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GEOGRAFIA UMANA 1

docente: Raffaella Afferni

programma da non frequentanti


a.a. 2021-2022

Libro di testo: Geografia Umana - un approccio visuale(Greiner, De Matteis, Lanza)

CAPITOLO 5 - LA GEOGRAFIA CULTURALE E LA GLOBALIZZAZIONE

Nell’introduzione al capitolo si parla di due ipotetici casi studio capaci di spiegarci come la globalizzazione possa
agire in due sensi: o mortificare le culture (es. caso degli Adivasi, popolazioni tribali native dell’India, eredi di
culture antichissime in cui la terra era considerata un dono supremo e come tale non doveva essere né venduta
né comprata, ma solo utilizzata per il mantenimento della società: questa loro profonda usanza entrò in contrasto
con le esigenze commerciali dell’India, che sfruttò le loro terre in quanto molto ricche di materie prime,
costringendo gli Adivasi ad emigrare), o diffondere le usanze di una ristretta cultura in tutto il mondo (es.
tatuaggi).

1. La globalizzazione oggi

Globalizzazione: insieme dei processi che contribuiscono a incrementare l’interconnessione e l’interdipendenza


tra le persone, i luoghi e le organizzazioni di tutto il mondo (manifestazioni evidenti della globalizzazione: cibo,
vestiti, e anche la crescita del turismo internazionale che mette in luce l’importanza dell'interazione spaziale, dei
flussi e della mobilità della globalizzazione).

Oggi la globalizzazione è il frutto del capitalismo1, ma l’interconnessione spaziale è in atto da molto tempo (vedi
XV secolo: commercio delle spezie tra Asia, Africa e mercati europei). La globalizzazione contemporanea,
invece, ha iniziato a manifestarsi negli anni 60 del secolo scorso, diffondendosi con particolare rapidità
soprattutto a partire dagli anni 80 e 90, quando diventarono poi di uso comune le parole “globale” e
“globalizzazione”. Rispetto alla globalizzazione dei secoli precedenti, la nostra si distingue per un’elevata
interdipendenza finanziaria, politica e culturale tra le varie parti del mondo.
Essa implica:
1) espansione orizzontale (da luogo a luogo) attraverso veloci flussi di beni, persone, idee che connettono
tutti o quasi i luoghi della terra;
2) espansione verticale che istituzionalizza e rende stabili questi legami.

La globalizzazione è al tempo stesso la causa e l’effetto dell’interazione spaziale. Essa è stata favorita in
particolare da cinque fattori:
1) capitalismo e ricerca di mercati su scala globale, e individuazione di luoghi dove le materie prime
possano essere reperite a basso costo, con la conseguenza di maggiori profitti;
2) innovazioni tecnologiche, dei trasporti e delle telecomunicazioni
3) riduzioni dei tempi e dei costi di trasporti e comunicazioni
4) aumento dei flussi del capitale finanziario
5) diffusioni di politiche che, di fatto, favoriscono la globalizzazione (nel 1995 si è creata ad esempio
l’Organizzazione Mondiale del Commercio, conosciuta come World Trade Organization o WTO, il cui
obiettivo è quello di istituire e attuare una regolamentazione in senso liberista del commercio
internazionale).

1
Capitalismo: sistema economico e sociale in cui il capitale produttivo è detenuto di regola da privati
(individui o società), che lo utilizzano per ottenere profitti dalla vendita dei beni e servizi prodotti da
lavoratori dipendenti, per poi reinvestirli in attività produttive o finanziarie al fine di accrescere il
capitale stesso. Capitale: insieme di mezzi di produzione che, combinandosi con il lavoro, permettono
la produzione di beni e servizi. Esso comprende il denaro (capitale finanziario), gli immobili, i
macchinari, gli impianti produttivi, i brevetti ecc)
Tra gli aspetti importanti della globalizzazione c’è la presenza delle imprese multinazionali (o transnazionali) che
possiedono uffici o stabilimenti in diversi stati, o -come sottolineano alcuni esperti- quelle imprese che derivano
almeno un quarto dei propri ricavi da operazioni che avvengono in un paese diverso da quello della sede
centrale (es. General Eletric). Per finanziare le proprie attività, le multinazionali trasferiscono denaro proprio, o
preso in prestito da banche (anch’esse multinazionali), ai paesi stranieri nei quali hanno delle sedi o degli
interessi, mettendo in atto quelli che vengono definiti investimenti diretti all’estero (IDE).
Il giudizio sugli effetti degli IDE è controverso: da un lato essi aumentano i flussi di capitale rivolti verso un paese
e possono contribuire a promuovere le attività economiche, aumentare l’occupazione e favorire il trasferimento di
conoscenza, tecnologie ed infrastrutture; dall’altro, però, gli IDE delle multinazionali limitano la concorrenza delle
imprese locali, che non hanno le stesse risorse finanziarie (le multinazionali ci guadagnano di più perchè i paesi
che le ospitano non hanno garanzie di guadagno reali e costanti).

2. Gli impatti culturali della globalizzazione

Definiamo il concetto di cultura di massa: pratiche, attitudini e preferenze condivise da un gran numero di
persone considerate parte del modello dominante. Si riferisce a prodotti di grande diffusione: videogiochi,
musica, film, auto, vestiti, o anche alle abitudini riguardanti il tempo libero e lo svago. E’ profondamente
influenzata dai mass media e per questo in continua evoluzione.
Gli effetti della globalizzazione (che si possono ricondurre alla diffusione spaziale, che avviene con diverse
modalità, come la diffusione gerarchica, la diffusione per contagio e la diffusione gerarchica inversa - es.
tatuaggi) sono stati studiati e relativamente ad essi gli studiosi hanno proposto uno schema semplice che si basa
su tre tesi: omogeneizzazione, polarizzazione e glocalizzazione.
● omogeneizzazione: secondo questa teoria, la globalizzazione tende a far convergere i gusti, le
convinzioni e le pratiche culturali, rendendole simili in tutto il mondo (es. fast food, catene di ristoranti,
alberghi). Conseguenza è la creazione di non luoghi, che non hanno storia né identità specifica,
frequentati da grandi folle (centri urbani, centri commerciali, stazioni). La globalizzazione quindi secondo
questa tesi non riguarderebbe solo la diffusione di beni materiali, ma anche una forma di colonizzazione
culturale che porta all’affermazione di valori come il consumismo, l’individualismo, a discapito delle
culture locali.
● polarizzazione: è quel fenomeno per il quale tutte le relazioni tra i centri fanno capo a un nodo centrale,
dal quale gli altri dipendono totalmente. Secondo la teoria della polarizzazione la globalizzazione
contribuirebbe ad aumentare il senso di identità delle diverse società e culture, generando divisioni e
conflitti tra persone e paesi di cultura diversa e contribuendo così ad innescare disordini (es. guerre e
conflitti identitari nei Balcani, nel Caucaso, in Africa, terrorismo internazionale).
NB: queste due teorie mettono in luce aspetti certamente veri ma sono anche semplicistiche. Inoltre, siamo
lontani da una completa omogeneizzazione delle culture o dei paesaggi, grazie anche alla tendenza umana a
resistere all’omologazione. Infine, dominante è l’influenza dell’Occidente capitalista sul resto del mondo, ma la
globalizzazione è multi-direzionale, come lo dimostra ad esempio l’affermazione delle reggae giamaicano.

3. Reti globali e sistemi locali: la glocalizzazione

La globalizzazione però, oltre a produrre forze omologatrici, può anche stimolare la consapevolezza delle
diversità locali, fenomeno indicato con il termine neolocalismo, che indica il rinnovato interesse per il sostegno e
la promozione delle specificità di ciascuno luogo. A questo si lega la terza teoria, la glocalizzazione. Per capire
di cose si tratta bisogna innanzitutto parlare del fatto che i soggetti privati, pubblici e misti di uno stesso territorio,
anziché entrare in conflitto come richiede la globalizzazione economica, possano mettersi in rete fra loro ed
elaborare e condividere progetti di sviluppo, combinando risorse locali con risorse che circolano nelle reti globali.
Ciò che tiene uniti questi soggetti è il progetto di sviluppo condiviso del proprio territorio. Tale insieme di
potenzialità rientra nel concetto di milieu territoriale e del capitale territoriale (condizioni naturali originarie +
cultura materiale e immateriale + capitale sociale + capitale istituzionale). L’insieme formato da una rete di
soggetti e da un milieu territoriale in continua interazione tra loro costituisce il sistema locale territoriale: un
sistema formato da una rete locale di soggetti che cooperano per valorizzare le risorse specifiche del loro
contesto territoriale, interagendo con le reti globali della finanza, della conoscenza e delle grandi imprese.
Ecco che le reti globali non sempre dominano le entità locali portando al loro annullamento: se i soggetti locali
sanno reagire e auto-organizzarsi per dare risposte autonome agli stimoli globali, le reti globali avranno
addirittura bisogno dei sistemi locali, come serbatoi potenziali di risorse localizzate che assicurano loro dei
vantaggi competitivi sul mercato mondiale (esempio di glocalizzazione: quando le multinazionali variano i loro
prodotti sulla base del luogo in cui vengono prodotti e venduti. Il panino del mac con il parmigiano reggiano
esiste solo in Italia).
In questo modo il sistema locale può diventare un nodo del sistema globale. Ovviamente, il rapporto tra rete
locale e rete globale non è paritario, in quanto le reti globali possono scegliere tra una serie di nodi, mentre i
sistemi locali devono competere tra loro nel trasformare le proprie risorse identitarie in vantaggi competitivi
capaci di attrarre gli investitori globali. Quindi magari non c’è omogeneizzazione, ma una diversificazione limitata
dalla necessità di uniformarsi alle esigenze competitive del capitalismo globale.

4. La mercificazione della cultura

La cultura può prendere forme immateriali (canzoni popolari, tradizioni orali, credenze, visioni del mondo) o
materiali (artefatti, strumenti, strutture). Essa è studiata dalla geografia culturale, che attribuisce importanza alle
idee e alle attività delle persone e alle modalità con le quali esse sono diverse da un luogo all’altro o si
relazionano con l’ambiente e il paesaggio. I geografi culturali sono particolarmente interessati alla mercificazione
della cultura, cioè sia alla trasformazione in merce delle espressioni culturali materiali e immateriali, sia ai modi
con cui la nostra cultura influenza i nostri consumi e ne è a sua volta influenzata.
Gli oggetti che possediamo infatti ci identificano, poiché sono strettamente derivati dal nostro retroterra culturale,
e anche le reti sociali sono influenzate dai beni materiali.

La pubblicità è una delle principali forze che influenzano i modelli di consumo, sia alla scala locale, che
globalmente. Basti pensare al caso dei diamanti, così costosi non tanto perché rari o perché sia difficile estrarli,
ma anche e soprattutto perché hanno fatto sì che il valore culturale del diamante salisse alle stelle. Il fatto che
un’azienda dica che il diamante è per sempre, e lo colleghi così alla felicità, all’amore, al benessere eterno
evidenzia come la pubblicità modifica le pratiche culturali.
Altro caso, questa volta riguardante la cultura immateriale, è l’appropriazione da parte della squadra di rugby
americana All Blacks, che prima di giocare esegue una danza Maori, l’haka. Si tratterebbe di una mercificazione
contestata per due ragioni: uno, l’haka non è una danza di guerra in realtà, e i movimenti eseguiti dai giocatori
non sono nemmeno tanto corretti, due, i Maori hanno rivendicato un diritto su questa danza. Questo dimostra
come la mercificazione della cultura venga contestata perchè da essa le persone derivano gran parte del proprio
senso d’identità, e anche ci sono grandi problemi di confini culturali: fino a che punto alcuni aspetti della cultura
possono venire trattati come beni commerciali?

Questo tipo di discussioni sono state fatte anche sull’industria del patrimonio: imprese che gestiscono o traggono
profitti dalle eredità del passato, come tradizioni musicali, musei, monumenti o siti storici e archeologici (notare
anche come si sia modificato il significato di “patrimonio” come come ha studiato Lowenthal, è passato
dall’indicare beni fisici lasciati da un erede, all’indicare oggi un insieme di beni culturali del passato). Ma la
trasformazione del patrimonio in un’attrazione, spesso implica una mercificazione del passato. E fonte di ancor
maggiori tensioni è quando a uno stesso bene culturale è attribuito un significato diverso (es. moschee oggetto di
visita turistica, immagine o testo sacro per pubblicità di un prodotto commerciale).

Possiamo parlare poi del patrimonio mondiale: quei siti ai quali viene attribuito un valore eccezionale ed
universale per tutta l’umanità (cfr. pratica anche antica: in Grecia si individuarono le 7 meraviglie del mondo).
Quest’idea del patrimonio mondiale si è intensificata con l’UNESCO, che nel 1972 ha adottato la “Convenzione
sulla Protezione del Patrimonio Mondiale, culturale e naturale dell’Umanità”, tra i cui compiti c’è quello di creare
un elenco di siti, culturali e naturali, caratterizzati da un valore universale ed eccezionale. Dal 1992 si possono
anche inserire i paesaggi culturali, che riflettono la varietà dell’espressione del rapporto tra l’uomo e l’ambiente.
Alla lista è stato riconosciuto un ruolo nell’aumento della consapevolezza riguardo alle risorse culturali globali, e
anche nell’aver stimolato lo sviluppo di nuove destinazioni turistiche, ma non sono mancate le critiche:
● eccessiva percentuale di siti europei e cristiani
● quando un luogo viene fatto patrimonio genera un flusso di turisti tale che è difficile l'utilizzo locale del
bene e se ne minaccia la conservazione
● la gestione e la conservazione di questi siti può diventare costosa
● alcuni mettono in discussione l’opportunità di parlare di un patrimonio mondiale, dal momento che
l’eredità culturale è sempre legata alle caratteristiche del gruppo al quale essa appartiene. Il vero
patrimonio mondiale è la diversità culturale. Questo è stato riconosciuto dall’Unesco che nel 2005 ha
approvato la Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità culturale. Il testo tutela la
libera circolazione delle espressioni culturali intese come valori da tutelare, indipendentemente dal loro
uso commerciale, e su questo punto l’Unesco ha dovuto lottare con la WTO, che vedeva in esso un
limite alla mercificazione generalizzata di beni e servizi culturali.
5. Geografia culturale dei saperi locali

Introduciamo il concetto di folklore, che va distinta dalla cultura di massa. Il folklore si riferisce a quei gruppo di
persone i cui membri condividono gli stessi tratti culturali e vivono prevalentemente in aree rurali, con meno
occasioni di contatto con l’economia globalizzata. Quindi la distinzione viene fatta corrispondere a quella tra
società rurali e urbane, soprattutto nel corso del XX secolo, ma poi l’appellativo “rurale” sollevò alcune questioni
perché sembrava che “folkloristico” diventasse un termine riguardante qualcosa di arretrato, un residuo del
passato. Poi Ernesto de Martino e Gramsci hanno introdotto il concetto di cultura popolare, ossia quella parte di
cultura tradizionale che non si è ancora trasformata in cultura di massa, in quanto appartenente a classi
subalterne non completamente omologate alla cultura egemonica. Oggi è difficile distinguere le tre culture (di
massa, popolare e folkloristica) e quindi parliamo di cultura locale.
La domanda è: come agiscono le culture locali riguardo la gestione del loro ambiente di vita?

Per indicare la conoscenza collettiva di una comunità si utilizza il termine “sapere locale”. Il concetto viene
descritto con chiarezza da tre sue caratteristiche:
1) il sapere locale di solito viene tramandato oralmente e sono rare le fonti scritte che lo attestano.
2) è dinamico, in continua evoluzione, e si modifica in seguito a nuove scoperte o nuove informazioni
3) non è un’entità unica e monolitica: all’interno di una stessa comunità sono conservati diversi saperi
locali, posseduti da individui e gruppi (infatti sarebbe più giusto parlarne al plurale).
Ovviamente nel corso della storia i saperi locali sono stati considerati inferiori, non veritieri, frutto di un grado di
intelligenza minore proprio delle società rurali rispetto alle società cittadine. In questo contesto è nata l’idea del
diffusionismo (sostenuto sorprendentemente anche da molti geografi!), secondo il quale la diffusione della
scienza, della tecnologia e delle pratiche occidentali avrebbero aiutato gli altri popoli ad evolversi.
Oggi invece le conoscenze locali vengono prese in considerazione, anche perché sono quelle che più di tutte
tendono all’affermazione di un modello di sviluppo sostenibile.

I saperi locali possono riguardare la medicina tradizionale (medicina olistica/personalizzata vs medicina


allopatica), o metodi alternativi per trovare e conservare l’acqua (es. popolazioni San in un deserto dell’Africa
Meridionale, che hanno imparato che l’acqua può raccogliersi sotto lo strato sabbioso; o in Medio Oriente, nel
Nord Africa, nell’Asia Centrale e in Europa Mediterranea, dove si fa uso dei qanat persiani, antichi sistemi di
captazione delle acque che utilizzano gallerie per portare l’acqua ai centri abitati).
Anche l’architettura tradizionale ha senso che venga studiata dalla geografia umana: essa manifesta ancora una
volta i modi dell’uomo di interagire con il proprio ambiente, e risponde a specifici bisogni, in accordo con i valori,
le economie e i modi di vita delle culture che la producono. Inoltre, gli insediamenti spontanei e gli edifici
tradizionali vengono costruiti utilizzando i materiali e le risorse disponibili localmente e rispondono alle condizioni
ambientali, alle pratiche culturali e ai bisogni del territorio nel quale sorgono. In alcune culture come quella
dell’Asia orientale e meridionale, l’architettura tradizionale si lega anche al rispetto per forze cosmiche (feng
shui). In alcuni casi le tecniche di progettazione contemporanee e in particolare gli stili moderni possono essere
detti vernacolari, perché ricalcano alcune forme dell’architettura tradizionale.

CAPITOLO 6 - GEOGRAFIA DELLO SVILUPPO

Un esempio per tutti è il Bhutan, in Himalaya. Il suo esempio è significativo perchè mette in luce uno sforzo
concentrato per raggiungere uno sviluppo equilibrato, sostenibile a livello ambientale e consapevole a livello
sociale.

1. Che cos’è lo sviluppo

Ci possono essere diversi significati della parola sviluppo:


a) sviluppo come quello che è in natura lo sviluppo degli esseri viventi, con un limite (per esempio: le
popolazioni non crescono all’infinito), e con il fatto che i sistemi territoriali sottoposti a sviluppo,
esattamente come ogni specie biologica, si presentano geograficamente molto vari.
b) sviluppo come unico cammino obbligato per il genere umano.
Quale sviluppo bisogna seguire? una concezione secondo cui ogni sistema socio culturale ha un suo percorso di
sviluppo non comparabile con gli altri (geografia delle diversità), oppure la concezione (com’è di fatto oggi)
secondo cui c’è un’unica via di sviluppo possibile, ossia quella tracciata dall’esperienza occidentale (geografia
delle disuguaglianze, delle anomalie, degli scostamenti da un unico modello, del ritardo con cui territori arretrati
ne seguono altri più avanzati)?
Certo seguire la prima via della geografia della diversità non risolverebbe tutti i problemi, perché si rinuncerebbe
alla prerogativa tipicamente umana di prevedere e progettare un futuro desiderabile, ma è anche vero che
seguendo invece l’altra via stiamo rischiando di distruggere la varietà culturale che caratterizza la specie umana.
Dal momento che né l’una né l’altra strada si ritrovano senza pecche, bisogna trovare un grado intermedio.

Confrontando gli stati o le regioni del mondo sulla base dei loro livelli di sviluppo, vengono utilizzati termini
diversi: paesi con reddito alto, medio e basso; paesi più o meno sviluppati; Primo Mondo e Terzo Mondo
(terminologia dispregiativa); Nord e Sud del mondo (nel nord è compresa anche l’Australia).
Il concetto di sviluppo ad oggi contiene il progresso delle condizioni economiche, ambientali e sociali. Il
miglioramento economico, bisogna notare, non è necessariamente sempre positivo, anzi può avere delle gravi
conseguenze per esempio sul fattore ambientale. Ci sono due scuole di pensiero in merito alla relazione che
economia, sviluppo, società e ambiente debbano avere:
a) sviluppo convenzionale: privilegia la crescita economica e, secondariamente, anche il benessere
sociale.
b) sviluppo sostenibile: privilegia una crescita economica e sociale ottenuta senza compromettere le
diversità culturali, le risorse naturali o le condizioni dell’ambiente per le generazioni future.
Per misurare e valutare lo sviluppo, gli studiosi usano gli indicatori, che sono di diverso tipo e vengono
raggruppati nelle seguenti tre categorie: economici, socio-demografici e ambientali. Scarsa attenzione si dedica
invece ancora alla sostenibilità culturale. Gli indici sono invece la combinazione di due o più indicatori. Mentre
gli indici sono usati prevalentemente per dati di livello nazionale o internazionale, gli indicatori possono essere
utilizzati anche per descrivere aree molto piccole.

Indicatori più comuni:


1) PIL (prodotto interno lordo): valore monetario complessivo dei beni e dei servizi prodotti all’interno dei
confini geografici di un paese.
2) PIL pro capite: rapporto tra PIL di un dato anno e il totale della popolazione del paese nello stesso anno
(riflette la produzione media per persona). Per semplificare i confronti a livello internazionale si usa
rendere paragonabili i valori attraverso la PPA (parità potere d’acquisto) che è un tasso di cambio
utilizzato per comparare produzione, reddito o prezzi tra paesi che utilizzano valute diverse.
NB: usare il prodotto interno lordo come misura dello sviluppo economico ha tre limiti importanti: riflette soltanto il
valore monetario delle entrate ufficiali generate dall’economia formale, non riuscendo ad intercettare il valore dei
beni e servizi prodotti all’interno dell’economia informale; non fornisce informazioni sulla uniformità o sulla
diseguaglianza di distribuzione della ricchezza all’interno di un paese; non tengono conto dei costi sociali ed
ambientali associati al consumi di risorse utilizzate nella produzione dei vari beni e servizi.

Un’altra questione legata allo sviluppo è quella della povertà (che può riguardare non solo il reddito, ma anche il
benessere, l’istruzione e la salute).
Per esprimere l’incidenza della povertà in una data popolazione si usa il tasso di povertà. Esso è calcolato su
due livelli (perchè il fenomeno è molto complesso):
1) povertà assoluta: chi non ad accedere a beni e servizi primari (es. dorme per strada, patisce la fame)
2) povertà relativa: non raggiungono gli standard minimi della società in cui vivono (es. non dormire in un
sottoscala, vestirsi decentemente).
Si parla anche di soglia della povertà. In Italia, nel 2010 la soglia era stata calcolata in 992,46 euro al mese per
una famiglia di due componenti. Ovviamente gli standard di vita e la percezione della povertà variano molto da
paese a paese. La Banca Mondiale, che fornisce assistenza finanziaria a paesi in via di sviluppo, ha stabilito due
soglie di povertà:
1) povertà estrema: 1,25 dollari al giorno
2) povertà moderata: 2 dollari al giorno
Ad oggi la situazione è migliorata, soprattutto grazie alla stupefacente crescita economica dei paesi dell’Asia
Orientale (Cina e India).

Importanti sono anche gli indicatori socio-demografici, che forniscono informazioni sullo stato sociale di una
popolazione (es. dati sulla diffusione delle malattie o livelli di istruzione/educazione.
Il tasso di alfabetizzazione è la percentuale di popolazione di un paese sopra i 15 anni in grado di leggere e
scrivere. Nei paesi sviluppati il tasso di alfabetizzazione è al 90%, cala al 60% nei paesi in via di sviluppo, ma in
alcuni paesi (alcuni stati africani e in Afghanistan) è al 30%.
Ovviamente gli indicatori socio-economici sono interconnessi: la nutrizione per esempio può determinare le
condizioni di salute, le quali, a loro volta, incidono sulla capacità di lavorare.
Altri indicatori socio-demografici: aspettativa di vita, tasso di mortalità infantile (che evidenzia la perdita delle
potenziali risorse umane di un paese).

L’uso di indicatori ambientali è abbastanza recente. Deriva in particolare dall’Earth Summit del 1992, a Rio,
dove si è stilata l’Agenda 21: dalle iniziative di questa conferenza sono stati definiti vari indicatori, tra i quali la
frequenza di rischi ambientali come allagamenti, siccità, terremoti; la riduzione della biodiversità e l’accesso
all’acqua potabile.
Le differenze nello sviluppo ambientale sono il risultato di condizioni diverse. Ogni paese ha una sua dotazione
geografica (es. sbocco sul mare, presenza di malattie, terre fertili, pianure alluvionali…).
Altri aspetti legati allo sviluppo sostenibile sono la vulnerabilità (quanto un paese sia incline a subire shock
economici, ambientali o di altra natura) e la resilienza (quanto può resistere a questi shock).
Per valutarle è bene usare degli indici, uno dei quali è l’indice di vulnerabilità.

Gli indicatori, da soli, non sono in grado di darci una visione complessiva e veritiera dell’andamento dello
sviluppo. Per questo gli studiosi hanno pensato a indici che prendano in considerazione più aspetti
contemporaneamente per dare una visuale più complessiva:
1) indice di sviluppo umano ISU: che si compone di pil pro capite, speranza di vita, tasso di
scolarizzazione tra gli adulti, tasso lordo di partecipazione scolastica. Ogni anno si realizza un Rapporto
sullo Sviluppo Umano, confrontando l’ISU di ogni paese. Questo indice tiene in considerazione anche il
fatto che le persone possano sviluppare pienamente il loro potenziale e condurre una vita produttiva e
creativa anche in accordo con i propri bisogni e interessi (concetto di “qualità della vita”). Molti governi
hanno cercato di far sentire la propria voce in merito. In Italia si è svolta un’indagine su un campione di
45.000 persone su cosa determina il benessere di una società e si è arrivati a calcolare un nuovo indice,
il BES (Benessere equo e sostenibile), che integra indicatori economici, sociali e ambientali con misure
di diseguaglianza e sostenibilità.
2) indice di sviluppo di genere ISG: lo sviluppo ha chiaramente un impatto diverso tra uomini e donne.
Questo indice consiste sostanzialmente nell’indice di sviluppo umano modificato per rendere conto delle
ampie disuguaglianze nella situazione delle donne e degli uomini, penalizzando i paesi nei quali questo
divario è maggiore o dove diminuiscono le conquiste sia degli uni che delle altre. Per rendere conto del
benessere, l’indice di sviluppo utilizza il reddito percepito stimato per uomini e donne.
3) misura della capacitazione di genere MEG: valuta la partecipazione delle donne al processo
decisionale di un paese, sotto il profilo politico ed economico. Uno dei limiti però è che non si tiene
conto dell’ambito domestico.

2. Sviluppo e disuguaglianza di reddito

A livello globale, la disuguaglianza di reddito è molto alta. La distribuzione del reddito mostra la concentrazione di
ampie quote di reddito fra le élite (effetto coppa di champagne). Ma la disuguaglianza sta aumentando o
diminuendo? Non tutti sono d’accordo, ma di fatto con l’avvento e l’imposizione del capitalismo, la maggior parte
della ricchezza mondiale è nelle mani di pochissime persone. Per misurare la disuguaglianza di reddito spesso si
ricorre al coefficiente di Gini, i cui valori variano da 0 a 100: più i valori si avvicinano a 0 più la ricchezza è
equamente distribuita. Alcuni coefficienti di GIni: 24,7 Danimarca - 24,9 Giappone - 40,8 Stati Uniti - 70,7
Namibia.

La globalizzazione ha avuto un impatto sulla distribuzione della ricchezza? Ci sono due teorie:
a) teoria neoliberista della distribuzione capillare: ritiene che il mercato globale determini una
convergenza o un’uguaglianza del reddito. Secondo questa teoria il commercio è essenziale perché
conduce alla specializzazione, all’aumento della concorrenza e alla crescita della prosperità, e affinché
questi effetti di distribuzione abbiano luogo occorre rimuovere gli ostacoli alle relazioni commerciali.
b) teoria critica dell’ampliamento del divario tra ricchi e poveri: afferma che la globalizzazione agisce
contro le condizioni di parità, poiché a causa della richiesta di lavoratori specializzati può determinare
aumento di disoccupazione.
Gli studi degli ultimi anni danno ragione alla seconda teoria: i ricchi stanno diventando sempre più ricchi, i poveri
sempre più poveri. Il livello di disuguaglianza di reddito in un paese può avere una serie di conseguenze gravi
sullo sviluppo: incide sulla povertà, può esacerbare le tensioni tra ricchi e poveri sconvolgendo la stabilità sociale
e politica, e mettendo a rischio la crescita economica e lo sviluppo. Inoltre, quando la disuguaglianza di reddito
coincide con la disoccupazione, vanno sprecate preziose risorse umane che potrebbero essere utilizzate per il
miglioramento della società e dell’ambiente.

3. Le teorie dello sviluppo

Vari studiosi nel corso della storia hanno pensato a teorie dello sviluppo dei paesi o delle regioni del mondo.
Il modello di sviluppo classico: 1960, Rostow propone un modello di sviluppo a 5 fasi, dette stadi dello
sviluppo. Pone particolare enfasi sulla crescita economica. In altre parole, Rostow ritiene che i paesi meno
sviluppati sono quelli con un’economia agricola che dovrebbe cambiare e svilupparsi in attività manifatturiere e
servizi. Il modello di Rostow ha ricevuto però diverse critiche:
1) questo modello presuppone che ogni paese cominci il suo percorso di sviluppo dallo stesso punto.
2) c’è l'idea di uno sviluppo economico lineare, che non tiene conto del fatto che un arricchimento temporaneo
derivato da un prestito da altri stati possa in seguito soffocare il paese per il peso dei debiti.
3) è un modello troppo eurocentrico: lo sviluppo massimo per Rostow è la società occidentale modernizzata e
tecnologicamente avanzata. Ripetiamo a gran voce: ciò che funziona (ma funziona?) per l’Occidente, non per
forza deve funzionare anche per i paesi non occidentali.
Teoria della dipendenza: anni 60 e 70. I teorici di questa scuola di pensiero sostengono che lo sviluppo può
essere compreso meglio come processo relazionale connesso al commercio internazionale. Lo studio del
commercio internazionale infatti rivela la presenza di stati dominanti e dipendenti. Gli stati dominanti, di fatto,
bloccano lo sviluppo degli stati dominati. Ma anche la teoria della dipendenza è stata criticata, perché incoraggia
una visione troppo semplicistica delle relazioni internazionali, senza tenere nella dovuta considerazione il ruolo
delle politiche locali e delle classi sociali nello sviluppo, e considera la dipendenza come una naturale
conseguenza delle relazioni internazionali.
La teoria del sistema-mondo: basata sulle idee di Wallerstein, che pubblica nel 1947 il primo volume de “Il
sistema mondiale dell’economia moderna”. Questa teoria sostiene che esista, più che una somma di stati
dominanti e dominati, una tipologia specifica di divisione internazionale del lavoro (generata dal capitalismo), che
a sua volta genera una gerarchia geografica di Stati o regioni indipendenti. Il sistema mondiale di Wallerstein è
formato da stati centro, aree semiperiferiche e aree periferiche. Il capitalismo creerebbe un sistema di scambio
diseguale in cui gli stati centro dominano la semiperiferia e la periferia, quest’ultima sottomessa anche dalle aree
semiperiferiche.
Il modello di sviluppo neoliberista: anni 80. I neoliberisti sono degli individui microcefali che credono che il
capitalismo possa portare sviluppo, purché venissero messe in pratica riforme appropriate, per consentire la
competizione economica e il fiorire del libero mercato. Il liberismo fa riferimento ad una teoria politica ed
economica basata sui diritti di proprietà e sulla libertà individuale. Dal punto di vista economico, il liberismo
sostiene un mercato libero e la rimozione di tutti gli ostacoli al movimento di beni, servizi e capitali. A partire dagli
anni 80, il neoliberismo ha fatto purtroppo un successo pazzesco.
Il neoliberismo ritiene che il sottosviluppo deriva da scelte politiche ed economiche mal concepite, che sono un
ostacolo al capitalismo stesso. La soluzione sarebbero i programmi di aggiustamento strutturale (PAS).
Sostanzialmente, le economie dei paesi in via di sviluppo andrebbero riviste, con riforme del mercato (es.
promuovere le esportazioni) e deregolamentazione (ridurre il ruolo dello stato nell’economia, privatizzare le
imprese di proprietà dello stato, ridurre la spesa statale per i servizi pubblici, liberalizzare le leggi sul lavoro,
liberalizzare i regolamenti sugli investimenti esteri). I PAS sono diventati il caposaldo del modello di sviluppo
neoliberista, che tra gli anni 80 e 90 influenzò le politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca
Mondiale. Entrambi aiutano i paesi in via di sviluppo da un punto di vista finanziario.
Il modello neoliberista e anche i PAS sono stati criticati per cinque motivi:
1) i PAS richiedono minori spese statali e tagli nei servizi pubblici, le strutture sanitarie che ricevono
finanziamenti statali sono costrette a diminuire le proprie ore di attività, licenziare personale o
interrompere la fornitura di alcuni servizi. Inoltre senza finanziamenti statali le strutture devono
addebitare agli utenti il costo di certi servizi, rendendo difficile l’accesso ai poveri.
2) aumento delle derrate alimentari in seguito all’eliminazione delle sovvenzioni all’agricoltura, con
conseguenze gravissime per i più poveri.
3) gli aggiustamenti strutturali richiedono la svalutazione della moneta locale, che provoca l’aumento di tutti
i prezzi di tutti i beni di importazione.
4) questo tipo di programmi promuove lo sviluppo delle esportazioni, portando molti paesi in via di sviluppo
ad adottare un modello di esportazione di prodotti agricoli o minerari, invece di diversificare la propria
economia.
5) i programmi di aggiustamento strutturali rappresentano delle ingerenze della Banca Mondiale e del
Fondo Monetario Internazionale negli affari interni degli stati.
La strategia della riduzione della povertà e gli obiettivi di sviluppo del millennio: c’è la volontà di fare
qualcosa per tentare di risolvere la questione della povertà, su cui pesa la minaccia che nei prossimi anni la
popolazione aumenti a dismisura soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Le strategie di riduzione della povertà
sono state definite in accordo con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (summit del Millennio, New York). Si
ritiene che ogni paese condivide la responsabilità di contribuire a raggiungere lo sviluppo sociale ed economico,
e che le Nazioni Unite devono giocare un ruolo fondamentale in questo processo.
L’ONU ha individuato 8 obiettivi:
1) eliminare la povertà estrema e la fame;
2) raggiungere l’istruzione elementare universale;
3) promuovere l’uguaglianza fra i sessi e conferire potere e responsabilità alle donne;
4) diminuire la mortalità infantile;
5) migliorare la salute materna;
6) combattere HIV, AIDS, malaria e altre malattie;
7) assicurare la sostenibilità ambientale;
8) sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.
La strategia della riduzione della povertà nasce da quattro principi chiave:
1) la povertà è un problema complesso e sfaccettato che richiede un approccio comprensivo tra
preoccupazione per la crescita economica e miglioramento del benessere sociale e ambientale;
2) l’idea della riduzione della povertà deve arrivare in primis dagli stessi governi di quei paesi in via di
sviluppo, e non solo imposti da istituzioni esterne;
3) le strategie di successo per lo sviluppo richiedono una partnership effettiva tra agenzie nazionali ed
internazionali;
4) lo sviluppo e la riduzione della povertà richiedono una prospettiva a lungo termine.
Negli ultimi anni si è comunque riusciti ad avere un certo successo, anche se non definitivo.

CAPITOLO 7 - GEOGRAFIA DELL’AGRICOLTURA

Il commercio può essere spietato: i detentori delle grandi industrie si arricchiscono sulle spalle di chi produce con
guadagni inferiori a 10 euro alla settimana. Per questo motivo è importante il commercio equo e solidale (in
inglese fair trade), che ha come obiettivo quello di migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli agricoltori che
in seguito alla globalizzazione degli scambi commerciali sono notevolmente peggiorate.
I principi del commercio equo richiedono che, attraverso un accordo commerciale, gli acquirenti si impegnino a
pagare le materie prime a prezzi dignitosi. In cambio, gli agricoltori si impegnano a migliorare le condizioni dei
lavoratori e ad attuare pratiche di agricoltura sostenibile. I prodotti provenienti da una filiera produttiva e
commerciale con queste caratteristiche possono fregiarsi della certificazione di prodotti equi e solidali (in Italia,
nei criteri di valutazione per gli appalti delle mense scolastiche, la priorità va a quelle che offrono materie prime
eque e solidali).

1. L’agricoltura, origini e rivoluzioni

Il nostro stile di vita è strettamente legato all’agricoltura, dipendente da essa. Un tempo la maggior parte della
popolazione si occupava di agricoltura, oggi invece sono quasi tutti occupati nel settore dei servizi, e questo è
espressione sia della crescente urbanizzazione sia della meccanizzazione e dell’industrializzazione del lavoro
agricolo (in questo possiamo notare un incremento del lavoro femminile nell’agricoltura, ma le donne hanno
svolto in quel settore un ruolo determinante fin dall’inizio).

Relativamente all’agricoltura e al suo sviluppo, abbiamo tre grandi rivoluzioni che hanno trasformato il mondo.
La prima rivoluzione agricola (11.000 anni fa, prima in Medio Oriente, ma in realtà in varie parti del mondo
contemporaneamente) corrisponde alla nascita stessa dell’agricoltura, che ebbe inizio con i primi episodi di
selezione di piante e addomesticamento degli animali. Prima si cacciava, si pescava e si raccoglieva (senza però
addomesticare alcuna specie di piante o animali). Ci sono ancora alcune popolazioni che non usano l’agricoltura,
e gli studiosi hanno smentito l’idea che esse vivano sull’orlo della fame.
Le radici della seconda rivoluzione agricola risalgono invece alle nuove pratiche agricole, probabilmente di
origine cinese, che si diffusero in Europa durante il Medioevo, aumentando notevolmente la produttività.
Le innovazioni furono: aratri con vomeri metallici, sostituzione di buoi con cavalli, rotazione delle colture (invece
di coltivare sempre lo stesso prodotto, impoverendo il suolo, si cominciò ad alternare le colture, inizialmente
lasciando periodicamente i campi incolti, pratica poi sostituita dalla rotazione, ossia l’alternanza di diverse
coltivazioni). Poi ci fu la Rivoluzione Industriale, che rese l’agricoltura ancora più efficiente, per esempio con la
seminatrice meccanica inventata da Tull.

La terza rivoluzione agricola è il frutto delle innovazioni tecnologiche e delle nuove pratiche colturali che si
diffusero nel XX secolo, come la meccanizzazione estensiva (grazie al motore a combustione interna),
l’irrigazione artificiale, fertilizzanti chimici e le biotecnologie2.
I trattori, in particolare, ridussero il numero di lavoratori necessari, migliorarono l’efficienza e la produttività del
lavoro, si poteva lavorare molto più terreno in meno tempo e facilitarono il passaggio dalla policoltura alla
monocoltura, eliminarono quasi del tutto gli animali dal lavoro.
L’uso dei prodotti chimici ha aumentato la produttività del lavoro, ma con effetti considerevoli sull’ambiente:
inquinamento, aumento della dipendenza dal petrolio per produrli. Il costo dei prodotti ha anche favorito le grandi
aziende a discapito di quelle piccole.
L’irrigazione artificiale ha consentito di coltivare aree un tempo considerate troppo aride. Ovviamente ci sono
delle conseguenze negative anche in questo caso, come l’aumento dei contenuti salini nelle terre molto calde,
che sono diventate meno fertili.

Un ulteriore aspetto della terza rivoluzione industriale è rappresentato dalle biotecnologie, che vogliono
migliorare la qualità e la produzione del bestiame, attraverso l’utilizzo di tecniche come l’incrocio di razze,
l’ibridazione e l’ingegneria genetica. Quest’ultima sfrutta le moderne tecniche nel campo della genetica per
trasferire da un organismo all’altro e da una varietà all’altra alcune caratteristiche scritte nel dna, come la
resistenza alla siccità o la forma dei frutti o degli steli della pianta.
Le innovazioni portate dalla Rivoluzione verde furono condivise con i governi e le istituzioni dei paesi in via di
sviluppo, mentre le specie geneticamente modificate sono protette da brevetti internazionali.
Sull’utilizzo degli OGM (organismi geneticamente modificati), c’è un dibattito molto acceso: da una parte le
tecniche di ingegneria genetica vengono considerate un mezzo per superare molti problemi ambientali e
garantire una maggiore produttività dell’agricoltura, ma dall’altra le conseguenze ecologiche sul lungo periodo
non sono ancora completamente conosciute. In particolare si temono le ibridazioni tra specie OGM e specie
naturali, che causerebbero la progressiva scomparsa di quest'ultime.

2. I sistemi agricoli

Il “sistema” agricolo è come tutti i sistemi un insieme di elementi che interagiscono. Il sistema di produzione del
cibo comprende i terreni, gli input che vengono forniti (es. lavoro, macchinari, fertilizzanti), gli output del sistema
(i prodotti agricoli), i consumatori e i diversi flussi che mettono in relazione tutte queste componenti.
Si distingue principalmente tra agricolture di sussistenza e agricolture di mercato.
Le agricolture di sussistenza fanno sopravvivere milioni di persone nel mondo, soprattutto in Africa, in
Asia e in alcune zone dell’America Latina. Ci sono quattro tipologie di agricolture di sussistenza, ciascuna delle
quali adatta ad un diverso clima, ambiente e tipo di terreno.
1) agricoltura itinerante: utilizzata nelle regioni tropicali e subtropicali del Sud est asiatico, dell’Asia
centrale, dell’America Latina e dell’Africa. In alcuni casi prevede la coltura promiscua. E’ un sistema
agricolo che usa il fuoco per ripulire i terreni dalla vegetazione spontanea, rendendoli adatti ad essere
coltivati per un certo periodo, al termine del quale si passa a fare lo stesso con un altro terreno.
Ovviamente si serve della deforestazione, quindi questo può essere considerato un “contro”, ma in
realtà i gravi danni legati alla deforestazione non sono quelli causati dalla coltura itinerante, ma
soprattutto dall’allevamento estensivo di bestiamo e dalle piantagioni di soia. Spesso però il ciclo
naturale dell’agricoltura itinerante non viene rispettato, per l’aumento della popolazione e per la
diminuzione dei terreni disponibili, e questo può essere un danno per il recupero della fertilità. A volte
quindi si usano metodi alternativi come l’agroforestazione per il recupero più veloce della fertilità.
2) la coltivazione del riso: in quelle regioni dove è il primo prodotto agricolo, questo cereale viene coltivato
con tecniche di coltivazione irrigua, che rappresentano uno dei primi esempi di agricoltura intensiva.
Sono aree densamente popolate, e ogni famiglia coltiva una porzione di terra a volte inferiore a 1 o 2
ettari, con forme di micro agricoltura. Per consentire il sostentamento delle famiglie si usa la tecnica del
doppio raccolto -solitamente orzo e riso- in un anno (possibile solo in regioni caratterizzate da inverni
umidi). In altre parti del mondo la produzione di riso è meccanizzata e su enormi estensioni di terreno.

2
“Rivoluzione verde”: il termine non si riferisce all’adozione di tecniche particolarmente sostenibili dal
punto di vista ambientale, ma alla diffusione di un’agricoltura più produttiva.
3) le piccole aziende agricole e l’allevamento: si tratta di tecniche di sussistenza che vedono la coltivazione
su superfici particolarmente ridotte di tuberi, cereali e radici, con l’allevamento attiguo di qualche
animale. Questa tecnica ha caratterizzato anche l’Europa e l’Italia.
4) Pastorizia: diffusa soprattutto nelle zone aride e montane. Tradizionalmente, i pastori possono praticare
forme di scambio con gli agricoltori. La mobilità è forse l’aspetto più importante (transumanza). Si
muovono soprattutto gli uomini, mentre le donne rimangono occupandosi dell’agricoltura. Ovviamente
questo tipo di vita pastorale non permette l’accesso a moltissimi servizi e non è molto compatibile con
la vita moderna. Per questo i governi cercano di scoraggiarla (ed Kirghizistan, dove la privatizzazione
dei terreni ha reso difficile l’accesso ai pascoli). Questo tipo di pastorizia può anche legarsi a tipi di
allevamento commerciale (d’inverno si pratica l’allevamento nelle stalle, d’estate si porta il bestiame al
pascolo = Alpi). Un tempo esisteva anche la monticazione, basata su un utilizzo “climatico” dei pascoli.

Nelle agricolture di mercato i contadini e le loro famiglie non sono i principali consumatori di ciò che producono.
I prodotti vengono venduti alle aziende che si occupano di industria agro-alimentare (spesso chiamata anche
agribusiness: sistema di interconnessione tra i contadini che producono, le industrie di lavorazione dei prodotti
agricoli, e la loro distribuzione commerciale. Una caratteristica è l’integrazione verticale, che prevede che una
singola azienda controlli due o più fasi della produzione e distribuzione di un bene.
1) piantagioni: solitamente nei paesi in via di sviluppo, che traggono dall’esportazione delle materie prime
una delle principali fonti di ricavo economico. Spesso la lavorazione nelle piantagioni è affidata ad una
manodopera scarsamente qualificata, elemento che contribuisce a perpetuare una società fortemente
dualistica, con una classe forte e potente e una classe debole e sfruttata.
2) orticoltura: un tempo, quando i trasporti non erano così sviluppati, si tendeva a fare gli orti vicino ai
mercati, per sviare il problema del deterioramento dei prodotti. Oggi questo problema non c’è più. A
partire dalla seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo si è sviluppata una forma
di agricoltura di mercato conosciuta come truck farming, caratterizzata da grandi aziende agricole,
solitamente specializzate in un solo prodotto, spesso distanti dai propri mercati di riferimento, che fanno
affidamento su manodopera stagionale, proveniente anche da molto lontano.
3) agricoltura mediterranea: è nelle regioni che si affacciano sul Mar Mediterraneo. E’ fondata
sull’integrazione tra allevamento di bestiame, coltivazione di un cereale e di alberi da frutto, viti o uliveti.
4) Allevamento commerciale di animali da latte: attività agricola intensiva e altamente meccanizzata (es.
macchine mungitrici automatiche e complessi sistemi di tubature che versano il latte già nei serbatoi
refrigeranti. E’ un allevamento stabulare, ossia che viene dalle stalle, e solo in alcuni casi può utilizzare
il pascolo. Nonostante l’alto livello di meccanizzazione, richiede anche la sorveglianza umana,
soprattutto nel momento dell’allattamento. In particolare il latte è un alimento altamente deperibile, e
solo ultimamente le innovazioni nel settore dei trasporti e della refrigerazione consentono di produrlo
anche lontano dagli immediati contorni delle case.
5) aziende agricole miste, con produzione di foraggi e allevamento: sono aziende che uniscono
l’allevamento alla produzione agricola per nutrire gli animali.
6) cerealicoltura e allevamento intensivo di bestiame: i cereali sono alla base della nostra alimentazione,
oltre ad avere molteplici usi nell’industria. La cerealicoltura commerciale è associata ad ambienti
caratterizzati da climi temperati e grandissime estensioni (che vengono coltivate grazie alla
meccanizzazione). I terreni poco fertili invece vengono utilizzati per l’allevamento intensivo del
bestiame, soprattutto nelle regioni aride o semiaride, dove gli animali possono eventualmente pascolare
in zone protette dai recinti. Le zone dedicate all’allevamento e al pascolo sono sempre state lontane
dalla città e dai mercati.

Un altro aspetto che interessa molto agli studiosi di questa materia è quello delle decisioni relative agli usi del
suolo, che costituisce un elemento fondamentale della geografia dell’agricoltura. E’ possibile per esempio
prevedere quali terreni utilizzerà un’azienda agricola e a quali coltivazioni li dedicherà, conoscendone la
posizione rispetto al suo mercato di riferimento? Von Thunen, studioso che visse a cavallo tra il 700 e l’800, in
anni di spostamenti tra la propria fattoria e le città dove vendeva i propri prodotti, si accorse che il tipo di
coltivazioni variava in base alla distanza dai centri di mercato. Il modello di Von Thunen vuole quindi descrivere
le variazioni spaziali dell’agricoltura di mercato. Ipotizzò che i costi di trasporto verso i centri di mercato
rappresentino una variabile fondamentale nel definire quanto possa essere redditizio l’utilizzo di un terreno
agricolo, in base al principio economico secondo il quale anche le decisioni relative all’uso dei terreni siano
improntate al perseguimento del maggior profitto possibile. Anche se il modello di Von Thunen è semplicistico, i
principi che propone hanno una certa rilevanza ancora oggi.
3. Agricoltura, ambiente e globalizzazione

Anche l’agricoltura ha un forte impatto sull’ambiente, in quanto l’azione umana, connessa ai cambiamenti
climatici, è sempre rilevante e in certi casi disastrosa.
La desertificazione (es. scomparsa del Lago d’Aral) è un disastro ambientale causato per esempio
dall’eccesso di sfruttamento dei pascoli, che danneggia la vegetazione, o da una cattiva gestione dei cicli
colturali, che può produrre un impoverimento dei suoli. Anche l’irrigazione può avere effetti deleteri per l’ambiente
e per la fertilità dei terreni, quando per esempio il prelievo di acqua dalle falde sotterranee per l’irrigazione non
avviene rispettando i ritmi naturali di rigenerazione del patrimonio idrico. Può esserci inoltre una sbagliata
irrigazione, che produce una saturazione idrica, o negli ambienti aridi o semiaridi l’alto tasso di evaporazione può
causare la salinizzazione. Ovviamente anche l’uso di fertilizzanti chimici, diserbanti, pesticidi e fungicidi
inquinano non solo il terreno, ma anche le acque superficiali e sotterranee.

L’agricoltura sostenibile ricorre a metodi e tecniche che consentono di conservare le risorse idriche ed il suolo,
tra le quali: aratura secondo le curve di livello o a giropoggio, coltivazione a strisce, alternando colture a filare con
colture erbacee, o la creazione di fasce tampone di vegetazione frangivento.
Altra tecnica di agricoltura sostenibile è la rotazione delle coltivazioni, che previene le malattie delle piante.
L’agricoltura tecnologicamente avanzata fa anche uso di tecnologie come il GPS e le immagini aeree per
misurare e mappare le variazioni spaziali delle condizioni ambientali all’interno di un campo o di un’area coltivata,
come la fertilità del suolo, che raramente si distribuisce in maniera uniforme (quindi possibilità di programmare i
macchinari agricoli in modo tale che applichino quantità di fertilizzanti diverse a seconda delle esigenze, di
gestire l’applicazione dei pesticidi, di determinare la quantità di sementi ideale per ciascuna parte di campo). A
volte però l’agricoltura tecnologicamente avanzata non viene ritenuta sostenibile perché fa largo uso di prodotti
chimici.
Un altro segnale della sempre più diffusa preoccupazione per gli impatti ambientali dell’agricoltura è
rappresentato dalla crescente richiesta di prodotti provenienti dall’agricoltura biologica, che costituisce il settore
agricolo con i maggiori tassi di crescita. In Europa ci sono tanti campi biologici e la loro produzione è destinata
completamente al mercato europeo.

Le sfide portate dalla globalizzazione, per quanto riguarda l’ambito agricolo e commerciale, sono affrontate
dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Uno dei suoi obiettivi è quello di liberalizzare il più possibile
gli scambi commerciali, attraverso l’abolizione dei dazi doganali e di tutte quelle politiche che limitano la piena
liberalizzazione del mercato. Ma un paese come la Giamaica potrà mai competere con gli Stati Uniti nella
produzione e nella vendita dei beni agricoli? No, e quindi va da sé che la liberalizzazione del mercato è più
vantaggiosa per i paesi più ricchi che per i paesi più poveri. Inoltre, la maggior parte dei governi dei paesi poveri
non può permettersi, al contrario dei paesi ricchi (come l’Ue), di aiutare gli agricoltori economicamente, e quindi
questi sono costretti ad affrontare costi di produzione molto più alti, che si traducono con prezzi più elevati dei
loro prodotti sul mercato.
Ovviamente con la globalizzazione c’è stato anche un importante cambio di dieta.
Inoltre, la grande distribuzione dei supermercati, che si sta diffondendo ovunque, si rifornisce più frequentemente
da produttori lontani, talvolta di altri continenti, che dagli agricoltori locali, con conseguenze negative su questo
settore dell’economia locale.

Organizzazioni che si occupano di agricoltura sostenibile, coinvolgendo agricoltori da tutto il mondo, e


proponendosi di portare avanti un nuovo modello alimentare, rispettoso dell’ambiente, delle tradizioni e delle
identità culturali, sono la Slow Food, e Terra Madre.

Crisi alimentare globale e le città: perché, se nel mondo viene prodotto abbastanza cibo da nutrire ogni essere
umano, con la crisi del 2007-2008 il prezzo del cibo è aumentato mediamente del 43%?
La risposta è nella speculazione finanziaria che è stata favorita da una siccità negli ultimi mesi del 2006 nei
principali paesi produttori di cereali, un aumento del costo del petrolio, che determinò un aumento dei prezzi di
fertilizzanti e carburanti, e infine un aumento della produzione di biocarburanti, in particolare di etanolo, prodotto
dal granoturco. Ovviamente le conseguenze sono state principalmente nei paesi più poveri.
Le città e i consumatori cittadini di certo non aiutano, richiedendo un mercato che fornisca in continuazione
anche frutta e verdura fuori stagione. L’agricoltura che fornisce le città attraverso canali di vendita e distribuzione
è detta peri-urbana.
In Europa l’attività agricola ha una grandissima importanza, in quanto la metà della superficie dell’Unione
Europea è adibita all’agricoltura. Per molti anni l’Europa ha incentivato un’agricoltura di tipo moderno, fornendo
sussidi ai contadini, e favorendo il libero commercio dei prodotti. A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso,
apparve chiara la necessità di affrontare anche i problemi ambientali, con interventi mirati. La nuova Politica
Agraria Comunitaria (PAC), entrata in vigore negli anni 90, si propone di conciliare un’adeguata produzione
alimentare con la salvaguardia economica delle comunità rurali e la risposta alle sfide ambientali come i
cambiamenti climatici, la gestione delle risorse idriche, le bioenergie e la biodiversità.
Nel 2011 si è fatta una riforma, che si vuole attuare con tre possibili opzioni:
1) produzione alimentare economicamente redditizia
2) gestione sostenibile delle risorse naturali e azione a favore del clima
3) mantenimento dell’equilibrio territoriale e della diversità delle zone rurali
Si è messo in luce inoltre come la PAC non riguardi solo gli agricoltori, ma anche i consumatori e i contribuenti. E’
dunque importante concepire una politica che sia più comprensibile per il grande pubblico e chiarisca i vantaggi
collettivi offerti dagli agricoltori all’intera società.

CAPITOLO 8 - CAMBIAMENTI GEOGRAFICI PER L’INDUSTRIA E I SERVIZI

1) I settori dell’economia

Le attività economiche si possono raggruppare in tre grandi categorie: settore primario, secondario, terziario.

Tutte le attività del settore primario3 prevedono l’utilizzo di risorse primarie (naturali), che nel momento in cui
vengono scambiate e hanno un valore economico diventano beni. Adesso ci concentreremo sulle risorse
minerarie. Si deve distinguere tra riserve e risorse:
1) per risorse minerarie si intende la quantità di minerali scoperti, di natura metallica e non, il cui valore è
stato stimato approssimativamente e il cui sfruttamento è economicamente possibile.
2) il termine riserva è più restrittivo: comprende quella parte delle risorse che sono effettivamente
disponibile, per le quali esistono le le condizioni tecnologiche e politiche per il loro immediato
sfruttamento.
Siccome le risorse primarie non sono equamente distribuite, lo scambio è diventato una componente
estremamente importante dell’economia globale. La geografia del settore primario presente in un’area concorre
in varia misura a configurarne l’economia attraverso la rete delle altre attività economiche ad esso connesse che
si insediano in quel territorio. Abbiamo le connessioni a valle, che trattano le materie prime (trasporto del
legame, dei minerali, segherie, impianti di prima lavorazione), e a monte, che invece si occupano dell’estrazione
(taglio dei boschi, scavo dei minerali). La domanda locale si riferisce alla richiesta e all’acquisto di beni di
consumo da parte degli abitanti dell’area e dagli eventuali turisti.
C’è chi ritiene che un’economia basata sulle materie prime genererebbe ulteriore sviluppo industriale, e chi
ritiene che inibisca la crescita economica e contribuisca alla dipendenza dell’economia locale da pochi beni.
Dal punto di vista economico, invece, la forte dipendenza dall’esportazione commerciale di materie prime è
problematica per almeno tre ragioni:
1) i prezzi di questi beni oscillano molto nel corso del tempo
2) se paragonato ai prezzi dei prodotti industriali, il valore delle materie prime non cresce con pari rapidità
nel lungo periodo
3) l’alta dipendenza dall’esportazione di materie prime è spesso associata ad una scarsa diversificazione
dell’economia.
A livello internazionale, quei paesi che fanno pesante affidamento sull’esportazione di materie prime vengono
solitamente chiamati CDDC: commodity dependent developing country.
Si può misurare questa dipendenza esprimendola come il rapporto tra il valore totale delle esportazioni e il
prodotto interno lordo del paese, o come la percentuale del totale delle esportazioni di un paese proveniente dai
quattro principali beni esportati.

Il settore secondario comprende tutte le attività manifatturiere che si svolgono nelle fabbriche o all’aperto, come
l’edilizia, e che producono partendo da materiali grezzi o semilavorati.
Viene fatta una distinzione tra:

3
raggruppa tutte le attività che producono i beni tratti direttamente da risorse naturali e destinati poi al
consumo alimentare e alla trasformazione industriale: comprende l’agricoltura, la silvicoltura,
l’allevamento, la pesca e le attività estratte.
1) manifattura pesante: produzione di prodotti come acciaio, combustibili, prodotti chimici grezzi, beni
durevoli di grandi dimensioni come grandi motori, navi e armamenti;
2) manifattura leggera: include invece attività che producono beni rivolti al consumo finale, o prodotti
sofisticati come apparecchi per ospedali, strumenti di precisione…
Il settore secondario fu modificato molto dalla Rivoluzione industriale. Prima era gestito dalle cottage industries
(gestione familiare), poi venne inserito nel circuito capitalista (manodopera salariata, grandi stabilimenti, costi
bassi). La rivoluzione industriale in Inghilterra ebbe luogo grazie a tre fattori: il fatto che l’Inghilterra aveva una
posizione dominante nel sistema del commercio globale, la grande disponibilità di manodopera sotto-occupata
nelle campagne, e le innovazioni tecnologiche come la macchina a vapore o il telaio meccanico. La geografia
dell’industrializzazione in Inghilterra è stata influenzata dalla distribuzione di risorse come il carbone e il ferro
(che erano fondamentali, essendo fonti di energia: infatti le fabbriche all’inizio erano messe proprio vicino alle
miniere di carbone).
Infine, tantissimi si trasferirono in città e quindi accanto all’Industrializzazione ci fu anche l’urbanizzazione.

La rivoluzione industriale nel mondo ebbe diverse fasi. La prima, dal 1760 a 1880, vide lo sviluppo industriale di
certi paesi dell’Europa e degli Stati Uniti; la seconda, dal 1880 al 1950 portò innovazioni in Russia, Giappone,
Canada, Italia e alcuni paesi asiatici e latino-americani; la terza, attiva tutt’ora vide cambiamenti negli stati già
industrializzati e l’industrializzazione di paesi asiatici affacciati sul Pacifico e sull’Oceano Indiano.

Il settore terziario comprende tutti i tipi di servizi e le attività che si svolgono negli uffici, come quelle gestionali,
amministrative e politiche. C’è una distribuzione funzionale di servizi che si distinguono in:
1) servizi per le famiglie: destinati alla vendita e rivolti al consumo finale. Commercio al dettaglio, servizi
para-commerciali come bar e ristoranti, servizi di cura della persona, riparazione e manutenzione.
2) servizi per la collettività: non rispondono soltanto all’interesse individuale di chi ne fruisce, ma anche a
quelli generali della comunità (difesa, giustizia, sicurezza, sanità, istruzione, trasporti, comunicazione).
3) servizi per le imprese: la loro presenza in una città o in una regione è un fattore di attrazione per le
imprese che hanno bisogno di quei servizi (quindi non dipende dalla domanda come i servizi per le
famiglie.
Esistono poi le attività quaternarie: vanno oltre il settore terziario, e hanno soprattutto funzione di comando,
direzione, programmazione, indirizzo politico e culturale. Si concentrano solo nelle grandi città globali.
Fa parte infine del settore terziario anche quello che viene definito terzo settore, o no-profit, che comprende una
serie di attività di servizio svolti da privati, che perseguono scopi sociali nel campo dell’assistenza, della cultura, e
tendono ad integrare e in parte sostituire l’intervento dello stato dove esso è carente.

2) L’evoluzione dell’Industria nel nord del mondo

Un tempo la scelta del luogo dove collocare le fabbriche era fortemente influenzata dai costi di trasporto delle
materie prime. Oggi nella scelta del luogo in cui localizzare i propri stabilimenti intervengono altri fattori:
1) possibilità di reperire manodopera: o a basso costo com’è di regola nei paesi più poveri, o altamente
specializzata e certificata come nelle maggiori metropoli.
2) possibilità di accedere al mercato in modo tale che i prodotti finiti possano essere direttamente
pubblicizzati, distribuiti e venduti
3) presenza di economie di agglomerazione, ossia i vantaggi che derivano dall’operare a contatto con altre
imprese (es. imprese fornitrici). Però la crescita urbana può anche determinare un aumento delle tasse,
del costo del lavoro o dei costi di trasporto, creando al contrario diseconomie di agglomerazione.
4) presenza di politiche nazionali e locali vantaggiose: da essere dipende la facilità di insediarsi senza
troppe restrizioni derivanti dalle norme sindacali, urbanistiche e ambientali, come capita nel Sud del
Mondo, ma che sovente danno origine a forme di sfruttamento, di violazione dei diritti umani.
Altri vantaggi politici possono essere: riduzione del costo dei terreni, dell’energia, delle tasse; mentre le
imprese che occupano personale molto specializzato e qualificato hanno interesse a localizzarsi dove i
loro dipendenti possono godere di una buona qualità paesaggistica, ambientale e della vita in genere.

Parliamo ora del FORDISMO. Preceduto dal Taylorismo, abbastanza simile come principio, Ford introdusse la
catena di montaggio, utilizzando un processo di produzione basato su elementi intercambiabili, una divisione
chiara del lavoro e la standardizzazione del prodotto. Ebbe tre conseguenze principali:
1) dequalificazione del lavoro;
2) rafforzamento della gerarchia, netta separazione tra lavoratori e dirigenti (diffusione dei sindacati)
3) nascita delle imprese multinazionali
4) nascita delle città industriali, a causa del gran numero di operai richiesti
Il fordismo però ha anche dei limiti:
1) richiede una fornitura immediata e regolare di materie prime, sia per la produzione stessa sia per la
manutenzione dei macchinari, che se si rompono e manca il materiale per aggiustarle interrompono
tutta la produzione;
2) deve fondarsi su un mercato di massa in grado di consumare una ristretta gamma di beni prodotti
3) il lavoro alla catena di montaggio può essere molto alienante per gli operai
Ci sono varie soluzioni, come mettere tantissime materie prime nei magazzini, o promuovere un’integrazione
verticale dell’impresa, ovvero il controllo da parte della stessa di due o più passaggi nella produzione o nella
distribuzione di un bene, in modo da ridurre al minimo i rischi. A questo si lega il concetto di filiera di produzione:
sequenza di operazioni collegate fra loro, che vanno dall’ideazione del prodotto, alla sua produzione e
distribuzione.
Negli anni settanta, dopo il boom economico, ci fu la crisi del fordismo, determinata dalla crisi energetica, che
fece aumentare i costi del trasporto e di produzione, le diseconomie di agglomerazione, i gusti dei consumatori
che non si accontentarono più, i miglioramenti nel campo dell’elettronica e dell’informatica.
Da questo impariamo che il fordismo è un sistema di produzione molto poco flessibile, che non si adatta
facilmente né rapidamente al variare delle condizioni economiche o del mercato.
Una prima risposta a questa crisi venne dal Giappone, dove fu sperimentata la produzione flessibile, che utilizza
le tecnologie informatiche per rendere la produzione dei beni più varia e più reattiva nei confronti delle condizioni
di mercato, e per questo motivo più efficiente.
La produzione flessibile si basa su una catena produttiva pensata dal consumatore, i lavoratori non sono più
alienati, non c’è più così tanta distanza tra lavoratori e manager perchè devono comunicare spesso.
Inoltre ci sono anche altri elementi importanti: la pronta consegna si riferisce al modo in cui un’impresa gestisce il
suo magazzino (con ordini di piccola entità in base alla necessità del momento), mente l’esternalizzazione si
riferisce al fatto che alcune attività non vengono fatte dall’impresa stessa, ma subappaltate ad altre aziende, in
certi caso delocalizzate. La delocalizzazione ha influito sulla distribuzione della forza lavoro, e ha contribuito a
dare forma all’attuale globalizzazione dell’industria. Pensiamo a industrie come Nike, Reebok, Ikea: non hanno
nemmeno un impianto manifatturiero per la produzione: creano modelli di marca originale, per poi delocalizzare e
subappaltare la produzione dei loro beni a impianti manifatturieri localizzati nei paesi in via di sviluppo. Ha avuto
tre importanti conseguenze:
1) ha dato alla produzione un carattere molto più globale.
2) ha contribuito ad una nuova divisione internazionale del lavoro, contrapposta alla vecchia divisione del
lavoro, associata all’estrazione delle materie prime nelle aree periferiche e semiperiferiche, e alla
produzione manifatturiera nei paesi centro.
3) ha avuto un importante effetto sulla geografia del profitto generato dalle attività produttive.

3) L’evoluzione dell’industria nel resto del mondo

L’attività manifatturiera trasforma i prodotti e ne accresce il valore (valore aggiunto di produzione). Negli anni 70
ci furono due grandi fasi nel mutamento della geografia di produzione: da una parte i paesi più sviluppati, come il
Giappone, sperimentarono un rapido aumento del valore di produzione, potendo iniziare a competere con Stati
Uniti ed Europa; dall’altra centri di produzione di alcune aree periferiche dell’Asia iniziarono a crescere di
importanza.

Industrializzazione dell’Asia: il Giappone divenne un modello da imitare. Alle quattro tigri asiatiche presto se ne
aggiunsero altre. Primo settore: tessile, poi abbandonato. Oggi: elettronica. Vedi il caso della Cina, che tardò
nello sviluppo ma quando lo iniziò fu molto molto rapida. La trasformazione economica di questi stati derivò da:
1) iniziative promosse dai governi per incrementare la produttività industriale
2) passaggio graduale da produzione caratterizzata da lavoro intensivo e ripetitivo a un più alto valore
aggiunto tecnologico
3) presenza di forza lavoro scolarizzata e qualificata, a basso costo e poco socialmente protetta.

Esistono anche le Zes, zone economiche speciali. Sono aree industriali che funzionano secondo politiche e
leggi diverse rispetto al resto del paese in cui si trovano, e hanno una produzione orientata all’esportazione.
Hanno per esempio una legislazione semplificata sulle tasse e i dazi doganali. Inoltre, sono proibite o limitate le
attività sindacali. Ovviamente ci sono state critiche: aumentano i divari nello sviluppo, concentrando le risorse e
le infrastrutture in una regione, a discapito delle altre. Dal punto di vista delle condizioni lavorative invece dipende
dalla zona.
Le prime Zes sono cinesi. In Cina, dove l’introduzione di zone che seguivano il commercio capitalista
corrispondeva a un grande cambiamento nella struttura economica, vennero create a titolo sperimentale solo in
quattro città. Le Zes cinesi tendono ad essere più grandi, e sono più integrali, perchè oltre alla produzione di beni
vengono anche promossi altri aspetti economici, come la ricerca e sviluppo e il turismo.

In messico invece si diffuse la maquiladora. E’ un impianto manifatturiero spesso di proprietà straniera, che
importa materiali esenti da dazi doganali, li assembla, li tratta e infine li esporta. In Messico erano parte di una
strategia del governo per alleviare la disoccupazione negli stati al confine con gli USA. Entrarono in crisi nel
2000.

4) Le trasformazioni strutturali dei sistemi produttivi

Con composizione strutturale dell’economia, si intende il fatto che settore primario, secondario e terziario,
insieme, generino prodotto interno lordo e creino posti di lavoro. L’evoluzione strutturale di un’economia parte da
un primo stadio in cui predomina il settore primario, per passare a una fase di crescita dell’industria
manifatturiera (settore secondario), e poi dei servizi. Quest’ultima fase deriva sia dal cambiamento dello stile di
vita dovuto all’aumento del reddito pro-capite, sia dalla crescente domanda dei servizi da parte delle imprese.
La crisi del fordismo ha segnato un periodo di cambiamento strutturale all’interno dei paesi industrializzati, che ha
portato ad un calo dei posti di lavoro nelle attività manifatturiere, senza tuttavia che questo significhi che i paesi
più sviluppati hanno perso il loro ruolo dominante nella produzione. Abbiamo avuto quindi una grande perdita di
posti di lavoro (=deindustrializzazione?), a causa principalmente di tre fattori:
1) maggiore incremento della produttività del lavoro nell'attività manifatturiera rispetto a quella dei servizi
2) cambiamento nella disponibilità delle risorse
3) globalizzazione economica: in posti di lavoro sono stati per la maggior parte spostati nei paesi in via di
sviluppo.
Al primo punto si lega l’adozione di tecnologie che svolgono in maniera autonoma compiti un tempo affidati ai
lavoratori.

Nel 2008 quasi il 43% della popolazione era impiegata nel settore dei servizi. La crescita del settore sei servizi ha
avuto anche un grosso impatto sull’impiego femminile. In particolare le donne sono impegnate nell’educazione e
nella sanità. Questa specializzazione occupazionale di genere in certi casi può essere interpretata come una
forma di segregazione.
La crescita del settore terziario e quaternario ha a che fare con l’emergere delle società post-industriali:
1) alti livelli di urbanizzazione
2) prevalenza del settore dei servizi e delle attività d’ufficio
3) prevalenza dei colletti bianchi nella forza lavoro
4) infrastrutture fortemente basate sull’informatica e le comunicazioni (ICT)
5) economia basata sulla conoscenza: oggi la conoscenza è diventata una risorsa produttiva che compete
con i fattori produttivi tradizionali come la terra ed il lavoro.
Uno dei migliori indicatori di un’economia basata sulla conoscenza è la quantità di denaro spesa in ricerca e
sviluppo (ovviamente nei paesi sviluppati si spende molto di più). I fondi derivano da imprese private,
organizzazioni no-profit, agenzie governative. Con il termine tecnopoli si intendono aree nelle quali si
concentrano imprese che si occupano di ricerca, progettazione, sviluppo e/o produzione in settori ad alta
tecnologia come comunicazioni e software. La rivoluzione dell’informazione e della tecnologia fornisce, come
ritiene Castells, tre motivazioni per lo sviluppo dei tecnopoli: la reindustrializzazione, lo sviluppo regionale
(importante fonte di impiego), e la sinergia (benefici ottenuti attraverso l’arricchimento reciproco.
Ci sono tanti tecnopoli in giro per il mondo, anche nelle aree periferiche o semiperiferiche (per azione
finanziatrice dei governi). In Italia è stato recentemente istituito il tecnopolo di Bologna, che mette in rete 53
laboratori industriali disseminati sul territorio dell’Emilia Romagna creando un sistema che coinvolge le quattro
università emiliane, il Poli di Milano, il Cnr, l’Enea e gli Istituti Ortopedici Rizzoli.

CAPITOLO 9 - FLUSSI, RETI E NODI

1. I trasporti e le telecomunicazioni riducono le distanze

Negli ultimi decenni le relazioni a scala planetaria si sono estese e intensificate a tal punto da superare ogni
confine fisico, culturale, politico, in modo che non esiste più nessun ambito geografico locale che non sia
collegato al resto del mondo.
Da sempre l’uomo ha avuto la necessità di spostarsi, prima a piedi su sentieri che vennero resi poi più agevoli
quando si cominciarono ad usare gli animali da soma per il trasporto delle merci.
La scoperta della ruota rese necessario tracciare delle strade per i carri. I primi a creare una vera e propria rete
continentale di vie di comunicazione furono i romani: le loro strade non servivano solo per i commerci ma anche
per lo spostamento degli eserciti (ancora oggi molte strade seguono il tracciato romano).
La costruzione di strade ebbe un notevole impulso all’inizio del XX secolo con la diffusione delle automobili.
Nacquero le autostrade. Tutto questo comportò maggiore velocità e diminuzione di costi, favorendo la
rivoluzione dei trasporti. La maggiore velocità dei trasporti comportò anche una modifica del territorio: viadotti,
gallerie, svincoli, stazioni di servizio…
Nel 2010 le macchine hanno superato il miliardo. L’esplosione cinese ha avuto un ruolo trainante nella crescita di
autovetture a livello mondiale.

Le ferrovie: la prima ferrovia è inglese e risale al 1825. La costruzione della ferrovia fu strettamente legata alla
rivoluzione industriale, perché oltre a favorire gli spostamenti delle persone, ha ridotto i costi di trasporto delle
materie prime e dei prodotti finiti, per questa ragione ha avuto un importante ruolo nella localizzazione delle
industrie, dei depositi merci e quindi dello sviluppo delle città. Già nel 1870 l’Europa era attraversata in tutti i
sensi da una rete di linee ferroviarie e si potevano raggiungere in tempi relativamente brevi le città principali.
Addirittura, nel 1888 si inaugurò l’Orient Express, il primo servizio passeggeri tra Parigi e Costantinopoli.
Nei paesi di successiva industrializzazione, la ferrovia in alcuni casi ha permesso la penetrazione in nuovi spazi e
la loro presa di possesso da parte dei pionieri (es. conquista del West nell’America Settentrionale o in Russia
popolamento delle zone dell’Asia centrale e settentrionale). In Africa invece le prime ferrovie arrivarono solo
all’inizio del 900, e si trattava di ferrovie di penetrazione, che servivano a portare fino ai porti delle costa i
prodotti delle miniere e delle piantagioni, che venivano esportati. In India, furono gli inglesi a costruire una rete
ferroviaria che è ancora oggi il mezzo di coesione territoriale del paese.
Negli anni 60 i trasporti su strada e gli aerei divennero competitivi e il treno passò in secondo piano, fino
all’avvento dei treni ad alta velocità.

I trafori: sono connessi alle ferrovie e ai treni, che ovviamente non possono superare le montagne senza gallerie.
Oggi i trafori vengono utilizzati anche nelle strade per macchine. In realtà, il primo traforo fu aperto per quanti
valicavano le Alpi a piedi con animali da soma (Buco di Viso). Il primo traforo ferroviario fu aperto solo 4 secoli
dopo, ed è quello del Frejus, che collega Francia a Italia. Adesso se ne vuole aprire anche uno che collega Italia
e Svizzera e sarà il più lungo del mondo con i suoi 57 km.

Vie d’acqua interne: i corsi d’acqua furono da sempre utilizzati come vie di comunicazioni. Con l’aumento del
traffico fluviale fu necessario fare alcuni lavori per agevolare i viaggi, come interventi di drenaggio, regimazione
delle portate, canalizzazioni e costruzioni di chiuse per superare i dislivelli. Oggi è utilizzato per merci pesanti e
non deperibili. Per le persone si usa solo nelle regioni del sud del mondo, dove - come al nord - è anche attività
turistica. In Europa il trasporto fluviale è molto usato nelle pianure interne (es. Danubio e Reno).

Porti e rotte marittime: sono nodi di traffico in cui convergono rotte marittime, strade e sovente ferrovie, canali e
vie fluviali. Sono un’infrastruttura di fondamentale importanza per i collegamenti tra mare e terraferma. Nel secolo
scorso, in seguito alla rivoluzione dei trasporti, nacquero i porti polivalenti, ossia porti in grado di caricare e
scaricare oltre ai passeggeri merci di ogni tipo. Inoltre, l’impiego di navi sempre più grandi rese necessaria la
presenza di fondali più profondi, terminali più estesi e attrezzature specifiche per velocizzare le operazioni di
carico e scarico. La necessità di una maggiore estensione del porto è stata risolta in molte aree portuali con
l’espansione in mare, attraverso la costruzione di nuove strutture offshore di terminali petroliferi per le
superpetroliere, di piattaforme di prospezione ed estrazione di idrocarburi e minerali. Altri porti invece si sono
estesi sulla terraferma, come il porto di Rotterdam. La localizzazione di industrie nei porti o nelle loro vicinanze
ha creato regioni industriali costiere legate alla navigazione marittima.
Fronti marittimi più importanti: Europa Atlantica, Giappone orientale, Usa orientali, Golfo del Messico.
Nel sud del mondo i porti sono quasi sempre specializzati nell’imbardo di uno o pochi tipi di merce.
I porti moderni rivestono un ruolo anche nell’organizzazione del territorio, perché funzionano come gateaway
(punto di entrata e di uscita) di regioni più o meno vaste e punto di collegamento tra le vie di comunicazione di
mare e terraferma. Di conseguenza condizionano la posizione delle industrie.
Altri punti fondamentali sono i porti di trasbordo che hanno il ruolo di smistare i container dalle grandi navi
interoceaniche a navi di minore portata che operano su rotte regionali.
Per gestire tutti i tipi di merci si ricorre alla creazione di sistemi portuali, cioè l’integrazione tra più porti di una
stessa fascia litoranea, ognuno specializzato in una o più funzioni.
Il trasporto aereo: il vantaggio è dato dalla velocità, mentre il suo limite è dato dai costi. Il trasporto aereo è usato
per persone o per merci altamente deperibili come i fiori. Ultimamente va diffondendosi l’uso dell’aereo all’interno
di grandi imprese organizzate, secondo il sistema di deposito centralizzato, che ritiene più utile e meno costoso il
mantenere scorte e pezzi di ricambio in un unico grande magazzino e spedirle ogni volta che è necessario per
via aerea, anziché distribuirle in tanti piccoli depositi disseminati nel territorio.
L’uso della spedizione è inoltre sempre più usata per la consegna degli acquisti online. Infine, viene utilizzato
anche per collegare località molto isolate, molto lontane o addirittura non servite da altri mezzi.
L'aeroporto intercontinentale è di primaria importanza per lo sviluppo economico di una regione, e per il
collegamento con il resto del mondo. Funge da nodo da cui dipendono gli aeroporti minori. Particolarmente
vantaggiosa è la posizione di un aeroporto situato lungo una importante rotta intercontinentale, soprattutto se
funge da nodo di raccordo con altre direttrici.

Le telecomunicazioni: ITC → information and Communication Technologies). Le attività economiche e finanziarie


utilizzano le reti delle telecomunicazioni per collegare tra di loro i vari punti nei quali articolano le aziende,
trasferendo dati, denaro e sviluppando l’e-commerce. Le ITC sono fondamentali anche:
1) nel campo della salute, fornendo aggiornamento su tecniche e farmaci
2) nel campo della cultura
3) nel campo della ricerca
4) nel campo dell’istruzione (insegnamento a distanza, aggiornamento insegnanti…)
5) nel campo del sociale (social network).
Le differenze nelle possibilità di accesso alle telecomunicazioni sono ancora maggiori.
Infatti il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione tramite Internet e chi ne è
escluso è forte, e dà origine al digital divide (divario digitale). I paesi con meno possibilità di utilizzare le ITC sono
limitati nello sviluppo. Il divario deriva dalla possibilità o meno di accedere a internet, e dipende da due fattori:
1) possesso degli strumenti e capacità di utilizzarli (fattore soggettivo)
2) presenza di infrastrutture fisiche (reti cablate e sistemi satellitari) e costi

2. La circolazione delle merci e il commercio internazionale

Negli ultimi decenni la velocità e l’aumento del traffico delle merci sono aumentati ancora di più, a seguito della
globalizzazione. Per gestire al meglio tali scambi è stato necessario creare la logistica: l’insieme delle attività
organizzative, gestionali e strategiche che governano i flussi di materiali, dalle origini presso i fornitori di materie
prime fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita.

Primo compito della logistica è razionalizzare i trasporti, sia in entrata che in uscita, per ridurne i costi. Per fare
questo si sono introdotti i container, di misura standard per farli entrare su treni e aerei di qualsiasi tipo. Grazie
ai container viene reso possibile un trasporto multimodale. Si sono razionalizzati anche i trasporti dei
passeggeri, grazie a piattaforme di interconnessione (hub aeroportuali) dove sono presenti contemporaneamente
terminali aerei, stradali e ferroviari e di ferrovie metropolitane.

Il commercio ovviamente è sempre esistito, ma mano a mano che la storia dell’uomo è andata avanti anche la
storia del commercio è cambiata. Ovviamente un grande impulso si ebbe con la rivoluzione industriale e con la
rivoluzione dei trasporti. Poi, con la globalizzazione. Nello sesso periodo abbiamo avuto anche le innovazioni
tecnologiche e altri due fattori hanno influito sull’enorme crescita del commercio del mondo globalizzato:
1) la divisione internazionale del lavoro
2) progressiva liberalizzazione del commercio
Oltre all’aumento del volume dei flussi commerciali, con la globalizzazione sono anche mutate le direzioni dei
flussi. Se le risorse primarie, in particolare il petrolio, determinano sempre ingenti flussi dai paesi produttori a
quelli industrializzati, i manufatti e i semilavorati seguono percorsi più complessi.

Poli principali del commercio: Europa Occidentale, Stati Uniti, principali centri dell’Asia Orientale (a differenza dei
primi due presenta flussi in uscita maggiori di quelli in entrata).
Un certo peso lo fanno anche i paesi petroliferi del Medio Oriente, la Russia e i paesi emergenti dell’America
Latina: Brasile e Messico.
Infine, l’area commercialmente più attiva è quella del Pacifico.

3. Il turismo
Il Turismo è esistito fin dall’antichità (vedi otia dei romani, o il Gran Tour europeo del XVIII secolo). Con la
rivoluzione industriale e il formarsi di una ricca classe borghese il turismo ebbe un forte sviluppo. Si trattava di un
turismo d’élite, legato a classi con alto reddito.
Nel dopoguerra invece si diffuse il turismo di massa. Un turista è chiunque trascorra al di fuori della sua
residenza abituale un periodo che va da una notte ad un anno, per vari motivi: svago, riposo, vacanza, visite ad
amici e parenti, motivi d’affari o professionali, motivi di salute, religiosi o altro.

Tra le attività del settore terziario, il turismo è quella con il maggior numero di addetti a livello mondiale. I flussi
turistici principali sono quelli tra i paesi ricchi, in particolare tra l’Europa e gli Stati Uniti, mentre quelli tra il Nord e
il Sud del mondo sono più limitati e riguardano soprattutto movimenti da Nord verso Sud. Sono però in crescita i
flussi da Cina e India verso l’Italia (città d’arte).
Il turismo, se da un lato rappresenta una fonte di reddito notevole, d’altro canto ha un impatto non sempre
positivo sul territorio, provocando profonde trasformazioni funzionali e paesaggistiche (es. edifici moderni lungo
le spiagge, condomini e impianti di risalita sui versanti montani).

Oggi il turismo si lega al viaggio, che consiste nel visitare per proprio piacere un luogo diverso da quello di
residenza abituale. Particolarmente importante è l’immagine globale, che comprende quella paesaggistica e
culturale. Molto spesso invece per il turista l’immagine è parziale e deriva da un cliché.

Turismo culturale: nel mondo globalizzato, cresce l’interesse per le diversità e le specificità che ancora restano
nei singoli paesi. Tale interesse dà origine al turismo culturale, che ricerca tutto ciò che riguarda l’identità di
luoghi e paesi. Tanti vengono in Italia come “turisti culturali”. L’Italia è infatti la quinta destinazione del mondo per
arrivi da turismo internazionale.

CAPITOLO 10 - GEOGRAFIA URBANA

Introduzione: Masdar city. Riflessione: oltre al rapporto con l’ambiente naturale, le città non presentano anche
altri problemi? non esiste anche una sostenibilità culturale che riguarda ad esempio il rapporto tra innovazione e
conservazione del patrimonio storico? E, ancora più importante, una sostenibilità sociale che riguarda l’accesso
all’abilitazione, ai servizi e al lavoro di tutta la popolazione?

Nonostante la loro grande varietà, tutte le città condividono queste caratteristiche di base:
1) un’elevata densità di popolazione
2) una certa dimensione demografica
3) una complessità di funzioni culturali, sociali, economiche a cui corrispondono usi del suolo specializzati
4) l’essere centri di poteri connessi all’esercizio di queste varie funzioni
5) l’essere ambienti dinamici e creativi
6) l’essere connesse ad altri luoghi urbani e rurali attraverso una fitta rete di relazioni e di flussi di persone,
beni, servizi, informazioni e denaro
7) l’essere luoghi di grandi contraddizioni e di conflitti (offrono speranze, ma sono al tempo stesso luoghi di
povertà, privazioni, disperazioni e rivolte).

nonostante queste caratteristiche di base,per quanto riguarda la definizione della città ci sono varie teorie.
Nel 1938 il sociologo americano Wirth definì la città in termini di dimensioni, densità e varietà.
Ad oggi si tende a definire la città solo in base al numero, ma la soglia cambia da paese a paese per questioni di
densità (in Italia si parte da 10.000, in Danimarca basta qualche centinaio). Ci sono poi altre regole in base agli
stati: in Russia si combina dimensione demografica assoluta e percentuale di addetti ad attività non agricole; nel
Regno Unito sono città quelle definite tali da leggi e decreti.
La dimensione, invece, dipende dai confini entro cui calcoliamo la popolazione. In Europa un tempo le città
erano addensamenti nucleari, sovente circondati da mura e i confini erano quelli delle singole municipalità. Con
l’industrializzazione le città nucleari si sono dilatate fino a comprendere municipalità vicine (città estese).
La “vecchia città” all’interno delle città estese di solito ospita il quartiere centrale degli affari, gli uffici
dell’amministrazione pubblica e alcuni servizi come grandi teatri, centri congressuali, musei…
Nelle corone periferiche invece ci sono gli spazi industriali e commerciali, intercalati da vaste aree residenziali.

Le città prendono nomi diversi: Se l’espansione è stata continua e a macchia d’olio si parla di agglomerato
urbano. Se c’è stata espansione a macchia d’olio di più agglomerati urbani vicini che si sono fusi tra loro si parla
di conurbazione. Si parla di sistemi territoriali urbani (aree urbane o aree metropolitane se molto popolate)
quando agglomerati non sono così vicini ma ben collegati da reti stradali. Anche le città-rete sono forme di città
estesa. Là dove più aree urbane e metropolitane sono cresciute molto vicine tra loro si parla di megalopoli (in
Italia l’area padana). Le mega-città sono invece quelle città che hanno più di 10 milioni di abitanti.

Le città tra di loro si scambiano materia, energia, popolazioni, beni, servizi, denaro, informazioni. Tra di loro
formano delle reti, nelle quali le città sono nodi. Queste reti sono a maglie larghe, come nei paesi con
un’economia prevalentemente agricola, o molto fitte, come nelle regioni industrializzate.
Nei paesi più economicamente sviluppati si sono formati aggregati regionali di grandi dimensioni che si
strutturano attorno a città-rete, i cui nodi funzionano nel loro insieme come se fossero un’unica grande metropoli.
Nelle città-rete le funzioni sono divise nei vari centri (funzioni politiche, finanziarie, d’istruzione).
Anche le città di grande dimensioni possono essere considerate come città.reti, perché si pone il problema di
come amministrare un vasto spazio urbano, il cui controllo sfugge alle singole municipalità che le compongono.
In alcuni paesi sono state incentivate forme di cooperazione, di consorzio e coordinamento, mentre in altri si
sono istituiti dei nuovi enti territoriali sovracomunali detti aree metropolitane (in Italia Torino, Genova, Bologna,
Bari, Roma).

Si può parlare di urbanizzazione in due sensi:


1) il processo che porta imprese e popolazione a concentrarsi nelle aree urbane
2) estendersi a sempre più vasti territori delle caratteristiche e dei modi di vita delle città
Grado di urbanizzazione: percentuale della popolazione residente nelle città, o popolazione urbana.
Tasso di crescita urbana: incremento annuo percentuale della popolazione urbana.
Ovviamente la percentuale di popolazione che vive in città sta aumentando moltissimo, e i paesi più sviluppati
hanno un grado di urbanizzazione molto più elevato. Tuttavia, se nei paesi meno sviluppati la popolazione
continua ad accentrarsi nelle città, nei paesi più sviluppati c’è una contro-urbanizzazione. Il geografo Berry
descrisse questo fenomeno nel 1970. Alcuni affermarono che essa era legata alle nuove tendenze localizzative
dell’industria e dei servizi tipiche della fase detta post-fordista, che privilegiava i centri minori e i conflitti sindacali.
Ma dalla contro-urbanizzazione si passò alla disurbanizzazione, un fenomeno che colpì soprattutto i comuni
centrali delle grandi agglomerazioni urbane, ma sovente anche le agglomerazioni nel loro complesso.

Tradizionalmente il termine urbano sta ad indicare gli spazi limitati in cui la popolazione si concentra, mentre il
termine rurale viene riferito a tutti gli altri spazi abitati che hanno una bassa densità abitativa (campagna).
Spesso, nei paesi ad economia avanzata, la campagna viene urbanizzata in due sensi: primo, vengono coperte
di edifici, secondo, i modi di vita della popolazione cambiano. Questi centri si chiamano peri-urbani.
Inoltre, un processo determinante nel trasformare i paesaggi rurali è quello della dispersione edilizia, che si
verifica quando il tasso di consumo di un suolo dovuto all’espansione dell’area urbanizzata supera quello della
crescita della popolazione. Si forma quindi un tipo di urbanizzazione dispersa detta città diffusa, caratterizzata
da una bassa densità di popolazione e dalla presenza di capannoni, allineamenti commerciali, villette unifamiliari,
intervallati da spazi liberi destinati all’agricoltura o alla ricreazione. La città diffusa soddisfa certe esigenze
individuali ma ne scarica i costi sulla collettività:
1) sottrae suolo all’agricoltura,
2) richiede ingenti investimenti nelle reti elettriche, telefoniche, idriche e fognarie.
3) non è servita se non in minima parte da trasporti pubblici
4) espande i suoli coperti da asfalto o cemento
5) riduce i contatti tra le persone, con la conseguenza di una vita sociale più povera.
Tutte le città rischiano di trasformarsi in città disperse, anche se il fenomeno è più frequente negli stati uniti, se
non gestiscono adeguatamente la propria crescita.
Inoltre, se non viene gestita in modo adeguato, una rapida crescita dell’urbanizzazione può essere
accompagnata da una serie di problemi, come l’incremento della disoccupazione, la nascita di baraccopoli e un
aumento del traffico e dell’inquinamento.

Funzioni della città


Per funzioni della città si intendono sia funzioni relative a esigenze interne che esterne. Ogni città, in base alla
sua importanza, ha un diverso raggio d’azione. L’importanza di una città si può quindi desumere dalle sue
funzioni, queste utile misurabili in base al loro raggio d’azione e al loro impatto sulla vita sociale a diversi livelli
territoriali. Abbiamo diversi tipi di città:
1) città commerciali (dai grandi centri di commercio fino alle piccole città-mercato)
2) le città-capitale (funzioni di governo)
3) città fortezze (potere militare o città sacre).
4) città minerarie, della pesca o industriali (funzioni produttive)
5) città universitarie
6) città d’arte o del turismo

Il raggio d’azione di un centro abitato dipende dalla portata delle funzioni che esso svolge, cioè dal suo ruolo di
località centrale, per cui un villaggio avrà sempre un’area di minori dimensioni rispetto a quella di una città.
La relazione tra una località centrale e la propria area di gravitazione dimostra l’esistenza di una gerarchia.
La gerarchia urbana fu teorizzata di Christaller: è la suddivisione delle località centrali in livelli, in base al raggio
delle funzioni centrali che esse svolgono, perciò alle dimensioni della loro area di gravitazione espresse in termini
di soglia e di portata.
1) portata: distanza massima che un consumatore è disposto a percorrere per fruire di un bene o un
servizio
2) soglia: definisce quali beni e quali servizi sia più probabile reperire al suo interno. Affinché una località
centrale sia in grado di offrire un certo servizio, essa deve infatti avere una base di utenti sufficiente,
rappresentata dalla soglia.
La gerarchia delle città si fonda quindi su una graduatoria delle località centrali, al cui vertice ci sono le città
globali, dove è possibile reperire la maggior parte dei beni e dei servizi esistenti, mentre in basso ci sono i piccoli
centri dove si possono reperire solo i beni e i servizi principali.

Ci sono due attività economiche principali delle città:


1) attività locali: il cui raggio d’azione non va oltre l’immediato intorno territoriale delle città e consistono
nella produzione di beni e servizi che vengono consumati localmente e assicurano la sussistenza della
città;
2) attività esportatrici: quelle che hanno un raggio d’azione più ampio e che fanno crescere la città.
Se si conosce la crescita delle attività esportatrici, si può calcolare la crescita delle attività locali e dell’intera
popolazione urbana in base a un rapporto detto moltiplicatore urbano. Perciò le attività esportatrici sono anche
dette attività di base.

Parliamo anche delle città globali: centri principali del potere economico mondiale, in grado di esercitare
un’influenza e un controllo sul resto del mondo. La nascita delle città globali può essere spiegata riferendosi a
due fattori: la crescita delle imprese multinazionali e l’importanza crescente di servizi professionali avanzati,
come quelli legati alla finanza, alle assicurazioni, alla pubblicità o al settore legale.
Le città globali, collegandosi tra loro, formano una rete urbana globale.
Esse sono i nodi di una rete di primo rango nella gerarchia mondiale e si caratterizzano soprattutto per la
complessità ed eterogeneità della loro composizione demografica e sociale. E le città globali sono anche luoghi
emblematici del conflitto sociale e delle grandi manifestazioni di massa in cui esso si esprime.
Inoltre, la concentrazione delle funzioni più qualificate nella ristretta rete delle città globali ha esercitato effetti a
catena sulla geografia urbana dell’intero pianeta, indebolendo le sovranità nazionali. Molte capitali, per non
perdere la loro centralità, sono diventate città globali, sostituendo la loro centralità territoriale con una centralità di
rete.

STRUTTURA URBANA: la morfologia urbana si riferisce alla forma fisica della città.
Negli agglomerati tradizionali si individuano i due grandi tipi morfologici: piante a scacchiera, e radiocentriche,
a cui si aggiunge la città lineare, che caratterizza le città minori nate lungo una strada o una costa. E’ difficile
che una città presenti una morfologia omogenea perchè in genere morfologie diverse si sono giustapposte nel
corso della storia, dando luogo a cesure e discontinuità del tessuto urbano.
Se a grandi linee la forma della città è data dalla planimetria, un esame morfologico completo deve tuttavia
considerare la città come uno spazio tridimensionale (villette o grattacieli). Nella città moderna acquistano poi
crescente importanza gli spazi pubblici sotterranei come le ferrovie metropolitane, stazioni o gallerie commerciali
(che hanno particolare importanza nelle città fredde).
Abbiamo i modelli morfologici monocentrici europei e nord-americani, che però hanno subito profonde modifiche
soprattutto nei centri minori, a causa della peri-urbanizzazione, con la dispersione urbana che crea
un’organizzazione della città abbastanza caotica.

Tra i principali processi che influenzano la struttura di una città ci sono la centralizzazione, la
decentralizzazione (sub urbanizzazione e peri-urbanizzazione) e l’agglomerazione.
La prima indica quelle forze che portano la popolazione e le attività economiche a concentrarsi nei quartieri più
centrali della città, mentre il concetto di decentralizzazione si riferisce invece al fenomeno opposto, ovvero la
tendenza di una parte degli abitanti e delle attività a spostarsi verso gli spazi periferici. L’agglomerazione in
un’area di determinate attività può incidere sulla struttura tanto delle aree centrali quanto di quelle periferiche (ci
può essere infatti una struttura policentrica detta anche multipolare).
Le città sono spesso caratterizzate anche da una zonizzazione funzionale, ossia la suddivisione del territorio di
una città in zone caratterizzate da specifiche attività e usi del suolo (tre categorie principali: residenziale, del
commercio e industriale).
Il valore dei terreni è una delle forze economiche che più incidono sull’uso del suolo all’interno dei confini di una
città. Questo valore è legato a fattori come accessibilità e desiderabilità dei terreni. Le curve valore del suolo
permettono di visualizzare queste forze economiche, mostrando come la disponibilità di un potenziale acquirente
a pagare per un certo terreno è proporzionale alla sua distanza dal centro della città o da zone in cui si
concentrano determinate attività economiche.
L’amministrazione cittadina può limitare l’insediamento di alcune attività - come fabbriche o magazzini - in alcune
zone specifiche della città, attraverso la zonizzazione.

Geografia interna delle città dei paesi economicamente avanzati:


All’interno della città dei paesi economicamente avanzati gli abitanti e le diverse attività economiche non si
distribuiscono in modo casuale, ma secondo una geografia legata a fattori soprattutto economici e socio-culturali.
Visto che il costo degli affitti o dell’acquisto dei fabbricati crescono di regola dalla periferia verso il centro, nelle
città più importanti i servizi di rango elevato si localizzano nel centro.
Le industrie manifatturiere, sia a causa degli alti costi del terreno sia per motivi ambientali, tendono a localizzarsi
invece alla periferia della città (o sempre più fuori).
La popolazione con redditi medi e bassi, respinta dal centro a causa degli alti prezzi, si distribuisce in quartieri più
o meno distanti dal centro a seconda del reddito. Nella scelta delle zone di residenza non c’è solo la prossimità
dal centro, ma anche la valutazione di tipo ecologico della qualità di vita (infatti ci sono anche quartieri
residenziali ad alto reddito in zone fuori dell'agglomerato urbano. E capito anche che il centro, lasciato dalla
popolazione più ricca, perda valore, e che qui si insedi la popolazione più povera.

Per quanto riguarda i modelli di forma e di evoluzione della struttura urbana, nel 1925 il sociologo Ernest Bruges
ha sviluppato il modello delle zone concentriche, uno dei primi a descrivere la struttura spaziale delle città. Alla
base di questa teoria c’era un’interpretazione ecologica della crescita urbana, secondo la quale i gruppi che
vivono in città competono per il territorio e le risorse, proprio come avviene per le specie animali nell’ambiente
naturale. Le migrazioni o i cambiamenti di valore dei terreni possono causare spostamenti da una zona all’altra,
in base a un processo che Burgess ha chiamato successione.
Nel 1939 l'economista Hoyt ha proposto un nuovo modello di descrizione urbana, chiamato modello dei settori.
Esso attribuisce una grande importanza al ruolo dei mezzi di trasporto.
Nel 1945 Ullman e Harris proposero il modello dei nuclei multipli, sottolineando come molte città non abbiamo un
solo centro commerciale e degli affari, ma molteplici nuclei centrali che possono includere porti, quartieri
amministrativi, zone universitarie e industriali. Questo modello ha avuto conferma negli ultimi decenni con la
formazione degli spazi urbani policentrici.

Città europee: evidenti le tracce della loro conformazione medievale, resti delle antiche mura, con nucleo
centrale (cattedrale, piazza del mercato, reticolo irregolare di strade strette). Queste caratteristiche hanno dato
vita ad una specifica forma urbana, con alcuni fattori:
1) città adatte ai pedoni, dove possono circolare anche biciclette
2) il trasporto privato è più costoso che in altri continenti
3) i mezzi di trasporto pubblico sono economici e molto diffusi
4) forte attaccamento nei confronti degli edifici storici
5) quartieri centrali occupati, oltre che da uffici e servizi, da residenze.
Ci sono comunque delle differenze da stato a stato. Per esempio: mentre nei paesi mediterranei europei
prevalgono gli agglomerati densi e solo di recente la popolazione ha cominciato a trasferirsi in villette suburbane,
questo tipo di struttura residenziale simile a quella nord-americana è tradizionale in Gran Bretagna, Germania e
Paesi Scandinavi.

Città nord-americane: rapidità di sviluppo e di rinnovo: pochissime conservano edifici del passato paragonabili
ai centri storici europei. Gli schemi di costruzione seguono il principio della massima utilità dello spazio: piante a
scacchiera ed edifici elevati. Invece, in periferia, si trovano vasti quartieri di villette di abitazione unifamiliari,
intervallati da ampi spazi verdi.
Le città dei paesi socialisti: proprietà completamente pubblica dei terreni, che impediva qualunque fenomeno
di competizione per il loro utilizzo. Spesso le funzioni residenziali venivano concentrate in grandi edifici con
centinaia di appartamenti, costruiti ai margini della città o vicino alle fabbriche.
Inoltre le funzioni commerciali erano molto limitate. Anche se dopo la caduta dei regimi comunisti le città hanno
subito grandi trasformazioni, in gran parte legate ai processi di globalizzazione, tuttavia l’impianto di molti
quartieri e molti edifici conserva ancora queste caratteristiche.

Le città del Sud del mondo e dei paesi emergenti: nel Sud del mondo le città offrono lavoro ad un numero
limitato di persone. Le tipologie dei grandi centri urbani del Sud del mondo sono estremamente varie, tuttavia vi
si possono riconoscere alcuni aspetti comuni:
- forte crescita della popolazione dovuta all’immigrazione e all’elevato tasso di natalità
- struttura urbanistica disordinata
- tendenza a formare agglomerati con zona centrale moderna e estesi quartieri periferici
- forte disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza della popolazione
Sono anche molto diverse le abitazioni dei poveri e dei ricchi. I quartieri della periferia sono caratterizzati da
edilizia in gran parte abusiva, e ospitano una situazione igienico-sanitaria molto precaria, e tantissime persone.
Sono le baraccopoli: le favelas, i barrios, le bidonvilles e le slums.
I quartieri destinati ai ricchi, ossessionati dal problema della sicurezza, sono invece una sorta di enclave di lusso,
formati in molti casi da gruppi di abitazioni difese da un muro di cinta e telecamere di controllo. Sono i gated
community (comunità recintate), presenti negli Stati Uniti, e che si stanno diffondendo anche nell’America Latina
con i nomi di condominios fechados, e barrios privados.
Nei paesi di più antica civiltà urbana è più facile trovare centri storici simili a quelli europei, mentre nei paesi
emergenti, in rapida ascesa economica, le città si espandono rapidamente, e sorgono oltre la periferia quantità di
grattacieli e strutture commerciali.

Le città islamiche: hanno davvero parecchi punti in comune con le città medievali europee: un centro religioso,
un mercato centrale, quartieri residenziali, reticolo stradale irregolare e cinta muraria con funzioni difensive. Si
può parlare di città islamiche se si sposta l’attenzione dalle forme ai processi che le generano ed animano,
riconoscendo l’influenza dell’Islam sulle relazioni sociali che si svolgono in un contesto urbano.
E’ infatti la città islamica che permette ai fedeli di rimanere in contatto con la comunità musulmana. Altra
caratteristica di alcune città islamiche, è rappresentata dall’importanza che viene attribuita alla riservatezza degli
spazi privati (es. assenza di finestre ai piani terra che si affacciano direttamente sulla strada.

La popolazione e il governo delle città


Un tempo la popolazione diurna di una città corrispondeva con quella diurna. Oggi non è più così, perché ci sono
i city-users che possono anche venire da fuori. Esiste anche una popolazione temporanea rappresentata dai
turisti. L’afflusso di popolazione non residente condiziona lo sviluppo urbanistico delle città per quanto riguarda le
reti di strade e autostrade per l’accesso, linee, stazioni, alberghi…

Nelle città convivono persone con livelli di istruzione e di occupazione diversi che ne definiscono la posizione
socio-professionale. Dalle rilevazioni statistiche c’è un grande numero di imprenditori, dirigenti e liberi
professionisti nelle città economicamente avanzate. Questo fa sì che un grande numero di addetti alle pulizie,
sorveglianza, manutenzione, ristorazione…) attorni i ricchi e su di loro basi il proprio lavoro. C’è infatti per questo
un grande flusso migratorio dai paesi sottosviluppati ai nostri.
Invece, nelle città di paesi meno ricchi, con la dimensione urbana cresce la percentuale di popolazione meno
istruita e più povera, dedita a lavori poco qualificati.
Queste differenze tra Nord e Sud si riflettono nella struttura stessa dell’abitato.
Come abbiamo detto, nei paesi del Nord del Mondo ci sono state tre fasi:
1) poveri in periferia ricchi in centro
2) ricchi in periferia poveri in centro (perché centro degradato)
3) poveri in periferia ricchi in centro (perché centro risanato) → gentrification.
Invece, nel sud del mondo ci sono le baraccopoli: quartieri urbani caratterizzati da sovrappopolamento, dalla
presenza di case auto-costruite e da scarsità o assenza di servizi e infrastrutture di base, come acqua corrente e
raccolta dei rifiuti. Gli interventi di demolizione delle baraccopoli si sono rivelate fallimentari perché sposano il
problema solamente da un’altra parte. Quindi le uniche azioni che funzionano sono quelle che coinvolgono nel
cambiamento delle loro condizioni di vita gli stessi abitanti delle baraccopoli.
La geografia delle città, comunque, dipende da un insieme di azioni (anche di programmazione futura) che
possiamo chiamare politiche urbane. Esse fanno parte della politica in generale, perciò la geografia delle
politiche urbane segue quella dei regimi politici dei vari paesi.
Nasce a questo proposito l’urbanistica: una disciplina che studia le trasformazioni dello spazio urbano ed è al
tempo stesso una tecnica che elabora i piani e detta le regole di tali trasformazioni, traducendo nello spazio fisico
gli indirizzi delle politiche urbane. Prima l’obiettivo dell’urbanistica era una crescita ordinata ed equilibrata, poi
l’obiettivo diventa lo sviluppo economico in un’arena competitiva nazionale e internazionale, una competizione
condotta soprattutto da (e a vantaggio di) organizzazioni private, che le autorità pubbliche devono favorire e
sostenere. La riqualificazione delle periferie allora passa in secondo piano, e le scelte urbanistiche non sono più
prerogativa unica dell’autorità pubblica, perché si ritiene che debbano essere anche coinvolti gli attori stessi di
questa competizione. Allo stesso tempo c’è un’attenzione per la qualità ambientale. In generale, si vuole
costruire un’immagine della città tendenzialmente positiva, attraverso la pianificazione strategica. In altra
direzione va la rigenerazione urbana che consiste in azioni e interventi che hanno per oggetto parti della città
caratterizzate da situazioni di degrado fisico e sociale, allo scopo di migliorarle.

L’espressione “smart city” si riferisce a città che mirano a realizzare, grazie all’impiego di tecnologie avanzate nel
campo della comunicazione digitale (ICT) una serie di obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica
tra loro connessi in modo da migliorare l’efficienza e la qualità della vita.
Le smart city devono trovare un non facile equilibrio tra le spinte che provengono dai produttori e venditori di
tecnologie digitali e i bisogni dei cittadini, evitando il rischio che siano questi ultimi ad adattarsi alle esigenze
tecnologiche e di mercato, mentre sarebbe più intelligente il contrario.
Mentre in America e in Canada sono più avanti con le smart city, in UE solo negli ultimi anni sono stati avviati
progetti simili, e cosa sorprendente, in America Latina, benché paese non completamente sviluppato, ben otto
delle loro città compaiono nell’elenco delle più smart del mondo. Rio de Janeiro è stata giudicata come la miglior
città intelligente del mondo. Anche in Asia ci sono tante smart city, e anche in Africa il problema non è ignorato.

Il sito, il paesaggio della città e l’ambiente


Abbiamo tre concetti importanti nell’ambito della città:
1) sito: il luogo in cui sorge il centro urbano, con le sue caratteristiche fisiche e storiche
2) il paesaggio urbano: alla cui formazione collaborano gli elementi naturali e artificiali della città, e che
incide sui comportamenti umani e quindi sui modi di costruire e trasformare la città.
3) bene culturale: categoria di beni comuni che si trova concentrata nelle città e nei centri storici.
Del sito di una città interessano soprattutto le caratteristiche naturali, come quelle geomorfologiche, idrologiche,
climatiche e bio geografiche.
Il rapporto delle città con il sito è oggi importante in positivo, cioè per i valori e le opportunità ambientali ed
estetiche offerte dalle componenti naturali (forme del rilievo, fiumi, fronti marittimi, vegetazione) alla pianificazione
e alla progettazione urbana.

Le caratteristiche del sito contribuiscono a formare il paesaggio urbano assieme ai vari componenti della città
opera dell’uomo, abitazioni, vie e mezzi di comunicazione, infrastrutture, ai cittadini stessi.
Nel paesaggio urbano sovente singoli edifici o complessi architettonici diventano tratti distintivi e simboli (Torre
Eiffel a Parigi). Anche il verde urbano, i viali alberati e i giardini privati fanno parte del paesaggio urbano.
Il paesaggio urbano è caratterizzato da una concentrazione di beni culturali di regola molto superiore a quella
riscontrabile negli spazi rurali. Ciò deriva dal fatto che le città permangono per secoli e talvolta per millenni negli
stessi luoghi.

Le città come ecosistema: anche la città può essere considerata un ecosistema molto particolare, un
ecosistema urbano. La città infatti ha bisogno di continui scambi di materia ed energia con l’ambiente naturale
terrestre: assorbe dall’esterno gas, acqua e vari materiali, che poi vengono metabolizzati, fino a diventare rifiuti.
A differenza della maggioranza degli ecosistemi naturali però l’ecosistema urbano è caratterizzato da un costante
squilibrio energetico con l’ambiente esterno. Infatti l’ecosistema urbano deve sempre di più organizzarsi per
smaltire i rifiuti, riciclarsi, limitarli. Questo tipo di studio riguarda la sostenibilità ambientale.
Un indicatore utile in questo ambito è quello dell’impronta ecologica urbana. Essa è un termometro ambientale
che ci dice quante risorse naturali ogni città richiede per i suoi consumi e per assorbire i rifiuti che produce. Per
calcolare l’impronta ecologica di una città si sottraggono i prelievi-consumi di risorse ambientali locali dai
prelievi-consumi che la città effettua a spese delle risorse ambientali del resto del mondo.
Essa viene espressa in unità di area, corrispondenti a quanto il pianeta può produrre in media con un ettaro della
sua superficie. Il risultato, diverso per il numero di abitanti della città, fornisce l’impronta ecologica media della
sua popolazione (es. a Londra è di 4,6 ettari per abitante = tantissimo).
I sistemi per ridurre l’impronta ecologica delle città sono molti e diversi tra loro. In primo luogo si possono ridurre i
consumi di energia con interventi sulla compattazione dell’edificato, sul traffico automobilistico, sulla
coibentazione degli edifici, sull’efficienza energetica degli impianti di riscaldamento, riciclando.
O ancora con l’agricoltura urbana, gli orti urbani, l'agricoltura a filiera corta (km 0).
I problemi ambientali esistono nelle città fin dall’antichità, fin dal XIX secolo si registrarono problemi a Londra e a
Parigi. A causa della scarsa sanità ambientale, l’età media si sta abbassando in qualche parte del mondo.

CAPITOLO 11 - GEOGRAFIA POLITICA

Nell’introduzione si parla delle differenze dei sistemi di elezione nel mondo.

I concetti chiave della geografia politica


La geografia politica è una branca della geografia che studia le relazioni di potere nello spazio geografico, con
particolare riguardo agli enti istituzionali che esercitano un controllo su territori, popolazioni e risorse.
Nella geografia politica sono basilari i concetti di territorialità e sovranità.
All’interno della territorialità abbiamo due interazioni:
1) territorialità negativa: rivolta ad escludere gli altri dall’occupazione e dall’uso del nostro territorio
2) territorialità positiva: rivolta a competere e cooperare per il migliore uso di esso
L’obiettivo di tutti i gruppi umani è vivere nel migliore dei modi sul proprio territorio con le risorse disponibili ed
essere autonomi: questo è possibile solo se si possiede l’esclusiva sovranità sul territorio (e la possiedono gli
stati, dopo la Pace di Westfalia). Gli stati si riconoscono reciprocamente questo diritto, ma solo sul piano formale,
perché esistono stati più forti che si impongono sui più deboli. Inoltre, entità sovra-nazionali possono intervenire a
bloccare la libertà di Stati che violano determinate regole (interventi militari, embargo).
Lo stato ha il monopolio dell’esercizio della violenza. Nei rapporti internazionali si va da una violenza
potenziale che si esprime con semplice minaccia sostenuta dall’entità degli armamenti, fino alla guerra. Nei
rapporti interni la violenza, negli Stati di Diritto, è legittimata dalle leggi che prevedono misure coercitive per la
loro applicazione. Invece negli stati autoritari e dispotici essa è lasciata in larga misura all’arbitrio di chi comanda.

Definiamo lo Stato:
- possiede e controlla un territorio con un assetto di confini riconosciuto da altri stati
- sul suo territorio risiede stabilmente una popolazione che si riconosce nelle leggi e nel governo di quello
stato
- la sua esistenza viene riconosciuta dagli altri stati
- ha un governo che si occupa di affari interni ed esterni
Nel concetto di stato è importante il concetto di sovranità. Particolare è il caso del Taiwan, che de facto è uno
stato con una sua sovranità e un governo liberare, ma de iure continua ad essere sotto la Repubblica Popolare
Cinese. Certi Stati quindi possono essere problematici, come per esempio Cipro (controllata un po’ dalla Grecia e
un po’ dalla Turchia) o la Palestina.

Bisogna distinguere tra nazione e stato. La nazione si riferisce ad un popolo, mentre lo stato ad un’entità politica
giuridicamente riconosciuta. Quindi il nazionalismo è l’espressione dell’orgoglio di appartenenza e della lealtà dei
confronti di una nazione, mentre il patriottismo rappresenta l’amore e la devozione verso il proprio Stato.
Esistono stati multinazionali, al cui interno vivono più nazioni. Alcuni stati multinazionali, per vari motivi politici,
economici o sociali, non sono stati in grado di creare le condizioni per una vera integrazione delle nazioni che
hanno al loro interno e si sono disgregati, come è accaduto negli anni Novanta all’Unione Sovietica, alla
Jugoslavia e alla Cecoslovacchia.
Si parla invece di stato-nazione quando i confini di un’entità statale coincidono con quelli del territorio che si
identifica in una nazione (nel mondo sono pochissimi).
Al contrario, esistono nazioni senza stato, come quella Curda, il cui territorio (Kurdistan) è diviso tra Iran, Iraq,
Turchia, Siria.

Parliamo ora di imperialismo e colonialismo:


- L’imperialismo è il controllo diretto o indiretto esercitato da uno stato nei confronti di un altro stato o di
un’altra entità politica territoriale.
- Il colonialismo è una forma di imperialismo in cui lo stato dominante prende possesso di un territorio
straniero, occupandolo e governandolo direttamente.
Questi due processi hanno contribuito alla nascita di molti degli Stati Multinazionali oggi esistenti: molti stati infatti
li hanno usati per espandere il proprio potere su terre e popoli lontani. Sarà la conferenza di Berlino (1884-85) a
dare inizio al processo che portò alla definizione formale dei moderni confini politici, ed è interessante come
nessun rappresentante dell’Africa fosse presente. L’Africa venne quindi spartita tra le varie potenze del Nord del
Mondo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i popoli della maggior parte delle colonie si sollevarono e lottarono
per ottenere l’indipendenza e l’autodeterminazione. I confini della maggior parte dei nuovi stati indipendenti
ricalcano esattamente quelli delle ex-colonie. Inoltre, esiste ancora una certa dipendenza dei nuovi Stati africani
da quelli ex-coloniali europei.

caratteristiche geografiche
Ogni stato è costituito da un territorio ben definito, i cui limiti sono rappresentati da almeno un confine.
NB: i confini segnati dal mare non sono sulla linea di costa ma circa a 20 km da essa (acque territoriali/acque
internazionali). Alcuni stati hanno rivendicato il proprio diritto esclusivo a sfruttare le risorse marine di fronte alle
proprie coste, spingendo per la creazione di Zone Economiche Esclusive.
Per convenzione, i confini vengono sia descritti attraverso documenti legali, sia tracciati sulle carte geografiche,
oltre a essere spesso segnati anche fisicamente sul terreno, attraverso segnali, postazioni di controllo, barriere o
demarcazioni di altro genere. QUando il confine non viene segnalato, è probabile che si tratti di un confine
conteso.
Si parla di confini fisiografici quando i confini corrispondono a linee di fiumi o catene montuose.
Si parla di confini geometrici quando sono tracciati lungo linee rette che spesso seguono il percorso dei
meridiani o dei paralleli, come nel caso del confine tra Stati Uniti e Canada a ovest dei Grandi Laghi.
Si parla di confini etnografici quando vengono tracciati a partire da uno o più tratti culturali, come la religione, la
lingua o l’etnia (es. India/Pakistan).
Si parla di confini relitti in relazione alle tracce di un’antica linea di separazione di due entità territoriali, oggi non
più riconosciuta ufficialmente, a causa di un’evoluzione delle divisioni politiche territoriali.
Le origini di molti dei confini attualmente esistenti sono spesso complesse e rispecchiano molteplici fattori, tra i
quali interessi politici contrapposti.

Esistono stati di diversa forma e dimensione. Lo stato più piccolo è la Città del Vaticano. Lo stato più grande è la
Russia. A seconda della loro forma possono essere: compatti, allungati, articolati, frammentati o perforati.
La frammentazione del territorio di uno stato può generare enclave o exclave:
- enclave: territorio completamente circondato da uno stato ma non controllato da esso (Vaticano)
- exclave: territorio separato dallo Stato al quale appartiene da uno o più altri stati (Alaska)
La forma e la dimensione geografica degli Stati ha particolare rilevanza quando si tratta della loro coesione
territoriale, specie per quanto riguarda i trasporti e la logistica. Es: in Germania è facile collegare ogni territorio, in
Italia o in Norvegia meno perchè questi stati hanno una forma allungata, anche se avendo il mare possono usare
il trasporto marittimo (cosa che in Italia non avviene moltissimo). Comunque sia, forma e dimensione del territorio
non sono condizioni sufficienti, né necessarie, per la coesione territoriale. Molto più importanti sono le identità
nazionali, le tensioni economiche tra “regioni forti” e “regioni deboli” e la veste istituzionale dello stato.

Tanto gli stati federali quanto quelli unitari devono confrontarsi con forze che possono mettere in discussione il
loro assetto unitario e che si possono dividere in centripete (coesive) e centrifughe (disgregatrici).
- forza centripeta: ciò che contribuisce a rafforzare il sentimento unitario, e quindi la coesione della
popolazione di uno stato (es. attacco delle torri gemelle, eventi sportivi)
- forza centrifuga: ciò che contribuisce a indebolire il sentimento unitario della popolazione di uno Stato
e può portare alla sua disgregazione (es. Lega Nord che voleva la secessione).
La stabilità di uno Stato sta proprio nella capacità di gestire queste forze che mettono in discussione la sua unità.
Una di queste forze è il separatismo, ovvero il desiderio di staccarsi dallo Stato al quale appartiene, seguendo il
proprio senso di identità e di diversità dagli altri gruppi che popolano lo stesso Stato. Il separatismo può essere
evitato assecondando l’aspirazione a una maggiore autonomia o all’autogoverno regionale, che si ha quando lo
Stato centrale trasferisce una parte dei propri poteri a una comunità o un territorio presenti al proprio interno,
attuando un processo di decentramento.

La maggior parte degli Stati è a sua volta suddivisa internamente, dal punto di vista politico-amministrativo, in
territori più piccoli chiamati in diverso modo a seconda dei casi. Questi a loro volta possono dividersi in
circoscrizioni minori, fino alle singole municipalità.
A grandi linee, nel mondo esistono due sistemi di governo prevalenti: quello federale e quello centralista:
- nei sistemi federali lo stato delega parte del proprio potere alle entità politico-amministrative di scala
subnazionale. Esiste in questo un principio di sussidiarietà, secondo cui se un ente sotto-ordinato è in
grado di svolgere queste funzioni, l’ente sovra-ordinato deve lasciargli questi compiti.
- nei sistemi centralisti invece il potere è concentrato esclusivamente nelle mani del governo nazionale,
che si occupa della produzione e dell’applicazione delle leggi e delle politiche in ogni parte del territorio,
lasciando alle autorità locali competenze puramente amministrative.
L’Italia è uno stato che da centralista è diventato sempre più federale.

La geografia elettorale studia gli aspetti dei sistemi elettorali, le caratteristiche della divisione del territorio in
distretti elettorali e le variazioni spaziali del voto.
Es: nei sistemi maggioritari, quelli nei quali in ogni circoscrizione viene eletto un solo candidato, i distretti
elettorali, per assicurare una giusta rappresentanza, devono avere più o meno la stessa popolazione e questo
rende necessario a volte ridefinire i confini, seguendo i cambiamenti demografici. Ma il ritaglio delle circoscrizioni
elettorali è comunque importante anche nei sistemi proporzionali e misti per garantire un identico trattamento di
tutti i partiti politici e delle minoranze etniche e religiose.
Fa parte della geografia elettorale anche lo studio della distribuzione spaziale del voto tra i diversi partiti politici
(infatti di regola tale distribuzione non è casuale).

Istituzioni internazionali e sovranazionali


Gli effetti del separatismo sono contrastati dell'internazionalismo, lo sviluppo di strette relazioni politiche ed
economiche tra stati, il cui esempio più chiaro è rappresentato dalle sempre più numerose istituzioni politiche
sovranazionali. Un’istituzione sovranazionale consiste nell’Unione di più stati che decidono di lavorare insieme
per raggiungere specifici obiettivi economici, militari, culturali o politici (es. ONU, NATO).
La maggior parte delle organizzazioni sovranazionali furono fondate dopo la seconda guerra mondiale. I benefici
variano, ma includono spesso un aumento della sicurezza politica o il miglioramento delle opportunità
commerciali. Fare parte di un’istituzione di questo tipo però ha anche dei costi, il principale rappresentato dalla
perdita di una parte della propria sovranità, conseguenza di una tensione irrisolvibile tra l'internazionalismo e il
concetto di sovranità statale. Quindi i benefici devono apparire superiori alle perdite.

L’Onu, ad esempio, fu creata per promuovere la pace nel mondo. Qualora si presenti il rischio di conflitti, l’ONU
deve intervenire con diplomazia. Ne fanno parte ormai quasi tutti gli stati del mondo. La sede è a New York.
L’assemblea generale dell’Onu controlla gli aspetti legati all’economia, mentre il Consiglio di Sicurezza fa il lavoro
quotidiano di mantenimento della pace (es. può proporre sanzioni contro un paese o inviare truppe di
peacekeeping in un’area calda del mondo).
L’UE invece si sviluppa su scala regionale, e ha l’obiettivo di favorire la cooperazione economica e la coesione
territoriale e sociale tra i paesi dell’Europa. Essa nacque con a cinque tappe fondamentali:
1) nel 1944 si istituì il Benelux, l’unione doganale di Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, per ottenere
vantaggi economici e commerciali
2) Attuazione del Piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale
3) Istituzione della CECA nel 1952 che unì il Benelux a Francia, Germania Ovest e Italia con l’obiettivo di
rimuovere le barriere doganali per il commercio di acciaio e carbone
4) stipula del Trattato di Roma, nel 1957, che istituì la comunità economica europea (CEE)
5) entrata in vigore del Trattato di Fusione, nel 1967, quando si gettarono le basi per la cooperazione
politica degli Stati Europei. La CEE diventò CE.
Nel 1992 poi ci fu il Trattato di Maastricht, in cui dodici stati siglarono l’appartenenza all’Unione Europea. Da
allora, si sono aggiunti altri 16 paesi e siamo arrivati a 28. Alcuni stati c’hanno provato ma ci sono situazioni
controverse (es: Turchia).
Le competenze dell’UE si sono estese a vari campi (banca centrale, moneta unica).
Il suo funzionamento è affidato a un certo numero di istituzioni europee:
- commissione europea: sede a bruxelles, potere esecutivo. Formata da un commissario per ogni stato
membro, nominato dal Consiglio europeo, con approvazione del parlamento
- parlamento europeo: composto dai rappresentanti dei cittadini degli stati membri eletti a suffragio
universale diretto. Potere legislativo con il consiglio dell’unione europea.
- consiglio dell’unione europea: sede a Bruxelles. formato dai ministri dei vari governi statali.
- consiglio europeo: formato dai capi di stato o di governi di ogni paese membro e ha funzione di
indirizzo generale per le politiche europee.
Abbiamo anche la corte di Giustizia, la corte dei Conti europea e la Banca centrale europea e altre.
L'Europa stanzia dei fondi per le aree meno sviluppate (fondi strutturali), per l’agricoltura (PAC - politica agricola
comune), e per la ricerca e l’istruzione (es. programma Erasmus).
Nel 2009 ci fu una grave crisi, determinata da:
- alto livello di debito
- vulnerabilità del sistema bancario, che non poté sopperire ai debiti insoluti.
Questo causò chiare conseguenze, tipo una grande disoccupazione negli stati.
Ma l’UE sopravvive e alcuni si chiedono se possa essere considerata una specie di nuovo stato sovranazionale:
per ora la risposta è negativa, non avendo una costituzione, né altre prerogative, come un esercito e una politica
estera comune.

Infine, la modifica delle aggregazioni politiche delle diverse scale territoriali prende il nome di rescaling.
Infatti negli ultimi anni si sono create aggregazioni politico-amministrative, come in Italia, le unioni di comuni, le
unioni montane, le città metropolitane. Nello stesso tempo, il decentramento politico-amministrativo ha favorito il
rafforzamento della scala regionale, grazie al trasferimento verso il basso di competenze che prima erano del
governo centrale. Il governo centrale stesso ha poi avuto un ulteriore indebolimento dovuto alla migrazione verso
l’alto di prerogative e funzioni che sono state assunte in parte da organismi sovrastatali, come l’UE. Il Rescaling
mostra quindi come il ruolo svolto dalle aggregazioni territoriali alle diverse scale, pur avendo queste una
notevole stabilità, possa mutare nel tempo.

La geopolitica nel mondo


In questa sezione studieremo alcune delle principali tradizioni e scuole di pensiero sia nel campo della geografia
politica sia in quello della geopolitica. Ci sono differenze tra le due, anche se non così definite:
- la geografia politica ha più le caratteristiche di una disciplina scientifica, perchè studia il rapporto tra
spazio e potere così come storicamente si rappresenta
- la geopolitica invece è una riflessione su quanto studiato dalla geografia politica per indirizzare l’azione
politica

Tradizione geopolitica: si è occupata di studiare i vari modi in cui gli stati acquisiscono il proprio potere. Fonda
le sue radici sul lavoro di Ratzel, nell’800 (autore de “Teoria dello stato come organismo”), nel quale la crescita e
l’evoluzione di uno stato venivano paragonate a quelle di un organismo vivente (che ha bisogno di un
lebensraum, uno spazio vitale). Le sue teorie si legavano a quelle del determinismo ambientale.
Queste idee furono utilizzate da Nazismo e Fascismo.

Teoria dello Heartland: il geografo Mackinder metteva in relazione la stabilità geopolitica con il mantenimento di
un equilibrio di potere tra i diversi stati, la cui rottura avrebbe potuto portare al predominio, su scala mondiale, di
uno o più stati. Questa teoria non si è rivelata più di tanto realistica, ma si è invece rivelata fino ad ora veritiera
quella di Douhet, che nel 1921 affermava che chi comanda l’aria comanda anche la terra (in riferimento alle forze
aeree e missilistiche).

Dalla geopolitica della guerra fredda alla geopolitica contemporanea: sostanzialmente, secondo molti, il
mondo continua ad essere caratterizzato da una configurazione bipolare, rappresentata oggi dalla
contrapposizione tra il Nord e il Sud del mondo, divisi dalle grandi differenze in termini di sviluppo e benessere
(visione soprattutto di Huntington). Seconda questa visione si ritiene che le guerre del futuro saranno soprattutto
conflitti culturali, dovuti allo scontro tra civiltà diverse. H. ritiene quello che sta succedendo nel nostro modo
qualcosa di fatale che non può avere soluzione, mentre altri ritengono che un dialogo tra le culture può essere
un’alternativa valida allo scontro. Altri ancora fanno notare che i conflitti di natura economica e politica sono più
plausibili.
Un’altra teoria di questi tempi è quella che si concentra sugli effetti della deterritorializzazione: un tempo lo
stato affondava i principi in radicamento, sovranità, mentre la globalizzazione pone la base per la progressiva
recisione dei legami territoriali. Questo dovrebbe limitare o quantomeno ridurre i conflitti territoriali derivanti da
diversità culturali.

I paesaggi della politica


finanziando la progettazione e la costruzione di infrastrutture, come ferrovie, fognature, sistemi di irrigazione o
reti per la distribuzione dell’energia, lo Stato crea paesaggi che rispecchiano le scelte del proprio potere centrale.
Lo stesso si può dire anche negli enti politico amministrativi territoriali. La presenza del potere nel paesaggio è
importante per esempio per la creazione di coesione e rafforzamento dell’importanza e autorità del governo
statale.
O ancora, abbiamo il paesaggio della sicurezza, creato per proteggere il territorio, la popolazione, le strutture e le
infrastrutture da interventi esterni (telecamere di sicurezza, metal detector, ingressi controllati) -es per impedire
l’immigrazione irregolare.
L’impronta dell’autorità centrale può venire rivelata anche dalle sue politiche e dalle sue leggi (es. incentivazione
di coltivazioni di certo tipo, ed barbabietola da zucchero per evitare di importare zucchero; regolamentazione
dell’eredità di un terreno, se viene diviso oppure no; leggi che incentivano insediamento di impianti industriali in
una determinata area, incidendo notevolmente sul suo paesaggio).

Esistono anche simboli carichi di significati politici, cosa che si lega all’iconografia politica. Es. bandiere, statue,
immagini di leader politici e militari, inni nazionali, memoriali di guerra, simboli di partiti politici.

Capitolo 5 - ripetizione

La geografia politica si concentra sull’analizzare e studiare i rapporti di potere tra i vari territori. In geografia
politica sono molto importanti due concetti: la territorialità e la sovranità. La territorialità può essere intesa sia in
positivo che in negativo. Per “territorialità positiva” si intende la volontà di interagire con altri territori, o trovare i
mezzi per sfruttare al meglio il proprio territorio. Per “territorialità negativa”, al contrario”, si intende la volontà o la
necessità di combattere altri territori, e impedire loro di impossessarsi del proprio. La territorialità di uno stato
deve ovviamente essere riconosciuta dagli altri stati, cosa che avviene dalla Pace di WestFalia, ma ciò non toglie
che esistano Stati più forti che, pur riconoscendo la legittimità di stati inferiori, comunque esercitano una qualche
influenza o supremazia su di loro. Inoltre, gli stati non sono mai completamente liberi, soprattutto oggi con le
organizzazioni sovranazionali che possono impedire alcune iniziative statali (vedi Europa, Onu). A proposito di
libere iniziative, lo stato ha il monopolio della violenza. Esso può essere esercitato sia in termini di minaccia che
in termini di guerra vera e propria, ed è esercitato in maniera diversa a seconda che si parli di uno stato
democratico o con un regime dittatoriale.
Il concetto di sovranità invece si lega alla definizione di “stato”. Uno stato, per essere definito tale, deve
riconoscersi entro determinati confini riconosciuti e accettati anche dagli altri stati, deve essere riconosciuto dagli
altri stati, deve avere una politica interna ed estera, deve avere un popolo che si riconosca all’interno di quei
confini. Il riconoscimento della sovranità è fondamentale: non per tutti gli stati è così. Si pensi ad esempio al
Taiwan, che di fatto è sotto la repubblica popolare cinese, ma in realtà potrebbe essere uno stato sovrano a tutti
gli effetti, o a Cipro, metà sotto la Turchia e metà sotto la Grecia, o ancora alla Palestina.

Ci sono delle differenze tra stato e nazione. Lo stato è l’organizzazione politica vera e propria, con confini e
governo. La nazione, invece, è il popolo, che si riconosce in un determinato spirito e in una determinata cultura.
C’è quindi anche un’importante differenza tra nazionalismo e patriottismo. Il nazionalismo è il sentimento di
amore e devozione rispetto alla nazione, al popolo. Il patriottismo è l’amore rispetto allo stato della sua
giurisdizione politica. Esistono stati multinazionali, ossia stati con all’interno più anime nazionali. Essi spesso non
reggono per troppo tempo proprio perché sono complessi da gestire a causa di questa multinazionalità. Si può
fare l’esempio di Jugoslavia, Unione Sovietica, Cecoslovacchia. Abbiamo poi stati-nazione, ossia stati che
corrispondono perfettamente alla nazione, e nazioni senza stato, come per esempio la nazione curda, il cui
territorio, detto Kurdistan, è sotto l’Iran, l’Iraq, la Turchia e la Siria.

Altra differenza fondamentale è tra imperialismo e colonialismo.


L’imperialismo è il controllo/l’influenza diretta o indiretta di uno stato dominante su un altro ente politico.
Il colonialismo, invece, è la presa di possesso vera e propria di un territorio dominato da parte di un territorio
dominante. Questi processi sono stati fondamentali nella formazione di stati multinazionali.
Importante, nella definizione di questi confini, fu la Conferenza di Berlino, di fine 800. Essa fu un incontro tra i
leader di vari stati per spartirsi territori più deboli. Per esempio, al tavolo della conferenza non sedevano i leader
dell'Africa, che fu spartita come una torta. Quando nel 900 ci furono processi di autodeterminazione, in cui le
nazioni dell’Africa volevano l’indipendenza, i confini degli stati che si crearono rimasero gli stessi delle ex-colonie.

Definizione dei confini:


i confini tra gli stati sono definiti in molti modi, sia sulla carta, che magari anche fisicamente. Solitamente, quando
il confine non è segnato, è perché è un confine ambiguo, magari anche conteso. Sugli stati con delle zone
costiere, il confine non corrisponde alla costa, ma ad una linea a 20 km da essa. Questo sancisce quindi acque
territoriali e acque internazionali. Alcuni stati hanno provato ad avere l’esclusiva sulle acque internazionali vicino
alle loro coste, creando delle Zone Economiche Esclusive, per poter sfruttare a proprio piacimento le risorse di
quel territorio.
In ogni caso, esistono: confini fisiografici, segnati da elementi naturali come fiumi o catene montuose, confini
geometrici, tracciati sulla carta, confini etnografici, segnati dalle differenze culturali, confini relitti, non più
riconosciuti.
Interessante anche la conformazione e la forma di un determinato stato. Possono essere infatti allungati,
frammentati, compatti… La frammentazione di un territorio può determinare stati enclave, come il Vaticano, ossia
completamente circondati da un altro stato ma non governato da esso, o exclave, ossia separati dal proprio stato
da uno o più stati, come l’Alaska. La conformazione di uno stato inoltre può determinare anche la sua unità, o la
velocità dei trasporti e quindi l’efficienza economica e commerciale. Uno stato come la Germania da questo
punto di vista è avvantaggiato, mentre l’Italia è svantaggiata per la sua forma allungata.
Tuttavia, non è tanto la conformazione che determina la forza o meno di un determinato stato, ma soprattutto la
sua capacità di gestire le forze separatiste, di essere unito e compatto su una stessa idea di nazione.
Esistono infatti forze centripete, che unificano e compattano lo stato, e forze centrifughe, legate invece alla
volontà di separarsi dallo stato di appartenenza (separatismo). Lo stato centrale può decidere di cedere a queste
forze, e dare più indipendenza a queste zone, attuando processi di decentramento.

Dal punto di vista politico uno stato può essere federale o centralista. Lo stato federale non è centralizzato, ma
dà un’autonomia molto forte alle regioni che lo compongono, non solo da un punto di vista amministrativo ma
anche in alcuni casi legislativo. Esiste negli stati federali un principio di sussidiarietà: tutto ciò che una regione
può eseguire, può e deve eseguirla senza l’interferenza del governo superiore.
Gli stati centralisti invece non lasciano così tanto potere alle regioni, che di solito hanno solo compiti
amministrativi, ma rispondono in tutto e per tutto al governo centrale.

Interessante è la geografia elettorale. Essa studia come cambia da zona a zona la preferenza politica, le
divisioni dei distretti elettorali (che possono cambiare in base agli spostamenti della popolazione), e anche la
differenza tra i diversi stati di gestire i sistemi elettorali.

Come detto in precedenza, gli stati hanno diverse limitazioni determinate dalle organizzazioni sovrastatali o
internazionali, ad esempio l'Onu, la Nato, l'Unione europea. Appartenere a queste organizzazioni, che nascono in
particolar modo dopo la seconda guerra mondiale, significa essere più sicuri da un punto di vista politico, avere
più agevolazioni da un punto di vista commerciale, ma anche perdere in parte la propria autonomia politica.
Vediamo qualcuna di queste organizzazioni:
Onu: ha l’obiettivo comune di mantenere la pace nel mondo, e ad oggi fanno parte della nato la maggior parte
degli stati. L’onu può agire nel momento in cui uno stato venga attaccato o attacchi, mandando truppe che
cerchino di ristabilire la pace. Ancora, abbiamo la Nato, che invece è un’alleanza militare.
L’unione europea invece è un’alleanza economica, che oggi è anche politica ma nasce soprattutto con la volontà
di avere delle agevolazioni dal punto di vista commerciale. Nasce in 5 tappe: all’inizio, nel 44, con il Benelux si
misero d’accordo Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi per togliere dogane e avere agevolazioni commerciali. Poi,
nel 52, con la CECA, Benelux, Italia, Francia e Germania Ovest si mettono d’accordo per avere agevolazioni nel
commercio di Ferro e Carbone. Nel 57 abbiamo la creazione della CEE, e nel 67 il Trattato di Fusione, con il
quale da CEE si passa a CE, e l’Europa diventa anche un organismo politico.
Con il trattato di Maastricht degli anni 90 entrano a far parte dell’europa altri stati, e oggi siamo arrivati a 28 stati,
considerando che alcuni stanno ancora provando ad entrare ma in alcuni casi le procedure non sono così
semplici.
Ad oggi l’Europa ha un campo economico e uno politico. Non ha ancora un esercito. Alcuni organi dell’Europa
sono: consiglio europeo, consiglio dell’unione europea, parlamento europeo, commissione europea. Inoltre
abbiamo anche: corte dei conti, corte di Giustizia, banca europea.
Nel 2009 ci fu una grave crisi economica in Europa, oltre che in altre parti del mondo. In europa fu determinata
da una debolezza delle banche e dall’alto livello di debito. C’è una domanda riguardante l'Europa che è: l'Europa
può essere, o potrà essere definita un nuovo stato multinazionale? In realtà la risposta è no, perché non ha una
costituzione o un esercito condiviso.

Concetto di Rescaling: il rescaling è la modifica degli organi di gestione amministrativa all’interno di uno stesso
stato. Ad esempio, in Italia, prima di un certo periodo i comuni amministravano una zona “indipendentemente”.
Poi, per effetto del rescaling, molti comuni si sono uniti in unioni montane. Cose analoghe succedono
continuamente e dimostrano che i metodi di amministrazione di uno stato sono più che mutevoli.

Parliamo ora di geografia politica e geopolotica

domande

Il ruolo delle Ferrovie

Le ferrovie hanno un ruolo principale nella rivoluzione dei trasporti. La prima ferrovia è del 1825, in Gran
Bretagna, molto importante nell’ambito della rivoluzione industriale (connessa a quella dei trasporti), per la sua
posizione in prima linea nei commerci globali. In questo stato la ferrovia era utilizzata soprattutto in ambito
commerciale, ed ebbe una rilevanza anche nella scelta della posizione di magazzini e industrie (perché
dovevano essere vicine al luogo di arrivo delle materie prime). La ferrovia non fu solo importante dal punto di
vista commerciale, ma fu anche usata come strumento di penetrazione: è il caso dell’Africa, dove furono costruite
ferrovie, all’inizio del 900, per penetrare e colonizzare luoghi ancora fuori controllo. E’ anche strumento di
coesione, come nel caso dell’India, dove le ferrovie costruite dagli inglesi “unificano” il paese ancora oggi. Le
ferrovie furono da sempre usate anche per il trasporto delle persone: già nel 1870 l’Europa era coperta di binari,
e nel 1888 fu inaugurata una ferrovia che collegava Costantinopoli a Parigi.
Connessi alle ferrovie abbiamo anche i trafori, che contribuirono con esse ad una prima radicale trasformazione
del paesaggio.

Logistica

Con “logistica” si intende un insieme di attività organizzative, gestionali e strategiche che servono per gestire e
controllare i trasporti e i commerci dalle prime fasi di produzione alle ultime fasi post-vendita. Grazie alla logistica
furono inventati i container, che hanno misure fisse e possono entrare in arei e navi di ogni tipo, e che
trasportano qualsiasi tipo di merce. I container permettono il trasporto multimodale. Sempre grazie alla logistica
si inventarono gli hub-aereoportuali, zone di scambio con areoporti, porti navali, stazioni, da cui partono i
principali traffici di merci. Possiamo immaginare il ruolo principale della rivoluzione dei trasporti nello sviluppo del
mercato a livello globale. Altri fattori del suo sviluppo sono certamente: liberalizzazione dell’economia, divisione
internazionale del lavoro, rivoluzione industriale, globalizzazione.

turismo nel tempo


Il turismo è da sempre esistito: basti pensare agli otia dei romani o al Grand Tour del XVIII secolo. Con la nascita
della borghesia, principalmente dalla rivoluzione industriale, nacque un turismo d’elite molto costoso e
accessibile solo ad una classe elevata. Sarà poi con il primo dopoguerra e il boom economico del secondo, che
nascerà un vero e proprio turismo di massa. La gente comune inizia a concepire il viaggio come una possibilità di
svago, di evasione. Nasce solo nella seconda metà del 900, quindi, il turismo inteso in senso moderno. E’ turista
chiunque si sposti per una notte (e fino ad un anno di tempo) in una località diversa da quella della sua
residenza, per motivi che possono essere vari: svago, visita, salute, lavoro, affari.
Il turismo in senso moderno non è inteso come ricerca o come motivo di studio, né si cerca di conoscere l’altro
nelle sue caratteristiche. Un turismo che si avvicina a questo senso infatti è solo il turismo culturale, che però è
caratteristico solo di una minore fetta della popolazione. Il turismo culturale cerca di conoscere quelle
caratteristiche univoche del territorio che si va a visitare, e che sono sempre più a rischio di “estinzione” a causa
della globalizzazione. Possiamo infine dire che i maggiori flussi di turismo sono dall’Europa all’America e
viceversa, dal Nord al Sud del Mondo. Solo ultimamente, turisti dall’Asia visitano l’Europa, soprattutto per le sue
città d’arte.

città come ecosistema

La città può essere intesa come un vero e proprio ecosistema, nel senso che sfrutta energia come un ecosistema
naturale. La differenza, è che nell’ecosistema artificiale che è la città c’è uno squilibrio con l’ambiente esterno,
che non restituisce le risorse alla natura in alcun modo, ma piuttosto le sfrutta a senso unico. Per calcolare
questo terribile sfruttamento a danno dell’ambiente, è necessario ricavare l’impronta ecologica di una città (o in
alternativa di una persona o di uno stato). Per farlo bisogna considerare a quanto ammonta il grado di
produzione con risorse che non appartengono al proprio territorio, e mettere in relazione questo dato con quanto
si produce in totale. E’ chiaro che, con la crisi ambientale a cui assistiamo oggi, l’impronta ecologica di ogni stato
sia pericolosamente alta. Ci sarebbero vari modi per abbassarla: coibentare meglio gli edifici, ridurre il traffico e i
riscaldamenti, riciclare, optare per agricoltura urbana, orti urbani o agricoltura a filiera corta.

Conformazione di uno stato e problematiche connesse

Uno stato può avere forme diverse: può essere allungato, compatto, frammentato. La frammentazione di uno
stato è importante perché può dar vita a enclave (es. Vaticano), ossia a stati completamente circondati dal
territorio di un altro stato ma non governato da esso, o a exclave (es. l’Alaska), ossia stati staccati dal territorio
principale, e separati da esso da uno o più stati. La conformazione e la forma di uno stato sono importanti anche
perché dalla forma possono dipendere fattori come l’unità di uno stato o l’efficienza dei trasporti: va da sé che
uno stato come la Germania sia percorribile da parte a parte più velocemente di quanto possa essere percorsa
l’Italia per lungo. In realtà questo può essere un problema per l’unità ma non quanto il fatto che uno stato possa
essere “debole” nel controllare le forze centrifughe al suo interno. Esistono infatti forze centripete, che unificano e
fortificano l’identità dello stato, e forze centrifughe, che si collegano invece alle forze separatiste, che vorrebbero
staccarsi dal governo principale e avere un’indipendenza. Lo stato può decidere di cedere e di permettere questa
maggiore indipendenza, attuando processi di decentramento.

urbanizzazione e aree peri urbane

L’urbanizzazione si può intendere in due sensi: o nel senso che è la città ad espandersi, e ad urbanizzare aree
prima non urbanizzate, o nel senso che sono le zone rurali ad assumere modi di vita tipici della città. Parlando di
urbanizzazione si può parlare di due indicatori: il tasso di urbanizzazione, ossia la percentuale dei residenti in
città, e il tasso di crescita urbana, ossia quanto la popolazione urbana aumenta di anno in anno. Ovviamente, la
popolazione del mondo si sta sempre di più spostando nelle città. Questo è un fenomeno in atto soprattutto nel
sud del mondo e nelle aree meno sviluppate. Tuttavia, è necessario dire che nel nord del mondo stiamo avendo
anche un fenomeno di contro-urbanizzazione, all’inizio dovuto alle conseguenze della crisi del fordismo, che
costrinse le imprese a trovare più vantaggioso spostarsi nelle aree periferiche e rurali. Ad oggi la
contro-urbanizzazione sta diventando una disurbanizzazione, in quanto abbiamo un vero e proprio ripopolamento
delle aree rurali che, urbanizzandosi, vengono chiamate peri-urbane.
Le aree peri-urbane sono spettatrici di un processo chiamato dispersione edilizia: questo processo avviene
quando si costruisce più di quanto non sia effettivamente necessario relativamente all’aumento della
popolazione. La dispersione edilizia porta alla cosiddetta città diffusa, con varie conseguenze: riempimento
dell’ambiente di asfalto, zone mal collegate dai trasporti pubblici, necessità di alti interventi delle imprese idriche
e fognarie, scarsa qualità di vita e assenza di socializzazione, sottrazione di campi all’agricoltura.
Un mancato coordinamento dell’urbanizzazione ha conseguenze molto negative: baraccopoli, inquinamento, alto
tasso di disoccupazione.

rescaling

Con rescaling si intende la modifica degli assetti organizzativi di un determinato stato. Possiamo fare un
esempio: prima di un determinato periodo all’interno delle regioni italiani esistevano comuni che, nei limiti, si
amministravano indipendentemente dagli altri. Poi, per il processo del rescaling, alcuni comuni si sono
raggruppati in unioni montane o altre strutture amministrative di questo tipo. Il rescaling ci mostra quanto gli
assetti amministrativi di uno stato possano cambiare.

tipi di città nel mondo

Ci sono tanti modelli di città nel mondo, che variano a seconda della cultura. Per esempio, è molto facile
distinguere una città europea, soprattutto perché ha reminiscenze del suo passato medioevale: spesso ha resti di
mura, piazze, cattedrali, palazzi. Inoltre, ha un centro ben definito, pedonale. Nella città europea il trasporto
pubblico è facile ed economico, al contrario di quello privato. C’è una grande attenzione agli edifici storici e nelle
zone centrali, oltre agli edifici amministrativi, abbiamo anche vere e proprie residenze.
Le città islamiche non sono troppo diverse, in quanto anche in queste solitamente ci sono tracce di un lontano
passato. Queste città si caratterizzano per la centralità della religione, e quindi delle moschee, e anche per
l’attenzione alla proprietà privata e alla privacy (es. non ci sono finestre sui piani terra che danno sulla strada).
Le città nordamericane, invece, sono città prive di storia. Solitamente sono caratterizzate da ampie periferie tutte
uguali, con ville residenziali e ampie aree verdi. La collocazione degli edifici si basa soprattutto sull’utilità e
sull’economia di spazio. Le città dei paesi sovietici sono caratterizzate dal fatto che tutti i terreni sono pubblici,
sull’assenza di attività di commercio (ovviamente nel periodo comunista) e sul fatto che le residenze dei cittadini
sono situate in periferia, in grandi palazzoni anonimi. Anche se in molti luoghi il regime comunista è del tutto
smantellato, le città mantengono queste caratteristiche. Le città del sud del mondo sono caratterizzate da una
grande differenza tra le residenze dei poveri e quelle dei ricchi. I poveri abitano in baraccopoli difficili da
smantellare senza semplicemente spostare altrove il problema, mentre i ricchi abitano in ville ricchissime e
soprattutto sorvegliate, in quanto molti hanno l’ossessione della sicurezza. Sono inoltre caratterizzate da piccoli
centri e ampie periferie.

confini

I confini di uno stato sono definiti in molti modi: sulla carta, concretamente sul luogo… quando non sono definiti,
infatti, è facile che si tratti di confini ambigui o contesi. Per quanto riguarda quegli stati che hanno una zona
costiera, il confine non corrisponde alla linea di costa, ma ad una linea a circa 20 km da essa. Questo crea la
presenza di acque territoriali e acque internazionali. Alcuni stati hanno tentato di ampliare i propri confini sulle
coste, creando zone economiche esclusive, per tentare di sfruttare indisturbati le risorse di questi territori. I
confini possono essere fisiografici, ossia segnati da fiumi o catene montuose; geometrici, ossia segnati sulla
carta, etnografici, ossia determinati da differenze culturali, o relitti, ossia ormai dimenticati.

pianta delle città e organizzazione

Le città hanno piante diverse a seconda della loro storia. Possono essere piante radiocentriche, a scacchiera, o
magari lineari se sviluppate sulla costa. In ogni caso, è difficile che una città segua pedissequamente il modello
di una sola pianta, perché spesso, nel corso della storia, le piante si sovrappongono.
Nel suo sviluppo, una pianta può seguire diversi modelli: centralizzazione, decentralizzazione e agglomerazione.
Per centralizzazione si intende che le strutture e le attività più importanti si uniscono al centro; per
decentralizzazione si intende esattamente il contrario, ossia che le attività più importanti si uniscono in periferia.
“Agglomerazione”, invece, si riferisce alla zonizzazione funzionale, ossia alla presenza di diversi centri, tutti di
uguale importanza, attorno ai quali si sviluppa e si unifica la città.
E’ importante anche l’organizzazione degli abitanti o delle industrie all’interno della città. Di solito questo si lega
al valore dei terreni, e i terreni costano di più, solitamente, se più vicini al centro. Per questo solitamente le
industrie e la fetta di popolazione più povera tende a spostarsi in periferia, mentre le attività più “in” e la
popolazione più ricca sta nelle zone centrali. Tuttavia, bisogna anche considerare che la popolazione più ricca
non guarda solo il fatto di essere centrali, ma anche il benessere ambientale: per questo può succedere che
esistano aree residenziali abitate da popolazione benestante in periferia. Talvolta, se il centro è degradato, sono i
poveri ad abitarlo. Se poi il centro viene riqualificato e sono i ricchi a tornare ad abitarlo, abbiamo il cosiddetto
processo di “gentrificazione”.

Rivoluzione dei trasporti

Il trasporto di merci e persone è da sempre stato importante nella storia dell’umanità. Le prime strade furono
create quando l’uomo, con l’invenzione della ruota, iniziò a servirsi di carri trainati dagli animali per spostarsi da
una parte all’altra. Ma il primo sistema stradale complesso e ampio che fu creato è stato quello dei Romani: essi
si servivano delle strade per il trasporto privato, per il commercio, e anche per lo spostamento degli eserciti. Il
loro sistema stradale era così ben fatto che ancora oggi alcune nostre strade percorrono quei tragitti. Col passare
dei secoli arriviamo alla rivoluzione industriale, e con le ferrovie alla prima grande rivoluzione dei trasporti (ben
connessa con quella del paesaggio, in quanto le nuove infrastrutture stradali come ponti, gallerie, svincoli,
stazioni di servizio, autostrade contribuiscono in modo rilevante alla trasformazione del paesaggio). Soprattutto
con l’avvento dell’automobile l’uomo ha dovuto asfaltare la maggior parte delle strade e creare le autostrade. Un
dato importante è l’aumento vertiginoso della presenza delle automobili: nel 2010 abbiamo superato il miliardo di
automobili. Questo aumento è dato soprattutto dall’aumento di popolazione della Cina.

Urbanizzazione e aree peri - urbane

L’urbanizzazione si può intendere in due sensi: urbanizzazione intesa come espansione della città, o
urbanizzazione intesa come assunzione dei modi di vita della città da parte di comunità non urbane, ma rurali o
semi rurali. Esistono due indicatori importanti riguardanti la città: il grado di urbanizzazione, che si riferisce alla
percentuale di popolazione che abita in città, e il tasso di crescita urbana, che invece indica quante persone si
trasferiscono da aree rurali a aree urbane. Ad oggi, se nei paesi del Sud del Mondo possiamo riscontrare un alto
tasso di crescita urbana, nel Nord del Mondo osserviamo una contro-urbanizzazione. Con la crisi del fordismo
questa contro-urbanizzazione poteva essere derivata dal fatto che le industrie trovarono più vantaggioso
spostarsi in periferia o in aree rurali, ma oggi si assiste ad una vera e propria disurbanizzazione: le persone si
spostano in aree rurali che vanno, a causa di questo aumento di popolazione, ad urbanizzarsi (e vengono quindi
chiamate aree peri-urbane). Non sempre però questa urbanizzazione è positiva: si rischia infatti la dispersione
edilizia, ossia la costruzione di più infrastrutture di quanto non ci sia effettivamente bisogno, con il rischio
consequenziale della città diffusa.
Ci sono varie conseguenze a tutto questo: zone peri urbane non collegate dai trasporti pubblici, sottrazione di
aree preziose all’agricoltura, i terreni e le campagne si riempiono di asfalto, poca possibilità di vita sociale,
necessità di grandi investimenti delle imprese fognarie e idriche. Inoltre, alla città diffusa sono connessi rischi ben
più gravi di questi: nascita di baraccopoli, aumento della disoccupazione, rischi ambientali.

Sito, paesaggio urbano, bene culturale

Il sito è il luogo vero e proprio dove si colloca la città. Il paesaggio urbano, invece, è il paesaggio che nasce dalla
commistione degli elementi naturali e dell’impronta dell’uomo con le sue architetture artificiali. E’ interessante
studiarlo perché ci mostra il rapporto dell’uomo con il proprio ambiente. Ad oggi, i paesaggi urbani, anche detti,
volendo, paesaggi culturali, sono stati inseriti tra i siti di rilevanza del patrimonio mondiale dell’umanità
(UNESCO), proprio perché si ritiene importante sottolineare questo rapporto, e anche la diversità culturale con la
quale esso può manifestarsi. Pensiamo infatti a tutte le architetture tradizionali che ad oggi si stanno perdendo a
causa della globalizzazione, e della creazione di non-luoghi caratteristici di una sempre più imperante
omologazione.
Il bene culturale, invece, è un bene prezioso che può essere sia naturale che culturale, e che si trova nel
paesaggio urbano. Solitamente i beni culturali si trovano all’interno di aree urbane, semplicemente perché è più
facile che un'area urbanizzata rimanga nello stesso posto per tanto tempo, tanto da poter produrre beni culturali.

Geografia politica

La geografia politica studia le relazioni di potere tra i vari territori e i vari stati. Possiamo innanzitutto distinguere
tra geografia politica e geopolitica. La geografia politica studia potere e territori così come storicamente si
presentano, mentre la geopolitica fa più un ragionamento filosofico su quanto teorizza o scopre la geografia
politica. Per quest’ultima sono importanti i concetti di territorialità e sovranità. La territorialità si può esprimere in
due sensi: territorialità positiva, ossia la necessità o il desiderio di collaborare con altri stati o anche da soli
trovare i sistemi migliori per la gestione e lo sfruttamento del proprio territorio; territorialità negativa, ossia la
tendenza a combattere e espellere chiunque voglia appropriarsi del territorio.
Nel concetto di territorialità sono molto importanti i confini, che devono essere riconosciuti dagli altri stati e
legittimati. In realtà questo riconoscimento avviene solo sulla carta, perché ci sono stati più forti che hanno
un’influenza su stati più deboli. Inoltre, l’idea di una totale indipendenza politica o commerciale degli stati è solo
fittizia: esistono infatti organizzazioni sovranazionali che possono porre sanzioni o bloccare certe iniziative. +
MONOPOLIO DELLA VIOLENZA Il concetto di sovranità, invece, si lega all’idea di stato: uno Stato è un
territorio entro confini definiti e riconosciuti, con un governo che si occupi di politica interna e estera, con un
popolo che si riconosca all’interno di quello stato. Alcuni stati sono “problematici”: per esempio il Taiwan, sotto la
repubblica cinese ma in pratica uno stato indipendente a tutti gli effetti, o anche l’isola di Cipro, un po’ controllata
dalla Grecia e un po’ dalla Turchia.

Glocalizzazione

La glocalizzazione è uno degli effetti/impatti culturali della globalizzazione, assieme alle teorie di
omogeneizzazione e polarizzazione, entrambe ritenute, per aspetti diversi, vere ma non complete. Se l’una infatti
considera il mondo ormai completamente omologato, senza considerare invece l’istinto dell’uomo che si tiene
stretto aspetti della propria diversità culturale, l’altra ritiene che ci sia un unico polo che influenza e schiaccia tutti
gli altri (quando in realtà, sebbene sicuramente ci sia un forte influsso dell’Occidente sull’Oriente, ci sono anche
aspetti della cultura africana o orientale che sono subentrati in occidente). La glocalizzazione invece è un’idea
per la quale le comunità locali si fanno schiacciare dalla globalizzazione solo se non sono abbastanza abili ad
organizzarsi, perché se reagiscono possono invece entrare, proprio in virtù della loro identità culturale, nella rete
del commercio globale (da cui sarebbero comunque dipendenti ma almeno senza essersi completamente
omologate allo standard). Esempio di tutto ciò: il Mc Donald vende il panino con il parmigiano reggiano solo in
Italia.

Mercificazione della cultura

La cultura umana produce prodotti materiali, come manufatti, utensili, oggetti, e immateriali, come canzoni o
leggende popolari, proverbi, usanze. La geografia culturale se ne occupa particolarmente. Un aspetto che studia
la geografia culturale è sicuramente la mercificazione della cultura. Se ne può parlare partendo dall’idea che
anche le idee che noi abbiamo, relative alla nostra stessa cultura, spesso non sono autentiche, ma sono frutto di
mercificazione, tentativi di guadagno ben riusciti. E’ il caso dei diamanti, ai quali noi attribuiamo un valore così
alto non solo per il loro effettivo valore economico, ma anche perché le pubblicità ci hanno convinto che un
diamante è il simbolo dell’amore, ed è per sempre. Mercificazione culturale è anche appropriarsi della cultura
altri: è il caso della squadra di rugby americana, gli All Blacks, che hanno “rubato” una danza Maori, usandola
come danza di guerra prima delle partite. I maori si sono sentiti offesi, perché gli All Blacks hanno usato una
danza non di guerra come di guerra, quindi ne hanno variato il significato, e la eseguono anche sbagliando
alcune mosse, quindi dando un’immagine non vera e non giustificata della cultura dei maori. Questo ci fa capire
quanto può essere “doloroso” per una cultura sentirsi privati delle proprie tradizioni, come se volesse dire minare
la loro autenticità.
In effetti, noi facciamo mercificazione culturale ogni volta che andiamo in un museo, o usiamo, per motivi di
studio, turismo, profitto, luoghi sacri di altre culture, senza conoscerne o rispettarne il significato.

Folklore e saperi locali

Con Folklore si intende una cultura non ancora invasa e contaminata dalla cultura di massa. Essa viene definita
propria delle comunità rurali, in opposizione della cultura delle comunità urbane, occidentalizzate e sviluppate.
Nel corso del Novecento quindi c’è stata quest’idea di contrapposizione tra folklore-comunità rurali/cultura di
massa-comunità urbane. Per quanto questa contrapposizione sia in parte vera, essa tende a far pensare che il
folklore sia caratteristico soltanto di società arretrate, che devono ancora “mettersi al passo”, ed evolversi.
Questa è un’idea del diffusionismo (sostenuto da molti geografi!), una teoria secondo la quale il mondo civilizzato
occidentale deve aiutare il mondo rurale a civilizzarsi, come se ci fosse un unico sviluppo possibile. I saperi
popolari, inoltre, sono stati spesso tacciati di essere irreali, e non validi come la scienza tipica della cultura di
massa. In realtà, ad oggi, essi vengono utilizzati perché sono spesso le uniche vie per una gestione sostenibile
dell’ambiente, o risolutive in certe problematiche sociali.
Esempi di cultura popolare (questo il nome che si usa oggi per indicare il folklore, coniato da Gramsci e De
Martino quando si iniziò a percepire “folklore” come dispregiativo): medicina olistica (contrapposta a quella
allopatica), metodi alternativi per conservare o distribuire l’acqua (come i metodi delle popolazioni in Sud Africa, o
nel Medio-Oriente -qanat persiani), architettura tradizionale, che rispetta le esigenze della popolazione ma anche
del territorio (quindi sostenibile dal punto di vista ambientale), e che si lega, volendo, ad aspetti della cultura,
della religione, delle credenze popolari (es. Feng Shui: un’architettura in equilibrio con l’universo). Ad oggi,
alcune architetture contemporanee utilizzano o rivedono le architetture tradizionali, e per questo sono dette
vernacolari.

Indicatori economici

Indicatori e indici sono degli strumenti fondamentali per capire il grado di sviluppo degli Stati. Ci sono tanti modi
di intendere lo sviluppo: si può intendere in senso tradizionale (quindi solo dal punto di vista economico, come
ritiene Rostow, punto di vista che però non tiene conto delle conseguenze sociali e ambientali di tale approccio),
o in senso “sostenibile”. Quest’ultimo approccio permette sì di quantificare lo sviluppo economico, certamente
importante in una società come la nostra, nella quale il mercato e l’economia detengono una posizione centrale,
ma al tempo stesso considera come aspetti importanti e non meno centrali quelli sociali, ambientali e culturali
(anche se lo sviluppo culturale non è poi preso così tanto in considerazione).
Esistono indicatori e indici che ci permettono di quantificare lo sviluppo. Gli indicatori prendono in considerazione
un solo fattore, gli indici invece danno una panoramica più completa, perché considerano tutti i fattori insieme.
L’indicatore economico più noto è il PIL, ossia il prodotto interno lordo di un paese, che deriva dal valore
monetario di beni e servizi di un determinato paese in un determinato anno. Esiste anche il PIL pro capite, che
mette in relazione il PIL dello Stato in un certo anno e la popolazione residente in quello stesso anno. Per
mettere in relazione i PIL dei diversi stati, è necessario avere un’unica unità di misura. Per questo si ricorre alla
PPA, ossia la parità del potere d’acquisto. Considerare solo gli indicatori economici ha delle conseguenze: non si
considera che la ricchezza di uno stato può essere anche mal distribuita in uno stato (si veda il Coefficiente di
Gini), non si considerano le problematiche sociali e ambientali ipoteticamente connesse ad un forsennato
sviluppo economico. Infine considerare lo sviluppo economico come principale è una visuale troppo occidentale,
che non tiene conto che altre società potrebbero funzione diversamente dalla nostra, e non dare così tanto
spazio all’economia e al mercato (sebbene oggi la globalizzazione economica, nonché culturale) abbia investito
quasi tutti i luoghi della terra.

Coefficiente di Gini e distribuzione della ricchezza

Il coefficiente di Gini ci permette di comprendere la distribuzione della ricchezza in uno stato. E’ costruito su una
scala di valori da 0 a 100. Più il coefficiente si avvicina a 100, meno la ricchezza è equamente distribuita. Per
esempio, il coefficiente di Gini della Namibia è 70 circa, mentre quello della Danimarca è 24.
Ma da dove deriva una cattiva distribuzione della ricchezza? C’è chi ritiene che il capitalismo abbia portato ad
una distribuzione capillare della ricchezza, offrendo posti di lavoro e guadagno per tutti. In realtà, altre teorie
affermano che la richiesta sempre maggiore di lavoratori qualificati derivata dal capitalismo, e la liberalizzazione
del mercato che porta le grandi aziende ad arricchirsi senza limiti schiacciando i piccoli negozi, causerebbe al
contrario una concentrazione della ricchezza nella mano di pochissimi. Sembrerebbero aver ragione i sostenitori
di quest’ultima teoria: ultimamente i ricchi stanno diventando sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri.

Strategia di riduzione della povertà

La povertà è nel nostro mondo un problema sempre più urgente: con il drastico aumento della popolazione degli
ultimi anni, sempre più gente è destinata a nascere e a crescere povera. Esistono due tipi di povertà: una povertà
assoluta, che significa non poter arrivare nemmeno ai beni fondamentali per la sopravvivenza, come acqua e
cibo, e una povertà relativa, che invece si riferisce a quelle persone che sopravvivono, ma non hanno modo di
raggiungere gli standard minimi della società in cui vivono. Ad esempio, in Italia uno standard minimo è poter
studiare, poter cambiarsi i vestiti sporchi, poter lavarsi o assicurarsi le basilari cure mediche: chi non può fare
queste cose, rientra nei valori della povertà relativa.
Esiste anche una soglia della povertà, ossia un valore economico sotto al quale si può essere considerati poveri.
In Italia nel 2010 esso ammontava a 900 euro circa per una famiglia di due persone, ma nel mondo la banca
mondiale ha fissato 1,25 dollari per la povertà estrema, 2 dollari per la povertà moderata, perchè la concezione
della povertà cambia da zona a zona, e anche gli standard. Comunque la situazione nel mondo sta leggermente
migliorando, soprattutto con lo sviluppo economico di alcuni paesi fino a poco tempo fa sottosviluppati. Il tasso di
povertà può essere considerato un indicatore socio-demografico, come anche il tasso di alfabetizzazione, o il
tasso di mortalità infantile… Tutti questi indicatori sono collegati: se una persona è povera, è probabile che non
abbia modo di studiare, per esempio.
L'ONU ha pensato a delle strategie per la riduzione della povertà, nell’ambito del Summit del nuovo millennio, a
New York. Tali strategie prevedono per esempio la riduzione del tasso di mortalità infantile, l’aumento del tasso di
salute materna, raggiungimento di formazione primaria per tutti, eliminazione di fame e sete, aumento della
sanità ambientale. Le strategie devono essere a lungo termine, in quanto non è possibile pensare di eliminare il
problema nell’immediato, tutti gli stati devono convenire a raggiungere l’obiettivo, ma l’iniziativa deve partire dai
governi dei paesi in difficoltà.

Tecnopoli

Le aree dette “tecnopoli” sono aree in cui ci si concentra molto sulla ricerca e sullo sviluppo di tecnologie
avanzate. Queste aree sono connesse con l’idea di un’economia basata sulla conoscenza. I fondi per le ricerche
possono derivare da aziende private, associazioni no profit, o anche da enti governativi. Il mondo in cui sono
potute nascere le tecnopoli è un mondo in cui ormai la maggior parte della popolazione lavora coi servizi (la
maggior parte delle donne lavora nel settore dei servizi, e questo, secondo alcuni, potrebbe essere visto come un
elemento di segregazione). Questa rivoluzione nella composizione della società deriva da un alto tasso di
urbanizzazione, da un’economia basata sulla conoscenza, da un’altra produttività dei macchinari che richiedono
sempre meno manodopera umana, da un cambiamento nelle condizioni di vita e da un aumento del PIL pro
capite.

composizione strutturale dell’Economia

Per composizione strutturale dell’economia si intende che settore primario, secondario e terziario si intrecciano,
producendo PIL e posti di lavoro. L’economia quindi non è il risultato dell’efficienza di un solo fattore, ma di tutti e
tre messi insieme. Per comprendere la composizione, bisogna anche studiare l’evoluzione strutturale
dell’economia: tale evoluzione prevede tre fasi. Una prima fase in cui domina il settore primario, con l’estrazione
e una prima lavorazione delle materie prime; una seconda fase in cui dominano le attività manifatturiere (settore
secondario), e una terza fase in cui il settore dei servizi è quello più “popolato”. Si pensi che nel 2008 il 45% della
popolazione era legata al settore dei servizi. Questo deriva da un cambiamento della vita, da un aumento del pil
pro capite, dal fatto che i macchinari sono sempre più efficienti da soli, dal fatto che la maggior parte della
manodopera viene trovata nel Sud del Mondo, o in generale nei paesi meno sviluppati.

Settore primario

Il settore primario è quello che si occupa dell’estrazione e di una prima lavorazione delle materie prime.
Prendiamo per esempio il settore minerario: è importante innanzitutto distinguere tra risorsa e riserva. La risorsa
è infatti qualcosa che si sa che esiste, è stata economicamente quantificata e il suo sfruttamento è
ipoteticamente possibile. La riserva, invece, è qualcosa che si può nell’immediato sfruttare.
Non tutte le terre sono fornite di materie prime, per questo è fondamentale lo scambio. Parliamo di connessioni a
valle, quando ci si occupa della lavorazione delle materie prime, e di connessioni a monte quando invece ci si
occupa della loro estrazione. Un’economia che sia però solo (o in gran parte) concentrata sul settore primario ha
diversi punti di svantaggio rispetto alle altre: i costi delle materie prime possono oscillare nel corso del tempo, e
non crescono mai velocemente come i costi dei prodotti del settore secondario. Inoltre, essendo in gran parte
basata sull’esportazione, non c’è diversificazione dell’economia.
I paesi che si basano unicamente sull’esportazione sono i CDDC (community dependent developing country). Sì
può calcolare quanto siano effettivamente dipendenti dall’esportazione mettendo in rapporto il loro pil con il
valore delle loro esportazioni.

Settore Secondario

Il settore secondario si occupa della lavorazione e della produzione di prodotti finali, destinati alla vendita. Si può
distinguere tra manifatturiera pesante e manifatturiera leggera. Quella pesante si occupa della produzione di
prodotti pesanti come macchinari o trasporti, mentre quella leggera si occupa della produzione di oggetti destinati
alla vendita finale in gran parte ai privati cittadini.
Il settore secondario ha un grandissimo sviluppo durante il periodo della rivoluzione industriale, soprattutto in
Gran Bretagna. L’inghilterra infatti era al centro del mercato globale, aveva un grande accesso alle materie prime
come carbone o ferro, e poteva spostarle a suo piacimento grazie alla rivoluzione dei trasporti in atto. Inoltre
aveva una grande disponibilità di manodopera nelle città che si stavano via via urbanizzando.
Collegati al settore secondario potremmo parlare del Fordismo e della Produzione flessibile.

Settore terziario

Evoluzione dell’Economia nel Nord del Mondo

Un aspetto importante è capire come e perché sono collocate le imprese. Esse scelgono la loro sede sulla base
di 4 fattori: 1) dove possono reperire la manodopera che preferiscono. Non si tratta solo di manodopera a basso
costo, reperibile nel sud del mondo, ma anche di manodopera altamente qualificata che invece si trova nel Nord
nel mondo. 2) dove possono accedere facilmente al mercato, ossia dove i loro prodotti possono essere visti,
riconosciuti, e possono entrare nel circuito della pubblicità e infine della vendita finale. 3) dove ci sono altre
imprese vicine che possono essere utili alla produzione, come industrie di trasporto o aziende fornitrici. Questo
crea economie di agglomerazione, ma laddove i costi delle tasse si alzano, e anche i costi della produzione o dei
servizi, questo sistema collettivo può entrare in crisi e si creano così delle diseconomie di agglomerazione. 4)
dove ci siano politiche per loro redditizie: questo può provocare però gravi problemi di sfruttamento, perché se le
industrie decidono di stanziarsi nel sud del mondo possono, senza nessun problema legale, sfruttare a proprio
piacimento la popolazione, costringendola a lavorare tantissimo per un compenso bassissimo.

Produzione flessibile e fordismo

La produzione flessibile è una strategia di produzione attuata in seguito al fallimento del Fordismo. Ha infatti
caratteristiche diverse rispetto ad esso, che si rivelò non abbastanza dinamico e resiliente a cambiamenti o
oscillazioni di mercato. Il fordismo, inventato da Ford e sviluppo del Taylorismo, che aveva principi abbastanza
simili, si riferisce sostanzialmente alla catena di montaggio. Essa andava a dequalificare il lavoro, ad aumentare
drasticamente la distanza tra lavoratori e dirigenti, a contribuire alla creazione di un mercato di massa di stampo
globale. Tuttavia, aveva in sé vari rischi: il fatto di necessitare magazzini molto grandi e forniti (perché se si
rompeva qualcosa di un macchinario si fermava tutta la produzione), il fatto di dover contare sui consumatori che
accettassero quei prodotti, il fatto che i lavoratori erano completamente alienati. Per risolvere i primi due
problemi, si pensò di creare enormi magazzini per ogni fabbrica, e di attuare l’integrazione verticale, ossia, per
ridurre al minimo i rischi legati alla vendita, di gestire ogni fase di produzione: dalle materie prime, alla fase di
vendita finale. Ma nel secondo dopoguerra il fordismo entrò in crisi: le condizioni di vita stavano cambiando, i
consumatori non si accontentavano più, e con la crisi energetica e il conseguente aumento dei costi di trasporto,
il crollo fu inevitabile.
La risposta arrivò dal Giappone, con lo sviluppo di un nuovo tipo di produzione, chiamata produzione flessibile

Evoluzione dell’industria nel resto del mondo

Europa

L’europa è un'organizzazione sovranazionale che oggi funziona da un punto di vista politico ed economico,
anche se è nata solamente con obiettivo economico. Ci sono anche altre organizzazioni sovranazionali come ad
esempio l’ONU o la NATO. Queste organizzazioni possono bloccare o porre sanzioni alle iniziative degli stati
singoli, che quindi non possono dichiararsi completamente indipendenti.
L’Europa ha origine negli anni 40, con il Benelux: Paesi Bassi, Lussemburgo e Belgio si mettono d’accordo per
agevolazioni comuni in ambito commerciale. Stessa cosa avverrà anni dopo con Benelux, Francia, Italia e
Germania dell’ovest, per eliminazione di dazi e tasse nell’esportazione di carbone e ferro (CECA). Abbiamo poi la
nascita della CEE, con finalità anche di gestione politica, che diventerà più avanti solo CE, con l’entrata di altri
stati nell’Unione (Trattato di Maastricht). Ad oggi l’Europa conta 27 stati membri, con l’uscita della Gran Bretagna.
Molti hanno provato ad entrare ma non tutti ci sono riusciti, o ancora oggi sussistono tentativi e problematiche
(es. Turchia). Gli organi europei sono: commissione europea, parlamento europeo, consiglio europeo, consiglio
dell’unione europea, corte dei conti, corte di giustizia, banca europea, e altri.

Autenticità al Plurale

Quando si parla di una certa cultura, parlare di autenticità culturale è assurdo, o quantomeno un punto di vista
fallace. Gli stessi antropologici ci mettono in guardia dall’usare o credere a espressioni come “cultura naturale”, in
quanto nulla che è culturale può anche essere naturale. La cultura è sempre un’invenzione, una creazione
artificiale derivata dal tempo, dalla storia, dagli scambi, dalle ideologie. Spesso non corrisponde nemmeno a
verità, in quanto per creare la cultura di un popolo, esso deve spesso dimenticare certe pagine oscure, e
considerare solo ciò che gli fa comodo. “Autenticità”, quindi, è un termine relativo che nel considerare l’identità di
un popolo va preso con le pinze. Non tutte le culture, poi, hanno il concetto di autenticità: alcune nemmeno
hanno una parola per indicarla. Oppure, nel caso di alcuni popoli che hanno avuto una storia di colonizzazione,
l’autenticità è più che altro una storia subita. Se per noi una cosa autentica, come ad esempio un monumento o
un reperto, deve essere integro nella sua forma originaria, nei paesi orientali non è così: per loro è più importante
l’uso, il significato che si attribuisce a qualcosa.
L’UNESCO richiedeva parametri di autenticità, ed è stato accusato di etnocentrismo, e quindi oggi cerca di
rivedere questa richiesta, comprendendo il carattere effimero e illusorio di autenticità, che oltre ad essere plurale
(per la diversità culturale, unico vero patrimonio dell’umanità) è spesso anche un concetto costruito e fallace.

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