulteriore fondamento costituzionale alla tutela del consumatore,
che spinge a guardare al consumatore Persona alla luce dell’art.2 della Costituzione. Ci sono stati diversi
tentativi volti a individuare un diretto fondamento soggettivo della posizione del consumatore, che ruotano
intorno all’art.2 e all’art.41, comma 2 della Costituzione. Oppure, in considerazione dell’espresso
riconoscimento di alcuni diritti, si richiama l’art.32 (salute) o l’art.47 (tutela del risparmio). “L’essere
consumatore è una dimensione della persona, e che promuovendo la tutela del consumatore si promuove la
tutela della persona, cioè la sua salute, la sua sfera privata, il suo patrimonio ed estendendo la tutela anche
agli aspetti processuali con l’individuazione di rimedi ad hoc”.

Il diritto dei consumatori è posto a presidio degli interessi economici dei consumatori ma anche dei diritti
fondamentali delle persone, per la loro qualità di consumatori e di cittadini europei, le regole di protezione
del consumatore dipendono dal contesto in cui egli agisce e l’intervento di tutela deve essere ispirato a
principi di proporzionalità delle regole ed effettività delle tutele.

6. L’evoluzione del diritto dei consumatori

Per comprendere dall’interno i meccanismi scelti per assicurare la tutela dei consumatori è utile distinguere
le diverse fasi in cui si è evoluto il diritto dei consumatori.

Negli anni 90 del secolo scorso, il legislatore ha messo in discussione uno dei principali capisaldi del diritto
privato: “tradizionalmente pensato e rappresentato come un sistema di regole destinate – in ciò diversamente
dal diritto pubblico – a soggetti equiordinati, che si avvale di tecniche di tutela che vogliono essere
allocativamente neutrali”. Con la tutela del “contraente debole”, si è assistito ad una “rivoluzione
copernicana”: per la prima volta, in sede comunitaria, con la direttiva 93/13 Cee, sono state approvate regole
che incidono sulla disciplina generale del contratto basandosi sulla qualità dei contraenti. Vengono così in
gioco le fondamentali nozioni intorno alle quali ruota l’intera materia: quella di consumatore e di
professionista.

Nel Codice del Consumo il consumatore è definito all’art.3 come “la persona fisica che agisce per scopi
estranei alla propria attività imprenditoriale, commerciale, professionale”. Questa definizione è all’origine
di quasi tutti i problemi interpretativi e giurisprudenziali che sono sorti in questa materia. In parte ciò dal
fatto che la nozione ha un’origine più sociologica ed economica che strettamente giuridica non essendoci
alcuna tradizione in tal senso, ma dal presupposto di regole diverse pensate a protezione del soggetto che
agisce per scopi non professionali ha creato una prima forte frattura con il diritto privato tradizionale, e,
dunque, con la stessa logica che caratterizza il codice civile, facendo entrare con forza l’idea di giustizia
dello scambio.

Viene introdotta la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti conclusi tra consumatori e professionisti,
con una direttiva di carattere orizzontale e gli strumenti per attuarla sono la trasparenza e chiarezza. La tutela
del consumatore consiste nel derogare al regime ordinario della nullità del contratto a favore della nullità di
protezione, la cui norma di riferimento è oggi l’art.36 del Codice del Consumo; nel derogare alla regola di
forma, introducendo la figura della forma di protezione, nel prevedere la tutela inibitoria che vieta, l’utilizzo
di clausole di cui sia accertata la vessatorietà. Sono state emanate, sempre in questo periodo, altre direttive
europee su aspetti specifici, su viaggi e vacanze, sui contratti a distanza, sui contratti fuori dai locali
commerciali, sulla multiproprietà. Questa regolamentazione ha creato alcune difficoltà di carattere
sistematico agli interpreti, dando luogo a un fenomeno di ipertrofia della legislazione, che ha generato
problemi costringendo l’interprete a interrogarsi sulla possibilità di applicare in via analogica o estensiva
regole contenute in fonti diverse.

Con il passaggio dall’atto all'attività le regole non sono più solo dirette ad incidere sull’atto, ma sui
comportamenti dei professionisti adottati prima, durante e dopo un’operazione commerciale. Per la prima
volta si è provveduto a dare una regolamentazione volta a contrastare le pratiche commerciali scorrette,
quelle pratiche commerciali realizzate da un professionista mediante una condotta ingannevole o aggressiva
contraria alla diligenza professionale e tali da indurre un consumatore medio – soggetto normalmente
avveduto e ragionevolmente informato – ad assumere una decisione di carattere commerciale che altrimenti
non avrebbe mai preso. L’obiettivo è di rafforzare la correttezza del mercato e la tutela è affidata dal
legislatore, soprattutto all’AGCM che accerta l’esistenza di una pratica scorretta e utilizza rimedi di public
enforcement, potendo sanzionare l’impresa ogni qualvolta ne riscontri necessità.

Gli strumenti possono essere individuati nella tutela dell’informazione corretta e adeguata , nel ricorso a
clausole generali e a regole di condotta, nella valorizzazione dell’autodisciplina, nel rafforzamento del ruolo
delle Authorities.Non basta quindi correggere l’asimmetria nel mercato, occorre educare le imprese ad agire
correttamente sul mercato.

Consumer’s Rights Ha particolare rilievo sistematico perché torna ad occuparsi del contratto tra
professionista e consumatore ma in una prospettiva diversa, volta a dare fiducia al consumatore nel rapporto
con l’impresa – e numerosi interventi settoriali che riguardano particolari rapporti di consumo, ad esempio
relativi alla disciplina del credito al consumo. Gli strumenti e i rimedi sono diversi ma in ogni
provvedimento si rafforza il diritto all’informazione e alla trasparenza e il diritto di recesso, che consente
l’exit del consumatore dal rapporto di consumo. Il public enforcement diventa un rimedio imprescindibile e
con esso il ruolo assunto dalle Authorities in particolare quello svolto dall’AGCM a cui è stato affidato anche
il controllo amministrativo sulle clausole vessatorie previsto dall’art.37 bis del Codice del Consumo.

Il legislatore europeo ha avvertito l’esigenza di rivisitare alcuni aspetti della disciplina consumeristica,
rimettendo al centro il contratto del consumatore e prendendo atto del fatto che il commercio elettronico e i
contratti a distanza hanno assunto una dimensione tale da richiedere un adeguamento della disciplina alla
realtà.

Nel 2018 perciò il legislatore europeo ha approvato il “New Deal”, un progetto ambizioso che ha come
obiettivo quello di modernizzare le norme esistenti e colmare le lacune nell’acquis dei consumatori. Si tratta
di diverse riforme di dettaglio, ma che da esse discendono modifiche di principio all’impianto normativo
esistente.

Ad avviso della dottrina si assiste ad una “crisi involutiva particolarmente grave” della produzione
normativa in materia consumeristica “laddove per contro sul fronte giurisprudenziale prosegue con sempre
maggiore incisività il lavoro di integrazione dei testi delle direttive svolto dalla Corte di giustizia nei
procedimenti instaurati per risolvere le questioni pregiudiziali ad essa sottoposta dai giudici nazionali”.

Il ruolo della Corte di giustizia è volto ad assicurare la massima uniformità nell’interpretazione e


applicazione delle regole di tutela del consumatore in quanto cittadino europeo e il miglior adattamento della
stessa al caso concreto. Ulteriore compito svolto dalla Corte è quello di integrare il diritto europeo ove
necessario e di dare di esso un’interpretazione evolutiva quando necessario. Oltre che al principio di
proporzionalità, la CGUE (corte di giustizia dell’Unione Europea) fa ricorso anche a quello di effettività, che
orienta il giudice alla ricerca del rimedio più adeguato alla reintegrazione dell’interesse leso e giuridicamente
protetto, e nel diritto europeo, si declina nel senso che le norme applicabili non devono rendere praticamente
impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.

La fase attuale, infine, è caratterizzata, da un lato, da un incisivo ruolo della Corte di giustizia che rende
effettivo il diritto europeo dei consumatori , al punto da riconoscergli un’efficacia extraterritoriale – e
dall’altro lato, da un approccio olistico ai temi consumeristici adottato dalla Commissione europea. Intorno
al consumatore ruotano i temi della sostenibilità sociale, ambientale ed economica e delle nuove tecnologie.

Individuate, quindi, le diverse fasi del diritto dei consumatori, è più facile comprendere come possano
coesistere in una materia intimamente connessa con l’andamento dell’economia scelte di regolazione così
diverse tra loro, risultato di una combinazione continua di strumenti di diritto pubblico e di diritto privato, di
scelte politiche legate al mercato secondo un metodo di regolazione che ormai è di tutti i sistemi giuridici.

7. Il codice del consumo

Le fonti del diritto dei consumatori sono perlopiù di matrice europea.


Nel rapporto tra diritto dell’Unione Europea e diritto interno, l’Italia attua in questa materia, le indicazione
dell’UE e, per l’effetto rinuncia alla tecnica legislativa che ha contraddistinto tutta la legislazione del 900,
operando all’interno di una cornice fissata dalla legislazione europea che nel tempo diviene sempre più rigida
passando in molti interventi da un sistema “aperto” di tutela a un sistema “chiuso”.
Questo sforzo di uniformazione della legislazione dei Paesi membri risolve, in parte, il problema del rischio
di disparità di trattamento tra consumatori derivante da legislazioni disomogenee.
Il legislatore interno non ha poi semplificato il lavoro dell’interprete nel momento in cui è stato chiamato a
recepire il diritto dell’unione in materia consumeristica, ma ha dato segnali contraddittori. Da un lato ha dato
vita al fenomeno noto come decodificazione. Dall’altro lato però quando si è trattato di recepire la direttiva
93/13/Cee la scelta è ricaduta, sul Codice civile.
E’ stato anche dedicato nel 1996, un capo autonomo (XIV bis) al contratto tra professionisti e consumatori, a
distanza di anni si è avvertita l’esigenza di accorpare e ricomporre tutte le regole sparse nel sistema, in modo
da guidare l’interprete tra le tante regole vigenti.
La via intrapresa è stata quella della ricodificazione, lo strumento quello del codice di settore.
Il rapporta tra Codice civile e Codice del consumo non deve essere immaginato tuttavia come quello di due
monadi che non dialogano, non vi è dubbio infatti, che, si possa affermare una continuità tra principi
ordinanti il Codice civile e le regole caratterizzanti la disciplina di protezione dei consumatori, ne è prova
l’uso della clausole generali, cui il legislatore ricorre con assiduità.
Nonostante i continui interventi sul codice del consumo per renderlo adeguato alle nuove esigenze del
mercato, l’impressione è che la vera utilità che da esso si possa ancora trarre non sta tanto nel quadro delle
regole che esso fornisce ma nell’insieme dei principi e che ancora sembrano in grado di orientare l’interprete
nell’applicazione del diritto.

8) Regola di tutela a carattere orizzontale. L’educazione del consumatore


Si possono distinguere due piani: il primo, individua le regole di condotta (le regole del gioco che devono
essere osservate nel rapporto con i consumatori); il secondo riguarda l’Enforcement delle
regole stesse.
Il diritto dell’educazione costituisce un tassello fondamentale per la tutela dei consumatori, il legislatore,
rispetto al passato, ritiene imprescindibile procedere prima alla formazione e all’educazione del consumatore
e poi alla sua tutela (L’art 4 del Codice del Consumo precisa che l’educazione dei consumatori deve essere
orientata a favorire la consapevolezza dei loro diritti e interessi.)
L’educazione costituisce dunque un << antecedente essenziale ai fini dell’acquisizione, da parte dei
consumatori e degli utenti, di una piena consapevolezza dei loro diritti e interessi e di basi cognitive adeguate
a consentire loro di governare i processi valutativi e decisionali avviati ai fini della soddisfazione dei propri
bisogni>>.
L’educazione al consumo non può essere affermata in astratto, ma va considerata come un obiettivo e
strumento per garantire la consapevolezza del consumatore in relazione al contesto in cui agisce. Si deve
provvedere all’alfabetizzazione del consumatore sin da bambino e accompagnarlo, per tutto il percorso di
vita consentendogli di compiere le scelte per sé più adeguate sul mercato.

8.1) Segue. L’informazione al consumatore

Sul versante delle regole di condotta viene invece in rilievo, l’informazione, che costituisce da sempre il
“cavallo di battaglia” delle istituzioni europee imponendo l’obbligo di informare il consumatore per
correggere le asimmetrie contrattuali, specialmente nelle discipline di settore.
L’articolo 5, comma 3, del Codice del Consumo stabilisce il contenuto minimo degli obblighi generali di
informazione dovuti ai consumatori prevedendo che le informazioni devono essere “adeguate alla tecnica di
comunicazione impiegata ad espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto anche conto delle modalità di
conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza
dell’informazione”.
L’informazione si lega alla trasparenza del testo, alla chiarezza del contenuto, ma non si esaurisce in questo
che, attiene alle modalità con cui l’informazione deve essere fornita. L’obiettivo resta la consapevolezza del
consumatore circa gli effetti economici e giuridici dell’atto che compie, anche per rendere il mercato
efficiente e dinamico sotto il profilo commerciale. L’informazione è strumento trasversale di tutela del
consumatore, sull’informazione corretta e adeguata rispetto al consumatore medio si regge la filosofia delle
pratiche commerciali scorrette, dato che è ingannevole la pratica commerciale che contiene informazioni non
corrispondenti al vero o che omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per
prendere una decisione consapevole. L’informazione al consumatore è poi il perno su cui ha ruotato anche la
direttiva Consumer’s Rights e di conseguenza gli articoli 48 e 49 del codice Consumo, che stabiliscono il
contenuto delle informazioni precontrattuali per i consumatori nei contratti diversi dai contratti a distanza o
dai contratti negoziati fuori dai locali commerciali. Oggi con il New Deal si riporta al centro il ruolo
dell’informazione rispetto al contratto in almeno due sensi: quale complesso di obblighi volto a consentire
alla parte debole una scelta consapevole (info per il contratto); quale contenuto necessario nell’assetto di
interessi (info nel contratto). Il che appare particolarmente rilevante nelle operazioni le cui modalità di
svolgimento non consentono al consumatore una sufficiente ponderazione del profilo soggettivo e oggettivo
dell’affare.

8.2) Segue: La Trasparenza


Su un piano diverso si pone la disciplina sulla trasparenza, in particolare, la trasparenza bancaria che
rappresenta il cuore pulsante della normativa sui contratti e prodotti bancari. Sul rispetto degli obblighi di
informazione e sul dovere di trasparenza e correttezza si regge infatti la relazione tra banca e cliente. La
disciplina sulla trasparenza presuppone che le relazioni d’affari siano improntate a criteri di buona fede e
correttezza, si affianca inoltre alle disposizioni previste da altri comparti dell’ordinamento in materia di
trasparenza e correttezza dei comportamenti nei confronti della clientela. Vengono in rilievo, ad esempio, le
norme concernenti la distribuzione di prodotti di altri settori (mobiliare, assicurativo, ecc), la pubblicità
ingannevole e le pratiche commerciali scorrette.

9) Enforcement

Venendo ora al piano dell’enforcement, una ricognizione delle fonti del diritto dei consumatori consente di
individuare alcuni rimedi e tutele che connotano la materia e dimostrano una forza espansiva capace di
andare al di là della disciplina di settore che li prevede. La scelta di optare tra le tecniche di deterrenza del
diritto privato o quelle del diritto pubblico è retta dal criterio di effettività, il decisore pubblico deve valutare
in relazione alle caratteristiche dell’illecito e alla funzione dei rimedi. L’enforcement privatistico è sempre
più affidato a meccanismi diversi da quello della tutela giurisdizionale individuale e successiva, al quale
rimane la competenza sui contratti stipulati tra professionista e contraente finale e sui risarcimenti del danno
dovuti ai consumatori, oltre che sulla class action (di cui si occuperà il tribunale delle imprese).
Tra i rimedi individuali, rilevanza sistematica centrale, anche se residuale, dal punto di vista pratico
assumono le nullità di protezione, il legislatore reagisce all’asimmetria comminando la nullità del contratto,
ma derogando alla disciplina del Codice civile così da adottare le regole sulla legittimazione all’azione, sulla
nullità parziale e alle nuove esigenze di protezione ritenute meritevoli di tutela.
Centrale è anche l’istituto del recesso del consumatore, della cui valenza rimediale si dubita in dottrina. Il
recesso “di protezione” è figura diversa da quella del recesso per giusta causa o giustificato motivo
disciplinato dal Codice civile; è un recesso di pentimento che è consentito al consumatore al ricorrere di certi
presupposti.
L’enforcement pubblicistico è affidato alle autorità amministrative indipendenti che svolgono una tutela
preventiva ma che hanno anche dei poteri di intervento successivi. Si è consolidato un sistema
amministrativo di tutela del consumatore, che appare idoneo a fornire una garanzia più elevata ed efficace
dei suoi interessi ( Autorità che ha competenza generale e trasversale sui consumatori è l’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato, ma ciò non esclude che anche altre autorità che vigilano su settori verticali
come Agcom, Arera, Consob possano essere chiamate a garantire la protezione sui consumatori.

10) Conclusioni: l’ecosistema dei consumi.

In conclusione, esiste un “sistema” del diritto dei consumatori? La risposta è sì, se si rinuncia alla concezione
del “sistema” formale del diritto, basato sul binomio regola-sanzione( rinunciando alla concezione
formalistica del diritto e adottando una concezione più realista dell’ordine giuridico del mercato.) Il modello
possibile di “sistema” giuridico è allora un insieme di elementi diversi dove il collante è dato dalle scelte
politiche, sociali ed economiche operate dall’UE.
Forse, più ancora che di sistema del diritto dei consumi è preferibile parlare di ecosistema europeo in cui
vive il consumatore che dopo brexit, torna ad avere come riferimento il diritto continentale, questo
ecosistema è connotato dalla presenza di regole che rispondono a principi quali quello di proporzionalità e
sussidiarietà.
Oggi, il sistema è dato da regole e principi che sono espressi dall’UE e sono enforced dalle Corti di giustizia,
deputati a fare rispettare le regole del mercato a tutela dello stesso e dei consumatori.
Questi principi concorrono a creare il “sistema”, dal momento in cui assicurano che il comportamento dei
destinatari converga verso i principi che sono fissati dall’UE a tutela della concorrenza e del mercato.
Se tutto ciò che è stato detto risulta vero, si può riconoscere proprio nel principio di sussidiarietà il principio
ispiratore di questo sistema, quanto più possibile infatti, l’ordinamento dello Stato arretra e lascia spazio ai
privati consentendo loro, di selezionare le best practices che si affermano nei diversi settori dell’attività,
attuando meglio di qualunque regolazione imposta l’obiettivo di uniformità delle regole del mercato. Queste
best practices diventano benchmarks grazie all’azione delle autorità indipendenti, le quali trasformano le
regole private in regole pubbliche, che vengono poi applicate dal mercato in quanto vincolanti ( percorso
definito “circolo regolatorio”). Questa evoluzione consente di comprendere come regolazione privata (auto-
regolazione) e pubblica ( co-regolazione, intesa come trasformazione della regolazione privata in standards e
poi benchmarks, da parte delle autorità di regolazione) siano vasi comunicanti, e come la loro operatività sia
regolata dal principio di sussidiarietà: la regolazione pubblica interviene in caso di inefficacia o assenza di
quella privata.
L’enforcement opera su piani diversi da quelli tradizionali . Viene in gioco, in primo luogo, la reputazione
dell’impresa o del professionista ma non solo.
La medesima autoregolamentazione può prevedere meccanismi sanzionatori per chi non rispetta le regole del
gioco, infine, L’AGCM valuta la condotta dell’impresa.
CAPITOLO 16: La finanza comportamentale

(Sara Peluso)

1. Introduzione alla finanza comportamentale

Negli ultimi anni, l’homo oeconomicus è stato spogliato dei suoi tratti freddi e razionali, caratteristiche a lui
attribuite finora dalle scienze economiche, nonostante i copiosi esempi di irrazionalità (es. crisi del ’29).

La FINANZA TRADIZIONALE, fino a 40 anni fa, ha quindi considerato la figura dell’homo oeconomicus
come un individuo perfettamente razionale ed improntato all’efficienza.

Il paradigma sotteso alla finanza tradizionale, ha sempre cercato di comprendere i mercati finanziari a partire
da modelli in cui gli agenti fossero “razionali”. La razionalità implica che:

● Gli agenti modifichino le proprie convinzioni in seguito alla ricezione di nuove informazioni in base
alla legge di Bayes;

● Gli agenti, sulla base delle loro convinzioni, facciano scelte normativamente accettabili, ossia
rispondenti alle logiche della teoria soggettivista di Savage della maggior utilità attesa.

È un impianto semplice e pratico, tuttavia le sue previsioni sono state smentite dai dati empirici, questo
perché è diventato chiaro che le dinamiche finanziarie non si prestano ad essere incasellate nelle logiche
della razionalità pura e semplice.

In risposta alle difficoltà riscontrate, è nato l’approccio della FINANZA COMPORTAMENTALE, secondo
cui alcuni fenomeni finanziari possono essere compresi meglio utilizzando modelli in cui gli agenti non sono
completamente razionali. Sostanzialmente, la finanza comportamentale parte dal presupposto che l’uomo sia
un animale più complesso di quello descritto dalla scienza economica e che, lungi dall’essere un animale
perfettamente razionale, prende le sue decisioni in ambito economico-finanziario utilizzando l’istinto,
lasciandosi guidare da pulsioni ben lontane dal calcolo razionale. La finanza comportamentale quindi attinge
le sue chiavi di lettura non solo dall’economia, ma anche dalle scienze cognitive.

Ai giorni nostri, le nuove tecnologie hanno accorciato la distanza fra individui e operatori finanziari,
consentendo a chiunque di acquistare e sottoscrivere prodotti finanziari in via autonoma. Tuttavia, questo
processo di democratizzazione della finanza promosso a livello europeo, per incrementare la competitività e
l’innovazione, non si è accompagnato a un percorso di educazione finanziaria adeguata per il bacino di
utenza.

La finanza comportamentale quindi, riprendendo Tahler, ci dice che oggi bisogna leggere e interpretare i
fenomeni economico-finanziari, senza però perdere di vista i tratti umani che influenzano le decisioni
individuali e gli esiti del mercato.

2. Genesi della disciplina

La finanza comportamentale è una branca della scienza economica che definisce quegli studi economici tesi
a indagare i comportamenti dei mercati finanziari secondo i principi della psicologia cognitiva, quindi
tenendo conto delle dinamiche comportamentali individuali e sociali. E’ quindi una chiave di lettura che
punta a fornire un’immagine più umana e realistica dei comportamenti degli individui sui mercati finanziari.

I precursori della finanza comportamentale sono:


▪ ADAM SMITH: il padre del liberismo economico, con la Teoria dei sentimenti morali (1759), mette
in risalto il ruolo delle passioni represse, le quali guidano le scelte e le azioni dell’individuo. Queste
passioni infatti, tendono ad accumularsi all’interno dell’individuo, fino a manifestarsi anche al di
fuori dell’ambito di origine, dunque anche in ambito economico-finanziario.

▪ JEREMY BENTHAM: con la Teoria economica dell’utilitarismo, espone l’idea secondo la quale gli
individui assumano decisioni tese alla massimizzazione dell’utilità sociale, stabilendo che cosa è
giusto o sbagliato secondo i possibili esiti, positivi o negativi. Secondo Bentham quindi, la capacità
di giudizio di un individui è influenzata dalle conseguenze e dal contesto dell’agire dell’individuo.

▪ JOHN MILL: seguace di Bentham, in Principi di economia politica, introduce l’uso del metodo
deduttivo nella teoria economica, dicendo che le teorie sottostanti ai fenomeni economici siano in
realtà il frutto di deduzioni, a loro volta derivanti da regole ritenute affidabili dagli individui. Queste
ultime inoltre possono essere insegnate e consolidate tramite l’educazione.

▪ PARETO: ritiene che raramente l’individuo sia in grado di operare affidandosi esclusivamente alla
razionalità, anche in campo economico.

▪ WILLIAM JEVONS: con la Teoria dell’economia politica pone enfasi sulle scelte individuali,
laddove definisce l’utilità come una realtà psichica, ossia una relazione astratta tra oggetto e
individuo in base alla quale, ciascun oggetto assume una diversa utilità per ciascun individuo.
🡪carattere soggettivo

Secondo Jevons inoltre, l’utilità decresce all’aumentare della quantità disponibile di un determinato bene,
fino a definire un grado finale di utilità (soddisfazione data dal consumo).

▪ MARKOWITZ: la Modern Portfolio Theory, occupandosi delle scelte effettuate in condizioni di


incertezza mediante il modello della media-varianza per la selezione dei titoli di portafoglio, ha
posto l’attenzione sul rapporto rischio-rendimento, superando l’assioma classico che l’obiettivo
principale dell’investitore fosse massimizzare il rendimento, focalizzandosi sull’attitudine stessa
dell’investitore

nei confronti del rischio.


Markowitz è giunto a postulare che:

Minore propensione al rischio 🡪investitore preferirà un portafoglio più sicuro, a medio-basso rendimento.
Maggiore propensione al rischio🡪investitore preferirà un portafoglio meno sicuro, con un elevato
rendimento.

▪ SIMON: mette a fuoco la razionalità limitata degli individui, individuando quei fattori che
intervengono nei processi di scelta, come ad esempio i limiti cognitivi individuali, l’incertezza e le
tempistiche situazionali.

Il modello economico di Simon si basa su assunti irrealistici ed ha un’applicazione complessa, cionondimeno


è un contributo che ha messo in luce il fatto che la maggior parte delle scelte economiche, non avvengono in
condizioni di certezza e di piena razionalità, bensì sono soggette all’utilizzo delle euristiche: scorciatoie di
pensiero, che fanno risparmiare risorse ed energie cognitive all’individuo.

▪ VON NEUMANN e MORGERNSTEIN: hanno sostenuto che l’agire degli individui sia governato
da una predisposizione naturale ad avvalersi di modelli comportamentali predeterminati per giungere
alla maggior ricchezza possibile
Anni Sessanta – nasce la psicologia cognitiva e alcuni studiosi hanno iniziato a mostrare le incongruenze tra i
loro modelli cognitivi del processo decisionale e gli assunti dei modelli economici sul comportamento
razionale.

In particolare, KAHNEMAN e TVERSKY, considerati padri fondatori della finanza comportamentale,


hanno dimostrato come i processi decisionali degli individui violino il principio della perfetta razionalità. Per
farlo, si sono serviti delle tecniche di psicologia cognitiva, mettendo così in luce l’uso delle euristiche dettate
dalle emozioni e dalle esperienze passate, che di fatto inducono gli individui a distorsioni percettive.

La loro Teoria del prospetto descrive come le scelte individuali siano in realtà il risultato delle prospettive di
partenza assunte dagli individui, e tali prospettive definiscono il valore dell’oggetto di scelta per ciascun
individuo secondo una massimizzazione della funziona del valore.

Sullo stesso corpus concettuale troviamo THALER con la Teoria del mental accounting, la quale descrive il
funzionamento dei processi decisionali rapportandolo al funzionamento dei sistemi economici di contabilità:
le scelte vengono effettuate in termini di guadagno o perdita e gli individui assegnano un determinato budget
a ogni finalità, distribuendo in categorie la ricchezza e il reddito.

E tanti altri hanno contribuito…

Il processo di istituzionalizzazione della teoria della finanza comportamentale è stato favorito man mano
negli anni, fino alla sua consacrazione come disciplina organica, autorevole e sistemica nel 2002, con
l’assegnazione del Nobel per l’economia a Kahneman.

3. I metodi, i temi ricorrenti e l’effetto gregge

I metodi della finanza comportamentale sono basati sull’adozione di un approccio di studio empirico,
fondato su osservazioni sperimentali: esperimenti in laboratorio, esperimenti naturali, studi sul campo,
misure di processo, risonanza magnetica funzionale...

L’impiego di metodi poliedrici però deve tener presente del rischio di incoerenza, in quanto è facile che
conduca a conclusioni diverse. Rimane pur vero che nel momento in cui le conclusioni restano le stesse pur
essendo il risultato di metodi diversi, si tratta senz’altro di conclusioni nelle quali è possibile riporre fiducia
maggiore.

Shefrin individua 3 tematiche principali relativamente alla comprensione dei comportamenti finanziari:

1. Euristica: secondo la quale il processo decisionale degli individui si basa su regole approssimative,
elaborate in modo diverso da ogni soggetto sulla base delle sue emozioni ed esperienze passate, dei
pregiudizi cognitivi e dalla sua limitata razionalità in funzione delle informazioni disponibili, dei
limiti cognitivi individuali e della quantità di tempo a disposizione per assumere la decisione.

2. Inquadramento: le modalità con le quali si presenta un problema a un individuo condizioneranno le


decisioni che saranno assunte dall’individuo stesso. Questo perché il processo decisionale è
influenzato dal modo in cui si viene posti dinanzi al problema.

3. Inefficienze di mercato: tutte le dinamiche del mercato che fuoriescono dalle logiche degli assiomi
razionali della teoria economica classica.

Per spiegare le inefficienze di mercato, la finanza comportamentale attinge sia dalla psicologia sociale che da
quella individuale. Ciò significa che l’individuo, pur non agendo razionalmente, non potrà da solo produrre
anomalie nel mercato globale; può avvenire solo in caso di una contaminazione sociale tra un certo numero
di individui, che insieme decidono di agire allo stesso modo, replicando così l’errore cognitivo individuale a
livello collettivo.

🡪 effetto gregge, secondo il quale gli individui vengono influenzati dalle decisioni prese dalla massa. Unirsi
al gregge di fatto significa non scegliere.

I limiti cognitivi dell’individuo portano a imitazioni o comportamenti gregari, i quali solitamente tendono a
manifestarsi in situazioni di panico o di estrema euforia.

In riferimento al mercato finanziario, l’effetto gregge rappresenta un grosso pericolo, infatti al verificarsi di
una crisi si registra un trend degli investitori al conformismo, comportando un aumento della fragilità
sistemica. In quest’ottica, la crisi spingerebbe gli individui a fare gruppo e le condotte gregarie favorirebbero
una destabilizzazione dei mercati finanziari. L’investitore quindi, in questo caso, non agisce secondo le
informazioni possedute da lui, ma in base alle informazioni che gli arrivano dal gruppo di riferimento (che
imita le scelte per l’effetto gregge). Verosimilmente chi mette in atto comportamenti di questo tipo è un
investitore inesperto, il quale replica le scelte di investimento altrui ritenendoli più esperti.

Altro discorso vale per i casi di imitazione spuria (o intenzionale) fra due operatori esperti, che partendo
dalle medesime condizioni di partenza, in termini di informazioni disponibili, decidono di effettuare le stesse
scelte di investimento. In questo caso si parla di false imitazioni, in quanto gli investitori in questione non
stanno modificando la propria scelta di investimento, come invece accade nell’effetto gregge.

4. Robinhood, Reddit e il caso Gamestop

A fine gennaio 2021, il mercato azionario statunitense è stato particolarmente instabile a causa delle
fluttuazioni di alcuni titoli, tra cui quelli della catena di videogiochi Gamestop. Il titolo, quotato al NYSE, ha
subito un incremento di oltre il +435% nell’arco di una settimana grazie alle transazioni di un insieme di
investitori amatoriali (redditors) che, dopo essersi riuniti nel canale Reddit r/wallstreetbets, hanno
organizzato un acquisto in massa delle azioni al ribasso della compagnia texana.

I danni maggiori di tale operazioni sono stati accusati dai grandi fondi d’investimento, che da tempo
scommettevano sul crollo del titolo. Lo short era stato operato sulla base della caduta in disgrazia del titolo,
soprattutto a causa della perdita di competitività rispetto al mercato retail online e alla chiusura dei numerosi
punti vendita a causa della pandemia. L’acquisto in massa da parte dei redditors ha avuto come conseguenza
l’aumento di valore del titolo e ha dimostrato quanto gli investitori non professionisti possono di fatto
influenzare il mercato finanziario, ribaltandone alcune regole base. Chiaramente, senza coordinazione tutto
ciò non sarebbe potuto accadere.

Le perdite accusate dai fondi sono state causate dal seguente ragionamento lineare: più cresceva il valore del
titolo 🡪 più denaro perdevano i fondi 🡪 più azioni dovevano comprare per ripianare le perdite 🡪 più il titolo
riacquistava valore.

Conseguenza diretta ed immediata di tutto questo è stata il blocco delle vendite delle azioni di Gamestop
nella notte del 28 gennaio 2021 (per poi essere riattivate nel giro di 72h). Tale scelta ha due motivazioni:

a) quella ufficiale: le applicazioni di brokeraggio sono obbligate a depositare somme di denaro nelle
camere di compensazione per evitare il rischio di default. Le applicazioni, dunque, a causa dell’aumento
delle transazioni, hanno dovuto aumentare i depositi presso le camere di compensazione, recuperare la
liquidità di tale operazione e far ripartire il tutto.

b) quella ufficiosa: le principali applicazioni di brokeraggio sono finanziate dagli stessi grandi fondi di
investimento che in quei giorni perdevano cifre nell’ordine di milioni di dollari. Per questo motivo,
l’opinione pubblica le ha accusate di aver bloccato le vendite per convenienza, ovvero per non rimetterci
la faccia, alimentando di fatto il risentimento verso l’alta finanza e i grandi squali di Wall Street.

Questa motivazione è causa ed effetto di una sempre maggior diffidenza da parte dell’opinione pubblica, e
soprattutto dei millennial, nell’establishment dei mercati economici e finanziari, facendoli preponderare
verso il mondo Fintech, dove “piccola” finanza e tecnologia s’incontrano per delineare gli scenari finanziari
di domani.

Tale fenomeno può essere ricercato anche nella diffusione della finanza amatoriale, che vede come
protagonisti i giovanissimi e che rappresenta il 25% degli scambi finanziari nel mercato USA. La platea di
Robinhood conta un’età media di 31 anni. Nel 2020, causa i lockdown generalizzati, gli account di
brokeraggio hanno registrato un +10 mln. La mission di queste piattaforme è quella di democratizzare la
finanza, aprendo le porte di Wall Street a chiunque voglia accedervi.

Il problema principale è che queste applicazioni comportano una perdita dell’educazione finanziaria e
costituiscono di fatto un rischio. Ne è un esempio Alexander E. Kearns, studente ventenne suicidatosi poiché
pensava di avere un rosso di 730 mila dollari, ma in realtà dovevano ancora entrare i profitti delle azioni
acquisite.

Inoltre, in questi sistemi viene totalmente rovesciato il pensiero critico circa l’operazione che si sta portando
a termine, poiché di fatto il passaggio dall’intenzione di acquisto all’acquisto vero e proprio è questione di
una manciata di secondi, a prescindere dallo strumento finanziario che si sta scambiando.

“Persone completamente inesperte di finanza e senza alcuna cultura dell’investimento, degli strumenti, dei
mercati, dei prodotti e dei correlati rischi giocano a fare Warren Buffett”.

Dunque la disintermediazione in campo finanziario guidata dalla tecnologia ha delle potenzialità


indubbiamente rivoluzionarie ma porta a crisi di equilibrio e difficoltà negli individuali sproporzionati.

È proprio in tale scenario che dovrebbe correre in soccorso la finanza comportamentale. Quest’ultima
dovrebbe permettere di riconoscere anomalie, euristiche, limiti e preconcetti cognitivi ed educarsi a
prevenirli, senza correre verso la chiusura e la censura.

Secondo alcuni esperti, l’attività condotta dagli investitori amatoriali costituisce manipolazione di mercato
pur trattandosi di un’azione decentralizzata frutto di informazioni pubbliche.

La democratizzazione della finanza rappresenta un’ottima mission, ma la consapevolezza di quest’ultima è


necessaria, se non fondamentale, per operare nel mercato finanziario e minimizzare i rischi che ne
convengono; e tale consapevolezza può essere raggiunta esclusivamente attraverso l’istruzione e
l’educazione finanziaria.

5. Conclusioni

Finanza comportamentale, si sostanzia su due livelli:

1. MICRO: studio dei comportamenti degli individui posti di fronte ad alcune scelte finanziarie;

2. MACRO: studio delle conseguenze di tali comportamenti sui prezzi delle attività finanziarie, con
influenze psicologiche ed economiche.

La finanza comportamentale si pone l’obiettivo di descrivere la realtà economico finanziaria nel suo farsi,
restituendole l’imprescindibile dimensione umana e razionale che naturalmente le appartiene e che solo per
mera convenienza formale e funzionale è stata è radicata dai modelli predittivi della tradizione. Il contributo
di questa disciplina risiede proprio nello sforzo di diradare la nebbia sugli assunti del passato.

L’attuale crisi causata dalla pandemia che stiamo vivendo è differente da quelle del passato. Le precedenti,
infatti, si sono sempre generate all’interno del sistema economico o finanziario, questa invece, ha natura
esogena, di fatto l’emergenza sanitaria globale e i provvedimenti che ne sono derivati. Tale pandemia ha
comportato uno shock tra domanda e offerta, con blocchi sistematici e ripetuti della produzione, il
rallentamento dei trasporti e dunque della logistica stessa delle merci, il blocco dei settori dedicati al turismo,
la riduzione della socialità, ecc.

Tutto ciò ha avuto conseguenze dirette sulla volatilità dei mercati, che ha toccato il livello massimo dal
famoso Black Monday del 1987. Questa situazione è stata successivamente ingigantita dal panic-selling,
ovvero la corsa al riparo di molti investitori che hanno dimostrato un’avversione alla perdita, testimoniando
nuovamente quanto la finanza comportamentale giochi senza dubbio un ruolo fondamentale.

Il FinTech, con la rivoluzione digitale applicata al mondo finanziario, ha consentito a fasce di risparmiatori,
prima del tutto tagliate fuori dal mondo finanziario, a diventarne parte, indipendentemente dal capitale in
possesso.

Bisogna riconoscere come quanto la tecnologia, entrando nei settori, dia il via a rivoluzioni che solitamente
portando ad una democratizzazione dei servizi.

Il problema a questo punto è trovare un piano di regolamentazione adeguato alla nuova era e ai nuovi utenti,
che non sia più incardinata al paradigma teorico classico. Secondo quest’ultimo, il sistema di tutela dovrebbe
basarsi su obblighi e divieti.

La finanza comportamentale gioca un ruolo centrale in tale fenomeno. Essa ha dimostrato che gli individui
non agiscono necessariamente in maniera razionale e che non è detto che siano sempre in grado di acquisire
ed elaborare correttamente le informazioni che sono loro disponibili. Gli individui sono limitati e portati
spesso a commettere errori di ragionamento o di preferenze, soprattutto in condizioni di incertezza.

Inoltre sembrerebbe che assumano decisioni sulla base di fattori emotivi e profili soggettivi dell’apparato
percettivo individuale, secondo un sistema di credenze e preferenze piuttosto mutevole.

Rischio secondo la finanza tradizionale: grandezza oggettiva e commensurabile mediante l’impegno di


misure simmetriche per il peso di guadagni e perdite;

Rischio secondo la finanza comportamentale: funzione variabile data da molteplici componenti soggettive

li studi effettuati dalla finanza comportamentale esplicitano e codificano i deficit cognitivi e comportamentali
dell’individuo sono preziose risorse dalle quali il legislatore può attingere per potenziare l’efficacia del
quadro normativo dei mercati finanziari nella giusta dimensione. In particolare la letteratura individua due
principali posizioni che il legislatore potrebbe assumere per arginare l’impatto degli errori comportamentali:

- Paternalistica: controllare a valle le conseguenze degli errori commessi dall’individuo. Tale


posizione può essere attuata attraverso la fissazione di opzioni predefinite o di limiti entro i quali
agire.
- Anti-paternalistica: disinnescare a monte i presupposti degli errori decisionali. Un ruolo chiave
sarebbe ricoperto dall’educazione finanziaria.

Il primo approccio presenta tre criticità:

● Difficilmente si potrebbe applicare a priori su un ampio spettro di prodotti e comportamenti;

● Finirebbe per limitare processi di apprendimento e quindi anche la creazione di comportamenti correttivi
endogeni al mercato;

● Se il legislatore sbaglia la chiave di lettura del problema, trovando un raffrontato con una situazione che
solo su un primo livello figura simile, il comportamento correttivo attuato sarà sbagliato (anche l’autorità
è a razionalità limitata).

A partire dai suddetti limiti, la letteratura favorisce di gran lunga il secondo approccio.

L’educazione finanziaria rappresenta un valido strumento d’azione che può intervenire su 4 aspetti:

● Informazione: quantità delle informazioni e qualità delle stesse devono andare di pari passo;

● Istruzione: diffusione delle giuste tecniche di correzione finalizzate all’acquisizione di una


consapevolezza dei possibili errori in cui si può incappare;

● Training: indirizzare verso l’applicazione di quanto appreso nei vari contesti – learning by doing

● Supporto attivo: promozione di dinamiche che incentivano l’individuo ad una riflessione continua su
quanto accade e su quanto fa, mitigando gli effetti di overconfidence.

L’educazione finanziaria è complementare alla consulenza. Quest’ultima può potenzialmente coadiuvare la


corretta interpretazione delle informazioni e si rivela particolarmente efficiente quando cerca di correggere
gli errori cognitivi relativi all’applicazione delle euristiche e al ruolo che le emozioni ricoprono quando si
tratta di investire. Tale processo non è però esente dall’influenza dalla natura stessa del consulente, quella
umana; anch’esso infatti potrebbe compiere degli errori cognitivi che si riverserebbero inevitabilmente sul
cliente e le sue scelte.

In conclusione, si può asserire che è totalmente naturale ed umano sbagliare, anche quando si tratta di
finanza. A un certo punto, dovrà risultare necessario dare questi errori per acquisiti e incorporarli (senza
cedere ad una eccessiva deresponsabilizzazione) nel quadro normativo e regolamentare i mercati finanziari.
Il giusto approccio risolutivo potrebbe essere quello del nudge, ovvero del tocco o spinta gentile, teorizzato
da Thaler e Sunstein. Esso attiverebbe meccanismi di incentivazioni che indurrebbero l’individuo a fare una
scelta meno rischiosa in modalità del tutto autonoma.
CAPITOLO 17: Regolazioni e mercati

1. Incidenza della regolazione sui mercati e viceversa

La regolazione è un potente strumento per orientare l’economia: può favorirne la crescita e allo stesso tempo
ostacolarla e, al contempo, i mercati orientano in maniera significativa le regolazioni.

L’incidenza della regolazione dell’economia può essere vista da 2 punti di vista:

1. Quello più tradizionale, che riguarda il tipo di regolazione prescelto, espressione di un modello di
intervento pubblico e si caratterizza per il ricorso a misure che incidono in modo più o meno intenso
sulla sfera giuridica dei destinatari. Vi è infatti stata un’evoluzione negli obiettivi e nelle tipologie di
regolazione utilizzati che, limitandosi al periodo che prende le mosse dal primo decennio del
Novecento, fino ai giorni nostri, viene descritta attraverso le metafore dello “Stato finanziatore”,
“Stato dirigista”, “Stato regolatore e arbitro”, e dello “Stato salvatore”, anche se coesistono ancora
oggi regolazioni tradizionali e nuovi tipi di regolazione.

2. Quello più recente, che attiene alle caratteristiche qualitative della precedente. La regolazione può
costituire un volano per l’economia, quando adeguata ad affrontare il problema rilevato, facilmente
comprensibile e non eccessivamente onerosa per i destinatari e per gli stessi regolatori.

Quindi una buona regolazione affronta i problemi che ne giustificano l’adozione, alla luce delle evidenze
empiriche raccolte (ad es. in ordine alle modalità per rendere informazioni utili agli investitori privati),
persegue gli obiettivi di interesse generale, senza alterare in modo ingiustificato la concorrenza tra imprese,
non impone costi ingiustificati, riduce le occasioni di contenzioso.

L’incidenza dell’economia sulla regolazione si compone di più fattori:


-La contrattazione (bargaining around the law) tra operatori economici porta alla nascita di nuovi mercati e
questa è favorita dall’evoluzione tecnologica.

-Le trasformazioni e le invenzioni, gli strumenti informatici e la velocizzazione dei trasporti hanno
consentito l’offerta di nuovi servizi, che necessitavano, a loro volta, di una nuova regolazione. Ad esempio,
le liberalizzazioni dei servizi pubblici economici sono state introdotte quando l’evoluzione tecnologica le ha
rese possibili.

- Più di recente, la digitalizzazione e la globalizzazione hanno accelerato il cambiamento economico e


sociale e si discute della relativa regolazione, si pensi alla diffusione delle piattaforme di sharing economy e
all’affermarsi di nuovi soggetti “Big Tech”.

Cambia anche la dimensione dell’incidenza dell’economia sulla regolazione:

- In primis, l’economia globalizzata e la trans-nazionalità di alcuni problemi quali l’inquinamento, il


riscaldamento globale e il COVID-19, richiedono scelte di regolazione adeguate a cogliere questo
fenomeno, adottate anche da soggetti diversi dai regolatori tradizionali. Quindi si arricchiscono i
tipi di regolazione e le fonti di produzione.
- un sistema regolatorio del genere non può essere pensato come una questione nazionale o europea,
perché l’interdipendenza tra le diverse economie fa sì che le caratteristiche di un sistema
regolatorio vengano “premiate” o “sanzionate” dai mercati, in termini di innalzamento o
abbassamento di investimenti e di disinvestimenti, di presenza (in entrata o uscita) di persone che
producono e/o innovano sul territorio, oggetto di regolazione.

In sintesi, il sistema regolatorio incide sul livello di competitività e su questa base vengono suggerite e
talvolta imposte agli Stati, da parte di istituzioni internazionali ed europee, riforme diffuse, e non semplici
scelte di regolazione residuale e non invasiva, per andare a toccare le cause della corruzione, la dimensione
del contenzioso, i temi della giustizia, il peso della fiscalità sulle imprese, la qualità dei servizi pubblici e, più
in generale, si richiede certezza e stabilità della regolazione.

Va evidenziato che vi è un’accezione sostanziale di regolazione, che consiste nella sua capacità di incidere
direttamente sull’attività, la produzione e l’organizzazione dei destinatari.

L’attenzione al contenuto regolatorio richiede una scomposizione della regolazione stessa, per individuare le
regole che si connotano al suo interno. Questo approccio pone in secondo piano la tipologia di strumento
giuridico che supporta una determinata regola, che si tratti di una fonte del diritto o di un provvedimento
amministrativo, sia autoregolazioni delegate dai pubblici poteri.

Regole potrebbero poi derivare anche da “Soft laws” o da un formulario, qualora si finisca per imporre un
nuovo adempimento.

Un tale approccio sostanziale è funzionale per un efficace e corretto uso degli strumenti per la buona qualità
delle regole, il cui utilizzo è continuamente suggerito a livello europeo e internazionale, come uno dei
percorsi necessari per rilanciare e facilitare la crescita economica ed è in molti casi stato reso obbligatorio dal
nostro ordinamento.

2. Regolazioni e mercati dal XX secolo alla pandemia da Covid-19

Nel primo decennio del ‘900 si manifesta una grande espansione dell’intervento pubblico nell’economia e i
principali settori economici sono sottoposti a regolazione pervasiva. In questo periodo si diffonde la formula
dell’impresa pubblica o a partecipazione pubblica (locale o nazionale), aumentano le forme di sostegno
pubblico alle imprese private, con le quali si indirizzano gli obiettivi e l’organizzazione di queste. Numerosi
servizi pubblici sono riservati ai pubblici poteri, ovvero solo questi possono averne la titolarità, salvo poi
concederne l’esercizio a soggetti pubblici o privati.

Altri strumenti di regolazione dell’economia sono i piani territoriali, che incidono sulla localizzazione delle
attività economiche e indirettamente sul loro numero, e quelli economici, che condizionano il contenuto
stesso dell’attività economica, in quanto hanno come obiettivo l’interesse pubblico e predispongono
strumenti, risorse e mezzi di verifica.

In vari servizi pubblici economici, queste forme di intervento pubblico nell’economia si sono susseguite o
utilizzate contestualmente: nel trasporto ferroviario, nelle telecomunicazione e nell’energia si è passati
dall’impresa pubblica alla privatizzazione (formale e sostanziale), con gestione in concessione di reti e
servizi.

Sono presenti programmazioni economiche di settore e le attività economiche devono tener conto delle
pianificazioni territoriali (urbanistiche e del paesaggio). Le privatizzazioni convivono con rilevanti poteri di
intervento pubblico nell’economia, consentiti oggi dal golden power.
Non è rilevante la denominazione (concessioni o autorizzazioni) dei provvedimenti necessari per operare
nell’economia, quanto la sostanza del provvedimento, caratterizzato da un alto tasso di discrezionalità, che
orienta l’attività interessata verso finalità prestabilite. Un esempio di regolazione che può essere considerata
“finalistica” è quella che ha interessato le banche fino alla fine degli anni ’70, quando l’autorizzazione alla
costituzione era basata sul “criterio del bisogno economico di mercato”, formidabile strumento regolatorio
per evitare, sin dall’origine, qualsiasi forma di concorrenza, mentre per l’avvio dell’attività era necessaria
un’ulteriore autorizzazione, che delimitava anche le modalità di esercizio e i rapporti con la clientela.

Dagli anni ’80 circa, in Italia e in Europa, si afferma un modello di intervento pubblico nell’economia basato
sull’idea che ai pubblici poteri spetti regolare i mercati e non dirigerli, né intervenire necessariamente come
operatori economici. Ciò è avvenuto a causa di diversi fattori:

- l’insostenibilità delle spese connesse ad un intervento pubblico così ampio;

- l’inadeguatezza di molte regolazioni, che risultavano funzionali all’affermazione di interessi corporativi;

- l’incapacità di altre regolazioni di perseguire proprio l’obiettivo della funzionalizzazione delle attività
d’impresa, per il quale erano state adottate;

- il superamento delle esigenze che avevano giustificato alcune regolazioni restrittive.

Si apre così una fase di liberalizzazioni, imposte o comunque favorite dal diritto europeo, in alcuni settori
economici strategici e volte alla soppressione dei monopoli legali non strettamente necessari ad assicurare il
perseguimento di esigenze di interesse generale. Liberalizzazioni e lo stretto controllo europeo della
compatibilità degli aiuti di Stato con il mercato unico spingono anche verso la privatizzazione degli
operatori economici operanti in settori, come quello delle telecomunicazioni, trasporti ed energia. In altri
contesti, è sempre il diritto europeo a richiedere la riforma di regolazioni che risultino in contrasto con
l’ormai affermato principio della concorrenza e con le libertà fondamentali garantite dall’UE, come nel
caso della distribuzione commerciale e della disciplina delle libere professioni.

A livello internazionale, la disciplina in materia di commercio garantisce il libero scambio di merci (GATT)
e servizi (GATS), sulla base di accordi garantiti da un’apposita organizzazione internazionale, ossia
l’Organizzazione mondiale del commercio. Vi sono molte altre organizzazioni internazionali che producono
regole, standard o semplici raccomandazioni, che condizionano direttamente e indirettamente i diritti
nazionali (ad es. l’Organizzazione Internazionale del lavoro, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale).

Vi è una trasformazione degli strumenti tradizionali dell’intervento pubblico nell’economia, dovuto alle
liberalizzazioni europee, l’affermarsi a livello internazionale delle libertà economiche di scambio e di
concorrenza, ma anche della tutela dell’ambiente. Lo Stato riduce la sua attività come operatore economico
diretto, ma conserva una funzione di regolazione.

Se viene abbandonato il mito della programmazione economica generale, rimane però l’esigenza di piani
territoriali. Anche i piani di settore rimangono importanti in numerosi ambiti, in quanto strumenti in grado
di coordinare l’attività dei soggetti pubblici e privati per raggiungere un determinato obiettivo, entro un
determinato termine. I piani sono fondamentali anche per il raggiungimento degli obiettivi di lungo periodo,
che richiedono uno sforzo comune e che le imprese non farebbero in assenza di intervento pubblico (come la
preservazione dell’ambiente per le generazioni future).

Cambia quindi il procedimento di adozione (tendenzialmente più aperto alla partecipazione degli interessati)
e cambiano gli obiettivi perseguiti attraverso la programmazione, che non possono essere volti a una
compartimentazione dei mercati o a una limitazione ingiustificata del numero degli operatori economici.
Si afferma una regolazione di tipo “condizionale”, che si limita a porre le condizioni dell’agire, ossia
prefigura i criteri ai quali i destinatari si uniformano senza interferire sul contenuto dei comportamenti o
sugli scopi delle attività economiche (come nel caso delle regolazioni delle tariffe attraverso price cap).

Per regolare l’accesso ai mercati liberalizzati sono utilizzate autorizzazioni, rilasciate in base a criteri
oggettivi, trasparenti, non discriminatori e predeterminati; in alcuni casi tali autorizzazioni sono più o meno
prescrittive.

Es. Con l'affermarsi della libera circolazione di capitali e servizi, del diritto di stabilimento e della libera
concorrenza tra banche, le menzionate autorizzazioni bancarie (espressione di regolazione finalistica) sono
sostituite da un'unica autorizzazione (condizionale), rilasciata previa verifica del rispetto di criteri oggettivi e
predeterminati (dal TUB e da specifiche regolazioni della Banca d'Italia), come quelli in ordine alla forma
societaria, all'ammontare del capitale, ai requisiti cui devono rispondere i soggetti che detengono
partecipazioni, gli amministratori e i controllanti.

Un'importante limitazione della discrezionalità, nel rilascio delle autorizzazioni, è poi prevista in termini
generali dalla cosiddetta "Direttiva servizi" (n. 2006/123/CE), pur con le numerose esclusioni di attività,
introdotte nel corso del procedimento di adozione.

La preferenza per la regolazione condizionale non significa superamento delle misure tradizionali di
command and control (vale a dire unilaterali e cogenti, dotate di sanzione), che restano fondamentali in vari
ambiti, come la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Inoltre, le regole, lungi dall'essere eliminate, finiscono per aumentare e ciò è riconducibile ad una serie di
fattori:

- l’aumento dei livelli di produzione: in quasi tutti gli ambiti rilevanti per l'economia, alle regole
nazionali si aggiungono regole europee, internazionali e globali.

- il riconoscimento di valori (ambiente, …) e diritti (ad es. privacy), così come l'esigenza di
fronteggiare nuovi rischi (per la salute e l'ambiente, la stabilità dei mercati finanziari ecc.)

- l’aumentata complessità dei rapporti tra operatori economici richiede nuove regole, a fronte delle
poche norme che prevedevano una riserva e imponevano obblighi di prestazione ad un solo o a pochi
soggetti.

La rivoluzione tecnologica e la mondializzazione dell'economia comportano una ri-espansione della lex


mercatoria (basata su regole poste dagli operatori economici), ma ha bisogno anche di un'estesa regolazione
pubblica.

Inoltre, la crisi mondiale del 2008 ha portato numerosi Paesi a riconsiderare il paradigma dello Stato
regolatore "residuale", anche se non a superarlo. Cosicché, aumentano le regolazioni e i settori che
richiedono aiuti pubblici, come quello bancario, che portano con sé nuove regole sulla struttura e l’attività
delle imprese, ma anche vere e proprie nazionalizzazioni e nuovi interventi comunitari, tesi a valutarne la
compatibilità con il diritto europeo. A livello europeo viene introdotto il Sistema europeo di vigilanza
finanziaria, con l'istituzione di tre autorità operanti nei mercati finanziari.

Nell'attuale crisi sanitaria ed economico-sociale, legata alla pandemia da COVID-19, allo "Stato salvatore"
sono riconosciuti spazi importanti di governo dell'economia in vari ambiti, così come numerosi sono gli
interventi europei. Inoltre, aumenta significativamente la produzione di regole e si diversificano le fonti.

In Italia il mancato ricorso agli strumenti esistenti per affrontare le emergenze ha portato ad una estrema
complicazione del quadro regolatorio, incentrato su:

- decreti-legge e atti amministrativi a contenuto normativo (DPCM);


- ordinanze (del capo dipartimento della Protezione Civile, del Ministro della salute e di altri
ministri);

- regolazioni temporanee e in deroga a quelle esistenti (come quelle in materia di appalti pubblici e
di conferenza di servizi);

- ordinanze e decreti regionali.

La crisi ha fatto poi emergere l'inadeguatezza di alcune programmazioni dei servizi, ne è un esempio il
mancato aggiornamento del "Piano pandemia influenzale" del 2006 (pensato per epidemie caratterizzate da
focolai infettivi circoscritti), ma anche l'assenza o il gravissimo ritardo con cui il trasporto pubblico locale,
nelle diverse regioni, si è adeguato alle esigenze della didattica nelle scuole secondarie.

Le crisi del 2008 e del 2020 hanno confermato la tendenziale interdipendenza di molti fenomeni
(economici, sociali, ambientali e sanitari) a livello globale, che ha indotto i regolatori nazionali ed europei ad
individuare nuovi canali sovra-statali e globali, per tenere sotto controllo gli sviluppi dell'economia.
Aumentano così i regolatori e cambia la loro natura (organizzazioni intergovernative; organizzazioni ibride,
pubblico privato e organismi privati che esercitano funzioni pubbliche; reti transnazionali di regolatori
nazionali), così come si diversificano gli strumenti di regolazione (standards, best practices, soft law,
derivanti da soggetti non statali). Ad esempio, con l'istituzione di un sistema europeo di vigilanza nei
mercati finanziari, le reti "formali" di autorità nazionali di regolazione diventano autorità europee con
personalità giuridica, qualificabili come agenzie, i cui orientamenti di lavoro e le cui decisioni sono
adottate da un consiglio delle autorità nazionali di vigilanza. Nelle comunicazioni elettroniche, l’European
Regulatory Group, una rete formale di autorità nazionali di regolazione, istituita nel 2002, viene sostituito dal
Body of European Regulators for Electronic Communications, nel quale le autorità nazionali di regolazione
partecipano attraverso il relativo organo decisionale, il Comitato dei regolatori. In materia di energia, è attiva
una rete "informale" di autorità nazionali di regolazione (il Council of European Energy Regulators), istituita
nel 2000 al fine di favorire la cooperazione e lo scambio di best practice. Nel 2003 viene istituita anche una
rete "formale" di autorità nazionali di regolazione, European Regulators' Group for Electricity and Gas,
composta dai direttori delle autorità di regolazione nazionali, con funzioni consultive nei confronti della
Commissione europea, poi sostituita nel 2011 dall'Agency for the Cooperation of Energy Regulators.

Numerose altre reti di autorità nazionali operano in ambiti diversi, come in tema di concorrenza, di servizi
idrici, di privacy, di qualità della regolazione economica.

Dunque, la regolazione nazionale perde la sua centralità ed esclusività, ma i regolatori nazionali


contribuiscono alla produzione "globale" di regole e ne restano influenzati.

Tuttavia non sempre le trasformazioni del mercato e le innovazioni tecnologiche trovano un'adeguata
risposta in nuovi canali di regolazione e, in alcuni ambiti, queste inducono lo Stato al ritiro dall'esercizio di
una funzione di regolazione diffusa "per l'inadeguatezza del patrimonio conoscitivo".

Questo fenomeno non è privo di rischi, nel caso in cui ad esempio la concorrenza non funzioni
correttamente, come nel mercato dei prodotti transgenici, dove la forza delle multinazionali di settore
consiste nell’impedire la circolazione di informazioni complete sugli effetti derivanti, a medio e lungo
termine, dal loro utilizzo. In questi casi, la difficoltà maggiore consiste nella definizione dei confini tra auto
ed etero-regolazione.

L'astensione dei pubblici poteri dall'esercizio della funzione di regolazione non è necessariamente una
risposta definitiva. Una risposta "regolatoria" è, ad esempio, quella che si sta delineando a livello europeo e
negli Stati Uniti con riferimento ai mercati digitali, dove i tentativi internazionali appaiono insufficienti. Al
contempo però, se un'adeguata protezione di investitori/consumatori e concorrenti può giustificare interventi
regolatori di tipo tradizionale, eventuali regolazioni dovranno essere costantemente monitorate affinché ne
sia valutata la persistente adeguatezza a fronte del dinamismo dei nuovi mercati digitali e non ne venga
ostacolata l'innovazione.

3. Alle radici dell'inadeguatezza delle regolazioni

Come già evidenziato, un freno per l'economia può derivare da un quadro regolatorio inadeguato, perché
adottato non tendendo conto dei dati empirici, in ordine alla "dimensione" del problema da affrontare e ai
risultati attesi dalle diverse opzioni di intervento.

L'inadeguatezza potrebbe poi derivare dalla mancata considerazione, in fase di gestazione, della potenziale
reazione dei destinatari delle regole o dell'effettiva capacità della regolazione stessa di offrire strumenti di
tutela di consumatori o investitori.

Le regolazioni possono poi risultare ingiustificatamente gravose, poco chiare e accessibili, o instabili,
comportando una serie di ricadute negative:

- tale regolazione rischia di non risolvere il problema che intende affrontare, dunque i suoi costi
risultano non giustificati.

- Una regolazione inadeguata moltiplica il contenzioso e finisce per obbligare cittadini ed imprese ad
affidarsi a specialisti (intermediari) il cui intervento aumenta i costi della regolazione.

- Regolazioni complicate, oscure e di difficile attuazione costituiscono anche un potenziale terreno di


coltura della corruzione.

- Più in generale, queste regolazioni contribuiscono a compromettere il rapporto di fiducia tra


cittadini e istituzioni, riducendo la compliance volontaria e dunque l'effettività delle regole stesse.

Nonostante un rinnovato impegno nella riforma della regolazione in area OCSE (a livello nazionale, locale
ed europeo), l'adozione di regolazioni non necessarie, inadeguate e poco chiare resta un problema diffuso in
molti paesi. A ciò contribuiscono numerosi fattori:

- l'attenzione dei regolatori tende ad essere concentrata sul "prodotto" regolazione, per poi
dimenticare di seguirne l'implementazione, di controllare e incentivare la compliance e di rivalutarne
periodicamente la persistente necessità ed adeguatezza.

- La regolazione viene considerata come la risposta più facile ai problemi, perché consente al
decisore di offrire una soluzione tangibile e immediata all'opinione pubblica.

Tuttavia per raggiungere un tale risultato, si tralascia l'opzione di "non intervento", non viene realizzata
un'adeguata analisi preventiva degli impatti delle opzioni alternative (comprese le reazioni dei destinatari
delle regole che possono essere influenzate da bias comportamentali ed euristiche), non viene adeguatamente
“costruito" un testo che sia di immediata e facile lettura.

Di conseguenza, se il solo messaggio che conta è quello politico (norme manifesto), la ricerca di
informazioni necessarie per una decisione ponderata viene vista come un inutile ritardo e l'uso degli
strumenti per la qualità delle regole (come l'analisi di impatto) diventa un mero adempimento formale,
spesso considerato solo dopo la formulazione della regola.
- Come già evidenziato, una parte del sistema economico si alimenta di complicazione, che ha
comportato negli ultimi decenni la nascita e il consolidamento di nuove professioni, come la figura
di consulente del o per la sicurezza sui luoghi di lavoro.

- L'aumento della dimensione e del numero delle strutture per l'adempimento delle numerose
funzioni pubbliche, determina una sorta di ipertrofia delle regolazioni e aumenta la probabilità
della contraddittorietà dei loro interventi, in caso di mancato coordinamento e trasparenza.

Infine, la pluralità dei livelli di governo (nazionale, regionale e locale) finisce per frammentare gli interventi,
in funzione di ambiti di competenza, non sempre designati in modo da prevenire i conflitti, come in materia
di ambiente, salute e rapporto tra potestà legislativa statale e regionale.

La presenza di una regolazione multilivello anche sul piano esterno (diritto europeo, diritto internazionale e
globale) aumenta ulteriormente la complessità, difficilmente superabile, ma che trova una giustificazione
nell'esigenza di far fronte a temi di dimensione transnazionale.

4. Innovazione della regolazione: ingredienti per una regolazione effettiva

Una regolazione "positiva" (pro-business e pro-society) da un lato costituisce un elemento essenziale dello
Stato di diritto, dall'altro condiziona in modo significativo il funzionamento dei mercati.

Quest'ultimo aspetto viene enfatizzato in tempo di crisi: un good regulatory framework costituisce uno dei
"pilastri" (e un indicatore) della competitività degli Stati, della crescita economica di un Paese e
dell'occupazione.

La correlazione diretta tra regolazione e andamento dell'economia viene individuata sia rispetto al tipo di
regolazione esistente, sia alle sue caratteristiche qualitative. Relativamente a quest’ultimo aspetto, per
svolgere un ruolo positivo per l'economia, le regole dovrebbero essere necessarie, residuali ed adeguate (in
risposta a un'esigenza di qualità sostanziale), oltre che coerenti, chiare e comprensibili, scritte pensando alla
capacità recettiva dei destinatari e ai loro limiti cognitivi (espressione di qualità in senso formale).

In un mondo che cambia, la regolazione dovrebbe inoltre affrontare nuovi rischi alla luce del principio di
precauzione, ma senza che questo diventi una giustificazione per l'imposizione di regole invasive o non
proporzionate.

Allo stesso tempo, la regolazione, per assicurare un'adeguata protezione delle persone e dell'ambiente, non
dovrebbe alterare gli incentivi all'innovazione.

La regolazione dovrebbe poi essere pensata in modo da non essere soggetta a rapida obsolescenza, prestando
attenzione al ciclo delle regole ed impostandone, già in fase di gestazione, la relativa "manutenzione", basata
sul monitoraggio, la valutazione successiva e l'eventuale revisione quando una regola non risulti più
adeguata a rispondere alle esigenze che ne giustificano l’esistenza.

Da un punto di vista procedurale, le procedure di adozione delle regole dovrebbero essere partecipate,
trasparenti e attente al reperimento dei dati empirici, utili alla decisione.

L'impatto sull'innovazione dovrebbe essere oggetto di una specifica valutazione preventiva, mentre la
regolazione dell'innovazione può fare ricorso a tecniche specifiche, come l'adozione di norme dotate di
efficacia temporanea, o l'uso dei cosiddetti regulatory sandboxes, che consentono di testare su una platea
limitata di destinatari e sotto il controllo pubblico prodotti o servizi innovativi, prima di adottarne la relativa
disciplina.
L’uso di molti di questi strumenti nel rule-making, nel nostro ordinamento, è stato reso obbligatorio da
tempo. La qualità delle regolazioni deve essere supportata dall'uso dell'analisi di impatto della regolazione,
dalla valutazione successiva della regolazione, dalla misurazione degli oneri informativi per la riduzione di
quelli non necessari e la trasparenza di quelli giustificati, dalla valutazione di impatto concorrenziale, dal test
PMI, dal risk assessment nei controlli. Contribuiscono poi alla chiarezza, accessibilità, coerenza delle regole
vari strumenti, tra i quali l'analisi tecnico normativa, i principi-criteri di drafting.

Tuttavia, l'utilizzo di questi strumenti si riduce troppo spesso ad un adempimento formale, cosicché il nostro
Paese resta bloccato in un sistema regolatorio ridondante ed oscuro.

L'uso inadeguato degli strumenti menzionati per la qualità della regolazione non è così in grado di contenere
un’inflazione regolatoria, frutto anche della "mitizzazione" della legge, secondo cui la sola approvazione di
norme sarebbe in grado di cambiare comportamenti, prassi consolidate e andamento di mercati. Tale
"mitizzazione" costituisce un pericoloso trabocchetto demagogico, sul cui solco si moltiplicano le riforme
adottate con decreto-legge (al fine di dare una risposta immediata ai problemi, senza interventi ponderati e di
ampio respiro), le riforme "a costo zero" (attraverso l'apposizione di un'improbabile "clausola di
invarianza"), le riforme ad effetto immediato (prive di adeguati periodi transitori di
sperimentazione/apprendimento).

Così, il quadro regolatorio si complica progressivamente, ma soprattutto restano senza risposta problemi cui
la regolazione avrebbe dovuto dare risposta.

5. Considerazioni conclusive

La regolazione dell'economia ha avuto andamenti diversi nel tempo ed è stata tradizionalmente descritta,
prestando prevalente attenzione all'aspetto contenutistico-tipologico, caratterizzato dal passaggio da una
regolazione dirigista-finalistica ad una regolazione condizionale, per poi abbandonare il mito della
regolazione residuale.

Negli ultimi trent'anni circa, soprattutto sulla spinta dell'Unione Europea e di organizzazioni internazionali
come l'OCSE, il focus si è concentrato sulle caratteristiche, per così dire, qualitative della regolazione e sugli
strumenti a disposizione dei regolatori per incrementarne la qualità.

Nel perseguimento di una regolazione residuale ed adeguata sono state avviate (sia a livello europeo, che
nazionale) politiche di semplificazione, riforma della regolazione e in alcuni ambiti sono state introdotte
regolazioni e controlli risk-based, regolazioni algoritmiche e regolazioni informate all’approccio
comportamentale.

Al contempo, la "disimmetria" tra economia (che diventa tendenzialmente globalizzata) e regolazione


(prodotta a livello interno, europeo o internazionale) ha portato alla nascita di nuovi soggetti, alla ricerca di
inedite forme di cooperazione tra regolatori e di nuovi strumenti di regolazione, in grado di affrontare
comportamenti e fenomeni che superano i confini nazionali.

Nuovi rischi per la salute e le tecnologie digitali pongono oggi sfide inedite ai regolatori e ai soggetti
deputati ai controlli antitrust. La risposta a queste sfide, che si gioca anche sul piano della sua coerenza a
livello globale, potrà assicurare un'adeguata tutela della salute, della privacy, della concorrenza, del
pluralismo dell'informazione e della stessa democrazia.
In un contesto così complesso, una buona regolazione può e deve svolgere un ruolo positivo per l'economia,
consentendo la nascita di nuovi mercati, garantendo consumatori e investitori, quanto all'affidabilità di merci
o servizi, facilitando la crescita di alcuni mercati e stimolando gli investimenti.

Inoltre, una buona regolazione è in grado di riallacciare un rapporto di fiducia profonda con i suoi
destinatari, che potremmo considerare un'ulteriore componente della qualità della regolazione o un suo
effetto.

Fiducia nella stabilità delle regole e, più in generale, nella loro certezza (securité juridique), consentono alle
imprese di effettuare investimenti che richiedono prospettive di medio-lungo periodo e ai cittadini di sentirsi
tutelati e non oppressi dai pubblici poteri, grazie ad un quadro normativo stabile in tutti i campi. Alla fiducia
contribuisce poi la garanzia di tutele e sanzioni certe, che conseguono a controlli rigorosi e proporzionati
all'obiettivo perseguito.
CAPITOLO 18: Mercato ed etica

In quale relazione stanno mercato ed etica?

In armonia, se si fa propria l'idea che non vi sia istituzione economica migliore del mercato quanto a capacità
di generare e diffondere benessere.

In antitesi, partendo dall’assunto che il mercato sia luogo di sopraffazione del forte sul debole.

2 Mercato ed etica: sinergia o antagonismo?

2.1. La prospettiva win-win: il mercato come fonte di sviluppo e di benessere diffuso

Il concetto di mercato è strettamente connesso a quelli di scambio e di specializzazione, che concorrono a


farne una fonte di benessere.

L'idea di scambio o di negoziazione è parte della definizione di mercato, in quanto "complesso dinamico di
negoziazioni che hanno per oggetto una certa classe di «beni» e che si manifestano con continuità, con
caratteri omogenei e con elevata interazione reciproca".

Perché si possa parlare di mercato non è sufficiente il manifestarsi di scambi isolati di un certo bene.

Storicamente, il passaggio da scambi occasionali a regolari si è realizzato grazie ad alcune condizioni fra loro
interconnesse: la specializzazione; la disponibilità di "più ampie quantità di beni commerciabili";
l'accumulazione di stock.

Secondo Hicks, il funzionamento dei mercati crea vantaggi sia per i mercanti, sia per le loro controparti. Lo
stesso autore osserva che l'intermediazione contrasta la tendenza ai rendimenti decrescenti attraverso
l'apertura di nuovi mercati (diversificazione) oppure attraverso l'integrazione dei processi produttivi
all'interno delle attività d'intermediazione, con conseguente divisione del lavoro.

L'economia di produzione, infatti, permette un aumento delle risorse disponibili e non solo una migliore
distribuzione di quelle esistenti.

Pasinetti riconosce che il passaggio da una situazione di assenza di commercio a una di commercio (ovvero
di scambi) durevole produce di regola un vantaggio per tutti.

Secondo l'impostazione di Becker e Murphy la stretta relazione fra dimensione dei mercati e specializzazione
economica sarebbe all'origine dei vantaggi e del benessere da essi prodotti.

La formazione, il funzionamento e l'espansione dei mercati produrrebbero vantaggi, i quali si estrinsecano in


forme molteplici: maggiore disponibilità e varietà dei beni; maggior numero di persone che possono avervi
accesso, grazie al circuito virtuoso che collega dimensione dei mercati, specializzazione dei beni e costi per
produrli e distribuirli; qualità dei beni prodotti e scambiati.

Il pensiero della "Scuola di Chicago riassume i fondamenti della visione etica positiva del mercato senza
escludere a priori l'opportunità di un qualche intervento normativo, la libertà individuale e la ricerca di
massimizzare l'interesse individuale da parte degli attori che operano sul mercato accrescono, grazie
all'azione della "mano invisibile", il benessere collettivo; un mercato perfettamente competitivo, inoltre, è in
grado di produrre risultati perfettamente efficienti.

2.2. La visione conflittuale: il mercato come luogo di sfruttamento e di inefficiente allocazione delle
risorse

La visione etica negativa del mercato si deve alla combinazione di due fattori: gli scambi presenti nel
mercato sono azioni umane che possono essere guidate da obiettivi di massimizzazione dell’utilità e del
benessere individuale, anche a scapito della controparte (sfruttamento); il mercato, in quanto istituzione
dell'economia capitalistica, ne eredita il carattere di autonomia dalla morale.

L’economia poggia su di un etica interna, ovvero quella degli affari, quindi "obbedisce all'imperativo del
profitto, che conduce alla strumentalizzazione e allo sfruttamento degli umani".

Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del
dare e dell'avere tra soggetti paritetici.

Alcuni economisti riconoscono che il mercato - in quanto istituzione umana - contiene i presupposti del suo
malfunzionamento o, del suo fallimento.

Senondo Williamson, le transazioni che compongono i mercati non avvengono in condizioni di perfetta
trasparenza, piena disponibilità delle informazioni, equilibrio di potere fra le parti.

Al contrario, la razionalità limitata e l'opportunismo propri dell'agire umano possono causare elevati costi di
transazione, ovvero "costi di utilizzo del mercato". Può trattarsi di costi ex ante, oppure ex post.

È in un tale contesto che si creano i presupposti per lo sfruttamento della parte debole da parte del soggetto
forte. Alcuni esempi interpretabili attraverso il framework concettuale dei costi di transazione proposto da
Williamson possono essere: il piccolo risparmiatore inesperto tratto in inganno da funzionari bancari, il
piccolo imprenditore costretto ad accettare condizioni contrattuali penalizzanti imposte dalla grande azienda
di cui è fornitore, i produttori agricoli dei Paesi in via di sviluppo.

Stiglitz riconosce che il mercato può "fallire" ( market failure), ossia manifestare inefficienze allocative e
inefficienze distributive: ciò può verificarsi a seguito del formarsi di mercati non concorrenziali, di monopoli
naturali, di esternalità negative, di mercati incompleti e di asimmetrie informative.

2.3. L’inadeguatezza dei rimedi contro i "fallimenti" del mercato

Williamson e Stiglitz propongono soluzioni per far fronte, rispettivamente, ai costi d'uso e al fallimento del
mercato.

Il primo individua nel ricorso alla gerarchia, e quindi nella sostituzione del meccanismo dei prezzi tipico del
mercato con il coordinamento gerarchico, la soluzione adottabile in presenza di elevati costi di transazione
(soluzione organizzativa).

Il secondo riconosce la necessità dell'intervento dello Stato nell'economia - emanando leggi e regolamenti,
erogando sussidi e contributi, o svolgendo attività produttiva in forma diretta o indiretta -allo scopo di
prevenire o rimediare ai fallimenti del mercato (soluzione politica).

Tali soluzioni non sono in grado di prevenire o risolvere completamente i malfunzionamenti del mercato.

Molteplici sono le ragioni per le quali l'intervento statale, non appare in grado di sostituirsi all'etica al fine di
prevenire o di correggere le disfunzioni del mercato.
Un primo fenomeno è quello della globalizzazione che si è sviluppato su scala planetaria senza che a ciò sia
corrisposta la formazione di istituzioni politiche di carattere sovranazionale in grado di regolarla
efficacemente.

Sono proprio le differenze tra gli ordinamenti giuridici dei diversi Stati che permettono al management delle
multinazionali di sfruttare o perpetrare abusi nei confronti dei lavoratori dei Paesi in cui il diritto è meno
tutelante o il mancato rispetto delle leggi, ove vigenti, non viene di fatto sanzionato.

In secondo luogo, è la stessa politica , che costituisce l'architrave dell'organizzazione e del funzionamento
degli Stati, a non essere immune da derive etiche; basti pensare alle molteplici forme di corruttela, di
clientelismo e di lottizzazione partitica ampiamente diffuse e radicate in certi Paesi.

Si tratta infatti di fenomeni che non solo non correggono, ma talora aggravano le distorsioni e i "fallimenti"
del mercato.

Non appare dunque infondata la visione secondo la quale fra politica ed etica vi sarebbe antagonismo.

Interzo luogo, la politica nella misura in cui fa propria una visione liberista dell'economia, potrebbe astenersi
dall'intervenirvi se non in misura molto limitata, lasciando al mercato di autoregolarsi.

Una tale impostazione all'insegna del laissez-faire può non di rado sfociare in gravi disuguaglianze a loro
volta foriere di tensioni sociali, oltre che capaci di innescare spirali profonde e durature di crisi economica.
Un esempio ne è la concentrazione dei redditi negli Stati Uniti che ha raggiunto il suo apice proprio alla
vigilia delle due più grandi crisi economiche che hanno caratterizzato l'ultimo secolo.

Il richiamo alla crisi finanziaria serve inoltre a illustrare un quarto possibile tipo di "fallimento dello Stato",
che si manifesta allorché il suo intervento nell'economia genera involontariamente incentivi ad attuare
comportamenti non etici.

Si tratta del salvataggio di molte banche in quanto too big to fail, voluto dai Governi per evitarne i gravi
impatti sistemici sull'economia, che ha paradossalmente indotto alcuni "grandi" banchieri a sentirsi immuni
dalla sanzione del fallimento e quindi ad assumere rischi spropositati sema alcun vincolo o limite.

In sintesi, la prospettiva win-win contribuisce senza dubbio alla riflessione sul rapporto fra mercato ed etica
evidenziando come la formazione e l'evoluzione dei mercati abbiano avuto un ruolo fondamentale per lo
sviluppo delle nazioni e la diffusione di benessere economico. La visione negativa invece, mette in rilievo
come il mercato, lasciato a se stesso, dia luogo a implicazioni eticamente non desiderabili, quali
sfruttamento, disuguaglianze, esternalità negative.

3 Mercato ed etica: dall'armonia alla divergenza

Diversi economisti, soprattutto aziendalisti hanno mostrato come la relazione fra mercato ed etica non sia
intrinsecamente conflittuale.

Essi condividono la tesi secondo la quale la non-eticità non è una condizione connaturata al mercato, ma il
risultato di un processo degenerativo, in particolare alcune dinamiche che hanno interessato nei decenni
recenti le aziende, la finanza, il management, le business school avrebbero concorso a far sì che il mercato si
allontanasse da uno stato di armonia e coerenza rispetto all'etica, andando incontro a una deriva di cui alcuni
"scandali d'impresa" e la crisi finanziaria scoppiata nel 2007 sono le manifestazioni più eclatanti.

È opportuno estendere l'analisi al rapporto fra etica, da una parte, istituzioni e strumenti del capitalismo
moderno dall'altra, che includono il mercato, ma all'interno di un articolato sistema di relazioni nel quale
l'impresa e il suo management occupano un ruolo centrale. In tale prospettiva, l'impresa non è un'istituzione
diversa e alternativa rispetto al mercato per il governo delle risorse e di organizzazione dell'economia ma un
attore che opera sul mercato e che concorre al suo buono o cattivo funzionamento, alla sua eticità o non
eticità.

Tre sono i contributi più significativi che hanno proposto la chiave di lettura sopra delineata:

- il primo (Elms), afferma che la strategia d'impresa e l'etica hanno radici comuni;

- il secondo (Ghoshal), attribuisce alle business school la responsabilità di aver sviluppato e diffuso "cattive
teorie" che hanno distrutto "buone pratiche" di management;

- il terzo (Coda), interpreta la crisi finanziaria scoppiata nel 2007 come la manifestazione e l'effetto al tempo
stesso di una "crisi di senso", che ha condotto il settore finanziario a tradire la propria missione produttiva.

Elms osservò che, agli albori le due discipline, condividevano un esplicito interesse nei confronti degli
obiettivi dell'impresa.

Difatti, la strategia d’impresa (strategic management) ha l’obiettivo di determinare la natura dell'impresa,


definire, rivedere e tentare di raggiungere i suoi obiettivi; così come nell’etica aziendale ( business ethic) si
osserva che la funzione ultima del management è tracciare una direzione per l'azienda.

Spetta al top management scegliere gli obiettivi e la direzione di marcia dell'impresa, ma la risposta dipende
in ogni caso dai valori e dalle aspirazioni personali del management stesso.

La progressiva esclusione di considerazioni morali dall'ambito della strategia sarebbe imputabile al fatto che
essa si è trasformata in un campo di studi empirici quantitativi, che ha condotto la ricerca sullo strategic
management a fondare la valutazione del successo d'impresa quasi esclusivamente su obiettivi e misure di
profitto.

La riflessione di Ghoshal si sofferma sul ruolo delle business school come propagatrici di "cattive teorie" che
hanno indotto il management ad abbandonare le "buone pratiche" e per prevenire nuovi "scandali d'impresa"
le business school dovrebbero cessare di insegnare alcune delle teorie proposte in passato.

L'enfasi posta su concetti, strumenti e teorie quali la massimizzazione del profitto, i comportamenti
opportunistici, la teoria e i costi di agenzia e le stock option avrebbero infatti condotto a una "generale
delegittimazione delle imprese come istituzioni e del management come professione".

Il contributo di Ghoshal si fonda su tre assunti:

- la pretesa di fare degli studi di business una scienza ha condotto a negare qualunque ruolo alle scelte e alle
intenzioni umane;

- nelle teorie di management si è progressivamente insinuata un'ideologia fondata su assunzioni negative


circa il comportamento umano;

- il processo di "doppia ermeneutica" proprio delle scienze economiche e sociali ha fatto sì che gli assunti e
le ideologie alla base delle teorie e dei modelli insegnati nelle business school si trasmettessero nelle pratiche
e nei comportamenti del management.

L'interpretazione proposta da Coda della crisi finanziaria scoppiata nel 2007 come "crisi di senso" si fonda
sull'assunto che qualunque impresa ha una propria "missione produttiva", ossia una funzione eticamente e
socialmente positiva, "consistente nella produzione di beni o servizi destinati al soddisfacimento di dati
bisogni, nel rispetto di determinate regole del gioco".

Nel settore dell'intermediazione finanziaria, molte banche hanno perso il senso della propria missione al
servizio dell'economia reale -ossia il sostegno agli investimenti meritevoli e la valorizzazione del risparmio -
ponendosi in un'ottica di estrazione di valore invece che di creazione di valore per il cliente.

A innescare tale deriva sono stati una diffusa perdita di attenzione ai valori e la progressiva assolutizzazione
di obiettivi di profitto e di creazione di valore azionario, la perdita di centralità del cliente.

In sintesi l'impresa e il mercato sul quale essa opera non sono incompatibili con l'etica, anzi, possono
svolgere per loro natura una funzione eticamente e socialmente positiva.

L'innesco di dinamiche involutive sul piano etico si devono ad un elaborazione culturale imperniata sulla
"scientificità" degli studi di business, e sulla "amoralità" del management e su assunzioni pessimistiche circa
la natura e il comportamento umano; inoltre da una progressiva diffusione all'interno della classe
manageriale di valori, obiettivi e modelli mentali diversi e distanti da quelli funzionali al pieno esplicarsi del
ruolo positivo dell'impresa in quanto "istituzione di interesse pubblico a gestione privata, strumento
strategico ed operativo per lo sviluppo collettivo".

In conclusione, l'idea secondo la quale il mercato non sia di per sé non etico, ma possa perdere un corretto
orientamento etico a seguito di processi di deriva culturalmente e ideologicamente indotti trova pieno
riscontro nella dottrina sociale della Chiesa, secondo cui: “È certamente vero che il mercato può essere
orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può
indirizzare in tal senso. Infatti l'economia e la finanza, in quanto strumenti possono esser mal utilizzati
quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici.”

4.Le condizioni per la convergenza di mercato ed etica.

Per prevenire che il mercato perda la propria eticità si possono seguire alcune vie:

1. la cooperazione fra una pluralità di soggetti complementari.

2. Una concezione fisiologica del finalismo d’impresa.

3. L’apprendimento individuale e organizzativo di valori etici e imprenditoriali.

4. La messa a punto di strategie d’impresa in grado di coniugare obbiettivi economici, sociali e


ambientali.

4.1 Cooperazione fra una pluralità di soggetti complementari.

L’idea di fondo è che l’eticità del mercato, ovvero il suo orientamento a perseguire e realizzare il bene
comune, dipende dall’operare coordinato e congiunto di diversi attori e istituzioni.

Crane (2011), studioso di business ethics, ammette che nell’economica globale la soluzione dei problemi
(inquinamento, accesso ai mercati di capitali...) è raramente sotto controllo dei governi, delle imprese e delle
associazioni operanti in modo indipendente l’una dall’altra. Tali soggetti hanno quindi la responsabilità di
cooperare per dare una risposta congiunta ai bisogni della società.
Un approccio adeguato alla business ethics non può quindi focalizzarsi solo su virtù, valori e comportamenti
individuali, ma deve pervenire una teoria “normativa” unificata che comprenda:

 I mercati e la loro regolazione a livello nazionale e internazionale;

 Le leggi sull’impresa e la corporate governance;

 I principi che impongo di andare oltre il mero rispetto delle leggi e di auto-regolazione che le
imprese e coloro che interagiscono con esse dovrebbe adottare.

Anche la dottrina sociale della Chiesa fa propria la concezione secondo la quale il perseguimento del bene
comune in ambito economico e sociale richiede una pluralità di soggetti che cooperano fra loro.

È necessario quindi promuovere il pluralismo nel mercato, ovvero far si che al suo interno “possano
liberamente operare, in condizioni di pari opportunità. Imprese che perseguono fini istituzioni diversi.
Accanto all’impresa privata/pubblica orientata al profitto si devono affiancare quelle organizzazioni
produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. Non è più sufficiente affidarsi all’intervento
redistributivo dello stato, ma è necessaria la progressiva apertura a forme di attività economica caratterizzate
da quote di gratuità e di comunione.

4.2 Una concezione fisiologica del finalismo d’impresa.

Condizione perché si mantenga o ripristini una condizione di armonia tra mercato ed etica è la diffusione, tra
le persone che ricoprono ruoli di direzione di un’impresa, di una concezione fisiologica dei fini di
quest’ultima.

La concezione fisiologica è una concezione della funzione- obbiettivo dell’impresa che pone al primo posto
il bene dell’impresa stessa, di tutti i suoi portatori di interesse e della società nella quale è inserita.

Il bene dell’impresa coincide con la sua sopravvivenza duratura in condizioni di economicità per il cui
conseguimento è necessario il perseguimento bilanciato di una pluralità di obbiettivi:

 Profitto

 Competitività

 Economicità

 Crescita

 Salvaguardia dell’ambiente

 Soddisfazione stakeholder

Il rischio di deriva etica è più elevato quando i vertici di un’impresa perseguono un solo obbiettivo in
un’ottica massimizzante. Il perseguimento di un solo obbiettivo infatti si rivela primo poi non sostenibile,
sbilanciando l’azienda e mettendo a repentaglio la sua sopravvivenza.

Una concezione fisiologica del finalismo d’impresa non va confusa con il richiamo alla responsabilità
sociale, essa infatti va vista come un obiettivo da integrare e armonizzare nella funzione-obiettivo
dell’impresa e non solo tramite “azioni” di filantropia che spesso sono usate per mascherare comportamenti
tutt’altro che etici.
Una concezione fisiologica del finalismo di impresa deve tradursi in scelte e azioni concrete e coerenti di
gestione strategica e di gestione operativa, senza le quali difficilmente essa potrà fungere da efficace barriera
contro il rischio di derive anti-etiche.

4.3 l’apprendimento individuale e organizzativo di valori etici e imprenditoriali.

Il mantenimento o il ripristino di una forte tensione etica nelle imprese non possono prescindere
dall’apprendimento ed alla salvaguardia di un insieme di valori, etici e imprenditoriali, a partire dal vertice
aziendale fino ai collaboratori. Gli studi dimostrano che le imprese che hanno conseguito risultati positivi
sotto i profili economici, competitivi e sociali sono guidate da imprenditori e manager con valori forti e
positivi sul piano etico in generale. Tali valori sono stati appresi forgiati grazie ad insegnamenti e tramite un
lungo processo di maturazione ed elaborazione personale. Questi valori non sono mai acquisiti una volta per
tutte, per prevenire rischi di sbandamenti e di derive anti-etiche, i vertici aziendali devono acquisire la
capacità di prendersi cura di se stessi e di darsi carico dei problemi connessi alla crescita dei collaboratori.

Infatti nel caso in cui il vertice aziendale abbia acquisito consapevolezza dell’importanza di tali valori per il
bene dell’azienda, esso attiva una serie di processi e meccanismi atti a preservare, promuovere e diffondere i
valori in tutta l’organizzazione.

4.4 La messa appunto di strategie di impresa in grado di coniugare obiettivi economici, sociali e
ambientali.

Una concezione fisiologica dei fini dell’impresa e l’apprendimento di certi valori etici e imprenditoriali
necessitano di trovare concreta espressione nella messa. E nella realizzazione di strategie di impresa che
permettono di conseguire sinergicamente risultati economici, competitivi, sociali e ambientali.

Si tratta di strategie che poggiano sul funzionamento di circuiti virtuosi, capaci di assicurare un vantaggio
competitivo sostenibile per l’impresa e di generare valore per i diversi stakeholder e di preservare
l’ambiente. Si tratta quindi di strategie capaci di rendere sinergici il funzionamento dell’economia di mercato
e l’azione economica di mercato socialmente inclusiva ed ecologicamente sostenibile, dunque di metterla al
servizio dell’etica. Tali strategie sarebbero impensabili senza leder etici che improntano il loro agire
imprenditoriale ai valori dell’innovazione, della responsabilità e della sostenibilità. Ma richiedono anche
stakeholder a loro volta responsabili, ossia capace di rivolger certi stimoli e una forte domanda di
responsabilità e anche dei risparmiatori interessati a coinvolgere i propri risparmi verso imprese sostenibili.

5.Considerazioni conclusive.

Gli studi più recenti concordano nel confutare le assunzioni secondo le quali il mercato sarebbe di per sé
eticamente buono o eticamente cattivo oppure ancora svincolato dall’etica. La struttura e il funzionamento
del mercato come istituzione costituiscono piuttosto uno spazio di possibilità, e quindi di libertà nel quale i
diversi attori in gioco possono agire in modo etico oppure non etico.

Gli attori dal cui operare discende l’eticità del mercato sono molteplici riconducibili a una pluralità di livelli
interconnessi: livello macro (stati), livello meso(settore), livello micro(impresa) e livello individuale.

Le relazioni fra etica e mercato sono al centro di un intenso dibattito globale e oggetto di un crescente
interesse. Infatti negli ultimi anni si è avuta la creazione di diverse organizzazioni e iniziative per favorire
questa eticità nel mercato, come per esempio:
 European Business Ethics Network: 18 network nazionali intorno alla missione di promuovere
l’etica eccellenza nel mondo del business.

 movimento delle B corporation (benefit corporation): che perseguono finalità di bene comune in
modo responsabile.

 Documento firmato da 181 amministratori delegati di grandi corporation americane riunite nella
business Roundtable: impegna a dirigere le rispettive imprese per il bene di clienti, dipendenti,
fornitori, comunità e azionisti.

La relazione fra etica e mercato discende dalla molteplicità di interazioni e di influenze reciproche che si
manifestano nel tempo fra soggetti, individuali e collettivi, che si collocano a diversi livelli. Si tratta quindi
di una relazione dinamica alla quale ci si può accostare solo ricostruendo e comprendendo i molteplici
processi che avvengono a sistem i diversi soggetti e livelli coinvolti.

La globalizzazione ha esteso su scala planetaria tali dinamiche e i processi, rendendoli più difficili da
comprendere e da governare. Ma non ho fatto venir meno la responsabilità di ogni singolo attore economico
di fare una scelta di campo preciso; di mettere al primo posto l’utilità individuale o il bene comune, di
servirsi dell’azienda per la quale lavora o di servirla, di seguire l’onda o di tenere la barra diritta.
Capitolo 19: Il “mercato della cultura”

1. L’EVOLUZIONE DELL’ATTEGGIAMENTO DELLE ISTITUZIONI PUBBLICHE NEI


CONFRONTI DELLA CULTURA

Parlare del rapporto tra le istituzioni pubbliche e la cultura significa fare un necessario riferimento
all’identità dei popoli. Nella lingua italiana spesso si tende ad usare indistintamente i termini “stato” e
“nazione” nonostante essi abbiano due significati differenti

- Stato: indica l’insieme delle istituzioni che amministrano un territorio unitario;

- Nazione: indica un senso di comunità linguistica, etica e soprattutto culturale.

Il concetto di “nazione” ha subito una profonda evoluzione nella storia, sempre indicando però quel senso di
appartenenza originaria. Si possono identificare delle tappe più celebri di questa evoluzione:

- La dottrina religiosa ebraica: nella Bibbia è fortemente presente il concetto di Nazione ebraica,
intesa come principio di identificazione del “Popolo eletto”. Vengono quindi poste le radici del
nazionalismo inteso come distinzione di un popolo dagli altri.

- Mondo romano: il termine “nazione” mantiene una concezione identitaria ma sempre più legata al
concetto di territorio e non di razza. Tanto che viene concessa la cittadinanza romana a tutti i sudditi
liberi dell’impero, indipendentemente dal loro luogo di nascita, favorendo in maniera del tutto
rivoluzionaria l’identificazione culturale in un gruppo di individui legati da stessa lingua, religione o
sovrano.

- Medioevo: oltre alla nascita dei primi particolarismi regionali/comunali, si afferma che
l’appartenenza ad una nazione dipende non solo dallo stato di nascita ma anche dal comune, dalla
contrada e anche dalla professione.

- Rinascimento: si verifica il progressivo abbandono del regime feudale a favore di uno stato
accentrato, come già accadeva in Francia (governo assoluto del sovrano) e in Gran Bretagna
(governo formato da sovrano e parlamento).

- Rivoluzione francese: la “nazione” diventa un termine per indicare un popolo che condivide stessa
lingua e cultura.

- Periodo romantico: nasce l’associazione tra il concetto di “nazione” e quello di “patria”. La patria
rappresenta uno sviluppo della nazione, nel quale si esalta l’attitudine della collettività nazionale a
rappresentare un valore unificante e superiore a quello dell’individuo.

Il concetto romantico di nazione e la sua immanenza con quello di patria producono il nazionalismo, con
quale ogni popolo si definisce superiore agli altri e si candida alla guida spirituale del mondo.

- Nazionalismo del Novecento: il nazionalismo si evolve, prevedendo non solo l’affermazione della
superiorità di un popolo ma anche l’inferiorità degli altri. Non a caso, infatti, sarà in questi anni che
si verificherà la Prima Guerra Mondiale e la colonizzazione, viste come sbocco naturale della
conflittualità tra i popoli.

- Marxismo: intendeva la nazione come uno strumento di controllo da parte della borghesia.

- Tempi recenti: si intravede nelle affermazioni di nazionalità un mezzo per l’universalismo.


Il legame tra il concetto di nazione e la cultura di un popolo ci indica come ci sia una sorta di rapporto
privilegiato tra l’identità di un popolo e la sua cultura. Ciò è stato significativamente espresso nella
Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli nel 1990, affermando che l’identità culturale di un
gruppo è qualificante per definirli come nazione e come popolo.

Considerato ciò, quindi, è comprensibile che le istituzioni pubbliche, che tramite lo Stato governano le
nazioni, si interessino della tutela dell’identità culturale dei popoli del territorio di loro competenza. Esistono
varie forme di tutela della cultura come, ad esempio, la limitazione della proprietà privata per garantire a tutti
di fruire dei beni culturali ma anche l’utilizzo di incentivi (finanziamenti) affinché i privati producano
cultura.

I primi tentativi di tutela della cultura in Italia si verificano intorno al XIII secolo, quando per costruire nuovi
edifici divenne necessario chiedere l’approvazione ad una magistratura incaricata di tutelare le bellezze e il
decoro architettonico. Successivamente, nel XVII secondo nel Granducato di Toscana venne limitata
l’esportazione dei dipinti di alcuni artisti al di fuori del Granducato stesso, in quanto ritenuti identificativi del
territorio. Allo stesso tempo, però, altri Stati preunitari mostrarono un forte disinteresse per l’argomento.

Lo Stato pontificio fu sempre fra i più attivi nella tutela del patrimonio artistico, soprattutto nel senso di
prevedere limiti ai diritti dei privati. Es. divieto di esportare i beni rinvenuti da scavi; Editto di Cardinal
Spinola con il quale si distinguevano i beni di particolare rarità storico artistico e i beni privi di tale
requisito. Il primo testo di tutela collettiva dei beni culturali è considerato essere l’Editto Pacca (1820),
emanato nello Stato Pontificio in risposta alla sottrazione di beni archeologici e artistici durante
l’occupazione di Roma da parte dell’esercito napoleonico. Il testo si basava su tre principi cardine:

1. Diventava necessaria la catalogazione delle opere presenti nel territorio pontificio, in modo tale da
essere identificabili.

2. Veniva vietata l’esportazione al di fuori del territorio pontificio in quanto questa avrebbe ferito
l’identità nazionale del popolo.

3. Veniva sancita la proprietà pubblica dei beni archeologici rivenuti nel sottosuolo a discapito della
proprietà privata del possessore del suolo. -> rivoluzionario perché faceva prevalere la proprietà
pubblica sul “sacro e inviolabile” diritto di proprietà privata, contrastando il diritto romano
tradizionale.

Con l’affermarsi dell’unità italiana, si pose il problema della continuità giuridica con gli ordinamenti
precedenti, che per evitare una netta cesura venne in generale affermata.

La disciplina dei beni culturali fu regolamentata prima nel 1902, poi in maniera più organica e soddisfacente
nel 1909 con la legge Rosadi. Infine nel 1939 è stata rivisitata con la legge 1089 (legge Bottai) che è ancora
oggi in vigore.

2. PRINCIPI COSTITUZIONALI

La censura politico-storica seguita alla caduta del fascismo e l’istituzione dello Stato repubblicano con il
referendum del 1946 lasciarono intatte quasi tutte le leggi in vigore, comprese anche le leggi speciali come la
legge Bottai. Inoltre, la materia dei beni culturali è stata considerata così importante da entrare nelle
previsioni della nostra Costituzione. Nei principi fondamentali della Carta della Costituzione troviamo una
norma, l’art.9, che si basa su due punti fondamentali:

- La promozione dello sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica;

- La tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione.


Esiste quindi una differenza non solo per quanto riguarda gli oggetti della norma (sviluppo della cultura,
ricerca scientifica, paesaggio e patrimonio storico-artistico) ma anche il tipo di azione:

- promozione: implica sviluppo e progresso;

- tutela: implica conservazione.

Non a caso infatti la promozione è legata a beni (in senso non giuridico) che si arricchiscono in quanto
vengono sviluppati, mentre la tutela riguarda paesaggio e patrimonio artistico che vanno conservati. Ma,
nonostante i due concetti possano sembrare separati, la tutela di un bene non può prescindere dalla sua
valorizzazione/promozione, quindi i due concetti sono inscindibili.

Primo comma art.9: la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Nel primo comma si fa riferimento ai seguenti oggetti:

 Cultura: il termine deriva dal latino colere, ossia coltivare e solo nell’800 assume il significato di
“miglioramento/ampliamento delle nozioni di un individuo”. Oggi il termine cultura ha diversi
significati che rispecchiano due concezioni sociopolitiche opposte:

- Per la prima concezione, “cultura” è qualsiasi manifestazione dell’intelletto umano, e quindi ogni sua
abilità (es. artigianato, cucina). A favore di questa concezione (preferita dal Professore), sta il concetto per il
quale oggi si ritiene che ogni manifestazione umana che testimoni un processo intellettuale e che non
rimanga confinata in un ambito ristretto di individui possa essere degna di essere definita cultura. Il valore
infatti non è solo artistico ma anche sociale.

- Per la seconda concezione, può essere considerata cultura solo la manifestazione superiore dell’intelletto
umano. In questo caso andrebbero protette dalla Costituzione solo le opere d’arte, letterarie, la musica ecc. a
favore di questa concezione si afferma come sia necessario specificare cosa si intenda per cultura poiché una
definizione troppo ampia (come nella precedente concezione) porterebbe a dubbi nell’applicazione concreta
della norma. Inoltre, se tutto è cultura, nulla è cultura. Questa concezione elitaria dell’arte però è stata messa
in discussione anche da alcuni artisti che hanno destinato la loro produzione alle masse (es. pop art).

- Esiste anche un terzo significato di cultura che è quello antropologico: la cultura è considerata costituita
dall’insieme delle consuetudini, dei costumi e delle credenze che contribuiscono ad identificare un
popolo. Anche il diritto viene considerato parte integrante di una cultura poiché esprime l’insieme di regole
che una società umana produce in base ai propri concetti morali.

 Ricerca scientifica e tecnica: la ricerca viene considerata come un particolare aspetto della
cultura. Se però un tempo l’arte veniva considerata superiore a tutto, oggi il primato della scienza
sull’arte è una tendenza inarrestabile ma si stanno cercando sempre più punti di convergenza tra le
due discipline (es. studi sui frattali).

Nel secondo comma (“tutela il paesaggio storico e artistico della Nazione”) vengono considerati due oggetti
diversi:

 Paesaggio: è difficile dare una definizione univoca del concetto ma si tende a far riferimento a due
teorie principali:

- coincide con l’idea di “bellezza naturale”, ossia formatasi per processi naturali e senza l’intervento
dell’uomo (monti, grotte ecc). Nozione limitativa;
- comprende anche il “paesaggio umano” ovvero formatosi per l’intervento dell’uomo sulla natura
(giardini). Nozione di paesaggio più largamente accolta oggi.

 Patrimonio storico-artistico: questa nozione ha generato numerosi dibattiti a livello interpretativo. I


beni culturali, in quanto beni, sono delle cose che possono formare oggetto di diritti, e che hanno un
valore culturale. Ciò non ci dice granché, perché non sappiamo ancora quando possiamo affermare
che una “cosa” abbia valore culturale. Per dare una definizione del concetto si possono considerare
le varie nozioni giuridiche succedutesi nel tempo come per esempio:

 La prima Dichiarazione della Commissione parlamentare Franceschini nel 1967, la quale


definisce “patrimonio culturale” tutti i beni facenti riferimento alla storia della civiltà.
Questa legge lascia sostanzialmente aperta la nozione di patrimonio culturale poiché non
vengono stabilite a priori le caratteristiche che un bene debba presentare per avere valore
di civiltà. Questa mancata definizione però ha permesso alla nozione di arte di espandersi
nel corso della storia e di evitare che la legge stessa risultasse ben presto inattuale. Nella
seconda parte della legge poi, si unificano idealmente i beni artistici, storici e archeologici
con il paesaggio, a conferma dell’analogo diritto di tutela.

Come abbiamo visto gli strumenti messi in atto dallo Stato a favore dei beni culturali secondo l’art.9 sono
tutela e promozione. In che modalità però avviene tutto ciò?

- Promozione: si può intendere o come semplice tolleranza dello Stato verso le attività culturali o
come incentivazione delle stesse tramite aiuti concreti. La seconda definizione è quella più
appropriata (secondo il prof) ma ovviamente servono dei criteri concreti per scegliere quali attività
meritano di essere supportate, soprattutto in caso di scarse risorse pubbliche.

- Tutela: l’accezione da preferire è quella per la quale lo Stato non deve solo conservare i beni
culturali ma deve anche valorizzarli.

Dunque le istituzioni devono proteggere i beni culturali e ambientali ma anche rendere la loro fruizione più
ampia possibile.

Chi si deve occupare di applicare quanto previsto dall’art. 9?

- La Repubblica: termine utilizzato nell’art. e che comprende tutto l’apparato pubblico.

- Gli enti locali: a seguito della riforma costituzionale del 2001, le amministrazioni locali sono
ritenute responsabili della promozione, della tutela e della valorizzazione dei beni culturali. Non a
caso, infatti, il campo dei beni culturali è quello in cui gli enti locali sono spesso più efficaci, anche
in difesa delle tradizioni locali.

- Lo Stato: mantiene la competenza legislativa esclusiva in materia di beni culturali ed ambiente e


promuove forme di coordinamento amministrativo in tale ambito. L’azione dello Stato dovrebbe
eliminare il rischio di una divisione tra regioni ricche o più interessate all’argomento, in cui i beni
culturali verrebbero tutelati, e regioni in cui tali beni verrebbero trascurati.

Oltre all’art.9, c’è un’altra disposizione culturale che tratta il tema dell’arte, ovvero l’art.33 della
Costituzione: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Il comma 1 stabilisce la libertà
delle manifestazioni artistiche ma anche la libertà nella loro divulgazione e trasmissione tramite
l’insegnamento.
Questo articolo costituisce un particolare caso di applicazione del principio generale della libertà di pensiero,
solo però in ambito artistico e scientifico, enfatizzando il privilegio delle manifestazioni dell’intelletto
umano quando queste appartengono al mondo dell’arte e della scienza.

L’articolo 21 della Costituzione stabilisce il principio in base al quale tutti hanno diritto a manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione , temperato al
6°comma, dal fatto che sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le manifestazioni
contrarie al buon costume.

Dunque, poiché vengano protette maggiormente le manifestazioni del pensiero umano devono rientrare in un
contesto artistico o scientifico:

- La scienza si definisce come un procedimento basato sull’applicazione di un metodo d’indagine


comparata e di verifica dei risultati ottenuti. (definizione che non va bene per le scienze umane
poiché la verificabilità dei risultati è più sfumata)

- L’arte è più difficile da definire ed è qualcosa di più limitato della cultura. Negli anni sono state date
molte definizioni del concetto ma nessuna è riuscita a definire l’arte in maniera completa. Oggi, il
vero problema non è quello di identificare l’arte come categoria generale, ma di definire la soglia
oltre la quale una manifestazione dell’intelletto assume carattere artistico e dunque può essere
protetta dall’art.33 della Costituzione. L’interprete dell’articolo può:

1. Considerare artistica qualsiasi manifestazione di creatività che utilizzi mezzi di diffusione idonei; ->
Rischio di ampliare troppo la tutela dell’art.33 Cost. comprendendo anche opere che hanno ben poco di
artistico.

2. stabilire un minimo valore che la manifestazione deve avere per essere considerata artistica. -> Rischio di
ampliare troppo la soggettività in quanto non tutti percepiscono lo stesso valore delle opere.

La soluzione scelta è stata la seconda con l’avvertenza, però, che la “soglia di artisticità” deve essere
collocata ad un livello adeguatamente basso per assicurarsi che venga tutelata tutta l’arte e non solo i grandi
capolavori.

Allo stesso modo, è stata prevista una “soglia” anche relativamente alla libertà di diffusione delle nozioni
scientifiche. È necessario, dunque, che la libertà d’insegnamento, ovvero la forma di divulgazione scientifica
più diffusa, presupponga che ciò che si insegna abbia un minimo di fondamento.

3. TRA TUTELA NAZIONALE E TUTELA INTERNAZIONALE

Dopo un periodo di tempo in cui la legge Bottai del 1939 è stata l’unico testo di riferimento per la tutela del
patrimonio culturale italiano, nel 1999 è stato approvato il T.U., ovvero il “Testo Unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali” che ricalcava la legge Bottai. Il TU ebbe vita breve,
infatti nel 2004 viene approvato il decreto legislativo “Codice dei beni culturali e del paesaggio” o “Codice
Urbani”, ancora oggi in vigore. Commento del testo:
- Art.1: esprime le finalità della legge e l’ambito di tutela. Vengono esplicitate le finalità di tutela
(conservazione) e valorizzazione (proiezione verso il futuro), per la conservazione della memoria
nazionale e allo sviluppo culturale.

Nei commi successivi al primo vengono chiariti i compiti dei soggetti in ambito di tutela e valorizzazione dei
beni culturali: gli enti territoriali e lo Stato hanno compiti più estesi; gli altri enti pubblici non sono tenuti alla
valorizzazione; i privati sono tenuti alla sola conservazione.

- Art.2: definisce il patrimonio culturale e l’oggetto di tutela dell’articolo che sono i beni culturali e i
beni paesaggistici. I beni culturali si distinguono in:

1. Beni appartenenti allo Stato o agli enti pubblici o a persone giuridiche private senza scopo di lucro;

2. Beni appartenenti a privati.

In entrambi i casi per essere riconosciuti come beni culturali devono presentare interesse storico,
archeologico ed etnoantropologico e solo nel secondo caso (beni privati) devono essere dichiarati di interesse
culturale dalla Pubblica Amministrazione affinché si applichino le disposizioni del Codice Urbani.

Per quanto riguarda i beni paesaggistici, questi possono distinguersi in aree naturali particolarmente
apprezzate per la bellezza o paesaggi modificati dall’uomo.

Come si deduce, la definizione di patrimonio culturale è talmente ampia da comprendere qualsiasi bene che
abbia un minimo di interesse. Per questo motivo, sono state introdotte due limitazioni al Codice Urbani:

- I beni appartenenti a privati devono essere dichiarati di interesse culturale dalla Pubblica
Amministrazione.

- Per essere sottoposte al Codice, le opere devono essere di autore non vivente o devono essere
esistenti da almeno 70 anni.

Vincoli e limitazioni legati allo status di bene culturale:

1. Vigilanza ed ispezione: da parte del Ministero dei beni culturali per verificarne lo stato

2. Limitazioni al diritto di proprietà: il proprietario di bene culturale può disporne liberamente ma


non può distruggerlo o alterarlo senza autorizzazione

3. Obbligo di conservazione: è necessario preservarli dai danni del tempo, restaurarli, ecc.

4. Vincoli in tema di circolazione nazionale del bene culturale: i beni di proprietà pubbliche sono
inalienabili, fatta eccezione di alcuni beni di autore vivente che sono alienabili previa autorizzazione
del Ministero. I beni di privati, invece, sono alienabili previa autorizzazione della PA. -> Chi vuole
alienare un bene deve comunicarlo alla soprintendenza, la quale trasmette la proposta agli enti
pubblici interessati. Entro 60 giorni la PA può acquistare il bene allo stesso prezzo concordato tra
proprietario e terzo interessato all’acquisto. Passati i 60 gg per l’esercizio del diritto di prelazione,
può avvenire la compravendita tra proprietario e privato.

5. Vincoli in tema di circolazione internazionale: per i beni appartenenti allo Stato c’è un divieto
assoluto di esportazione a titolo definitivo. Per gli altri beni, l’esportazione deve essere autorizzata
dal ministero (consegna “attestato di libera circolazione”).
Quando però un bene può essere autorizzato o no a circolare liberamente? Varie tesi:

- L’importanza stessa del bene dovrebbe impedirne l’esportazione;

- Il bene deve presentare un dato legame con la cultura italiana, tale da rendere la sua esportazione una
lesione dell’identità culturale del paese. -> tesi che prevale. Per evitare che però il Ministero avesse
troppa libertà nel deliberare le opere sottoposte alla legge sono stati introdotti dei limiti. (soglia di
valore di 13.500 euro, al di sotto della quale il bene non richiede l’autorizzazione per circolare).

L’esportazione temporanea, in occasione di mostre o restauro, prevede un’autorizzazione, che può essere
negata, per il pericolo che il bene (per sua natura o stato di conservazione) possa deteriorarsi durante il
trasporto.

- Artt. 88 e segg. del Codice regolamentano i “ritrovamenti e scoperte”. In tale contesto vengono
regolamentate le attività che concernono principalmente i beni archeologici, la cui ricerca è riservata
allo Stato. Un problema a parte è quello delle scoperte fortuite; in proposito l’art. 91 del codice
urbani stabilisce che “le cose indicate nell’articolo 10 appartengono allo Stato e fanno parte del
demanio o del patrimonio indisponibile ai sensi degli articoli 822 e 826 del codice civile”.

Riguardo al fatto che il codice distingue il patrimonio culturale in beni culturali e beni paesaggistici, è
evidente che non ricadono nell’ambito di tutela del codice valori quali la salubrità del territorio. Il primo
problema che si pone è quello di definire il paesaggio:

- Art. 131 del codice secondo il quale il paesaggio è un ambiente caratterizzato da un contesto:
espressivo di identità e derivante dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni. La
formulazione originaria della norma prescriveva come carattere del paesaggio l’omogeneità, anche
se l’iniziale riferimento a tale caratteristica è stato successivamente eliminato. È bene ricordare che
la tutela ha come epicentro non il paesaggio in sé, ma la percezione umana del paesaggio che deve
ricollegarsi ad un comune sentire, a valori tradizionali, ma sufficientemente adattabili, di bellezza. Il
canone estetico sulla base del quale misurare la tutelabilità del paesaggio deve dunque essere in
grado di essere adattato alla percezione mutabile dell’uomo.

- Art. 143, anche il paesaggio è soggetto a tutela e valorizzazione, tali compiti spettano alle regioni
che utilizzano a tal fine lo strumento dei piani paesaggistici le cui varie fasi sono indicate nel
suddetto articolo. Alla definizione dei piani paesaggistici possono concorrere anche i cittadini, per il
tramite delle “associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi”; questo è un esempio di
democrazia partecipativa la cui previsione dimostra il carattere sensibile della tutela del paesaggio
percepita come un’esigenza primaria dalla collettività cui questa è chiamata a ricorrere.

Il discorso riguardo alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali è ricco di riferimenti al turismo, alla
circolazione, alla importazione ed esportazione poiché è evidente che il patrimonio culturale è suscettibile di
fruizione allargata ai cittadini di altri paesi e appunto di circolazione. Per questo motivo vi è l’esigenza di
tutelare e valorizzare il patrimonio culturale anche in ambito internazionale o sovranazionale. Questa
esigenza non si è manifestata solo in tempi recenti:
- 1921, la Società delle Nazioni forma la Commissione Internazionale per la Cooperazione
Intellettuale, volta a favorire l’interscambio e la comunicazione culturale tra i popoli.

- 1931, Carta di Atene, la quale costituisce un importante documento in tema di restauro. Questa
carta esprime diversi principi tra i quali: protezione dei monumenti come diritto collettivo, rispetto
urbanistico ragguagliato al contesto architettonico antico nel quale le nuove costruzioni sorgono.

Discioltasi la Società delle Nazioni, viene costituita all’organizzazione delle Nazioni Unite la quale fonda
una propria agenzia specializzata denominata UNESCO. Lo scopo dell’UNESCO è esplicitato dall’art. 1
dello Statuto ed è quello di “contribuire alla pace e alla sicurezza promuovendo la collaborazione tra le
nazioni attraverso l’istruzione, la scienza e la cultura al fine di espandere il rispetto universale per la
giustizia, per il rispetto della legge e per i diritti umani e le libertà fondamentali che vengono affermati per i
popoli del mondo, senza distinzione di razza, sesso, lingua religione, dallo statuto delle Nazioni Unite”.

Questo articolo porta a chiedersi quale sia il rapporto presente tra l’economia (ovvero il motore dei conflitti),
l’istruzione, la scienza e la cultura. La risposta è duplice: la scienza, l’istruzione e la cultura portano
inevitabilmente con sé il miglioramento del tenore di vita elevando quindi il livello economico e indebolendo
le tensioni fra i popoli che causano conflitti; inoltre la conoscenza dell’altrui cultura, la sua condivisione e la
sua ammirazione rendono meno frequente l’istinto dell’aggressione del diverso. Dunque la cultura è un
valido strumento per assicurare pace, sicurezza e rispetto tra le nazioni.

Tra i primi atti della neonata organizzazione vi è anche la introduzione di un nuovo concetto: quello di
cultura mondiale, citato nel preambolo della convenzione dell’Aja ,che si occupa di protezione dei beni
culturali in caso di conflitto armato:“i gravi danni arrecati ai Beni Culturali, a qualsiasi popolo essi
appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, poiché ogni popolo
contribuisce alla cultura mondiale”. È inoltre interessante notare che la convenzione, nonostante sia volta a
regolare i comportamenti in caso di conflitto, indichi anche una serie di misure da adottare in tempo di pace
per ridurre al minimo i rischi di danneggiamento bellico dei beni culturali.

Nonostante ciò ben presto gli Stati e l’UNESCO si resero conto che non bastava la tutela in contesto bellico
ma era necessaria anche una tutela in tempo di pace, poiché la guerra non è la sola minaccia all’integrità del
patrimonio culturale (vandalismo, scempi edilizi, mancanza di fondi); per questo viene firmata nel 1972 a
Parigi la convenzione UNESCO la quale afferma che “la degradazione o la sparizione di un bene del
patrimonio culturale e naturale è un impoverimento nefasto del patrimonio di tutti i popoli del mondo”. La
convenzione indica dunque i beni oggetto di protezione che vanno inseriti in una particolare lista del
patrimonio dell’umanità; il compito di identificare in concreto quali beni proteggere spetta ai singoli Stati.
La lista, al momento in cui questo testo viene scritto, include 1121 siti suddivisi fra: culturali, naturali e
misti. Affinché un sito venga incluso nella lista occorre presentare domanda ad un comitato costituito presso
l’UNESCO; dopodiché se la domanda venisse accolta, la tutela internazionale potrebbe consistere
nell’elaborazione di studi, nella fornitura di attrezzature scientifiche o in aiuti economici. E’ inoltre prevista
la costituzione di un fondo UNESCO con il compito di contribuire economicamente alla protezione dei siti
compresi nella lista.

Nel 2003 viene poi promossa la costituzione anche di una lista relativa al patrimonio culturale
immateriale, di cui fanno parte le tradizioni orali e in generale tutti i fenomeni culturali che non abbiano una
precisa identità fisica.

4. I PRIVATI E LA CULTURA: MECENATISMO E SUSSIDIARIETÀ


Nell’ambito della tutela dei Beni Culturali però è fondamentale che vi sia una collaborazione da parte dei
soggetti privati che non devono essere visti come destinatari di obblighi, ma come attori protagonisti della
tutela. Già in epoca antica infatti, grazie al mecenatismo, i nobili e i ricchi si circondavano di artisti e uomini
di cultura incoraggiando così creazioni che andavano a vantaggio della collettività. Infatti quando il
fenomeno della scarsità delle risorse pubbliche iniziò a divenire un problema per la tutela e la valorizzazione
della cultura, si fece strada l’idea che si potesse delegare lasciando ai privati questi compiti nonostante
competesse allo Stato un ruolo nella gestione del patrimonio culturale. Il sistema che quindi possiamo
immaginare nei rapporti tra privati e Stati nella gestione della cultura e dunque sostanzialmente tripartito in
tre momenti: collaborazione, delega, limitazione, le quali raramente si sono presentati in maniera disgiunta.

A questo tipo di ricostruzione se ne contrappone uno completamente diverso che potremmo definire neo
mecenatismo. Nel 2001 infatti, la riforma del titolo V della costituzione ha affiancato al nuovo disegno dei
rapporti tra enti territoriali e stato un ulteriore valorizzazione della funzione dei cittadini nella tutela di beni e
funzioni di interesse generale, secondo la formula della sussidiarietà orizzontale prevista nell’Art 118
Cost, il quale stabilisce anche la libertà di associazione. La norma però non risolve il problema di
identificare quali attività possono delegarsi e quali no.

Le attività ad alto valore politico economico e strategico come la gestione dell'economia della difesa della
Giustizia non possono essere delegate. L’ambito principale evidente di applicazione è quello dei servizi
sociali in senso lato, ed in primo luogo le attività di assistenza ai bisognosi. Le attività di tipo culturale si
prestano ad essere delegate e proprio su questa facilità di collaborazione tra pubblico e privato che si fonda il
“neomecenatismo”.

 Le fondazioni bancarie non che hanno svolto e svolgono un formidabile ruolo di tutela ai finanziamento di
attività culturali ricordiamo il contributo dato da soggetti come la fondazione Guggenheim, la fondazione
Maeght e la fondazione Gulbenkian all'allestimento di spazi museali. 

Si afferma un concetto più ampio, quello di distretto culturale definito come:”un sistema territorialmente
delimitato di relazioni che Integra il processo di valorizzazione delle dotazioni culturali sia materiali che i
materiali con le infrastrutture e con gli altri settori produttivi che a quel processo sono connessa “.

Si tratta di un concetto esteso nel quale più soggetti a vario livello integrati agiscono in un determinato
territorio per valorizzarne le peculiarità ed arricchirlo in senso economico e non facendo leva sulle sue
ricchezze culturali. Nel percorso dal mecenatismo abbiamo potuto constatare come l'iniziativa dei privati nel
campo della cultura un tempo rimessa a sporadiche iniziative individuali, è stata in maniera crescente
istituzionalizzata ed incoraggiata. Ne risulta un regime di tipo misto ove lo Stato confida in maniera
crescente sulla porto dei privati alla gestione di attività considerati spesso non strategiche(come i beni
culturali). 

La confidenza dello Stato è spesso divenuta una vera e propria pretesa come quando si tenta di imporre alle
fondazioni bancarie di agire seguendo rigide direttive statale: dovette intervenire la Corte Costituzionale per
affermare che le informazioni che le fondazioni pur sempre di natura privata non potevano soggiacere alle
direttive rigide della pubblica amministrazione. Il problema deriva dal fatto che l'attività di tutela gestione e
valorizzazione dei beni culturali e da un lato dispendiosa dall'altro scarsamente redditizia. 

5. CULTURA ED ECONOMIA 

Quindi le criticità che contraddistingue la gestione della cultura sono: l'apparente incapacità dei beni e delle
attività culturali a produrre reddito o a produrlo in maniera sufficiente al loro mantenimento senza
l'intervento finanziatori della pubblica amministrazione o dei privati. Il problema del finanziamento delle
attività culturali rientrano nei compiti fondamentali dello Stato nell'interesse della collettività. 

Si sta fermando il concetto di “impresa culturale” cioè che abbia ad oggetto la cultura in senso lato,la novità
consiste nel fatto che la gestione della cultura può essere vista come attività prevalente o addirittura
esclusiva  che allo stesso tempo possa produrre reddito.

Il crescente bisogno di cultura dei cittadini il concetto di impresa culturale e si è andato ad arricchire di
significato. Rispetto ad altri tipi di impresa quella culturale presenta alcune caratteristiche di
differenziazione: 

  l'oggetto principale e la tutela di un interesse pubblico mentre quello privato si pone in rapporto di
secondarietà finisce dunque di essere una sorta di by-product del primo

 mentre la maggior parte delle imprese hanno come oggetto la gestione la produzione di beni e servizi
infungibili i beni culturali spesso sono infungibili.Ad esempio le collezioni degli Uffizi e della
National Gallery di Londra non sono tra di esse scambiabili.

Le imprese culturali pur avendo scarse attitudini a  produrre reddito in eccedenza dei costi di gestione, hanno
come effetto indiretto di generale il cosiddetto “indotto” ossia incrementare la redditività dell'Industria
turistica delle Industrie connesse. 

Distinzione tra impresa pubblica e impresa privata riguardo al modo in cui si esplica l'attività
imprenditoriale: se è libera si parla di impresa privata, se è  condizionata di impresa pubblica.Questa
classificazione non tiene conto di fenomeni tipici delle imprese bancarie nelle quali pur non potendosi
dubitare della natura privata dell'attività e dei soggetti l'interesse pubblico condiziona l’agire dell’impresa. 

La natura imprenditoriale “pura” dell'impresa culturale: il modello imprenditoriale non è incompatibile con
l'attenuazione del fine lucrativo,questo sia dovuta alla contemporanea presenza di fini pubblici ai fini privati;
non può trascurarsi il fatto che la presenza di un interesse pubblico non vale a cancellare l'economicità
dell'impresa. 

Le imprese pubbliche infatti devono tendere ad un fine di lucro anche se in maniera meno pesante di quelle
private. Dunque alcune imprese culturali possono essere redditizie, ma negli altri casi può essere un fine
lucrativo attenuato.

Dobbiamo cercare di capire quali siano i problemi come così come le peculiarità, della gestione di un
soggetto che comunque nasce allo scopo primario di soddisfare i bisogni collettivi pur avendo natura
privato. 

Le imprese culturali “emblematiche” dell'antieconomicità della gestione in senso economico  sono i musei.
In Italia il pagamento del biglietto di ingresso alle gallerie e musei vale a coprire una minima parte delle
spese per la conservazione delle opere, la guardiania, il personale, l'allestimento, le utenze ed i costi di
trasporto è di assicurazione. 

SI è pensato che il problema si poteve  risolvere con il ricorso agli sponsor, sponsorizzazioni.

 (La sponsorizzazione e il contratto con il quale un privato mette a disposizione di un'impresa culturale una
somma di denaro come corrispettivo dell'esposizione del proprio marchio e nelle manifestazioni legati ad un
determinato evento) come per esempio in occasione di una mostra la società X finanzia allestimento e per
compensare tale finanziamento i poster pubblicitari, depliant, cartelli di ingresso riporteranno il logo della
società X. La sponsorizzazione per le imprese private ha senso economico in quanto consente di
pubblicizzare il proprio nome e il proprio marchio legandolo ad un'attività quindi non ha lo scopo di
acquisire nuova clientela ma di rimediare quella che anglosassoni in quella che è definita la bad press
collegandolo a qualcosa di positivo e apparentemente disinteressato. 

Ma anche le sponsorizzazioni si sono rilevati insufficiente a coprire i costi di gestione delle imprese museali
e  ne hanno tentato a un'altra soluzione quella dei servizi accessori non necessariamente inerenti alla sua
attività propria ma comunque connessi.Nel caso dei musei si tratta del ristorante,di caffetteria e del bookshop
come previsto dall'articolo 117 del Codice Urbani. L'affidamento avviene sulla base di un corrispettivo
misurato in modo da garantire comunque un adeguato utile residuo all'impresa affidataria, ma anche questa
forma di finanziamento si è rilevato insufficiente a coprire i bisogni.

Un nuovo fervore nella gestione dei musei pur non rendendoli autonomi dal finanziamento pubblico possono
migliorare la redditività. Tra gli interventi si possono citare:

a.  ha una nuova ripresa delle sponsorizzazioni estesa non più alla sola organizzazione di eventi
tradizionali (mostre) come ad esempio il restauro delle opere ( il caso del restauro del Colosseo). In altre
parole i cittadini considerano tra i  compiti necessari quello di investire nel sociale e nella cultura, si sta
assistendo ad un periodo di grande popolarità dello strumento della sponsorizzazione che darà un
significativo apporto alle gestioni e museali.

b.  l'azione fiscale che è attuata attraverso la deducibilità fiscale degli atti di liberalità verso le
istituzioni culturali ma anche attraverso incentivi agli investimenti in imprese culturali.

c.  la creazione di poli culturali. Infatti è stato notato che accostare insieme in un unico contesto attività
culturali diverse, incentivi e moltiplica la possibilità di fruirne. Esempio l'Auditorium “Parco della Musica”
di Roma, il complesso del South Bank a Londra.

d. l’incentivazione del turismo culturale agisce come moltiplicatore dell'indotto. 

La gestione dell'impresa museale è tra quelle che presentano maggiori profili di criticità in termini di
attitudine alla economicità.

 Per il settore dello spettacolo dal vivo si deve fare un dicorso distintivo, si tratta di un settore che ha scarsa
attitudine alla redditività essendo destinato ad un pubblico di nicchia e avendo costi di allestimento in
tutt'altro che indifferente il valore. Il valore culturale degli spettacoli dal vivo è facilmente intuibile si assiste
oggi ad una crescente popolazione di questo settore specie nell'ambito di spettacoli musicali che passa spesso
per una banalizzazione dei valori culturali rappresentati, ma che denota una notevole vitalità. Da questi dati il
legislatore ha previsto noleggiato la legge 3.4.5 n. 163 denominata “Nuova disciplina degli interventi dello
stato a favore dello spettacolo” la normativa poi radicalmente rivista con la legge 22.11.17 175, che in 
sostanza stabilisce l'istituzione di un FUS( fondo unico per lo spettacolo). Un intervento di finanziamento
diretto con il quale lo stato eroga a fondo perduto contributi ai soggetti operanti nel settore. Al di là dei
finanziamenti diretti la legge prevede agevolazioni fiscali per il settore che sono in forma di detassazione
degli utili reinvestiti nella produzione di nuovi spettacoli che costituisce un incentivo ai nuovi allestimenti
rispetto alla distribuzione degli utili stessi.

Per gli enti lirici esiste però una disciplina introdotta dalla legge 23. 4. 98 n.134 in tema di “Trasformazione
in fondazione degli enti lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate a norma dell'articolo 11, comma 1,
lettera b, della legge 15 marzo 1997, n. 59” .Il legislatore è nuovamente intervenuto con un provvedimento
molto controverso il punto l30 4.10 n. 64 convertito in l. 29.6. 10 n. 100 la normativa del 1998, prevedeva
che enti e istituzioni liriche e concertistiche fossero trasformati in fondazioni di diritto privato. La
trasformazione era volta principalmente ad acquistare la partecipazione alla fondazione di soggetti privati e
attraverso questo meccanismo si realizzava il fine di concorso dei soggetti privati alla gestione ed   al
finanziamento dell'attività dell'ente lirico, a testimonianza del riconoscimento della ineludibilità del concorso
tra privato e pubblico nella cultura. Si tratta di una sorta di “neomecenatismo obbligatorio”.

Il nuovo intervento legislativo stabilisce alcuni principi ancor più estremi:

1.  si richiama esplicitamente il criterio della imprenditorialità quale principio fondamentale della
gestione. 

2.  si è ritenuto graduare l'intervento ed il contributo statale sulla base di programmi di gestione con un
controllo da parte del Ministero sui programmi stessi.

Le controversie scatenate sono in parte dovute ai principi più restrittivi in materia di contratto di lavoro del
personale degli enti lirici. Il criterio di imprenditorialità riesce per definizione a raggiungere in equilibrio di
bilancio, rischia di incidere in maniera drammatica sul livello qualitativo degli allestimenti. Le attività
culturali e dal vivo debbono la loro sopravvivenza esclusivamente ai finanziamenti esterni; non sono in grado
di autofinanziarsi. 

L'azione dello stato ha il compito non solo di individuare le risorse necessarie ma anche le singole opere
quelle stesse vanno indirizzateè tutt’altro che agevole e pone una serie di problemi politici e tra concezione
elitaria o intellettualistica della cultura che potremmo definire “nazionalpopolare” della cultura. L'equilibrio
tra queste due componenti e delicato, se aderendo alla prima concezione corriamo il rischio di creare una
insanabile frattura tra classi di Élite e classi popolari, aderendo alla seconda rischiamo  di finanziare solo gli
spettacoli che già si finanziano da soli oppure a dirottare le risorse dalla cultura verso lo sport.

 L'importanza del settore cinematografico in campo culturale risiede sostanzialmente nella sua
disponibilità.Le opere filmiche sono fruite da una grande maggioranza dei residenti nei paesi del mondo e
costituiscono così un formidabile mezzo di diffusione dei messaggi.

 Il problema è che il cinema ha assunto più di altre forme  culturali dicotomia, di valori e di significato: può
discutere un po' la differenza di valore tra “La vedova allegra” di Franz e “Il Crepuscolo degli Dei” di
Wagner. Le opere cinematografiche si prestano a soddisfare sia un bisogno immediato di intrattenimento sia
un bisogno  appagamento intellettuale, entrambi i bisogni vengono appagati. Ma parliamo di eccezioni
rispetto ad una regola che vede per l'appunto contrapposti film d'autore e di cassetta. 

Parlare di finanziamento alle opere cinematografiche è evidente che si ponga allo stesso tipo di
problematiche del finanziamento ai spettacoli dal vivo, con aggiunta importante quella della cinematografia è
una vera e propria industria. L'ultimo intervento organico è avvenuto con il varo della l.14.11.16 n. 220 la cui
disciplina è incentrata sull'adozione di meccanismi di incentivazione ed autofinanziamento dell'opera
cinematografica.Una importante disciplina che riguarda i finanziamenti UE alle opere cinematografiche
europee.

Nel 2007 la commissione ha varato il programma “Media 2007” che prevede l'erogazione di 755 milioni di
euro complessivi all'industria cinematografica, di cui 75% di tali risorse sono destinate alla diffusione dei
film europei in paesi diversi da quelli di produzioni, indirizzate alle fasi di formazione e sviluppo
distribuzione promozione e alle azioni trasversali come per esempio progetti pilota su tecnologie digitali. Il
programma Media fornisce supporto al 50% circa dei film europei destinati alle sale interessante aspetto
dell'interazione impossibile tra cinema e diritto e Art. 33 della Cost. e quello della cosiddetta censura
cinematografica, questo perché dovuto al particolare realismo del mezzo.Come per esempio in uno dei   film
muti “The Great Train Robbery” 1903 in una scena nel quale un attore spara verso la folla fu accompagnata
da panico in sala e viene richiesto l'intervento delle autorità. 

Oggi la censura cinematografica assume aspetti ed estensioni diversissimi nei vari paesi.
è assente in Canada, estrema nei paesi islamici mentre nei paesi Occidentali  assume una varietà di
contenuti. 

In Italia la normativa attuale prevede che il nulla osta, la proiezione si è rilasciato dalle 8 commissioni per la
revisione cinematografica. Se nel film compaiono animali la commissione viene integrata da un esponente
dalle associazioni animaliste, se il film non ottiene il nulla osta o li viene imposto il divieto di pressione a
minori si può interporre appello. Raramente ad un filo viene negato il tout court il nulla osta è l'ultimo caso è
stato quello di “Morituris” un film del 2011 che tuttora è bloccato. 

CAPITOLO 20: Storia ed evoluzione della moneta

di Giuliano Lemme

1. Introduzione

La moneta è il fondamento dell'economia di scambio, senza essa il motore del mercato (basato sull'economia
di scambio) non può funzionare.

L’origine della moneta è da ricondurre al momento in cui la complessità crescente delle relazioni umane
rende impossibile lo scambio basato sul baratto. Quest’ultimo, presuppone la “doppia coincidenza dei
bisogni”, ossia una situazione in base alla quale il soggetto A, che detiene un bene che è disposto a scambiare
per ottenerne un altro, sia in grado di trovare un soggetto B che:

a. detenga il bene che lui vuole acquisire;

b. sia disposto a scambiarlo;

c. sia interessato ad acquisire a propria volta il bene detenuto da A.

Tuttavia, una situazione del genere richiede un verificarsi contemporaneo di condizioni troppo complesse
affinché possa soddisfare le dinamiche di una economia. Dunque, era necessario trovare un bene intermedio
finalizzato allo scambio, non desiderato di per sé come bene da mantenere e/o da consumare. Dovendo
dunque identificare le caratteristiche di un bene universale, le civiltà assunsero tre differenti approcci:

a. l'approccio simbolico: oggetti piccoli, leggeri e facili da trasportare che rivestivano un significato
simbolico (es. conchiglie delle civiltà isolane).

b. l'approccio utilitaristico: prendono come moneta beni dotati di una utilità universale (sale, punte di
freccia).

c. l'approccio metallico: vede le prime monete fatte su tre metalli: l'oro, l'argento ed il bronzo.

Le monete metalliche presentano l'importante caratteristica di presentare un marchio riferibile al Sovrano, e


di essere, dunque, controllate nell’emissione dallo Stato. La gestione della moneta da parte del Sovrano
implica il passaggio ad un'economia monetaria evoluta, nella quale, gli scambi possono essere controllati. La
moneta acquista valore oggettivo, impedendo che questa venga trattata come la merce. Nel tempo acquista la
caratteristica di aver corso legale: diviene il mezzo di adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Inoltre, il
Sovrano, avendo il monopolio sul conio di moneta, può controllarne il quantitativo da immettere sul mercato,
impedendo i fenomeni inflattivi o deflattivi connessi all’approvvigionamento dei metalli preziosi.

Da un certo periodo in poi, l’incremento continuo degli scambi richiedeva l'emissione di nuovi titoli
rappresentativi di metallo: le banconote. Esse attribuivano al possessore il diritto di ritirare un certo
quantitativo di metallo prezioso. Dal momento che tale facoltà veniva esercitata solo per una parte dei
biglietti cartacei effettivamente in circolazione, gli emittenti potevano usare una certa quantità dei depositi in
metallo prezioso per concedere prestiti. Con il Bank Charter Act del 1844, si ottiene il monopolio statale
nell’emissione delle banconote (in Inghilterra dalla metà del XIX secolo) e la Bank of England ottiene
l’esclusiva del diritto di stampare banconote. La convertibilità di queste ultime in metallo prezioso durò sino
al termine della Prima guerra mondiale, quando il dollaro USA rimase l'unica banconota convertibile in oro.

Nel 1944, a seguito degli accordi di Bretton Woods, fu inaugurato il Gold Exchange Standard: le monete
aderenti avevano un regime di convertibilità in dollari americani, a propria volta convertibili in oro. Tuttavia,
dal 1970 una serie di eventi esogeni (guerra in Vietnam, shock petrolifero) causarono la fine degli accordi di
Bretton Woods e la conseguente conclusione del rapporto tra moneta e metallo prezioso.

2. La moneta come mezzo di pagamento

La moneta riveste tre funzioni:

● adempimento delle obbligazioni pecuniarie

● unità di misura di valore;

● mezzo di accantonamento del risparmio.

(La prima funzione)

Il nostro Codice civile riconosce la moneta come mezzo per adempiere alle obbligazioni pecuniarie all'art.
1277c.c., “i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del
pagamento e per il suo valore nominale”.

La norma è volta a sottolineare aspetti particolari della moneta: quella del corso legale, ossia sanzionato dallo
Stato e l'obbligo di accettazione della moneta come mezzo di pagamento. L'art. 1277 c.c., tuttavia, detta un
altro principio: quello in base al quale l'estinzione avviene al valore “nominale” della moneta: esso è volto a
semplificare la circolazione monetaria, anche ove questa fosse legata al valore intrinseco della moneta:
indipendentemente da tale valore, il numero di pezzi monetari necessari ad estinguere l'obbligazione
pecuniaria è uguale a quello stabilito al sorgere dell’obbligazione.

Alcune obbligazioni pecuniarie superano il principio nominalistico, adeguando la prestazione in moneta al


valore effettivo che questa ha nel momento dell'adempimento. Si tratta di obbligazioni dette “di valore”. Nei
debiti di valore il corrispettivo, ossia la quantità di moneta da corrispondere, si determina non quando
l'obbligazione sorge, ma quando viene liquidata.

Per tutte le obbligazioni che non rientrano nella categoria di valore, e rimangono dunque ancorate al
principio nominalistico, sono stati apprestati ulteriori medi per temperarne il rigore. Tra questi, vi è la norma
dell’art. 1467 c.c., che stabilisce la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, dovuta ad
eventi straordinari ed imprevedibili. La norma, tuttavia, risolve solo in maniera molto parziale il problema
del possibile squilibrio tra le prestazioni dovuto alla variazione di valore della moneta. Inoltre, si applica solo
ove lo squilibrio sia dovuto ad eventi straordinari ed imprevedibili.

La svalutazione monetaria può essere effettivamente un “maggior danno” e la giurisprudenza ha fatto


applicazione di questa norma facendo riferimento proprio all'inflazione.

Tuttavia, il solo caso in cui possiamo applicare l'art. 1224, 2° co., c.c. è quello in cui vi sia inadempimento
dell’obbligazione pecuniaria; dunque, ove il debitore sia regolarmente adempiente, il creditore dovrà subire
la progressiva perdita di valore della sua prestazione, in aderenza al principio nominalistico.

3. La moneta come unità di misura

La seconda funzione della moneta è quella di unità di misura dei valori pecuniari. La moneta costituisce una
unità ideale, della quale dobbiamo prendere in considerazione i multipli per ricondurre ad un determinato
bene il suo valore. Tuttavia, manca oggettività nell’uso della moneta come unità di misura. Lo stesso bene
viene infatti normalmente “misurato” con una quantità di moneta differente nel tempo X e nel tempo X+n,
oppure nel luogo Y e nel luogo Z. Questa “instabilità” della moneta destabilizza a propria volta il q di
percezione dei valori che essa dovrebbe misurare.

4. La moneta come riserva di valore

La terza funzione della moneta è quella di riserva di valore. La moneta non consumata immediatamente può
essere accantonata per consumi futuri. Il valore della moneta deve essere misurato per consentire al detentore
di cogliere la disponibilità concreta (l'insieme di beni e servizi) che con la quale potrebbe acquistare.

5. La natura giuridica della moneta

La moneta non è da considerarsi un bene poiché non è compresa nella definizione giuridica di bene come
“cosa che può formare oggetto di diritti” (art.810 c.c.); disporre in modo esclusivo di un bene consiste
nell’alienazione a terzi, ovvero nel mutamento della destinazione produttiva del bene, mentre il “godimento”
consiste nell’utilizzazione diretta.

Dunque, considerare la moneta in tal modo non ha alcun senso, in quanto la funzione di essa consiste proprio
nel cederla ad altri come corrispettivo di beni o servizi. Di conseguenza, non si può essere proprietari di
moneta, essendo la proprietà legata al necessario binomio disposizione-godimento, che nella moneta non si
realizza.

6. Cosa si intende per “moneta legale”?

Tradizionalmente coincideva con la moneta fisica (cartacea o metallica), basandosi sulla definizione di
“moneta avente corso legale” contenuta nell'art. 1277 c.c., affermando la moneta fisica come unico modo di
adempiere l'obbligazione pecuniaria.

La conclusione più valida è che la moneta legale sia un contesto normativo, coincidente con la legge
monetaria o lex monetae. Dunque, la moneta fisica (al pari della moneta legale e di quella elettronica) è
semplicemente un mezzo trasmissivo della moneta legale. Tale conclusione è rafforzata dal fatto che è la
natura stessa della moneta a rendere centrale il momento della trasmissione o circolazione (il quale è definito
da un contesto di specifiche norme).

Questa lettura rende dunque più flessibile il concetto di adempimento della norma dell’art. 1277 c.c. e
permette anche di cogliere l’essenza della circolazione monetaria.

7. Le “altre” monete

Le “free money” sono monete in cui vi è l'assenza di un soggetto che garantisca ed imponga l'uso come
mezzo di soluzione delle obbligazioni pecuniarie, che pertanto viene rimesso alla volontà e all'accordo dei
soggetti protagonisti dello scambio.

Alcune di queste monete rappresentano un ritorno al valore intrinseco e alla funzione utilitaristica; altre
assumono vesti analoghe a quelle della moneta ufficiale con la differenza di poter essere accettate in
pagamento solo in contest territoriali limitati.

Infine, alcune monete sono nate e si sono diffuse in contesti digitali dematerializzati (es. di Bitcoin). Al
momento vi sono le notizie circa l'adozione di monete crittografiche anche da parte di banche centrali, come
nel caso della e-krona in Svezia o dello yuan digitale in Cina. Anche la BCE ha allo studio una moneta
analoga. Tuttavia, le monete alternative non possono allo stato sostituire del tutto quelle emesse dalle autorità
centrali.
CAPITOLO 21: Dalla moneta scritturale alla moneta elettronica

1. INTRODUZIONE

Per tanto tempo nel mondo occidentale si è ricorsi all’utilizzo di una moneta che assumeva un determinato
valore in base alla quantità di metallo utilizzato. Questa usanza dopo svariati secoli è però risultata poco
pratico, specie per importi elevati e così, già a partire dal XVI secolo, le banche iniziarono a pensare ad una
nuova moneta, che consentiva una maggiore facilità negli spostamenti: l’ecu de marc, non costituita da
banconote o metallo ma da un accordo tra più soggetti.

Lo scopo della creazione di tale moneta è evidente: si preferiva usare un’unità convenzionale, che
consentisse, mediante il meccanismo giuridico della compensazione tra debiti e crediti reciproci, una
maggiore agilità negli scambi.

La moneta in questione si basava su un accordo tra più parti, ed era privo di fisicità, rappresentata
semplicemente da una scrittura su un libretto annotato. Con l’avanzare del tempo la necessità di una moneta
prescindente dalla materialità crebbe e in questa situazione le banche furono di fondamentale importanza.
Inizialmente le banche stesse producevano della moneta metallica, la quale prescindeva dall’intervento del
Sovrano. Successivamente, le stesse banche hanno iniziato a consentire che la moneta fisica fosse sostituita
integralmente da una moneta basata su annotazioni, o scrittura: la moneta scritturale.

2. L’ANNOTAZIONE COME MOMENTO CARATTERIZZANTE DELLA MONETA


SCRITTURALE

Il termine ‘moneta scritturale’ è basata sul fatto che tale moneta viene creata o rappresentata mediante,
un’annotazione da parte della banca. La annotazione è un fenomeno che ha la sua prima fonte giuridica in
un contratto non bancario, quello del conto corrente civilistico previsto nell’articolo 1823 C. C..Pur non
avendo alcun rapporto con il conto corrente bancario o di corrispondenza, la norma introduce il concetto di
annotazione numerica rappresentativa di un certo quantitativo di moneta. Si crea quindi un rapporto
biunivoco tra denaro e scrittura, che scinde il primo dal legame con una entità fisica (denaro contante).

Un caso di annotazione avviene anche nel deposito bancario odierno, con le transazioni di denaro che sono
riportate all’interno di un libretto. Nel conto corrente bancario il momento dell’annotazione (e di
conseguenza anche la moneta scritturale) acquisisce fondamentale importanza poiché consente al cliente di
effettuare degli spostamenti di denaro senza avvalersi della moneta fisica. Per consentire alla banca e al
cliente di essere a conoscenza delle condizioni di entrambi i membri, nel conto corrente bancario si rende
necessaria la continua formazione di un saldo. In particolar modo si parla di 3 tipi di saldo: contabile (la
somma degli spostamenti di denaro), per valuta (in base al giorno in cui si calcolano gli interessi prodotti) e
ultimo ma non per importanza il saldo disponibile (la quantità di denaro che il cliente ha a disposizione).

Si va a vedere con quali strumenti avvengono le transazioni.

3. I MEZZI TRASMISSIVI DI MONETA SCRITTURALE: L’ASSEGNO

L’esempio più comune di pagamento in moneta scritturale è l’assegno, il quale può essere bancario (un
ordine, da parte del correntista, di pagare una determinata somma alla banca) o circolare (promessa di
pagamento che la banca fa al beneficiario). L’assegno bancario è un ordine che viene effettuato alla banca
dal cliente per pagare un terzo. Esso non è effettuabile se la disponibilità del cliente (o quando emette
l’assegno o al momento della presentazione all’incasso) è inferiore all’importo sancito nell’assegno, e in tal
caso si avrà un assegno irregolare, che è uno dei principali problemi riguardanti questo tipo di assegno. Per
questo motivo l’assegno bancario sta perdendo importanza.
Totalmente diverso è invece l’assegno circolare, che consiste invece nella promessa (e garanzia) di
pagamento da parte della banca nei confronti di un beneficiario in seguito al pagamento del cliente; non c’è
possibilità, a differenza dell’assegno bancario, che questo venga annullato, poiché il pagamento del cliente
avviene prima dell’emissione dell’assegno, e ciò consente un ambito d’uso più ampio rispetto al primo. Per
effettuare questi tipi di pagamento è necessario che il beneficiario ritiri materialmente il titolo cartaceo.

4. BONIFICO BANCARIO

Nel caso il cliente e il beneficiario si trovino a distanza si ricorre al bonifico bancario, un metodo di
pagamento che consiste nel trasferimento del denaro dal conto dell’ordinante al conto del beneficiario, che
per ricevere i soldi deve solamente fornire le coordinate bancarie del conto dove effettuare l’accredito, il ciò
rende questo metodo di pagamento uno dei più semplici. Nonostante l’estrema facilità nel trasferire il denaro,
questo metodo presenta alcune criticità, quali la prolungata attesa prima che il denaro venga effettivamente
trasferito e la difficoltà di questo trasferimento dal punto di vista giuridico.

L’utilità pratica del bonifico bancario lo rende uno dei metodi più utilizzati, in particolare da quando è stata
regolamentata la libera circolazione di denaro in Europa.

5. CARTE DI CREDITO

Un altro più recente metodo di pagamento è quello che avviene attraverso le carte di credito. Essa permette
sia di effettuare acquisti a distanza (trilaterale) che dal vivo (bilaterale, in cui l’emittente coincide con il
venditore) e in entrambi i casi il pagamento è immediato.

A livello giuridico ha la stessa valenza del bonifico bancario, ovvero una delegazione di pagamento.

Oltre all’importante funzione pratica, la carta di credito ha una funzione psicologica, la quale stimola il
possessore a compiere più acquisti, per questo è stata consigliata l’incentivazione nei momenti di crisi dato
che produce effetti inflattivi e aiuta a combattere la deflazione.

La carta di credito agisce sia come anticipo di disponibilità monetaria che come rateizzazione del rimborso.
Nel primo caso il rimborso avviene nel mese successivo a quello dell’acquisto, mentre nel secondo caso il
rimborso avviene a rate, e qui l’emittente riceve l’interesse, dunque viene rafforzata la funzione
inflazionistica della carta.

Il problema sotto il livello giuridico si pone quando vengono effettuati degli acquisti su internet, in cui
bisogna solamente inserire il codice della carta, un dato di per sé non riservato. Ultimamente gli emittenti
stanno anche richiedendo una password che viene in precedenza scelta dall’utente, per consentire di rendere
univoca la riferibilità della delega di pagamento all’effettivo titolare della carta.

6. LA MONETA ELETTRONICA: INTRODUZIONE

Occorre capire quale, allo Stato, possa essere una definizione di "moneta elettronica". La "moneta" deve
possedere delle caratteristiche fondamentali:

- destinata ad adempiere alle obbligazioni pecuniarie

- spendibilità generalizzata

- circolare in forma elettronica. La circolazione in forma elettronica è volta a distinguere la moneta


elettronica non solo e non tanto dalla moneta fisica quanto dalla moneta scritturale, la quale può
circolare anche in forma elettronica.

Si pone quindi il problema di distinguere i casi di circolazione in forma elettronica di moneta scritturale dalla
vera e propria moneta elettronica. Il discrimine, mi sembra, deve essere quello della funzionalità ed
esclusività della circolazione in forma elettronica. Possiamo dunque definire la moneta elettronica come un
modo di adempimento delle obbligazioni pecuniarie a spendibilità generalizzata (o, quanto meno, ampia e
potenzialmente indeterminata) che si attua strutturalmente e necessariamente in forma elettronica.

Si possono individuare due categorie principali che possono ricomprendersi nell'ambito della nozione:

a. i trasferimenti elettronici di fondi, o EFT (acronimo dell'inglese Electronic Funds Trasfers);

b. la moneta elettronica in senso stretto, consistente nella creazione di vera e propria disponibilità
monetaria direttamente su supporto elettronico.

b 1. moneta elettronica memorizzata su smart card;

b 2. moneta elettronica memorizzata su file.

Due fattispecie che solo apparentemente sono riconducibili alla categoria della moneta elettronica:

c. il bancomat;

d. le single o limited purpose smart cards.

7. IL BANCOMAT

Il bancomat è un servizio fornito dalle banche alla propria clientela, per consentire il prelievo di denaro
contante tramite una rete di sportelli automatici.

Acquisto a questo servizio così familiare sono peraltro sottesi una serie quasi infinita di problemi giuridici
che hanno appassionato la materia.

La legge sul tesserino: qualcuno aveva proposto di inquadrarlo tra i titoli di credito, come la cambiale e
l'assegno. Tuttavia, rispetto a questi, il bancomat manca di una caratteristica essenziale: non può circolare. E
caratteristica dei titoli di credito è proprio la loro attitudine alla circolazione.

Viceversa, il bancomat è, per espressa convenzione tra cliente e banca all'atto del rilascio, personale e
incedibile; il cliente può solo consentire che altre persone (da indicare nominativamente alla banca) lo
utilizzino. Questo, tuttavia, non implica riconnettere al bancomat una funzione circolatoria.

Il tesserino bancomat è stato dunque ricompreso tra i documenti di legittimazione, ovvero documenti la cui
funzione è quella di identificare il titolare di una prestazione. I documenti di legittimazione si dividono a
propria volta in titoli e contrassegni di legittimazione: i primi conferiscono al titolare il diritto di conseguire
la prestazione (l'abbonamento al teatro), mentre i secondi sono volti a liberare chi esegua la prestazione nei
confronti del possessore (la marca per il soprabito al guardaroba del medesimo teatro).

Venendo ai rapporti tra banca e cliente, il contratto di rilascio ed utilizzo del bancomat va senz'altro
annoverato tra i contratti c.d. atipici, ossia non specificamente regolamentati dal codice civile o dalle leggi
speciali.

Le prestazioni corrispettive sono: per la banca, la messa a disposizione del tesserino e del PIN, la
predisposizione, l'interconnessione e la manutenzione degli ATM; per il cliente la custodia del tesserino e del
PIN, l’addebito di commissioni.

I giuristi si sono poi divertiti ad interrogarsi anche sul rapporto tra banca pagatrice e cliente. Infatti, si
verifica spesso la situazione per cui il terminale che eroga il denaro non appartiene alla banca emittente, ma
ad un'altra banca, con la quale il cliente non ha alcun rapporto. In questo caso, se il malfunzionamento
dell'apparecchiatura comportasse un danno (ad esempio: distruzione del tesserino) non si creerebbe un
rapporto contrattuale, ma un rapporto extracontrattuale, regolato dall'art. 2051 c.c., salvo non voler
addirittura identificare la posizione della banca pagatrice con quella del rappresentante.

Quanto all'identificazione e la qualificazione del rapporto tra banca emittente e banca pagatrice, la teoria che
preferisco è quella del mandato con rappresentanza: la teoria della delegazione, da altri proposto, non regge
perché la delegazione presuppone l’esistenza di un credito e di un debito, mentre la banca che paga non ha
necessariamente rapporti di debito con la banca emittente.

In conclusione, il bancomat presenta numerosi interessanti rilievi di natura giuridica.

Rispetto alla moneta elettronica, peraltro, il bancomat gioca un ruolo marginale: esso serve solo ad
identificare, in via elettronica, l'avente diritto ad una determinata prestazione. L’elettronica ha dunque rilievo
solo al fine di consentire che l’operazione si svolga mediante apparecchi automatizzati.

8. IL POS

Il termine POS (point of sales) si riferisce ad una particolare apparecchiatura in grado di leggere e
trasmettere i dati di una carta magnetica e, per estensione, i pagamenti con tale apparecchiatura eseguiti. Il
POS appartiene alla categoria degli EFT (Electronic Found Transfer) che furono definiti già nel 1978 negli
Stati Uniti dall’Electronic Found Transfer Act.

Il servizio è analogo a quello della carta di credito: nel caso della carta di credito l’esercente trasmette il
memorandum di spesa e la somma gli sarà accreditata in base al negozio di convenzionamento, mentre sarà
prelevata dal conto del cliente in base agli accordi con l’emittente; nel caso del POS viceversa il
trasferimento di fondi è immediato senza bisogno di alcuna cooperazione dei soggetti coinvolti.

Nella carta di credito l'iniziativa della riscossione è dell'esercente il quale esibisce il memorandum di spesa,
con l'ordine di pagamento. La delegazione dunque, è espressa in forma esplicita, mentre il pagamento
dell'emittente in sostituzione del cliente avviene tramite un atto "ordinario" di volontà.

Nel POS, viceversa, da un lato la delegazione avviene mediante un atto atipico, quale la digitazione di un
codice su una apparecchiatura, dall'altro lo stesso pagamento da parte del "delegato " avviene in maniera
automatica senza atti tipici di volontà.

9. LE SMART CARDS

Il termine smart card indica una carta elettronica o magnetica in grado di memorizzare i dati, dal contenuto
monetario.

Le smart cards si dividono in single purpose, limited purpose e multipurpose, in base alla circostanza che
tramite esse si possa acquistare un solo bene o servizio, una serie limitata di beni o servizi, o potenzialmente
illimitati beni o servizi. A noi interessano, in questa sede, le prime (delle seconde ci occuperemo poi
parlando della e-cash).

Dal punto di vista giuridico, la smart card ha come nucleo caratterizzante la rappresentazione, elettronica,
leggibile da determinati apparati, di un credito verso l'emittente. Nel caso delle SIM, queste rappresentano
pertanto un credito verso un determinato operatore telefonico. Non solo: le SIM contengono anche i dati
identificativi dell’utente, ed altri dati da lui impostabili (come la rubrica telefonica).
A fronte del credito vi è un versamento in moneta (fisica, scritturale o elettronica) da parte del cliente. Tale
moneta viene poi convertita in forma leggibile dall’apparato.

Acquistando la smart card, dunque si crea una disponibilità in forma elettronica, e si acquisisce dunque un
servizio, più che è un bene. Attenzione però, la smart card è single purpose, ossia può essere utilizzata solo
per acquistare un determinato bene o servizio.

10. Le E-CASH

Possono annoverarsi due tipi di fattispecie:

- quelle basate su una carta ricaricabile;

- quelle basate su un portafogli virtuale memorizzato su file.

Tra le carte di credito ricaricabili, assume particolare rilevanza storica la Proton. Proton, che era gestita dalla
società belga Banksys, era una carta ricaricabile concepita per pagamenti di piccolo importo. L'importo
medio di ogni pagamento si aggirava intorno ai 10 euro, il che rendeva la carta, quanto a funzione
economico-sociale, ben diversa dalle carte di credito tradizionali.

In Italia, il più noto esempio di carta ricaricabile è PostePay, emessa da Bancoposta. I profili operativi di
questi strumenti sono del tutto simili. Ultimamente, conoscono una grande diffusione i sistemi di e-cash
basati su software, dedicati espressamente alla effettuazione di transazioni tramite Internet. Tra questi, quello
più noto e di maggior successo è Paypal.

In pratica, chi si registri a Paypal fornisce i dati di una carta di credito con la funzione di portafogli per i
pagamenti. I dati della carta non vengono però resi noti ai venditori: Paypal si interpone tra questi e gli
acquirenti, in maniera tale che, ad ogni pagamento, il sistema preleva il denaro dal conto dell'acquirente, e lo
trasmette, dedotta una commissione, al venditore.

Il grande vantaggio del sistema, oltre alla maggior sicurezza rispetto alle transazioni dirette, risiede nel fatto
che per trasmettere un pagamento sia sufficiente conoscere la e-mail del destinatario.

La nuova frontiera, da questo punto di vista, è il mobile payment, un mezzo tramite il quale con apparati
smartphone possono eseguirsi pagamenti senza un contatto fisico vero e proprio tra l'apparato del cliente ed
il POS, tramite tecnologia contactless.

Non può infine, anche se l'argomento è solo parzialmente correlato con quello della moneta elettronica, non
richiamare le monete virtuali, nelle quali lo ius monetae è stabilito da privati attraverso meccanismi in fondo
non lontani da quelli delle sharing economy senza alcun intervento di un autorità centrale e tantomeno
statale.

11. LA NORMATIVA SULLA MONETA ELETTRONICA


Il primo documento riferito alla fattispecie della moneta elettronica è consistito in un rapporto dell’IME, poi
divenuto BCE. sulle carte prepagate, risalente al 1994, nel quale l'Istituto si soffermava principalmente
sull'influenza delle carte prepagate sulla politica monetaria, e sulla necessità di approntare un sistema di
controlli sulla solidità degli emittenti. Nessun cenno alla predisposizione di una normativa organica sulla
moneta elettronica; è stato scelto un approccio di soft legislation, senza, cioè, prevedere strumenti diretti di
regolamentazione del problema, ma scegliendo la strada della raccomandazione non vincolante per gli stati
membri. È stata cosi emanata la raccomandazione 97489/CE sulle "operazioni” mediante strumenti di
pagamento elettronici.

Di interesse, nella raccomandazione, era anche la distinzione tra strumenti di pagamento mediante accesso a
distanza e strumenti di moneta elettronica in senso stretto. I primi si riferivano a qualsiasi strumento che
comporti una "autenticazione" del titolare, compreso, quindi, il telephone banking e l'home banking; i
secondi erano gli strumenti di pagamento ricaricabili che non comportassero movimentazione di conti, e a
loro volta distinti tra carte e memorie di elaboratore.

Altra linea di intervento della raccomandazione era quella concernente le informazioni ai titolari, improntate
alla trasparenza dei rapporti.

Era poi regolato, ai fini di agevolare l'uso dello strumento, il ricorso ad esenzioni di responsabilità per il
titolare in caso di furto e smarrimento della carta, analoghe, per la verità, a quelle diffuse per carte di credito
e bancomat.

Le previsioni della raccomandazione erano dunque volte all'evidente scopo di fornire al mercato ed ai
consumatori sicurezza circa la loro tutela nell'uso dei nuovi mezzi tecnologici, nell'ottica di un mercato
online che, all'epoca, cominciava appena a delinearsi, ma del quale si intravvedevano tutte le potenzialità.

Visto il tipo di approccio minimalista adottato con l’emanazione di una semplice raccomandazione, il
problema sia ben presto posto nuovamente. Questa volta ad intervenire è stata la BCE, che nell’agosto del
1998, tra i suoi primi atti, ha emanato il rapporto della moneta elettronica. Il rapporto definiva come
moneta elettronica, sia pure in via limitata, anche quella contenuta in limited purpose smart card; ed
evidenziava il ruolo potenziale rivestito dalla moneta elettronica per le transazioni a distanza; si soffermava
infine sulla natura dei soggetti emittenti.

12. Gli IMEL

Ancora una volta, i progressi tecnologici e l'evoluzione del mercato del denaro hanno reso necessario un
nuovo intervento, che ha preso corpo con l'emissione della Direttiva 2000/46/CE sugli Istituti di Moneta
Elettronica (IMEL).

Questi ultimi sono stati visti come soggetti diversi dalle banche, a cui viene riservata la sola, limitata di
emissione e gestione della moneta elettronica (attività che, peraltro, continuava comunque a poter essere
parallelamente svolta dalle stesse banche).

Gli IMEL, comunque, non raccolgono risparmio tra il pubblico, e non possono erogare il credito. La direttiva
(e la legge di recepimento), sul punto, sono chiare: l'art. 11, co. 2 bis del TULB, infatti, afferma
esplicitamente che la ricezione di fondi connessa all'emissione di moneta elettronica (purché, beninteso, la
trasformazione avvenga in maniera immediata) non costituisce raccolta del risparmio; mentre all'art. 1, 2°
co., è stata aggiunta la lettera h ter che prevede come la moneta elettronica non possa essere emessa per un
valore superiore ai fondi ricevuti (il che è evidentemente incompatibile con una funzione di credito).
13. LA PSD

Nell’ottica di perseguire l’obiettivo di realizzare una Single Euro Payments Area (SEPA) per i pagamenti
retail, il 13 novembre 2007, è stata emanata la Payment Services Directive ( PSD), ovvero la direttiva sui
servizi di pagamento nel mercato interno.

La PSD uniforma il contratto di servizi di pagamento, definendo giuridicamente una sorta di level playing
field per il mercato di riferimento e fornendo nello stesso momento anche un codice unico europeo per i
trasferimenti monetari eseguiti in moneta scritturale, prevedendo e disciplinando anche nuovi soggetti
imprenditoriali abilitati a operare come prestatori di pagamento nell’UE, ovvero gli Istituti di Pagamento
(IP). La PSD viene concepita anche per favorire l’innovazione nei pagamenti e quindi la concorrenza tra i
mercati nazionali e i relativi operatori, da un lato standardizzando i diritti e gli obblighi sussistenti
rispettivamente in capo ai prestatori dei servizi e agli utenti, dall’altro implementando disposizioni tese a
migliorare e ampliare i livelli di trasparenza delle operazioni.

La Direttiva si caratterizza per l’amplia trasversalità della disciplina. Le disposizioni della Direttiva sono
inclini a dettare una disciplina non differenziata a seconda del tipo di operazione considerata nello specifico
come bonifico, addebito diretto etc. ma regolamentando in modo organico sia i soggetti-prestatori dei servizi
di pagamento sia i contratti alla base di tali servizi messi in atto tra prestatori e utenti.

Dove vi sono delle norme diversificate l’ambito applicativo viene determinato attraverso il ricorso a 3
principali categorie di operazioni soggette all’applicazione della PSD:

- Ordini disposti dal pagatore

- Ordini disposti dal beneficiario

- Ordini disposti per il tramite del beneficiario

Sono assoggettate alla direttiva tutte le fattispecie nelle quali tra il pagatore e il beneficiario agisce un
intermediari. Esulano, invece, tutti i servizi di pagamento nei quali non sia possibile rinvenire un rapporto
diretto tra prestatore del servizio e utilizzatore finale.

Se si considera che la direttiva è stata redatta nell’ottica di conseguire un mercato unico dei pagamenti, non
si può ignorare che il pagatore potrà a tutti gli effetti utilizzare allo stesso modo un mezzo di pagamento
diverso dal contante entro i confini nazionali, in un altro stato membro dell’UE o verso un altro stato
membro dell’UE solo quando quel mezzo di pagamento, in termini di rapporto di valuta, potranno dirsi del
tutto prevedibili e coordinati in ciascun Paese della Comunità Europea.

14. LA DIRETTIVA IMEL 2

Il 16 settembre 2009 la materia è stata ulteriormente innovata con l’emanazione della Direttiva IMEL2
avente ad oggetto l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli Istituti di Moneta
Elettronica. La nuova Direttiva è stata emanata allo scopo di allineare la disciplina degli Istituti di Moneta
Elettronica a quella degli Istituti di Pagamento, introdotti dalla PSD.

La mutata impostazione amplia le possibilità operative degli IMEL, ora autorizzati a svolgere tutte le
tipologie di servizi di pagamento alle stesse condizioni degli IP, semplificandone il regime di vigilanza sulla
base del principio di proporzionalità. È possibile classificare le più importanti novità nella direttiva
riconducendole a 2 categorie principali:

 NUOVI EMITTENTI

- Ampliamento della gamma di attività esercitabili per gli IMEL

- Nuovi requisiti di accesso al mercato e nuovo regime dei controlli

- Possibilità di emettere moneta elettronica

 NUOVE FORME DI TUTELA

- Nuove fundus safeguarding rules

- Nuove condizioni di rimborso per il consumatore

La Direttiva propone anche una NUOVA DEFINIZIONE DI MONETA ELETTRONICA come “valore
monetario memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memorizzazione magnetica, rappresentato da un
credito nei confronti dell’emittente che sia emesso dietro ricevimento di fondi per effettuare operazioni di
pagamento e che sia accettato da persone fisiche o giuridiche diverse dall’emittente di moneta elettronica.”

Si tratta dunque di una descrizione ad ampio spettro che si presta a comprendere qualsiasi strumento di
pagamento prepagato, card based e server based, facendo quindi prevalere il principio di neutralità
tecnologica e coprendo tutte le situazioni nelle quali il P SP emette in cambio di fondi un valore prepagato
memorizzato che può essere utilizzato come strumento di pagamento proprio in quanto accettato da terzi
come pagamento.

15. L’ATTUAZIONE DELLA PSD IN ITALIA

In Italia la PSD e i suoi dettami normativi viene recepita dal decreto legislativo del 27 gennaio 2010. Il
sistema si basa su 3 concetti fondamentali:

1. Il “contratto quadro”, regola le future operazioni di pagamento attraverso la previsione di obblighi e


condizioni per disciplinare la futura esecuzione dei rapporti tra le parti dell’apertura e la
conseguente gestione di un conto di pagamento;

2. I prestatori di servizio a pagamento, non solo gli istituti di pagamento ma anche banche, BCE,
Poste Italiane e altre;

3. I micropagamenti ovvero i pagamenti di piccolo importo (fino a 30 euro). Il fatto che questi
pagamenti possano essere effettuati anche solo avvicinando la carta ad un lettore comportano un
minor grado di tutela per il consumatore a fronte però di un minor rischio legato all’esiguità degli
importi.
Il decreto legislativo sancisce il principio di rimborso delle somme dovute al pagatore a fronte di un utilizzo
non autorizzato della carta (smarrito, rubato) dopo la sua comunicazione che deve avvenire quindi nel più
breve tempo possibile, secondo le modalità previste dal contratto quadro.

16. LE NUOVE ISTRUZIONI DELLA BANCA D’ITALIA

La Banca d’Italia il 15 febbraio 2010 ha provveduto ad emanare le nuove “Disposizioni di vigilanza per gli
istituti di pagamento e gli istituti di moneta elettronica”. La portata innovativa di questa disposizione si
sostanzia, rispetto alle precedenti, in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari:

- Nella più dettagliata individuazione dell’ambito della normativa stessa, con particolare riferimento
a tutti gli “prodotti composti” ovvero gli schemi negoziali composti da due o più contratti tra loro
collegati che realizzano un’unica operazione economica;

- Nell’adozione del principio di proporzionalità, ovvero la disciplina viene declinata in modo


differente sulla base delle caratteristiche delle attività e dei servizi prestati e a seconda del tipo di
utente destinatario di tali attività e servizi;

- Nella differenziazione della base di utenza in diverse categorie;

- Nell’implementazione di strumenti di trasparenza, attraverso la previsione di obblighi di


comunicazioni al cliente, forme di pubblicità sulle condizioni economiche dei contratti, requisiti
minimi di forma e contenuto per la redazione dei contratti, meccanismi di tutela della clientela in
caso di variazioni contrattuali;

- Nella semplificazione delle informazioni e delle connesse comunicazioni per renderle più
comprensibili in tutte le fasi contrattuali e precontrattuali.

17. L’ATTUAZIONE DELLA IMEL 2 IN ITALIA

L’Italia ha recepito anche la Direttiva IMEL 2 con il decreto legislativo del 16 aprile 2012 n.45. Il decreto
apporta significative innovazioni essenzialmente su 3 livelli:

 Profilo definitorio → introduce la nuova nozione di moneta elettronica anticipata dalla Direttiva
IMEL2, più estesa e tecnicamente neutra rispetto alla precedente. La nuova definizione si
caratterizza per l’elevato grado di elasticità concettuale, contenendo tutti i casi in potenza in cui il
prestatore di servizi di pagamento emette un valore prepagato memorizzato in cambio di fondi, sulla
base del presupposto che tale valore può essere utilizzato come strumento di pagamento in quanto
accettato da terzi come pagamento.

La nuova definizione opera anche in senso negativo, sottolineando anche quale siano gli strumenti e le
operazioni che non rientrano nell’ambito di applicazione del decreto.

 Profilo dei soggetti abilitati all’emissione di moneta elettronica → il decreto precisa i confini della
riserva di attività. L’attività di emissione della moneta elettronica è destinata solo alle banche e agli
IMEL previa autorizzazione della Banca d’Italia e relativa iscrizione all’apposito albo di riferimento.
 Profilo della tutela del consumatore/utente → il decreto dispone la possibilità di rimborso dei fondi
versati in qualsiasi momento al valore nominale, prevedendo specifiche modalità di tutela della
moneta ricevuta dagli IMEL a fronte dell’emissione di moneta elettronica.

Il decreto mira, in sostanza, a collocare gli IMEL in una posizione privilegiata per l’esercizio dell’attività di
emissione di moneta elettronica e li abilita anche all’esercizio di altre attività imprenditoriali eliminando il
limite dell’esclusività dell’oggetto sociale per l’ottenimento dell’autorizzazione da parte della Banca d’Italia.
Resta comunque in capo alla Banca d’Italia la facoltà di richiedere all’IMEL la costituzione di una società a
sé stante per lo svolgimento esclusivo dell’attività di emissione di moneta elettronica.

1. LE ULTERIORI ISTRUZIONI DELLA BANCA D’ITALIA

Il 20 giugno 2012, la Banca d’Italia ha emanato le nuove Istruzioni di Vigilanza per gli Istituti di Pagamento
e gli Istituti di Moneta Elettronica. Il nodo centrale intorno al quale le nuove Istruzioni ruotano è costituito
dalla previsione del fondo destinato alla prestazione dei servizi di pagamento e all’emissione di moneta
elettronica presso tutti gli IMEL e gli IP che svolgono anche altre attività imprenditoriali. Alla Banca d’Italia
spetta il compito di esercitare i poteri di vigilanza sulle attività di prestazione dei servizi di pagamento e di
emissione di moneta elettronica.

Le Istruzioni precisano i termini relativi all’ammontare del capitale iniziale da assegnare al patrimonio
destinato e alle attività conferite in tale patrimonio. Al soggetto deputato alla revisione legale dei conti
dell’istituto spetta il compito di attestare che il valore netto delle attività e delle passività conferite nel
patrimonio destinato non sia inferiore al capitale minimo iniziale richiesto.

La responsabilità relativa alla verifica della corretta attuazione dei requisiti generali di organizzazione è
invece attribuita ai responsabili del patrimonio destinato, per cui devono essere descritti e assegnati ruoli e
funzioni nella relazione relativa alla struttura organizzativa.

IMEL e IP sono poi soggetti all’obbligo di tenere separate le attività relative ai servizi di pagamento e quelle
relative all’emissione di moneta elettronica e delle attività esercitate sia sotto il profilo amministrativo che
sotto quello contabile.

Il rendiconto del patrimonio destinato deve inoltre essere redatto ai sensi delle “istruzioni per la redazione
dei bilanci e dei rendiconti degli intermediari finanziari ex art.107 del TUB, degli istituti di pagamento, degli
IMEL, delle SGR e delle SIM”, E deve essere accompagnato da una relazione del soggetto deputato alla
revisione legale dei conti che garantisca la totale corrispondenza dei dati del rendiconto a quelli del bilancio
della società.

2. LA PSD 2 E IL REGOLAMENTO IFR

Il continuo progredire della tecnologia e la conseguente evoluzione del mercato dei pagamenti hanno
determinato l’esigenza di intervenire nuovamente sul quadro normativo di riferimento a livello UE e sulla
direttiva PSD che è stata abrogata e sostituita dalla PSD 2 che si compone di 116 articoli suddivisi in 6 titoli.
La PSD 2 risponde all’obiettivo di migliorare le condizioni di mercato si per i prestatori che per i fruitori dei
sevizi di pagamento e interviene innanzitutto a sanare le criticità, in particolare riferimento a:
o La non uniformità applicativa delle disposizioni nei vari Stati membri

o La presenza di troppo generiche esenzioni dall’ambito di applicazione della PSD

o L’incertezza giuridica in cui i soggetti del mercato si sono trovati ad operare

o I potenziali rischi per la sicurezza nella catena dei pagamenti

o L’insufficienza degli strumenti posti a protezione dei fruitori dei servizi di pagamento

La Direttiva agisce quindi:

 Nel merito dell’ambito oggettivo di applicazione della disciplina → positive scope:

• Introduzione di nuovi servizi di accesso ai conti

• Ridefinizione in senso neutrale di servizi già previsti dalla PSD

• Assoggettamento alle regole di trasparenza e corretta informativa di tutte le transazioni

 Nel merito dell’ambito oggettivo di disapplicazione della disciplina → negative scope:

• Revisionando il perimetro di deroga precedentemente previsto per gli agenti commerciali

• Ridefinendo le regole e i presupposti alla base dell’esclusione degli strumenti e delle reti
a spendibilità limitata

• Rimodulando le deroghe per l’impiego del credito telefonico ai fini dell’intermediazione


dei pagamenti

• Modificando il perimetro di esclusione precedentemente previsto per gli ATM


indipendenti

La PSD 2 introduce anche importanti novità nel “level playing field” abbozzato con la PSD, istituendo ad
esempio il Registro Elettronico Centrale della European Banking Authority (EBA), quale strumento unico di
accesso e interconnessione degli albi nei quali sono iscritti tutti gli istituti di pagamento autorizzati a operare
in ciascun Stato membro.

Per quanto riguarda le disposizioni in materia di tutela del fruitore dei servizi di pagamento, la PSD 2 riduce
la responsabilità dell’utente in caso di operazioni non autorizzate a 50 euro, motivo per cui l’EBA ha il
compito di dettare specifiche tecniche e linee guida tese a garantire l’autenticazione dell’utente.

L’Interchange Fee Regulation (IFR), anche se costituisce una misura autonoma e distinta rispetto PSD2, va
interpretato come complementare ad essa. L’IFR infatti interviene sul quadro normativo di riferimento del
mercato dei servizi di pagamento proprio in merito all’applicabilità delle commissioni interbancarie sulle
operazioni di pagamento basate su carta, ad esempio, fissa dei limiti massimi e prevede l’obbligo di
separazione dei costi relativi alle commissioni.

1. LA PSD 2 E IL RUOLO DELL’EBA: RTS E GUIDELINES


Il legislatore europeo ha stabilito di attribuire all’EBA il compito di approntare 6 Regulatory Technical
Standard (RTS) e 5 Guidelines, in modo da sottolineare da un punto di vista tecnico-operativo le novità
introdotte dalla PSD 2 e fornire agli Stati membri degli utili strumenti condivisi per la corretta
interpretazione delle norme e per una gestione cooperativa degli attori del mercato UE dei servizi di
pagamento.

RTS e Guidalines costituiscono degli strumenti fondamentali per il principale obiettivo della PSD 2, ovvero
quello di prevenire a un’applicazione uniforme della disciplina.

I 6 RTS forniscono standard tecnici di regolamentazione in merito a:

- “strong customer authentication and secure communication” → Identificare i requisiti atti a


garantire l’autentificazione del fruitore dei servizi di pagamento e mitigare il rischio di frodi e
abusi;

- “central contact point” → Definizione dei criteri per la nomina di un punto di contatto centrale e
delle funzioni proprie di tale punto;

- “EBA register” → Specificazione delle informazioni da notificarsi all’EBA e delle modalità con cui
trasmettere tali informazioni;

- “Passporting notifications” → Individuazione delle dinamiche di cooperazione e scambio di


informazioni tra le autorità degli Stati membri

- “Passporting compliance” → Identificazione delle pratiche, modalità e mezzi da adottarsi in


cooperazione tra gli Stati membri per garantire vigilanza uniforme e efficace

- “Register monitoring” → Definizione dei requisiti tecnici relativi all’accesso, allo sviluppo, alla
gestione e al mantenimento del RegistroElettronico Centrale dell’EBA;

Le 5 Guidelines forniscono orientamenti in merito a:

- “Insurance policies” → Definizione degli importi relativi alle assicurazioni per responsabilità civile
professionale o analoga garanzia;

- “authorizations” → Specificazione dei contenuti informativi da far confluire nelle domande di


autorizzazione degli istituti di pagamento alle autorità competenti;

- “security measures” → Individuazione delle misure di sicurezza;

- “Incident reporting” → Precisazione della prassi da adottare per la reportistica degli incidenti E
l’individuazione delle modalità di valutazione della rilevanza di tali incidenti;

- “Complaint procedures” → determinazione della procedura di reclamo.

2. LE NUOVE DISPOSIZIONI DI VIGILANZA PER GLI ISTITUTI DI PAGAMENTO E GLI


ISTITUTI DI MONETA ELETTRONICA
La Banca d’Italia, nel 2016, è intervenuta nuovamente sulla disciplina di vigilanza applicabile agli istituti di
pagamento e di moneta elettronica, pubblicando nuove disposizioni. Tali disposizioni configurano nuovi
obblighi a integrazione e specificazioni delle previsioni relative all’organizzazione amministrativa e
contabile e ai controlli interni, con particolare riferimento al sistema informativo.

In particolare, si dispone l’obbligo di dotarsi di specifici presidi per il corretto trattamento delle informazioni
sensibili detenute dagli istituti. Gli istituti sono tenuti quindi ad adottare modalità rafforzate di verifica
dell’identità del cliente, atte a garantirgli un “autentificazione forte”. Essi sono chiamati inoltre ad assicurare
al cliente la disponibilità di informazioni accurate e tempestive sulle tecnologie in uso, sulle modalità di
utilizzo di tali tecnologie e sugli strumenti di tutela disponibili in caso di frode.

3. IL DECEPIMENTO DELLA PSD2 DEL REGOLAMENTO IFR IN ITALIA

Il Decreto Legislativo n.218 del 15 dicembre 2017, ha implementato nell’ordinamento nazionale italiano la
PSD2 a livello di normativa primaria e ha introdotto altresì le necessarie norme di adeguamento con
riferimento alle disposizioni del regolamento IFR. I punti focali sono costituiti da:

- Estensione del positive scope, sia in termini geografici che di valuta

- La rimodulazione del negative scope

- Introduzione di nuovi servizi di pagamento

- Introduzione della strong customer authentication ovvero l’autentificazione forte o rafforzata della
clientela

- Introduzione del principio dello share per le spese applicabili alle transazioni

- Il divieto di surcharge ovvero il divieto per il beneficiario di imporre spese accessorie sull’uso di
determinati strumenti di pagamento

- Introduzione della possibilità per il prestatore di servizi di pagamento di sapere se sul conto del
pagatore vi sia la disponibilità dell’importo richiesto

- La riduzione dell’importo massimo che il pagatore è tenuto a sostenere in caso di operazioni di


pagamento non autorizzate (furto o smarrimento)

In seguito, il 26 maggio 2020 sono state pubblicate delle disposizioni correttive ed integrative sull’impianto
normativo italiano di recepimento della PSD2 e dell’IFR. Alcune revisioni sostanziali sono:

- L’esclusione dei soggetti che prestano unicamente il servizio di informazione sui conti dall’obbligo
di aderire ai sistemi di risoluzione alternativa delle controversie

- L’introduzione delle sanzioni amministrative a carico degli agenti in attività finanziarie in caso di
inadempimento delle disposizioni in materia di credito immobiliare ai consumatori

- L’obbligo dell’intermediario mandante di notificare la violazione di norme di condotta

- L’estensione dell’ambito di applicazione del diritto di regresso tra prestatori di servizi di


pagamento
- La previsione di sanzioni amministrative per la violazione delle norme sulla trasparenza bancaria in
caso di inosservanza del regolamento

- L’iscrizione degli istituti autorizzati stabilite in uno stato membro diverso dall’Italia in appositi albi
ad opera della Banca d’Italia

4. PROVVEDIMENTI DELLA BANCA D’ITALIA CONSEGUENTI AL NUOVO IMPIANTO


NORMATIVO

Per dare attuazione del nuovo impianto normativo risultante dagli interventi di recepimento della direttiva
PSD2 e IFR, la Banca d’Italia ha avviato una serie di consultazioni pubbliche per definire la normativa
secondaria di attuazione sia a livello di vigilanza sia di sorveglianza sui mercati e sul sistema di pagamenti.
Alla fine delle consultazioni sono state emanati 3 provvedimenti:

- I primi 2 provvedimenti mirano alla ridefinizione di alcune deroghe stabilendo le informazioni che
gli operatori telefonici e commerciali sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia.

- Il terzo provvedimento ha invece abrogato il precedente provvedimento del 2011 relativo al


recepimento della PSD.

Il 19 marzo 2019 è stato poi emanato il provvedimento della Banca d’Italia in attuazione delle disposizioni in
materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari e di correttezza tra intermediari e
clienti.

A tale provvedimento è seguito il provvedimento recante le nuove disposizioni di vigilanza per gli istituti di
pagamento e gli istituti di moneta elettronica del 23 luglio 2019. Quest’ultimo ha ridefinito il quadro di
vigilanza prudenziale per gli IP e IMEL.

5. IL FUTURO DELLA PSD2

La pandemia Covid-19, i continui processi di innovazione, la digitalizzazione e l’ingresso di nuovi operatori


nel mercato hanno dato un’ulteriore spinta alla diffusione degli strumenti di pagamento digitale ad alto
contenuto tecnologico, favorendo il rapido aumento delle operazioni senza contante. Si cerca quindi di
rendere i pagamenti digitali sempre più sicuri, accessibili e pratici.

Report on a digital euro della Bce sull’emissione di euro digitale analizza i possibili scenari nei quali si
renderebbe necessaria l’emissione di una moneta unica digitale come strumento semplice e universalmente
accettato.

Due recenti strategie della commissione europea:

- Retail payment strategy → sui pagamenti al dettaglio, punta a sostenere l’implementazione di


servizi di pagamento sicuri e rapidi per cittadini e imprese europee al fine di creare un sistema
paneuropeo dei pagamenti a dettaglio pienamente integrato;

- Digital finance strategy → volta a incentivare l’innovazione e la competitività nel settore


finanziario europeo tutelando i clienti e garantendo stabilità finanziaria.
Tutte queste iniziative, se lette in modo integrato, confluiranno ben presto in una nuova serie di interventi
normativi che avranno l’effetto di rendere imprescindibile un’accurata revisione della direttiva PSD2, dalla
quale senz’altro discenderà un nuovo quadro normativo in materia, funzionale a conferire all’Unione
Europea una leadership globale nella creazione e nell’implementazione delle nuove tecnologie al settore dei
pagamenti e a quello finanziario senza perdere di vista gli equilibri di stabilità del mercato.

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