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Uno dei fattori di novità di questa edizione di Scholé – quanto meno dal
punto di vista del confronto disciplinare e delle prospettive che esso può
dischiudere alla riflessione pedagogica – è stato sicuramente l’integrazione del
punto di vista economico. Lo ha chiaramente evidenziato Cesare Scurati,
chiudendo i lavori, quando ha indicato la necessità per la pedagogia di porsi di
fronte all’economia: non la micro-economia, quella delle povertà locali, con la
quale, anche se indirettamente, la pedagogia già si relaziona (magari con il
rischio di configurare il pedagogista solo come un “pompiere sociale”, o un
“infermiere” – secondo l’immagine usata da Scurati), ma la macro-economia,
quella dei grandi processi di trasformazione, delle logiche planetarie.
L’indicazione – quella di una necessaria relazione della riflessione
pedagogica con i temi dell’economia – ha trovato riscontro a più livelli nella due
giorni dei lavori.
Anzitutto, la key-note di apertura, affidata a Giovanni Bazoli, ha
contestualizzato subito il tema della globalizzazione proprio all’interno di un
grande affresco macro-economico. Nel fenomeno andrebbero distinti due
elementi costitutivi: la globalizzazione dei prodotti e la globalizzazione
dell’informazione e delle conoscenze. Il primo fenomeno è favorito dalla
liberalizzazione dei mercati ed è guidato dalla ricerca del profitto; il secondo è
alimentato dai media, vecchi e nuovi, ed è segnato da un incremento
progressivo dell’informazione circolante e disponibile. A entrambi i livelli, in linea
teorica, dovrebbe essere possibile registrare degli effetti positivi: a livello di
prodotti, nel senso di una maggiore distribuzione di beni e servizi; a livello di
conoscenza, nella direzione di un progressivo avvicinamento dei popoli e delle
culture. Di fatto, però, un bilancio degli effetti non può che far registrare anche
delle criticità (che interpellano inevitabilmente l’educazione) a diversi livelli: di
impatto ambientale, di iniqua distribuzione della ricchezza (le tecniche di politica
economica connesse con la globalizzazione, segnate dalla deregulation dalla
privatizzazione, si sono dimostrate irrispettose del valore dell’individuo), di
progressiva occidentalizzazione del mondo con quel che ne sta conseguendo a
livello di tensioni e conflitti.
L’economia è stata posta al centro della sua riflessione anche da Lattuada, in
prospettiva morale: la burocratizzazione della vita urbana, la mobilità e la
flessibilità del lavoro, la sovraesposizione della logica del profitto, l’esaltazione
del consumo come criterio alla luce del quale misurare la soddisfazione
esistenziale, sono da questo punto di vista tutti fattori che indicano nella
direzione di una sostituzione dell’etica con l’estetica intesa come risoluzione
della vita nella superficie e rinuncia alla domanda sui temi fondamentali della
vita e della morte.
Ancora, sul piano dello sviluppo, Felice Rizzi ha messo in relazione
l’economia e le sue forme in tempo di globalizzazione con i “numeri” del sud del
mondo: un tasso di analfabetismo prossimo al 67% in Asia, al 37% nell’Africa
sub-sahariana, al 12% nella regione caraibica; la registrazione, negli anni ’90, di
150 conflitti locali, due milioni di bambini uccisi, un milione di handicappati,
dodici milioni che hanno perso le loro famiglie. Anche in questo caso
l’educazione deve sentirsi fortemente provocata: il problema è di realizzare un
raccordo tra le politiche locali e una visione coerente del bene comune.
Tutti questi percorsi di lettura hanno quasi naturalmente trovato nell’11
settembre un’icona significativa alla luce della quale leggere il fenomeno della
globalizzazione evidenziandone le diverse declinazioni. Vi è stata colta una
cesura epocale (“nulla più sarà come prima”), la ricomparsa della Storia che
pareva uscita di scena “dalla Porta di Brandeburgo” nel 1989, la dimostrazione
che ogni potenza è vulnerabile, la fine dell’idea di guerra, la deflagrazione delle
disparità a causa delle conoscenze messe in circolazione dai network televisivi
e dalla rete Internet, la prova delle responsabilità politiche dell’Occidente,
l’esplosione del conflitto tra il “fondamentalismo” capitalista e il
fondamentalismo islamico.
La risposta all’11 settembre – e di conseguenza alle “storture” della
globalizzazione – è stata consegnata, dai diversi interventi e dalle voci emerse
all’interno del dibattito, alla necessità di passare dal “micro” al “macro” (come si
indicava in apertura facendo riferimento alla conclusione dei lavori da parte di
Scurati). Così, per Bazoli, la possibilità di rendere positivo il fenomeno passa da
alcune scelte obbligate: il rafforzamento della rappresentatività democratica, la
sanzionabilità degli atti a livello internazionale, il mutamento dei costumi nella
direzione della convivenza multiculturale, la tutela dei beni pubblici globali
(l’ambiente). Pazzaglia ha evidenziato la necessità di «un grande progetto
politico che coniughi libertà e regole». Santerini ha indicato alcuni itinerari
educativi possibili: restituire responsabilità agli attori sottraendoli alla
omologazione simbolica dei consumi; favorire il riconoscimento come
certificazione dell’esistenza; coltivare l’ospitalità come veicolo della tolleranza;
inquadrare il problema della giustizia coltivando il ritorno alla politica.
Come si capisce, questa sintetica ricostruzione (peraltro incapace di restituire
la ricchezza del dibattito) individua almeno tre temi sullo sfondo del rapporto tra
pedagogia ed economia: il tema del significato reale della globalizzazione; il
tema delle interpretazioni culturali dell’11 settembre; il tema degli scenari di
azione possibili, nello specifico dell’educazione, per produrre il cambiamento e
liberare le “forze positive” della globalizzazione.
Ciascuno di questi tre temi può essere introdotto a partire da una domanda
che consente di problematizzare le modalità secondo le quali è stato affrontato
e discusso nei due giorni dei lavori:
1) la globalizzazione è un fatto materiale o un fatto simbolico? Appartiene
all’ordine dei fatti o delle interpretazioni?
2) l’11 settembre rappresenta il rifiuto dell’Occidente e dei (dis)valori che esso
incarna o non piuttosto la conferma dell’avvenuta appropriazione su larga scala
di quei valori?
3) si può pensare alla possibilità di intervenire a livello “macro”, o il “micro”
rappresenta l’orizzonte non superabile dell’agire educativo?
Cercheremo non di fornire una risposta ma degli elementi di riflessione in
margine a ciascuna delle tre domande1.
1
Parte delle analisi di queste pagine sono il risultato della rielaborazione e dello sviluppo di
prospettive già delineate in due brevi interventi: Globalizzazione, Media Education e costruzione
della cittadinanza, «Il nodo. Scuole in rete», (19), 20 aprile 2002, pp. 40-43; Guerra e media,
«Intermed», (3), Dicembre 2001, pp. 1, 3.
1. IL “MITO” DELLA GLOBALIZZAZIONE
2
J.B.Thompson, The Media and the Modernity. A Social Theory of the Media, Polity Press,
Cambridge 1995; tr.it., Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il
Mulino, Bologna 1998, p.211.
3
A.Mattelart, La mondialisation de la communication, PUF, Paris 1996; tr.it., La comunicazione
globale, Editori Riuniti, Roma 1998, p.95
4
E. Morin, A. Kern, Terre-Patrie, Seuil, Paris 1993; tr. it., Terra-Patria, RaffaelloCortina, Milano
1994.
Dove origina questo tipo di realtà socio-culturale? Dove occorre cercare le
logiche che ne hanno prodotto l’avvento e l’affermazione?
Seguendo l’analisi di Morin e Mattelart è possibile rintracciare, per la
globalizzazione: una genesi remota, due matrici culturali prossime, una
evoluzione recente.
La genesi remota va cercata nella scoperta dell’America che, nel 1492,
spezza l’orientamento eurocentrico della storia e ne produce la prima vistosa
accelerazione in senso globalistico. La coltura della patata o del pomodoro,
sconosciute prima in Occidente (come la sifilide), sono il sintomo dell’incipiente
creolizzazione delle culture e dei comportamenti, proprio come il morbillo, prima
della Conquista assente nel Nuovo Mondo e che uccise più indios che i
Conquistadores stessi.
Le matrici culturali prossime, nel ‘700, sono costituite dalle due teorie
universaliste dell’illuminismo e del liberismo. Entrambe costruiscono la loro
ideologia attorno al «potere creatore dello scambio», naturalmente declinandolo
in due diverse direzioni. Gli illuministi ne sottolineano la capacità di far circolare
le idee garantendo la democrazia: in questa prospettiva va inquadrata la politica
rivoluzionaria di unificazione della lingua come risposta alla logica dell’Ancienne
Régime, volta invece a bloccare la circolazione delle idee e a separare i popoli.
Quanto al liberismo, il cui motto può essere trovato nella massima di J.S.Mill:
«Produrre significa muovere», esso lavora a costruire una «repubblica
mercantile universale», una grande comunità economica di consumatori in cui
la libera iniziativa prenda il posto di istituzioni forti come quella dello Stato.
Quanto, poi, all’evoluzione recente del fenomeno, essa coincide, si può dire,
con lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione a partire dalla metà del
secolo scorso e con il loro portato politico e culturale.
Sul piano della tecnologia si pensi alla nascita del telegrafo e alla sua
funzione di contrazione delle distanze, resa evidente nel 1851 dalla posa del
primo cavo telegrafico tra Calais e Dover e, nel 1902, dal completamento della
prima linea transpacifica. Una tendenza poi accentuata, volta a volta, dal
progressivo avvento della radio e della televisione fino ai temi attuali delle
autostrade dell’informazione e del World Wide Web.
Ma questa tendenza tecnologica innesca un processo analogo anche sul
piano politico. Nel 1865 nasce l’Unione telegrafica internazionale, con lo scopo
di fissare standard, tariffe e norme comuni a tutti i paesi, seguita nel 1874
dall’Unione generale delle poste e nel 1906 dall’Unione radiotelegrafica
internazionale. Dunque, non solo la tecnologia “restringe” il pianeta, ma provoca
il dialogo tra gli Stati, favorisce il coagulo delle relazioni sul piano
internazionale.
Tutto questo produce inevitabilmente un riflesso anche a livello culturale.
L’Europa, affondata nella crisi prodotta dalla Rivoluzione Francese e impegnata
a garantire con fatica un equilibrio politico tra gli Stati, trova proprio nella
comunicazione quell’utopia di salvezza capace di prospettare al mondo un
futuro di pace. L’universalismo, con Saint-Simon soprattutto, diviene allora una
vera e propria «ideologia redentrice» che trova nell’industria e nel sapere
positivo i suoi supporti e nelle grandi esposizioni universali un momento efficace
di elaborazione mitologica. Come osserva Mattelart: «Esposizioni e invenzioni
tecniche (il cinema tra queste, n.d.r.) si sostengono reciprocamente per
propagandare la retorica della pace e della comunione dei popoli: “Tutti gli
uomini diventeranno fratelli”. Ogni generazione tecnologica è un’occasione per
sostenere la commedia della concordia generale e della riconciliazione dei
conflitti sociali sotto l’egida della civilizzazione occidentale»5.
Momentaneamente tramontata a fine secolo con la caduta della Comune di
Parigi e il crollo del sistema degli Stati dopo la guerra franco-prussiana, questa
utopia rinascerà nel corso del ‘900 trovando nel programma cibernetico di
Wiener il proprio momento di rifondazione: i temi attuali della società della
comunicazione e del villaggio planetario, come Breton6 ha ben indicato,
dipendono in larga parte da esso.
In questa prospettiva di lettura, la globalizzazione dimostra chiaramente di
appartenere alla categoria delle interpretazioni simboliche più che non a quella
dei fatti materiali. In particolare essa mostra il suo vero volto di macro-categoria
concettuale delle scienze umane e sociali che si iscrive (auspica di iscriversi)
nell’area di quelle che la sociologia definisce le profezie che si autoavverano.
Teorizzare la globalizzazione, sia sul piano economico che su quello culturale,
significa proporre un’utopia coagulante in grado di rispondere a diverse crisi:
alla crisi dell’ordine planetario, provvedendo, dopo la caduta delle ideologie, un
surrogato delle loro funzione politica; alla crisi dello Stato, rimpiazzando la
nazione – vittima dei processi storici che hanno segnato il ‘900 – con un nuovo
elemento identitario per gli individui e i gruppi; alla crisi del mercato, aprendo
nuovi spazi di mercato alla produzione e alimentando il mito di una ripresa
dell’occupazione; alla crisi delle relazioni, sostituendo all’ordine del conflitto e
della violenza la possibilità di una soluzione dialogica, che passa attraverso il
principio di conversazione e la connettività come strumento di una nuovo utopia
di convivenza pacifica.
Capire questo, pedagogicamente parlando, significa conferire all’educazione
in tempo di globalizzazione un marcato orientamento critico, in cui la
demistificazione e l’esercizio del sospetto divengono strumento indispensabile
per “andare alle cose stesse”, al di là delle mitologie politiche ed economiche,
facendo dell’autonomia e della consapevolezza dei soggetti uno degli obiettivi
fondamentali da raggiungere.
5
Mattelart, La comunicazione globale, cit., p.33.
6
P. Breton, L’utopie de la communication, La Découverte, Paris 1992, tr. it., L’utopia della
comunicazione. Il mito del « villaggio planetario », UTET, Torino 1995.
alcune riflessioni che già erano risultate valide al tempo di Desert Storm con
altre suggerite invece proprio dall’attacco alle torri gemelle.
Un primo dato che risulta evidente è il cortocircuito tra realtà e
rappresentazione. Quelle che vediamo in televisione sono immagini in diretta o
in differita? Attuali o di repertorio? Striscia la notizia, il seguitissimo format di
Canale 5, ha “smascherato”, proprio durante l’attacco americano, un noto
magazine nazionale che aveva spacciato una fotografia di aerei in volo già
comparsa due anni prima su una rivista militare per la ripresa di aerei americani
in volo nei cieli dell’Afghanistan. Di fatto la televisione agisce di collage,
mescola finzione e realtà, reinventa i fatti. La guerra cui assistiamo in
televisione non esiste. In questo senso aveva ragione Baudrillard quando
intitolò un suo intervento: La guerra del Golfo non è mai esistita. La guerra
televisiva non è la guerra reale.
Questo problema ne comporta un altro: quello del rapporto tra copertura
televisiva e informazione. Grazie alla CNN (e alla sua “sorella” araba Aljezeera)
Enduring Freedom, come già successe per il Golfo, è stata una guerra in
diretta, coperta dall’informazione televisiva 24 ore su 24. Eppure, al massimo di
copertura informativa è corrisposto il minimo di informazione reale. Quanti
americani sono morti? E quanti civili afghani? I Talebani resistono ancora oggi o
sono stati debellati? Bin Laden è vivo o morto? Sono tutte domande a cui non è
possibile trovare risposta, sintomo questo che probabilmente aveva ragione
Philippe Breton quando invitava a dubitare della presunta trasparenza della
società dell’informazione: si vede tutto, ma si rischia di sapere poco.
Terza considerazione. Ciascuno di noi, in quanto telespettatore, ha vissuto
quello che si definisce “effetto scoiattolo”. Tutti nella tana non a sgranocchiare
noccioline ma a sintonizzarsi sulla Guerra. Come in un gigantesco Truman
Show ciascuno di noi accendeva la tv al mattino, appena sveglio, a
mezzogiorno durante il pranzo, alla sera all’ora di cena, per vedere se fosse
successo qualcosa di nuovo. La guerra come una soap, con gli stessi tempi
dilatati, la stessa frequenza giornaliera, l’innesco delle stesse pratiche sociali: si
discute dei personaggi (Bush, Bin Laden, l’Iraq di Saddam), si disegnano gli
scenari possibili, si pensa ai probabili colpi di scena.
Ma c’è dell’altro. I fatti dell’11 settembre consentono di ritornare su questi
rilievi ridisegnandoli dall’interno.
Anzitutto il rapporto tra realtà e rappresentazione. Per la prima volta abbiamo
assistito all’uso di una città (New York) come un grande set. La scena che vi è
stata girata appartiene al filone catastrofico frequentato da Hollywood lungo gli
anni ’90: Indipendence day, Fuga da New York, Armageddon. Il problema è che
tutto è stato tragicamente reale. Quel che i registi americani avevano solo
immaginato si è tradotto in realtà. E qui si impongono alcune riflessioni.
I terroristi si servono della presenza della televisione come strumento
certificatore distanziando lo schianto dei due aerei: in questo modo si ottiene
che le televisioni abbiano il tempo di arrivare sul posto e riprendano in diretta il
secondo impatto. La presenza delle telecamere, negli anni scorsi, induceva i
ragazzi dell’Intifada a ripetere il gesto della fionda, questa volta sono stati loro a
richiamare le telecamere.
Ancora. La sceneggiatura dell’evento è decisamente “americana”, di sicuro
nella retorica. Come americana è la mimetica di Bin Laden, e americano il suo
orologio da polso, americani di adozione anche i kamikaze, per formazione
almeno. Un fatto che si può interpretare in due modi. Da una parte osservando
come persino nel gesto estremo di offesa verso il loro nemico i terroristi si
dimostrino imbevuti della sua cultura (non aveva una passione per le Cadillac il
ministro degli esteri di Kabul?). Dall’altra annotando che, come in un
contrappasso, sono state proprio la tecnologia e la cultura americane a
ritorcersi contro l’America. E i film catastrofici hanno funzionato da innesco,
hanno suggerito il copione: c’è qualcosa di Hollywood che si intreccia in
maniera perversa con Manhattan sotto attacco. La globalizzazione sperata
come strumento di leadership economica e la tecnologia promossa come ultima
frontiera si trasformano in rischio di autodistruzione: si compie il tragitto tra le
scimmie con cui Kubrick inizia 2001 Odissea nello spazio e il computer di bordo
Al, nell’inizio è iscritta la fine.
La tesi che a lungo (e forse ancor oggi) ha fatto da riferimento, a questo
proposito, è quella già citata dell’imperialismo culturale in base alla quale, dal
piano Marshall in poi, si sarebbe assistito a una progressiva colonizzazione
culturale del mondo da parte del modello americano, proprio perché erano
(sono) gli Stati Uniti ad esercitare il controllo totale sull’industria dei media e
della comunicazione. Secondo questa tesi, dunque, la globalizzazione,
andrebbe letta nei termini di una americanizzazione (più in generale, di una
occidentalizzazione) delle altre culture. Non è il caso di entrare nel merito di una
critica articolata di questa tesi7. È sufficiente evidenziare la sua principale
debolezza teorica che consiste in una spiegazione ingenua del processo di
appropriazione attraverso cui un individuo interiorizza i modelli culturali proposti
dai media. Tale processo non si può mai intendere nei termini di una
assunzione meccanica (come vorrebbe la tesi dell’imperialismo culturale:
imparo il consumismo fruendo di programmi consumistici), ma va pensato
secondo un modello ermeneutico: «il significato che gli individui assegnano ai
messaggi dei media e gli usi che essi fanno dei materiali simbolici mediati
devono dipendere in modo cruciale dai contesti della ricezione e dalle risorse
che essi impiegano nel processo di interpretazione»8.
E veniamo all’altra rilettura che i fatti dell’11 settembre impongono. Quel che
ci ha portato come scoiattoli davanti al televisore in attesa di nuove notizie non
è la curiosità, ma l’angoscia. L’angoscia non è paura, perché si ha paura di
qualcuno o di qualcosa. L’angoscia, invece, è angoscia per non si sa cosa: è
uno stato di sospensione che ci dice che il pericolo potrebbe materializzarsi da
un momento all’altro, anche se tutto sembra normale. Al tempo della guerra del
Golfo avevamo un nemico definito, Saddam Hussein, un teatro delle operazioni
circoscritto, il Kuwait, e la certezza di non poter essere minacciati in casa
nostra. Oggi non è più così, perché il nemico potrebbe essere chiunque, il
teatro delle operazioni è il mondo intero e potremmo morire anche in casa
nostra, avvelenati da una nube di gas nervino o annientati da un’esplosione
nucleare.
Ultima annotazione. La televisione, di questa angoscia, è padrona. La pilota
attraverso i talk show e gli special del telegiornale in cui veniamo a sapere
quotidianamente in quanti modi potremmo rimanere vittime di un attentato; la
gestisce, in una drammaturgia sapiente e folle, rimandando gli appelli di Bin
Laden e di quelli che parlano in suo nome. Molti, a questo proposito, si sono
detti favorevoli alla censura: la televisione alcune cose può scegliere di non
dirle. Noi registriamo l’esigenza che rinvia chiaramente alla deontologia di chi fa
informazione, ma crediamo che il problema sia un altro. Il mondo, ormai, è
7
Si può vedere, per questo tipo di analisi, quanto dice Thompson, Mezzi di comunicazione e
modernità, op.cit., pp.232.244.
8
Ibi., p.246.
veramente mediato: vive del suo passaggio in Internet o in televisione. La
guerra lo sta ribadendo.
La guerra e i media, dunque. Insieme rappresentano, probabilmente, il
destino ultimo della razionalità che siamo abituati a definire occidentale. Un
destino che accomuna anche l’Islam e smaschera la presunta dialettica tra le
civiltà indicando come in fondo, da una parte e dall’altra, sia la razionalità
tecnologica a convertirsi in barbarie. Il conflitto non è tra occidente e oriente, ma
tra l’occidente e gli esiti incontrollabili della sua razionalità. Queste pare essere
il vero esito della globalizzazione, sul piano culturale. Lo intuiva Pasolini,
quando, diversi anni fa, chiudeva il suo Pilade con un urlo disperato: «Che tu
sia maledetta, Ragione, / e maledetto ogni tuo Dio e ogni Dio».